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La pena è in senso generale, giuridico e sociale il mezzo di cui si serve l'autorità per reprimere l'attività dell'individuo contraria agli interessi comunitari e consiste sostanzialmente nella privazione o diminuzione di un bene individuale (vita, libertà, patrimonio).
In Italia il principale complesso di norme giuridiche penali è costituito dal Codice Penale pubblicato con Regio Decreto 19 ottobre 1930 n. 1398, entrato in vigore il 1 luglio 1931 e comunemente denominato " codice Rocco" dal nome del Guardasigilli che lo propose.
La giustizia penale costituisce, da sempre, il tentativo di combattere il male, che ha fondamento in una condotta dell'uomo, attraverso il castigo, cioè contrapponendo al male un altro male in qualche misura simmetrico rispetto a quello cagionato dal delitto. E' l'equilibrio contenuto nella legge del Taglione che non è propriamente una legge di vendetta ma di giustizia, una legge dalla cui inflessibile applicazione ci si attende un effetto positivo di prevenzione e di educazione sociale.[2]
La legge è considerata alla stregua di un insieme di imperativi che dovrebbero fungere da regolatori della condotta umana. Si è tentato di sostenere che esiste una differenza sostanziale tra gli imperativi etici e gli obblighi giuridici, ma la differenza sta solo nel tipo di pena comminata e nel suo esecutore materiale. In un caso si tratta di Dio o di un suo rappresentante, nell'altro di un giudice, sacerdote del potere terreno.[3]
Nella Genesi l'uomo incomincia la propria storia con una colpa. Il seguito sarà il tentativo di ripararvi, per tornare a stabilire il rapporto originale con il Padre. Dio stesso dà le leggi per non ricadere nel peccato e in questo modo indica come peccare. La proibizione rende attraente la trasgressione : il peccato diventa desiderio di peccare.[4]
Secondo Sant'Agostino (354-430), tutta la vita dei mortali è stata segnata dalla tentazione.
La costitutiva peccaminosità dell'essere umano ed il conseguente cattivo uso del libero arbitrio hanno viziato ed irretito la natura seminale dalla quale proviene l'uomo.
Fin dall'origine del mondo, infatti, la natura dell'umanità è stata deformata, assumendo l'appellativo di "massa damnationis".[5]
La determinazione filosofica della "pena" implica il chiarimento di due questioni connesse: il fondamento del diritto di punire e lo scopo della pena. Argomenti fondamentali che implicano i più ardui problemi religiosi, etici e filosofico-giuridici rendendo questo tema fra i più dibattuti.
Come parlare di pena senza intendere la responsabilità morale o la libertà? Come fondarla senza postulare una potestà d'imperio, una sovranità e chiedersi in ultimo la ragione di essa?
Essenziali appaiono, quindi, i contributi apportati nel corso della storia da filosofi e letterati sulla concezione dell'uomo, sul concetto di giustizia nonché sull'evoluzione della società, i quali hanno, in tal modo, fornito i presupposti e gli strumenti necessari alla realizzazione di un disegno di trasformazione ed innovazione del mondo.
La letteratura, particolarmente, ha accompagnato e scandito le varie tappe che hanno caratterizzato l'evoluzione del sistema giuridico, facendosi portavoce di nuove teorie, nuovi sistemi e nuovi modelli.
Il testimone del più insidioso luogo di castigo e di tortura, per antonomasia, è Dante Alighieri (1265-1321) che con la "Divina Commedia" ripercorre la storia ideale dell'anima intorpidita dal peccato.
La voragine desolata dell'Inferno, come luogo in cui sono puniti in eterno i peccatori secondo la legge del contrappasso (corrispondenza per contrasto o somiglianza delle pene dei vari peccatori con le colpe commesse), ed il monte del Purgatorio, come luogo di purificazione ed espiazione, sono una rappresentazione riflessa in un paesaggio di stati d'animo. Lo smarrimento ed il traviamento della società del suo tempo, hanno spinto Dante a riprendere quella "diritta via.smarrita"[6] che conduce alla felicità terrena ed alla beatitudine celeste.
