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Lo stigma - carcere




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Lo stigma - carcere


"Chi esce de galera, perde er posto", recita un vecchio detto della mala romana.

Come anticipato, la scarcerazione non segna infatti la fine di tutti i problemi, anzi costituisce l'inizio di un nuovo dramma, umano e sociale: spesso la persona torna in libertà senza avere alcuna prospettiva e può rappresentare da subito un pericolo per la collettività, in quanto per sopravvivere spesso si trova costretto a tornare a commettere reati.

Al suo rientro nella società libera, spesso il detenuto non può contare su nessuno per il proprio sostegno morale e materiale, in alcuni casi anche la famiglia lo ha abbandonato; inoltre altre volte è già in là con gli anni per poter iniziare un nuovo progetto di vita: ammesso che riesca a liberarsi dal suo ingombrante passato, è certamente molto difficoltoso per lui costruirsi quella normalità che magari non ha mai posseduto.

C'è tutta l'incertezza di una vita da costruire, le incognite e la paura di non essere in grado di recuperare gli affetti lasciati e di rapportarsi alla nuova realtà: "Come sarà una volta fuori?", si chiede un detenuto[1]. "Sarò all'altezza di mantenere quelle promesse, realizzare quei progetti che faccio assieme ai familiari quando vengono a trovarmi ai colloqui ? La mia sarà una intromissione nella loro quotidianità, anche se in venti anni mi sono sempre stati vicini? La realtà è ben diversa da come l'ho lasciata . ho una certa paura di essere considerato un intruso che si affaccia nelle loro vite. La mia paura principale è di non riuscire a farcela", ma soprattutto di non riuscire a dimostrare di "essere cambiato".

La condanna continua ad esercitare il suo effetto anche dopo la scarcerazione: "Mo' per esempio, sto senza patente", racconta un detenuto[2]: "se pure me danno lavoro, ma come ce vado a lavora'? Qui l'autobus nun ce stanno, quanno piove e fa freddo come ce vado cor motorino? E me richiudi se me becchi a parla' co' un pregiudicato? Ma io come faccio? Io conosco tutti pregiudicati! Dopo tutti 'sti anni in galera, ma chi altro posso conosce? . Tu me complichi la vita, nun cerchi de aggevolammela. Un controsenso, no? M'hai fatto usci' per l'ultimo anno in sospensione de pena, perché nun me ridai la patente? Che c'entra? (È) 'na punizione fine a se stessa. Me vuoi aiuta'? Aiutame, no?!", è l'accorata richiesta.

Anche la società libera ha il suo ruolo in queste dinamiche: essa attacca al detenuto l'etichetta del pregiudicato, nonostante egli abbia buoni propositi, e ciò non fa che allargare ulteriormente la forbice tra i due soggetti, confermando la diversità e l'inferiorità dell'ex detenuto: l'iniziale condanna giuridica si trasforma in una condanna di natura morale, politica, economica e sociale. L'assunto detenuto perché delinquente diventa delinquente perché detenuto[3], "perché, parliamoci chiaro, venendo fuori dal carcere si diventa per gli altri, i cosiddetti cittadini normali, un delinquente a tutti gli effetti", è l'amara constatazione e di un detenuto .

Sulla stessa linea un'altra dichiarazione[5]: "Il muro vero non è quello di sette metri di cemento armato, ma è quello che ognuno ha in mente . è quello mentale più che quello di cinta . quello che ci separa sempre dagli altri, tra dentro e fuori, e poi anche fuori . È quello che non fa pensare comunque, a chi è fuori, che noi comunque eravamo fuori, prima, siamo quelli che si incontrava al supermercato".

