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La lingua e la mancata conoscenza delle leggi sono i problemi più sentiti dagli stranieri appena entrati in carcere: comunicare con le forze dell'ordine, con le autorità giudiziarie e con gli avvocati diventa di primaria importanza ed è spesso tutt'altro che semplice.
In quasi tutti gli istituti di pena sono comunque attivati i corsi di lingua italiana; nelle parole di uno di essi[2]: "Quelli che non capiscono vengono qua, studiano e imparano a leggere e scrivere, anche in italiano; così capiscono anche quando vanno fuori che quello là è reato, perché c'è gente in carcere che non conosce la parola reato".
Un altro detenuto straniero invece non vede l'utilità dei corsi scolastici: "A noi serve ben poco . d'altronde la terza media molti l'han già fatta nel proprio paese, qua è solo un modo per passare il tempo, anche per farsi vedere dalla direzione del carcere". A proposito di adattamenti secondari .
In qualche caso alcuni estratti dell'ordinamento penitenziario sono stati tradotti in lingua straniera. Il citato opuscolo informativo redatto dai detenuti del carcere Due Palazzi è ancora una volta un esempio esplicativo, in questa sede di come i detenuti stessi propongano dei percorsi per superare tali difficoltà: esso presenta infatti una sezione ad uso dei detenuti stranieri, evidenziando in questo modo anche una sensibilità verso le esigenze e le problematiche di questo tipo di detenzione. Vi sono contenute le informazioni giuridiche che disciplinano quest'utenza, quali l'espulsione, il permesso di soggiorno, il lavoro all'esterno, ma anche consigli pratici, come quello di frequentare corsi di alfabetizzazione e di lingua italiana, oltre ad alcuni diritti, quale il rispetto e la garanzia del credo religioso[3].
La detenzione straniera è comunque problematica anche per altri fattori oltre quello della lingua: la maggior parte dei detenuti è composta da irregolari, i quali poi spesso non hanno appoggi esterni, quali la famiglia gli amici, o qualora presenti, molto spesso versano anch'essi in condizioni di irregolarità. Tale situazione non consente a questa categoria di ristretti di beneficiare degli arresti domiciliari, se in attesa di giudizio, o di misure alternative, in caso di condanna: "l'irregolarità, oltre ad essere, di fatto, un fattore determinante nel massiccio afflusso di stranieri in carcere, è poi forse la principale responsabile del loro mancato deflusso dal carcere"[4].
La frequente indigenza che poi spesso accompagna questa situazione, non permette ai detenuti di pagarsi un avvocato di fiducia, e rende più dura la permanenza in carcere, in quanto i detenuti riescono ad acquistare solo beni di primissima necessità, e non sempre, mentre rimane difficilissimo, in mancanza di documenti, o per la scarsa collaborazione da parte di alcuni Consolati, attestare la propria indigenza per ottenere il patrocinio a spese dello Stato[5]. "Anche se i ragazzi per orgoglio non chiedono niente, c'è da dire che hanno bisogno di tutto: dai capi di biancheria al necessario per l'igiene personale; qualcosa passa l'amministrazione, ma proprio qualcosa" .
A fronte della drammatica situazione in cui molti detenuti versano "l'unica soluzione a quella realtà che rifiutavamo era la terapia", dice un detenuto[7]. "In pratica, ci imbottivamo di sonniferi e di tranquillanti; gli atti di autolesionismo erano all'ordine del giorno".
Come già detto in precedenza[8], infatti, i detenuti stranieri sono i principali protagonisti di gesti autolesionistici, come estrema forma di comunicazione, soprattutto per le difficoltà linguistiche che incontrano. Ci sono inoltre alcune peculiari modalità attraverso cui essi esplicano tali atti: la cucitura delle labbra e i tagli su braccia e petto, ad esempio, non sono molto praticati dagli Italiani. È stato inoltre fatto notare che gli elementi connaturati all'atto autolesionistico - ovvero il sangue, la ferita e il gesto del tagliare - assumano inoltre diverse valenze simboliche nelle varie culture: "ad esempio una cicatrice, secondo la concezione culturale ed estetica occidentale, è qualcosa di brutto, di assolutamente antiestetico. Al contrario, per ragazzi provenienti dall'area del Magreb, le cicatrici sono un segno di virilità, contraddistinguono un guerriero, un uomo che non teme la lotta e quei segni sulla pelle stanno a sottolinearlo".
