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SOMMARIO: 1 Le misure alternative. - 2 L'area penitenziaria esterna. - 2.1 L'affidamento in prova ai Servizi sociali. - 2.2 L'affidamento in prova in casi particolari. - 2.3 La detenzione domiciliare. - 2.4 Il regime di semilibertà. - 3 Il procedimento di sorveglianza. - 4 I centri di Servizio Sociale. - 5 I sistemi differenziati. - 6 Le prospettive del sistema sanzionatorio.
Il trattamento quale spazio destinato alla promozione dell'individuo, motore dell'essere e dell'agire, strumento in grado di arginare le carenze che lo stato detentivo ha creato o implementato, si attua in un contesto intramurario in funzione dell'apertura verso la società, ad iniziare dai permessi premio e dalle licenze, per passare alle misure alternative e concludersi quindi con l'espletamento della pena detentiva ed il ritorno alla libertà.
Lo stesso O.P. regola, infatti, l'esecuzione della pena nella prospettiva riabilitativa del reo.
Anche quando, nel corso degli interventi trattamentali, gli operatori riescono a condurre con il condannato una riflessione sulle motivazioni che lo hanno condotto al reato, sulle conseguenze materiali, umane e sociali prodotte, rimane pur sempre una elaborazione più o meno astratta o quanto meno unilaterale.
Altra cosa è mettere il reo nella condizione di confrontarsi direttamente con la propria vittima, laddove possibile, verificare anche i danni emotivi provocati nella persona offesa o la lacerazione determinata nel contesto sociale di appartenenza.
Le misure alternative alla detenzione ed in particolare l'affidamento in prova ai servizi sociali di cui all'art. 47 O.P., annovera tra le prescrizioni cui l'affidato deve attenersi, il contatto con la vittima del reato al fine di retribuire il danno cagionato con l'azione delittuosa. L'obbligatorietà dell'azione riparativa è stata per lungo tempo trascurata a causa di un errore di stampa contenuto nei testi di legge che hanno riprodotto la legge Gozzini. La scoperta del refuso e la conseguente correzione non hanno sostanzialmente modificato l'assetto vigente, per cui la dimensione emozionale dell'offeso rimane nell'ombra e la disponibilità del condannato a svolgere attività di pubblica utilità o a favore della collettività "acquista il valore di uno stereotipo, di una formula stantia, che non dà particolare entusiasmo a chi legge" [1].
Sono passati quasi 30 anni dalla Riforma Penitenziaria in Italia, contenuta nella l. 26 luglio 1975 n. 354, arrivata 27 anni dopo la Costituzione Repubblicana a sostituire il Regolamento degli istituti di prevenzione e di pena del 1931, emesso in attuazione del Codice penale fascista del 1930.
Per molti aspetti, la Riforma non ha apportato significativi cambiamenti o, per lo meno, non nel senso voluto. Le carceri di oggi hanno forse accentuato il carattere di puro contenimento, la vita in cella e l'inerzia. [2]
Le novità vengono dalla l. 10 ottobre 1986 n.663 e dalle misure alternative alla detenzione, il cui numero è stato visto crescere in modo esponenziale soprattutto negli ultimi anni.
La "Risoluzione sulle condizioni carcerarie dell'Unione Europea: ristrutturazioni e pene sostitutive" del Parlamento europeo, del 17 dicembre 1998, al punto 4 "chiede a tutti gli Stati membri dell'Unione europea di elaborare una legislazione penitenziaria di base che stabilisce un testo unico per la regolamentazione tanto del regime giuridico interno" quanto "del regime giuridico esterno". Sono inoltre riportati gli indirizzi generali a cui attenersi: realizzare un regime interno agli istituti di pena con chiaro contenuto trattamentale e risocializzativo e ridurre l'area della detenzione dando spazio, dunque, alle misure alternative da attuarsi in un contesto extramurario per favorire il reinserimento del soggetto deviante nella società a cui appartiene.
Le linee essenziali contenute nei documenti dell'O.N.U. e del Consiglio d'Europa hanno caratterizzato gli ultimi decenni ed hanno attentamente vagliato la legge di riforma penitenziaria del '75.
La documentazione enuncia principi e ne registra, al tempo stesso, le violazioni, contestando che molto non viene fatto. La Risoluzione, ad esempio, al punto 34 illustra la possibilità che la popolazione detenuta effettui un lavoro degno e debitamente retribuito.