Il marchio di galeotto è difficile da far sparire. La dichiarazione che segue[6] ben sintetizza il quadro psico-sociale che un ex detenuto si trova a dover affrontare e la risposta più plausibile a questa situazione: "Ci si prova ad andare a lavorare, ma dopo un po', quando si viene a sapere di quel lontano precedente, ecco che si rapportano con te in modo diverso, ecco che diventi quasi un tipo da evitare, ecco che qualsiasi cosa possa succedere nell'ambiente di lavoro e non, che vada appena un po' fuori dalle regole, il primo sospettato sei tu , ecco che se per forza di cose devono licenziare qualcuno per motivi diversi, il primo che viene preso in considerazione sei sempre tu, e lascia pur stare che puoi avere famiglia o che sei quello che avrebbe più bisogno di lavorare, sei sempre tu quello di cui si può fare a meno E forte dei tuoi buoni propositi ti cerchi un nuovo lavoro, cerchi di frequentare un ambiente dove la tua condizione sia messa meno all'indice, e ricominci a provarci a cercare alternative a quella scelta che ti ha portato in carcere la prima volta, magari accettando di lavorare anche in nero, venendo pagato anche di meno pur di resistere alla tentazione di sentirti nuovamente un fesso che si è fatto pescare in castagna", ma, quando sembra che le cose possano funzionare, "ecco che ci sono persone che non sono convinte che tu ce la possa fare a vivere una vita onesta e così puoi ritrovarti tuo malgrado al centro di tragedie che non ti riguardano, ecco che se succede un reato nei pressi di casa tua o nei pressi della zona dove lavori, nei paraggi dove puoi bazzicare per ben altri motivi la polizia viene a cercare te, perché non sono per niente convinti che tu non ne sia al corrente o che non sia un partecipante al colpo E così, per quanto tu possa provarci, ci sono tante variabili che fanno di tutto per farti desistere dai tuoi buoni propositi".

La via maestra sembra essere dunque sempre la stessa: "ci si trova a riprovarci, a tentare un altro colpo, perché nella maggioranza dei casi la seconda volta che si entra in carcere è più che altro per un moto di ribellione nei confronti della società, che per ragioni diverse non ha voluto accettare il tuo tentativo di fare una vita normale . E allora diventa quasi naturale votare la propria vita a scelte che superino quel disagio a cui ti hanno costretto, e ti riesce più o meno bene, vivi cercando di ritagliarti uno spazio che non ti faccia sentire inadeguato, cerchi di farti un po' più furbo . e a volte si cerca anche di fare il salto di qualità, e dato che si conosce ormai cosa ci aspetta se si è arrestati, se cioè qualcosa va male, allora se quella prima volta si è entrati per una (cosa da poco), a parità di rischi si alza il tiro". E così via.

Sulla stessa linea un altro detenuto[8]: "Il mio intento è quello di farvi capire come viene accettato e aiutato nella società un ex detenuto, dopo aver espiato per intero la propria pena, pagando così il suo debito con la società. Una volta scarcerato, ho iniziato con tenacia a cercare un'onesta occupazione che mi permettesse di mantenermi e vivere dignitosamente".

Quando sono cominciati i problemi? "Quando i clienti, le cosiddette persone per bene che per caso mi riconoscevano, andavano a lamentarsi del mio titolare perché ero ex detenuto. Ed è andata così in ben sette volte. Sette posti di lavoro persi grazie ai pregiudizi delle brave persone. Questo perché purtroppo, la maggioranza dei cittadini dà per scontato che un uomo che è stato in carcere, che ha sbagliato, magari da giovanissimo, non possa cambiare".

E ancora[9]: "Perdi la dignità, stai scontando una pena, questo finché rimani un reo. Non cambia molto quando esci, e comunque è un qualcosa che ti segna per sempre ed è difficile scrollarsi da dosso il marchio di ex detenuto . puoi riscattarti agli occhi della società, ma è dura, e sei solo".

"E vai avanti e avanti e avanti. E areggi, areggi, areggi"[10], finché si riaffaccia la stessa prospettiva: "il marchio che invisibilmente la gente stampa addosso ad un ex detenuto, di fatto favorisce che, per non morire di fame, le persone che escono dal carcere continuino a scegliere scorciatoie, strade che, inevitabilmente, riconducono tra queste squallide, disperate mura".

Così anche un detenuto del carcere di Poggioreale[11], a Napoli: "personalmente io qua lavoro, facc' il cuoco in cucina e sto benissimo. Ho la possibilità di lavorare più qua che fuori . Diciamo che ti danno una possibilità di guadagna', perché io non ho niente, allora qua io riesco a sopravvivere . Ma quando esco, chi me lo da il lavoro a me? Nisciuno si prenderà mai la responsabilità di assumerti: tu sei un carcerato".

Ben più diretto un altro detenuto[12]: "Ma chi te lo dà (il lavoro)? Nun lo danno ai ragazzi c' hanno studiato, lo vanno a da' a 'n avanzo de galera?"