Un detenuto tunisino[10] spiega invece il rapporto della cultura araba con il sangue: "è una vecchia tradizione della cultura araba e comincia da quando un bambino nasce. Fino a poco tempo fa non esistevano ospedali o cliniche private, e spesso, anche se c'erano, il marito della partoriente impediva di far visitare la moglie da un dottore, per motivi di pudore, così la moglie era costretta a partorire in casa, e quando veniva il momento di tagliare il cordone ombelicale si usava il coltello da cucina. In molti piccoli paesi dell'interno accade tuttora così. Anche le feste religiose come la Pasqua musulmana, detta in arabo Hid El Kabir, ha attinenza con il sangue. Viene sgozzato un agnello, scorre tanto sangue, a quel punto si prende la mano destra del bambino, la si sporca di sangue, e quindi si fa applicare l'impronta sulla facciata di casa, per allontanare il malocchio".
Generalmente i detenuti stranieri sono raggruppati per nazionalità, lingua o religione, in quanto ciò agevolerebbe la comunicazione tra di loro. L'integrazione multiculturale all'interno del carcere ancora è un obiettivo lontano: innanzi tutto l'incapacità di orientarsi all'interno del regolamento carcerario rende spesso conflittuale il rapporto con gli agenti; inoltre, per ragione culturali, la convivenza con i detenuti italiani attualmente è in molti casi tutt'altro che pacifica.
La detenzione straniera si è numericamente ingigantita, arrivando agli attuali due terzi del totale della popolazione carceraria, ma soprattutto è cambiata qualitativamente e per contro l'istituzione carceraria si dimostra ancora impreparata al dilagante aumento degli stranieri tra la popolazione detenuta.
Attualmente gli stranieri detenuti in Italia sono soprattutto maghrebini o provenienti dall'Est europeo, le aree geografiche più disagiate, e ciò ha fatto di questi ristretti delle comunità carceraria più forti che in passato. Si assiste infatti ad un processo per cui una minoranza esterna diventa una maggioranza interna, o quantomeno viene ampiamente sovra-rappresentata[11].
Un detenuto[12] descrive a tal proposito l'interessante evoluzione di questo fenomeno nel carcere di Bolzano, che potrebbe benissimo essere lo specchio di tutti i penitenziari: "(Bolzano) essendo prossima ad un noto valico di frontiera aveva abituato noi, suoi ospiti-detenuti, a condividere normalmente lo spazio con cittadini stranieri di diversa nazionalità, tedeschi, olandesi, spagnoli, ognuno di loro portatore di una sua particolare cultura, ma tutte sviluppatesi in ambito occidentale. Culture che, pur differenziandosi nei particolari, concordavano nella sostanza . Quanto rimaneva a distinguere una cultura . veniva considerato come curiosità, un tratto distintivo buffo al quale appigliarsi per costruire uno sfottò e farci delle grasse risate. Le diversità ci univano, non creavano certo distanze tra noi. Inutile dire che la convivenza, anche se forzata, non s'era mai posta come problema, la vivevamo in modo naturale".
Tuttavia il panorama era destinato a cambiare: "In quegli anni, iniziarono ad entrare in carcere, pochi per volta, stranieri di nazionalità maghrebina . (e) dei Balcani. Erano persone, a quanto ricordo, dignitose nella loro indigenza . In un certo senso si trovavano isolati dalla vita della cella . unicamente per il fatto che non si riusciva a comunicare se non a gesti: per loro, l'italiano era arabo e per noi, l'arabo rimaneva tale".
Essi cominciarono però a costituire una comunità forte, un gruppo ben distinguibile, infatti "anche con queste nuove presenze tra noi, non sorse il problema della convivenza ma qualcosa che definirei tragico: da parte loro si stava verificando uno strano tipo di integrazione, un'integrazione muta. Man mano che la presenza di connazionali si consolidò numericamente, anche quelli che si trovavano da tempo in cella con noi se ne andarono per mettersi assieme ai loro compaesani, dove, perlomeno, a sera potevano ricordare casa, con persone che li potevano capire. E il carcere si divise in sezioni per italiani ed affini e sezioni per maghrebini.