Nel panorama italiano emerge chiaramente l'impossibilità di prestare attività lavorativa in pianta stabile vista l'esuberanza delle persone ristrette negli istituti penitenziari.
Una convinzione di fondo sembra pervadere il carcere, affiorando anche nell'ambito applicativo delle misure alternative alla detenzione: la gestione della pena deve comunque essere affittiva e la paura che possa non esserlo a sufficienza crea notevole impeto sociale.
La fievole attuazione della Legge penitenziaria, almeno nel nostro Paese, sembra derivare da un livello di organizzazione e di capacità operativa inadeguati; l'idea che sorvegliare debba essere punire e che punire voglia dire affliggere, è ben radicata.
Dalla norma costituzionale che la pena deve tendere alla rieducazione, la Corte ha ricavato che esiste un diritto del condannato a far riesaminare, nel corso della pena e nei termini temporali stabiliti dalla legge, se quel fine sia stato raggiunto; se quell'esame è favorevole, il reo è portatore di un altro diritto: essere ammesso, per il resto della pena ad un regime alternativo alla detenzione.
E' questa non solo la base costituzionale, nel nostro sistema penale, delle misure alternative, ma anche la individuazione della sostanza operativa della pena, di quello che deve essere il suo funzionamento.
La pena ha funzioni preventive generali, che restano, però, astratte, ma deve avere un funzionamento concreto, consistente in un processo di educazione della persona, che consiste nell'esportarla dal contesto e dalle condizioni del delitto, nell'utilizzare risorse che consentono il suo reinserimento e l'assunzione di un ruolo sociale accettabile.
Questo processo deve prendere avvio all'interno dell'istituzione carceraria al fine di predisporre solide fondamenta in previsione di una situazione alternativa di vita extramuraria.
Partendo dall'idea che la pena deve essere certa ed effettiva, anche le misure alternative stanno incontrando una sorta di obiezione di coscienza, prodotta dalla convinzione che queste misure svuotino la pena e si risolvano in una finzione esecutiva.
Per poter rendere significativa la pena si ricercano, dunque, elementi in grado di supplire alla mancata dimensione affittiva: di qui l'appesantimento delle prescrizioni che accompagnano le misure alternative, il rigore della gestione delle stesse e delle violazioni che siano commesse, il coinvolgimento nel controllo sociale degli organi di polizia, il rilancio di affiancare all'esecuzione della misura alternativa l'obbligo di risarcire il danno prodotto, anche se non prescritto dalla legge.
La povertà organizzativa del sistema delle misure alternative ha determinato molti limiti operativi nella sua gestione.
E' necessario sì controllare ma soprattutto sostenere il soggetto nel percorso di recupero sociale e non circoscrivere la pena alla mera funzione punitiva.
Le prescrizioni debbono essere personalizzate al fine di sostenere il percorso individuale della persona; aggiungere ostacoli non aumenta certo la probabilità di ottenere buoni risultati.
Ne è un chiaro esempio, anche se estremizzato, il fenomeno criminale che interessa gli U.S.A., il cui tasso di recidiva è in costante aumento nonostante l'ordinamento penale annoveri tra le sue sanzioni la pena di morte.
L'esecuzione penale deve essere concepita come un'operazione per la persona e non contro la persona.
Resta, tuttavia, una resistenza di fondo ad abbandonare la pena affittiva per quella rieducativa.
C'è chi coglie in questa utilità della pena per il condannato una vanificazione della pena stessa e dei suoi fini di prevenzione generale.
La pena rieducativa, nel contesto limitativo della libertà personale che comunque determina, vuole e cerca invece, essenzialmente, la modificazione delle situazioni reali della persona, mentre la pena afflittiva e puramente retributiva sembra sostituirla a quelle situazioni, dopo un'azione di dissuasione che ha come effetto più probabile quello di far aumentare il livello di frustrazione e di rabbia nei condannati.
Nel capo VI del titolo I della l. 354/1975 sono previste le misure alternative alla detenzione, misure di natura giuridica eterogenea, accomunate dalla ratio di rappresentare dei sostitutivi o delle attenuazioni della pena detentiva.