Lo stigma purtroppo non riguarda solo il detenuto[13], ma anche tutto il suo entourage di familiari ed amici; nelle parole del fratello di un detenuto: "c'è stato un momento che perdevo qualsiasi cosa, amici e ragazze dico . Appena so' tornato a scuola la prima cosa che ho visto è l'indifferenza de magari gente che fino a du' mesi prima . uscivamo insieme . Lo vedranno sempre con quell'etichetta, l'etichetta dell'assassino".

Anche alla fidanzata del detenuto[14] è toccata la stessa sorte: "A lui l'hanno etichettato per ciò che ha commesso, e a me me l'hanno messa soltanto perché ce continuo a tene' contatto. M'hanno sbattuto porte in faccia, te senti di': allora sei 'na criminale come a lui".

Un'altra dichiarazione[15] introduce invece il tema della vecchie amicizie, l'ambiente che il detenuto ha lasciato con la carcerazione e nel quale si ritrova a tornare: "Le prime (difficoltà) le incontri nel luogo in cui vivi, se provieni da quartieri periferici dei grossi centri urbani. Tutti ti conoscono ormai come un ex detenuto e questo è un marchio che non ti levi facilmente di dosso anche se cambi zona, è solo questione di tempo . Gli amici che hai lasciato se non sono stati arrestati continuano la vita che facevi tu prima che venissi arrestato. Per un po' ci provi a rigar dritto perché la galera non piace a nessuno, ti cerchi un lavoro, ma quando vengono a sapere che sei stato in galera, alla prima riduzione di personale puoi stare certo che nella lista dei licenziabili ci sei tu, probabilmente in prima posizione. Quindi torni in quartiere con i vecchi amici ed il ciclo riprende: magari sei entrato per furto d'auto e conosci il ladro d'appartamento oppure il rapinatore".

L'affiliazione è quasi automatica, così come la fiducia data: "per il semplice fatto che sei stato in carcere e che magari non hai fatto i nomi dei complici, ecco che vieni presentato come persona affidabile per l'ambiente, e che ha bisogno di guadagnare subito perché appena uscita dal carcere. Questo accade le prime volte che si entra ed esce dal carcere, ma con l'andare del tempo per molti ragazzi questo diventa la normalità, ed è una cosa che accade per la stragrande maggioranza dei ragazzi che abitano i quartieri delle grandi e medie città, che sono cresciuti con la cultura della strada".

Il bisogno di ricercare vecchie compagnie, a volte è dettato dalla tendenza ad aggrapparsi a chi in quel periodo di smarrimento e di bisogno non respinge, come invece fa la società.

Molto spesso traspare dalle dichiarazioni degli ex detenuti che abbiano scelto di ricostruire la propria vita su basi oneste, un velato senso di disagio, quasi di inferiorità, nei confronti dell'ambiente malavitoso di provenienza, o nei confronti di quegli ex detenuti che non abbiano intrapreso la stessa strada di reinserimento: c'è una costante preoccupazione a giustificare - nei confronti di tali soggetti, ma anche di se stessi - le proprie scelte, a non apparire domati dall'istituzione, ad essere sempre pronti un domani a rientrare nel giro, se solo lo volessero.

"La gente dirà: Carlito non è più quello di una volta . si è rammollito . è diventato un ex duro . il carcere lo ha castrato. La strada ti tiene d'occhio . ti tiene d'occhio continuamente"[16], è l'oscura percezione di un ex detenuto che ha desistito dal proposito di uccidere un rivale che lo aveva umiliato. Questa dinamica è un serio ostacolo alla risocializzazione, dal punto di vita delle motivazioni del recluso, in quanto agirà da rinforzo all'abbandono di propositi di cambiamento.

A volte le vecchie amicizie sono proprio gli ex compagni di detenzione che sono tornati a delinquere una volta usciti: "Incontri un amico conosciuto in carcere e ti propone un affare, facile, pochi rischi e buon guadagno; dimentichi tutto quello che hai passato. In pochi minuti decidi di accettare o rifiutare", commenta un detenuto[18].

In questi casi le pena patita non rappresenta un deterrente: non è infatti infrequente che il carcere sia visto da molti solo come un incidente di percorso, "una vita racchiusa in pochi metri quadrati da condividere con chi magari credeva che i buoni propositi fossero solo un punto di vista, nel quale invece di espiare le proprie colpe, si apprende come perseverare nel reato"[19].