Se prima c'eravamo trovati a vivere in una situazione caratterizzata dal pluralismo sociale, condizione che culturalmente riconoscevamo e che non richiedeva grandi doti d'adattamento, con l'immissione massiccia in carcere di tunisini, marocchini e algerini, la scena cambiò completamente e ci ritrovammo a fare i conti con una realtà a tutti completamente sconosciuta, caratterizzata dalla promiscuità multietnica".
L'equilibrio raggiunto a fatica all'interno della realtà penitenziaria si percepiva minacciato da una forza della quale erano ignote la portata e le caratteristiche, "a priori considerata foriera di disgrazia". Dunque "per reazione a questa nuova situazione . si crearono delle forti identità di gruppo caratterizzate dalla stessa appartenenza etnica, ed ognuno di questi gruppi reclamava a gran voce spazi propri dove affermare e manifestare la propria specificità culturale".
Il processo era così già iniziato, nella società libera come nella comunità reclusa: "la diversità culturale che all'inizio . ci aveva unito nella disgrazia comune della carcerazione, ora stava diventando il motivo che, a larghe bracciate, ci allontanava sempre più".
I primi conflitti a causa della scarsità delle risorse: "In carcere un caffè ed una sigaretta per tradizione non si negano ad alcuno, per cui . (le) persone, anche del tutto sprovviste di soldi, non avevano difficoltà ad assicurarsi dagli altri benestanti queste piccole soddisfazioni, . ma quando gli sprovvisti di tutto iniziano a diventare settanta, ottanta . per fare posto a loro, diminuisce la percentuale di chi qualche lira se la può permettere, si sta male tutti . E poi che successe? Successe che alcuni detenuti maghrebini decisero di fare degli espropri sottoproletari ai proletari e da questo iniziarono i guai grossi per tutti. Si passò dalle scaramucce verbali alle risse e poi alla guerra vera e propria, non scevra di spargimento di sangue, ossa rotte . e lancio di bombolette di gas incendiate, che per fortuna, esplodendo, fanno più rumore che altro".
Tuttavia pare che la situazione si sia alla fine stabilizzata su un nuovo punto di equilibrio, costruito intelligentemente intorno ad un nucleo di cognizioni che potrebbero essere valide universalmente: "Partendo dalla nostra esperienza (di superstiti del vecchio sistema penitenziario), periodo nel quale un detenuto era trattato come un subumano, . abbiamo iniziato a vedere in loro unicamente delle persone . Non persone extracomunitarie, né persone ospiti nel nostro paese, né persone diverse, ma solo persone senza alcun aggettivo a circoscriverle. Tutt'al più, persone con maggiori problemi rispetto a tanti di noi, ma non loro stesse problemi . Se vuoi conquistare l'amicizia e il rispetto di una persona devi considerarti pari a lei, tra esseri umani non esiste nessun tipo di livello, esiste solo l'essere umano, tutto il resto è razzismo".
Le tensioni all'interno dei penitenziari nascerebbero dunque più da situazioni pratiche che da questioni ideologiche. Un detenuto mussulmano[13] racconta, ad esempio, come di fatto sia difficile vivere pienamente la propria condizione di detenuto che pratica una confessione religiosa diversa da quella cattolica, "soprattutto quando ci si trova in una nazione straniera rispetto alla propria. In una cella troppo piccola per vivere con altre cinque persone, che spesso non sono della tua stessa religione, non riesci a concentrarti, a raccoglierti in preghiera. Le regole del carcere non permettono di vivere pienamente il Ramadan. A volte il vivere la propria religione diventa persino un problema, un rischio quando si incontrano compagni di cella intolleranti. Il Ramadan dietro le sbarre è un doppio sacrificio. Non ci resta che pregare Dio che ci faccia sopportare, almeno durante questo tempo tutto quanto".