In linea generale la previsione di misure alternative nasce dalla constatazione degli effetti, non solo deludenti sul piano dell'efficacia rieducativa ma addirittura in generale controproducenti, della pena detentiva e soprattutto delle pene di breve durata.
Più che evidenti sono le caratteristiche delle pene detentive brevi: "impossibilità di porre in essere un trattamento rieducativo per la brevità della permanenza in carcere; rottura dei rapporti con la vita sociale e pregiudizio, talora irreparabile per l'attività lavorativa, in seguito alla improvvisa ed indilazionabile, anche se breve, detenzione; effetto stigmatizzante di questa; inflazione della popolazione detenuta e conseguente ingovernabilità del carcere". [3]
Gli strumenti utilizzabili al fine di ridurre il ricorso alla pena detentiva vanno dalla decriminalizzazione o depenalizzazione dei reati meno gravi all'applicazione di misure alternative già nella fase della cognizione (come ad esempio la libertà controllata, introdotta dall'art. 56 L. n. 689/1981, Modifiche al sistema penale), risparmiando al soggetto anche il minimo assaggio di pena, o nella fase dell'esecuzione, dopo un breve periodo di osservazione.
Fra le misure previste dalla riforma [4], solo l'affidamento in prova può considerarsi alternativo alla detenzione, perché la semilibertà si concreta piuttosto in una modalità di esecuzione della pena.
Il campo delle misure alternative alla detenzione e dei benefici che possono essere concessi ai detenuti ed agli internati, ha una grande importanza ed indica la direzione di un positivo e civile sviluppo dell'attuale sistema penitenziario.
A fronte degli apparati innovativi apportati dal legislatore, si rende necessaria un'effettiva realizzazione degli stessi; occorre che dal comportamento del soggetto si possa desumere con certezza la sua sincera revisione critica del reato o, in generale, del proprio passato criminale, la sua sincera volontà di partecipare all'opera di rieducazione e di reinserirsi nella società civile accettando di conformarsi alla legalità ed ai valori che consentono una convivenza pacifica ed ordinata.
Questa è la funzione fondamentale che la Costituzione e le leggi attribuiscono alla pena e solo in questa prospettiva la previsione e la concessione dei benefici hanno un senso.
E' particolarmente difficile leggere nell'anima degli uomini, giudicare le loro precise intenzioni, immaginare i loro gesti futuri. E' più difficile insomma prevedere il futuro che giudicare il passato.
Però le conseguenze di un giudizio sbagliato sulla sussistenza dei presupposti che condizionano la concessione di un beneficio, possono essere molto gravi.
Ne sono un esempio le evasioni o la commissione di delitti avanzati da un soggetto approfittando della concessione di un beneficio.
Ne derivano giustamente preoccupazioni ad allarme da parte dell'opinione pubblica, e ne deriva un intollerabile oltraggio alle esigenze della giustizia di tutta la società e al dolore di chi ha subito, direttamente o indirettamente, il delitto.
Quando questi casi negativi si ripetono e crescono l'allarme e l'indignazione, si determinano movimenti di opinione che spingono e talvolta portano verso lo svuotamento, l'annullamento della legge di riforma.
I casi negativi non sono conseguenza delle disposizioni riformiste ma derivano da improprie interpretazioni ed applicazioni.
Si richiedono attente e scrupolose interpretazioni ed applicazione, per difendere, far accettare e favorire il progresso del sistema penitenziario italiano secondo gli ideali della civiltà e dell'umanità.
2.1 L'affidamento in prova al servizio sociale
L'area penitenziaria esterna, in Italia, è rappresentata prevalentemente dagli affidamenti in prova ai servizi sociali che sono circa il 70% del totale.
L'affidamento è la sola misura realmente alternativa alla pena detentiva: infatti, qualora ricorrano determinati presupposti soggettivi ed oggettivi, il soggetto affidato è restituito in libertà, anche se tenuto ad osservare, sotto il controllo del servizio sociale[5], determinate prescrizioni (art. 47, co. 5) , la cui inosservanza comporta la revoca del provvedimento (art. 47 co.11). Il condannato affidato in prova al servizio sociale, qualora tenga un comportamento contrario alla legge o alle prescrizioni impartite, tale da apparire incompatibile con la prosecuzione del trattamento in libertà, incorre nella revoca del beneficio. Si riteneva che, in caso di revoca, del periodo trascorso in affidamento non si dovesse tener conto e che di conseguenza, il condannato dovesse scontare interamente la pena detentiva inflitta. Una sentenza della Corte Costituzionale (sent. 29 ottobre 1987 n.343) ha viceversa stabilito che il Tribunale di Sorveglianza determini discrezionalmente la pena residua da espiare, tenendo conto della durata delle limitazioni patite e del comportamento messo in atto durante l'affidamento. La Corte ha infatti ritenuto che trascurare il periodo trascorso in affidamento si risolve in un ingiustificato aggravio di pena per il condannato.