C'è stata un'epoca in cui la poesia di Dante è stata messa in leggi; il supplizio era la rappresentazione terrena dell'inferno.
La giustizia perseguitava il corpo del condannato al di là di ogni sofferenza possibile e le pene, per essere considerate tali, dovevano comportare una dimensione di supplizio, il quale correlava il tipo di danno corporale, qualità, intensità, lunghezza delle sofferenze con la gravità del crimine, la persona del criminale, il rango delle vittime.[7]
C'è stata un'epoca in cui la pena era considerata uno strumento di formazione, uno spettacolo educativo e come la tragedia dell'antica Grecia, mostrava il "destino" che attendeva a chi si opponeva al potere.
La tortura è stata la punizione che ha percorso tutta la storia delle pene anche se è stata inflitta con modalità molto diverse; "per secoli ha costituito una rappresentazione teatrale di piazza. La tortura apparteneva alla pedagogia prima che alla giurisprudenza; serviva a prevenire il reato più che a punirlo".[8]
L'armamentario per le torture era vastissimo e permetteva scene di particolare spettacolarità; modalità e sequenze che di fatto hanno oltrepassato qualunque fantasia.
Successivamente la punizione ha abbandonato il corpo ed è divenuta sociale ed il supplizio teso a distruggere l'appartenenza al gruppo, ad alimentare l'emarginazione.
Le tecniche, non più cruente, distruggevano la dignità e sconvolgevano l'equilibrio personale.
Da 3 secoli a questa parte molto si è modificato nel sistema penale: definizione dei reati, gerarchia della loro gravità, margini di indulgenza,.
Lo spettacolo della punizione e del supplizio come mera manifestazione del potere politico ha lasciato il posto a nuove modalità di esecuzione penale. Il principale bersaglio della repressione non è più solo il corpo ma gli succede un castigo che agisce in profondità, sul cuore, sul pensiero, sulla volontà.
In effetti, la detenzione, divenuta in pochissimo tempo la forma essenziale del castigo, agisce, sul piano psicologico, come la tortura fisica del passato. Ha carattere di punizione psicologica e sociale; ma non solo. Nei suoi dispositivi più espliciti ha sempre comportato in una certa misura anche sofferenza fisica.
Il corpo è considerato uno strumento, un intermediario; intervenire su di esso rinchiudendolo, significa privare l'individuo di una libertà considerata un diritto e insieme un bene.
Sono cambiati, dunque, i patiboli ma la pena di morte, quella che di volta in volta è considerata la vera morte, resiste. Ogni pena, infatti, "uccide" almeno un po', altrimenti non sarebbe tale: "uccide" libertà, "uccide" tempo, "uccide", a volte, speranza.[9]
L'avvento dell'illuminismo, sviluppatosi agli albori del '700, segna l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità, assumendo come motto il "Sapere Aude" kantiano. A questo movimento di rinnovamento politico e sociale si riallaccia la legislazione italiana ed in particolare la nascita della moderna scienza penale.
Milano fu uno dei centri italiani dove più vivacemente operò il movimento riformatore. Nell'ambiente dell' "Accademia dei Pugni", animata dai fratelli Verri, maturò una delle opere più significative dell'illuminismo italiano, "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria (1738-1794), con la quale il giurista puntò ad una riforma globale del sistema penale che tutelasse i cittadini.
Beccaria, pur sentendo il fascino delle idee più radicali, si ferma sulla soglia dell'utopia e aderisce ad una concezione strettamente utilitaristica, come unica via per giungere all'eguaglianza. Tutta la società doveva tendere "alla massima felicità divisa nel maggior numero". Era questa la formula di un programma di riforme razionalmente contrapposta alla rivolta utopistica.
Il successo dell'opera è da rintracciare tra il rigore logico delle deduzioni, la chiarezza matematica, il calore dell'emozione prorompente, il genuino slancio di carità verso i derelitti e gli oppressi.