I detenuti stranieri tendono a non rispettare le regole dei compagni italiani[14]: un ex educatore riferisce che "anche sull'ammissione al lavoro, è capitato ad esempio quando c'era da rispettare le graduatorie . alcuni decidano di rifiutare sotto pressione dei compagni; lo straniero se ne frega: una volta ottenuto il lavoro per lui è il massimo".
Il sovraffollamento e la conseguente forzata convivenza di più persone in pochi metri quadrati, inoltre, può provocare la diffusa sensazione tra i detenuti di sentirsi "contaminati dal contatto con compagni indesiderabili", proprio a causa dell'abitudine "di mescolare nelle prigioni gruppi di età, provenienze etnica e razziale diversi"[16], ma, paradossalmente, anche la tutela delle minoranze e la concentrazione di esse in determinate celle o sezioni, rischiano di segregare ancora di più i detenuti stranieri .
Un detenuto tunisino[18] si chiede a riguardo: "Perché siamo tutti stranieri in questa sezione, quando potremmo essere distribuiti nelle altre sezioni, almeno i definitivi? Una spiegazione potrebbe essere che vogliono tenerci isolati dal resto della popolazione detenuta, impedendoci così ogni tipo di integrazione, un po' come avviene in maniera quasi naturale anche fuori In questo modo non si riesce a far valere i nostri diritti, che sono in primo luogo quelli umani! Certi atteggiamenti nei nostri confronti . di tipo razzista . non si possono eliminare del tutto in carcere quando nella società sono ben presenti".
E ancora, nelle parole di un operatore[19]: "La difficoltà d'integrazione c'è: loro preferivano vivere per conto loro, gli italiani stessi li vedevano come persone di serie B . Non è un caso che il lavoro degli scopini lo facciano gli extracomunitari e non gli italiani. Perché non è dignitoso, è considerato di basso rango, mentre per i detenuti stranieri questa è un'occasione per guadagnare due soldi da mandare alle famiglie. Gli Italiani preferiscono il lavoro in cucina, il lavoro negli uffici, il cosiddetto spesino".
Il carcere come la società libera, dunque, non è esente dalle dinamiche di xenofobia e di mancata integrazione degli stranieri. Integrazione che invece a volte può portare a risultati paradossali, come attesta l'inedito fenomeno della tossicodipendenza tra stranieri; il consumo di sostanze stupefacenti, infatti, era sconosciuto per la maggior parte di essi[20].
Paradossalmente, comunque, si presentano delle problematiche anche a quegli stranieri che invece riescono ad integrarsi; molti di loro infatti, dopo un percorso di recupero sociale dall'esito positivo, vengono rimpatriati: "la beffa del grande alibi dietro cui si nascondono tanti buoni italiani: rimandiamo al loro paese tutti gli irregolari, perché è meglio per loro, piuttosto che vivere da noi sulla strada, tornare a casa loro con in più un bagaglio di conoscenze nuove, da utilizzare per trovarsi un lavoro e una vita decente, lontano dalle tentazioni occidentali", afferma con una punta di sarcasmo un altro detenuto extracomunitario[21].
Questo si traduce in un problema per molti di essi: "Le ragioni sono differenti" spiega un recluso[22], "innanzi tutto abbiamo una diversa cultura, e certamente l'assimilazione di parte della cultura occidentale, al rientro nel tessuto sociale da cui provengo, mi creerà grosse difficoltà, perché la libertà di cui si gode in Europa, l'abbiamo conosciuta bene . e da noi ce n'è poca, invece".
Gli fa eco un altro detenuto[23]: "Io provengo dall'Albania", racconta, "se tornassi in quella situazione farei molta fatica a riadattarmi a quella realtà che oggi non mi appare neppure vera, anzi mi sembra proprio irreale".
E ancora, un tunisino[24]: "La cultura e le conoscenze apprese qui in Italia e in Europa sono utili, ma dal momento che vieni espulso quasi tutto viene vanificato", dice, "purtroppo parecchie sono destinate a restare a livello teorico perché non c'è la possibilità reale di applicarle in molti dei nostri paesi di origine, anzi, abituati alla libertà di espressione e di pensiero, dobbiamo stare attenti che non emerga parte di quella cultura occidentale che abbiamo appreso, perché può essere veramente pericoloso per una serie di motivi: il primo è che nel mio paese, la Tunisia, c'è la censura totale, ad esempio io non posso esprimere il mio parere sul Governo, sul suo operato e sul nostro modo di vita, senza correre il rischio di essere incarcerato e dimenticato dentro".