Una detenuta descrive la sua esperienza detentiva attraverso l'azzeccata metafora del parto: "Soffri, è vero, un dolore indicibile . però poi passa tutto, e il ricordo di quel dolore non ti fa desistere dall'idea di fare un altro figlio"[20].

"Non ti illudere: non saprai cosa fare lì fuori, ormai", è invece l'amaro consiglio di un detenuto al compagno che sta per evadere[21]. Perché?

Perché un ex detenuto, superato lo stigma, non può tornare così tanto facilmente ad essere un cittadino normale a tutti gli effetti? In sintesi per una serie di motivi. Il più immediato e pressante per un detenuto è quello del lavoro: spesso non più giovane e privo di una rete di supporto, non può permettersi periodi di attesa tra un'occupazione e la successiva, perché la sua sopravvivenza dipende strettamente da ciò che riesce a guadagnare giorno per giorno.

Inoltre spesso è privo anche di competenze professionali adeguate o spendibili sul mercato e, soprattutto se proveniente da un lungo periodo di detenzione, probabilmente non sarà riuscito a conservare le proprie. Infatti il lavoro carcerario, tranne qualche eccezione come si vedrà tra breve, si compone di servizio mensa, lavanderia, pulizia dei locali e altre mansioni domestiche.

Inoltre i corsi professionali, quando attivati, non sempre riescono a istruire anche sulla pratica dello svolgimento del lavoro, in quanto può essere incompatibile con le esigenze di sicurezza delle strutture penitenziarie: "può succedere quindi di conseguire un attestato di abilitazione professionale come elettricista, o come idraulico, senza aver mai potuto prendere in mano un attrezzo"[22].

Interessante è l'iniziativa del carcere di Milano S. Vittore, sponsorizzata dal Ministero di Grazia e Giustizia, realizzata da Telecom Italia: si tratta del primo call center in Europa ad essere attivato in un istituto di pena. Attivo dai primi giorni di novembre del 2003, il servizio è espletato da trenta detenuti, i quali nel periodo tra luglio e settembre dello stesso anno hanno frequentato un corso di formazione, nel quale hanno appreso la tecnica specifica per usare i database e le modalità di relazione con il cliente. La paga e lo standard di qualità del servizio è lo stesso dei call centers esterni. I detenuti hanno chiesto di poter lavorare anche il sabato e la domenica: questo tipo di lavoro avvicina incredibilmente il carcere alla società libera, nelle parole di un detenuto[23]: "(parlando con l'esterno) sembra di esser fuori tutti i giorni".

Questa attività ha reso a volte i detenuti protagonisti di episodi in cui sono fondamentali umanità e comprensione. La soddisfazione che esprimono nelle loro testimonianze, non nasconde la carica di autostima che ne hanno avuto in ritorno: "Capitano chiamate di persone che sono in situazioni anche piuttosto difficili, non so . la vecchietta che non riesce a trovare il numero del medico perché sta male. Oppure a me è capitato la vigilia di Natale di quello disperato che cercava una baby sitter perché la moglie lo aveva abbandonato lui e la figlia, e lui non sapeva che fare con la bambina . E questo piangeva: a me è capitato di dovergli tirare su il morale".

E ancora: "L'altro giorno c'era una signora in lacrime che mi raccontava di aver appena appreso della morte del fratello, per cui c'era stato da ricostruire dei numeri che le servivano, che in quel momento non aveva la serenità per trovare da sola"[24].

L'importanza del lavoro per un detenuto è infine ben sintetizzata da un volontario[25]: "Lavorare significa avere una nuova carta di identità, rivalutare il significato dell'uomo in quanto tale. Lavorare vuole dire prendersi cura dei propri affetti e dei familiari che attendono pazientemente e costantemente un sostentamento economico per poter campare. Il detto lavorare nobilita acquisisce un doppio significato per chi è detenuto: consapevolezza di ritornare ad essere considerato uomo, marito, padre. Per il resto del mondo ritornare ad essere come tanti altri".

La prima cosa che toglie il carcere è infatti la dignità: il lavoro la restituisce. "Nella nostra esperienza" dichiara un volontario[26], "dare la possibilità ad uno che ha sbagliato, ha significato creare un'apertura, creare un punto di diversità rispetto alla propria vita che fa cambiare la persona".