L'art. 3 della l. 19 dicembre 2002, n. 277 ha inserito nell'art. 47 O.P. il comma 12 bis per cui "all'affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova, nel periodo di affidamento, di un suo concreto recupero sociale desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena di cui all'art. 54 O.P.[7]".
L'istituto dell'affidamento si ispira a precedenti esperienze di altri Paesi, in particolare al probation, al parole (USA, Inghilterra) ed al sursis (Belgio, Francia) ma, mentre il probation consiste nell'astensione dalla pronuncia di condanna ed il sursis nell'astensione dall'esecuzione della condanna, l'affidamento si avvicina maggiormente al parole in quanto si risolve in una sospensione condizionata dell'esecuzione della condanna. [8]
Requisito oggettivo per la concessione del provvedimento è che la pena detentiva inflitta non superi i tre anni. Il concetto di pena inflitta si identifica con la quantità di pena che il soggetto deve in concreto espiare all'atto della presentazione della richiesta e non con la pena dal giudice irrogata con la sentenza di condanna, ovvero con la pena risultante dal cumulo.
Requisito soggettivo è che, sulla base dell'osservazione della personalità, si possa ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Tale giudizio può ad oggi essere formulato sulla sola base del comportamento serbato dal condannato dopo la commissione del reato anche senza quel periodo di osservazione della personalità condotto collegialmente in istituto, previsto dal co. 3 dell'art. 47 che viceversa ne costituiva la base imprescindibile secondo la disciplina originaria dell'istituto.
Ricorrendo tali presupposti il reo viene rimesso in libertà a condizione di rispettare le prescrizioni dettate nel verbale dell'affidamento, sulla cui osservanza vigila il servizio sociale di competenza, per il periodo corrispondente alla pena da scontare, al termine della quale si estinguono la pena stessa ed ogni effetto penale ad essa connesso.
Il contenuto delle prescrizioni è variamente articolato, comprendendosi in esse gli obblighi che l'affidato assume in ordine ai rapporti con il servizio sociale, alla sua dimora, alla sua libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed accompagnarsi a persone pregiudicate, ed al lavoro.
E' stata rilevata, in relazione al loro contenuto, l'indeterminatezza delle prescrizioni, che, non rappresentando soltanto delle modalità di esecuzione della pena detentiva ma il contenuto, ovvero l'essenza di una pena, anche se alternativa alla detenzione, dovrebbero invece essere tassativamente previste. [9]
Questa preoccupazione non appare certamente infondata, ma, si deve riconoscere la necessità di una certa elasticità delle prescrizioni, a livello legislativo, per permettere al giudice di applicare nel caso concreto quelle più funzionali all'assistenza ed al reinserimento.
La Legge Gozzini ha ampliato notevolmente l'ambito di applicazione della misura in esame in un'ottica di decarcerizzazione che ha suscitato non poche perplessità.
Ne è scaturita un'applicabilità generalizzata dell'affidamento a prescindere dalla gravità del reato commesso (sono stati, infatti, cancellati quei reati quali la rapina, l'estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l'associazione di stampo mafioso che nella legislazione previgente impedivano la concessione della misura) e sulla base di un periodo di osservazione del tutto limitato che, a volte, appare insufficiente a permettere un esame esauriente della personalità dell'affidando.
E' essenziale sottolineare che nel comma 7 dell'art. 47 L. 354/75, nel verbale in cui sono indicate le prescrizioni cui l'affidato deve attenersi, viene anche stabilito che si adoperi, per quanto possibile, in favore della vittima del suo reato, dando così alla pena un carattere riparativo oltre che riabilitativo.