A ciò si aggiunge tutto quello che consegue ad un ritorno in patria da espulso; nelle parole di un detenuto nigeriano[25]: "Tornare tramite espulsione vuol dire fare provare vergogna alla mia famiglia e per me sarebbe, oltre che una vergogna, un fallimento. Quando si parte dall'aeroporto, i doganieri ci dicono: Attento a non portare al tuo rientro vergogna per il nostro Paese. Tornare con l'espulsione è vergognoso. All'arrivo in patria vieni trattato malissimo da tutti. Penso che se mi dovessero rimpatriare sarebbe per me un dramma, perché al Paese troverei ciò che ho lasciato, ossia niente. In quelle condizioni riorganizzare la mia vita sarebbe dura, perché sarei indicato da tutti come un criminale, ed emarginato molto di più di quello che avviene ora in Italia.
Il rischio maggiore del rimpatrio, per noi Nigeriani, è l'arrivo in aeroporto: se hai la fortuna di incontrare un poliziotto di religione cristiana forse ti può andare bene, però devi comunque avere qualche soldo da potergli dare, ma se, oltre ad essere rimpatriato, ti capita all'arrivo un ligio e ferreo poliziotto mussulmano, sono dolori. Oltre ad applicare la legge dello stato, spesso in modo del tutto arbitrario, applica una sorta di legge coranica che dice che a chi ruba gli viene tagliata la mano". Racconta: "Nel 1992 ho visto un ragazzo, che era stato rimpatriato dalla Germania, tornare al suo quartiere con le dita della mano mozzate di netto: aveva incontrato all'aeroporto una squadra di agenti di polizia mussulmani".
Il perché di questo comportamento è spiegato da Imed: "Scontata la pena, vieni accompagnato al Paese di provenienza e alla frontiera sarai consegnato alle autorità competenti. Innanzitutto le autorità, visto che hai commesso un reato all'estero, ti bollano come chi, oltre ad aver disonorato il nome della famiglia, ha disonorato anche quello del suo paese e quindi è da trattare come un criminale", dunque a quel punto "ti applicano quel tipo di regime che in Italia equivale alla sorveglianza speciale (ed è un regime che dura cinque anni), cioè obbligo di firma, controlli a domicilio, perquisizioni etc. La gente, vedendoti trattato in questo modo, ti evita come tu fossi un appestato".
Nelle varie parti del mondo, dunque, il trattamento riservato agli ex detenuti non è molto dissimile.
La condizione dei detenuti tossicodipendenti non è senz'altro tra le più facili, soprattutto se al problema della dipendenza si accompagna quello della sieropositività.
Il tossicodipendente e/o sieropositivo è un altro tipo di detenuto emarginato e disprezzato dal resto della popolazione carceraria, a causa di un motivo culturale e di uno funzionale.
Innanzi tutto nella subcultura carceraria, come già detto, vige ancora un assunto per il quale un vero uomo non si droga, anche se, molto contraddittoriamente, una volta reclusi i detenuti fanno largo uso di psico-farmaci e di droghe di vario tipo: "je fai passa' 'na giornata in galera . diversa", spiega un detenuto[26], "o co' la cocaina, o co' l'eroina, o co' er fumo, come te pare".
Effettivamente molte volte il carcere è il luogo di iniziazione alla droga e si finisce con l'esserne dipendenti prima della fine della scarcerazione[27].
Il detenuto che arriva in carcere in condizioni di tossicodipendenza, a sua volta, non si percepisce alla stregua degli altri detenuti - i quali provengono da aree malavitose - in quanto giustifica i suoi reati come funzionali al reperimento della droga e non come scelta di devianza.
L'eventuale sieropositività, invece, è vista come punizione per il comportamento riprovevole che si è assunto[28]: dunque il soggetto non è meritevole della solidarietà e della comprensione per il suo drammatico stato di salute.