In conclusione, un recluso[27] ben sintetizza in un'affermazione la duplice anima della problematica del recupero sociale, cioè la motivazione del detenuto e la disponibilità della società: "Io non sono peggiore di altri che magari ammazzano in altri modi . Se io qui posso recuperare il danno compiuto, ho bisogno di qualcuno che mi tenda una mano, altrimenti io e gli altri miei compagni non ce la faremo, perché troveremo dentro di noi l'incapacità dell'umiltà e fuori il muro della divisione".






Mario Salvati, testimonianza raccolta da Ristretti orizzonti, cit.

Roberto, cit.

C. SQUASSONI, Carcere e collettività: un'interazione inesistente, in C. SERRA, Istituzione e comunicaizone, Roma, 1998.

F. SANTAGATA, "Storie di recidivi", Ristretti Orizzonti, cit., n. 6, dicembre 2000.

Mario, detenuto nel carcere di Opera, intervistato dal Maurizio Costanzo Show, cit.

F. SANTAGATA, op. cit.

Per l' "effetto della correlazione illusoria", meccanismo cognitivo - studiato da S. E. Taylor, S. T. Fiske, L. e J. Chapman - che agisce quando in un gruppo è presente un elemento che presenta caratteristiche nettamente dissimili dagli altri - in questo caso rappresentato dall'ex detenuto nella società libera - : ogni volta che nel gruppo succederà qualcosa di insolito, si tenderà a credere che egli ne sia in qualche modo il responsabile, perché si è sensibili all'inusualità.

Armando Redegalli, detenuto della casa circondariale di Lodi, in una dichiarazione raccolta da Uomini Liberi, cit., numero 6, gennaio 2004.

Davide e Livio, cit..

Roberto, cit.

Detenuto di Poggioreale intervistato per il dossier "Voci di dentro", cit.

Roberto, cit.

Testimonianza raccolta da"Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", cit., del 20 settembre 2004.

ibidem

Nicola Sansonna per Ristretti Orizzonti, cit., 2004.

Dal film Carlito's way, regia di Brian de Palma, 1993. Molto realistico nella descrizione del percorso di reinserimento nella società di un detenuto, il film narra la storia di un narcotrafficante, il quale, uscito dal carcere, tenterà di rifarsi una vita. Incontrerà in questo suo progetto innumerevoli scogli, rappresentati dal riaffacciarsi nella sua vita dei soliti giri loschi, dai quali tenterà in tutti i modi di stare fuori. Il principale ostacolo, tuttavia, sarà proprio quella sua idealistica fedeltà al codice, che gli impone di non tradire i compagni, di ricambiare un favore ricevuto, di mantenere la parola data. E ciò decreterà la sua fine.

Secondo l'indirizzo comportamentista, di J. B. Watzon e B. F. Skinner, "l'individuo alla nascita è una tabula rasa influenzata dall'ambiente fisico e sociale": il comportamento sarà allora la risposta a degli stimoli. La "teoria del condizionamento operante", inoltre, asserisce che una risposta è ripetuta se ad essa è associato un stimolo piacevole - detto rinforzo positivo - , ed estinta se essa è associata ad uno negativo - rinforzo negativo - . cfr. G. ATTILI, op. cit., 2000.

M. TADINAC, "Ragionare, o calpestare le opportunità, o forse non averne molte, di opportunità?", testimonianza raccolta da Ristretti Orizzonti, cit., n. speciale 2000 "Stranieri".

La Sicilia.it, rivista pubblicata on line all'indirizzo https://www.lasicilia.it, 18 dicembre 2002.

Testimonianza raccolta da Ristretti Orizzonti, cit., 2004.

dal film Animal factory, cit.

Testimionianza raccolta per Ristretti Orizzonti, cit., 2004.

Testimonianza raccolta dal Maurizio Costanzo Show, cit.

ibidem. Le dichiarazioni sono di detenuti impegnati nel call center del carcere di S. Vittore.

Volontario intervistato da Uomini Liberi, cit., n. 0, giugno 2003.

Testimonianza raccolta dalla redazione del Maurizio Costanzo Show, cit.

Affermazione di un detenuto riportata dal cappellano del carcere di Rebibbia don Sandro Spriano, nell'ambito di un intervista per lo speciale del TG3 "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", 6 ottobre 2004.

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