Non solo era stata spezzata la cieca tradizione sanguinaria delle efferatezze, delle torture, delle esecuzioni indiscriminate, del carcere disumano, ma l'intera procedura giuridica ne usciva rinnovata; non più la confessione estorta con ferocia per supplire all'insufficienza delle prove legali, bensì la certezza morale del giudice, illuminata dalla ragione comune; non più norme discriminanti per i privilegiati e pene irrogate a capriccio del magistrato, non più giudizi segreti e arbitri interpretativi, ma leggi certe e tassative, processo semplice e pubblico, giudice imparziale, pene intese come mezzo di prevenzione e sicurezza sociale e non mai come punizione espiatoria e pubblico spettacolo deterrente per la crudeltà.
Beccaria, teorizzando una concezione della pena non come vendetta nei confronti del reo ma come strumento per garantire una convivenza sociale e ordinata, ha sostituito la pena di morte con una pena che deve tendere a far pagare il debito che il criminale ha contratto con la società.[10]
Nasce così la pena come sistema che comporta una proporzione tra delitto e punizione.
La colpa è dunque un danno sociale e la pena un'ammenda economica.[11]
Il principio del lavoro obbligatorio si profila come base per la retribuzione e la redenzione personale.
A tutt'oggi il lavoro è reputato un agente di trasformazione detentivo. Non è considerato né un additivo, né un correttivo della pena ma un accompagnamento necessariamente obbligatorio per consentire alla persona ristretta di giocare il suo ruolo con "perfetta" regolarità.[12]
Per quanto la pena sia uno dei fenomeni più generali e costanti della vita sociale non sono mancati pensatori che ne hanno contestato la fondatezza, ritenendola ingiusta, inutile e a volte persino dannosa. Oltre agli utopisti Tommaso Moro e Tommaso Campanella, vanno ricordati parecchi teorici dell'anarchismo tra cui primeggia la figura di Leone Tolstoi e soprattutto alcuni sociologi e criminalisti: Girardin, Ferri, Wargha, Montero, ecc. Questi ultimi, partendo da una concezione ottimistica della vita umana, hanno sostenuto che un'opera di prevenzione, largamente e sapientemente esercitata, può rendere inutile la repressione dei delitti.
Tutti gli scrittori citati debbono ritenersi fuori della realtà. Essi prescindono da un assunto difficilmente contestabile, e cioè che la tendenza al delitto non è circoscritta ad una particolare categoria di individui, secondo la tesi di Cesare Lombroso, ma ha un carattere generalissimo.[13]
La carcerazione è vissuta, oggi, come "un intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita ed ingiusta, impazzita e disumana; è un rimedio necessario per fermare coloro che, afferrati da un istinto egoistico e distruttivo, hanno perso il controllo di sé, calpestando i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile".[14]
Ma il carcere, oggi, è anche e soprattutto lo specchio rovesciato della società; rappresenta una realtà che ci appartiene anche se appare fisicamente lontana.
L'attuale sistema penale si preoccupa sì di punire, ma riveste un ruolo assai più profondo, offrendo la possibilità della redenzione personale, del reinserimento nella società, aprendo le porte ad orizzonti di speranza nei confronti di coloro che, al di là del debito contratto con la giustizia, tentano di ripensarsi in termini nuovi sia come uomini che come cittadini.
Ed è proprio questo l'obiettivo che si pone la polifunzionalità della sanzione penale che attesta, oggi, la necessità di perseguire non solo la funzione retributiva della pena ma anche e soprattutto quella rieducativa in adempimento all'art. 27 della Costituzione.
EUSEBI, La pena in crisi: il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, Morcelliana, 1990.
CICALA, Intervento al 33° Convegno Nazionale "Giustizia e Solidarietà" del Coordinamento Enti ed Associazioni di Volontariato Penitenziario-SEAC, Roma, 15 settembre 2000, pag.1.
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