In ciò anche molti agenti di custodia si ritrovano concordi con i detenuti; uno di essi[29] si giustifica: "Mi dispiace, però la malattia è una malattia che uno si è andato anche a cercare. Non è che una malattia che dice: io l'ho presa per eredità Io posso (aiutare) una persona che cerca in tutte le maniere di essere una persona sana, di poter collaborare per la società, e crescere per il bene sociale. Ma non posso stare a spendere dieci lire delle mie per una persona che, devo dire non solo devo curarti, ma farti andare avanti a rubare".
Detenuti ed agenti sono inoltre accomunati dalla seconda ragione, quella funzionale, per cui i soggetti sieropositivi vengono emarginati: la paura del contagio. Frequentemente i detenuti sieropositivi, infatti, esprimono disagio e richieste tagliandosi, o comunque facendo uso del proprio sangue. Un agente di polizia penitenziaria[30] racconta di come "si schiacciano la lingua, o la gengiva, o la guancia e poi mischiano sangue e saliva e facendo finta di starnutire te la buttano addosso, facendo così capire che possono farlo in ogni momento". Il sangue infetto diventa così un'arma capace anche di capovolgere i rapporti di forza nel rapporto tra agente e detenuto.
Tuttavia l'emarginazione è perpetrata anche dall'ignoranza sui modi di trasmissione dell'AIDS: infatti, temendo qualsiasi tipo di contatto, i detenuti che vengono a sapere che il nuovo arrivato in cella è un tossicodipendente o un sieropositivo, frequentemente chiedono di essere spostati. Si tende quindi, a "metterli insieme (i detenuti sieropositivi), per evitare che poi il giorno dopo l'altro detenuto non sieropositivo venga a chiederti di essere cambiato di posto"[31], anche perché la forzata coabitazione, oltre a provocare potenzialmente dei disordini nella sezione, sembra punizione eccessiva.
Ci sono diversi modi grazie ai quali i detenuti e gli agenti vengono a sapere del tipo di compagno con il quale avranno a che fare: oltre al fatto che in alcuni istituti ci sono delle sezioni apposite, i primi a sapere della condizione sierologia dei detenuti sono gli agenti, che comunque hanno l'obbligo di riservatezza, i quali accompagnano il detenuto in infermeria ed assistono alle visite mediche; tuttavia anche i detenuti stessi possono conoscere il soggetto sieropositivo dallo stato libero. La notizia corre quindi poi velocemente attraverso Radio Carcere.
Altrettanto frequente è comunque il caso in cui sono gli stessi sieropositivi a tutelare gli altri detenuti da se stessi: "alcuni sono veramente nobili per quanto riguarda l'attenzione verso l'altro", dichiara un operatore del carcere di Foggia[32], ma spesso il semplice fatto di richiedere di essere sottoposti al test alimenta forti sospetti, e può far precipitare il detenuto nell'area dei discriminati.
Sulle problematiche connesse alla nuova detenzione, importanti spunti da G. MAROTTA, "Detenuti stranieri in Italia: dimensioni e problematiche del multiculturalismo penitenziario", Rassegna penitenziaria e criminologica, n. 1-2, 2003.
"Carcere: istruzioni per l'uso. Opuscolo informativo destinato a tutte le persone incarcerate", cit. Per quanto riguarda le norme che regolano la detenzione straniera, si rimanda al capitolo 1.
S. ANGELINI, psicologo consulente del Ser.t. n. 2 di Padova e del Ser.t. di Venezia centro storico, "L'autolesionismio in carcere", Ristretti Orizzonti, cit., n. speciale 2000 "Stranieri".
Hanno comunque anche delle regole proprie: ad esempio i detenuti magrebini liberanti hanno il dovere morale di lasciare tutti i propri abiti ed effetti personali ai connazionali ancora detenuti.
Sulle problematiche della detenzione straniera relative all'efficacia della risocializzazione, si rimanda alle conclusioni.
In genere neanche gli spacciatori facevano uso di droga. Sull'argomento, cfr. anche F. BERTI, F. MALEVOLI, op. cit., 2004.
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