Nell'Ordinamento Penitenziario la vittima del reato viene citata solamente in due situazioni: quella predetta poc'anzi e nell'art. 27 del DPR 230/00 (il Nuovo Regolamento d'Esecuzione) dove, nell'ambito dell'attività di osservazione è previsto sia condotta una riflessione "sulle conseguenze negative delle condotte antigiuridiche per l'interessato ed anche possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento alla persona offesa".
Sia nell'art. 27 del Nuovo Regolamento d'Esecuzione che nel comma 7 dell'art. 47 L. 354/75, la riflessione sulle conseguenze negative provocate e l'adoperarsi per ripararle, per quanto possibile, è vista in relazione al reo, alla sua riabilitazione anche attraverso la riparazione.
La vittima viene presa in considerazione come destinataria di possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, nel primo caso prevedendo anche un risarcimento, nella seconda situazione con l'indicazione generica di "adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato".
La legge 165/98 (la c.d. legge Simeone-Saraceni) varata al termine di un lungo iter parlamentare, ha innovato l'istituto dell'affidamento in prova senza osservazione in istituto rimodellando in chiave marcatamente sostitutiva e sancendo il primato di questa forma della misura rispetto a quella regolata dal comma 2 dell'art. 47 O.P. conservata nella sua natura trattamentale.
Viene omesso qualsiasi riferimento al periodo di custodia cautelare presofferto dal condannato, condizione contemplata, invece, nel testo previgente.
Ma la vera novità introdotta dalla l. 165/98 è costituita dal novellato 4° comma che attribuisce al Magistrato di Sorveglianza inediti poteri di sospensione di una pena già in fase di espiazione "quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'ammissione all'affidamento in prova ed al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga".[10]
2.2 L'affidamento in prova ai servizi sociali in casi particolari
La misura dell'affidamento in prova ai servizi sociali in casi particolari originariamente disciplinato dall'art. 47 bis dell'O.P. e successivamente confluita nell'art. 94 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, persegue l'intento di offrire un'alternativa alla detenzione finalizzata al recupero di due particolari categorie di soggetti condannati ad una pena detentiva: i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti.
Il legislatore, sulle basi di una valutazione spiccatamente specialpreventiva, ritenendo incompatibili lo stato di tossico ed alcool dipendenza e lo stato detentivo, ha privilegiato con questa previsione il programma di recupero del condannato.
La misura predetta consiste nell'affidamento in prova al servizio sociale competente di una persona con problemi tossico ed alcool correlati nei cui confronti debba eseguirsi una sentenza di condanna non superiore ai quattro anni, in via di esecuzione o meno, al fine di proseguire o intraprendere un'attività terapeutica volta al recupero del soggetto stesso. E' previsto che il programma di cura venga concordato tra l'interessato ed una unità sanitaria locale per i tossicodipendenti (i c.d. Ser.T.) istituiti presso le aziende USL singole o associate (art. 113 D.P.R. 309/1990) o all'interno di apposite strutture (le c.d. comunità terapeutiche).
L'istanza di affidamento deve essere accompagnata da una certificazione rilasciata da una struttura sanitaria attestante lo stato di dipendenza del soggetto nonché l'idoneità, ai fini del recupero, del programma terapeutico. Deve altresì essere accertata l'effettiva volontà del soggetto di sottoporsi al trattamento attraverso l'osservazione scientifica della personalità da effettuarsi per un certo periodo di tempo all'interno dell'istituto in cui il soggetto si trova in custodia o in espiazione di pena.
Il giudice, relativamente l'effettiva volontà del soggetto di sottoporsi al trattamento terapeutico concordato con le predette strutture, si trova a dover compiere una complessa indagine psicologica, sprovvisto di un adeguato supporto probatorio, allorché si tratti di valutare se detta volontà non sia solamente apparente e se il vero intento del condannato non sia la disintossicazione ma la scarcerazione.
Allo scopo di ridurre il rischio di concessioni ingiustificate, il legislatore ha presunto in due ipotesi che la volontà del soggetto manchi e dunque la richiesta non debba essere accolta allorché il soggetto non si presenti all'udienza (art. 92 co. 1 D.P.R. 309/1990) ovvero allorché il soggetto abbia già usufruito per due volte della misura senza successo (art. 94 co. 5).
Anche in questo caso, analogamente all'affidamento in prova ai sensi dell'art. 47 O.P., il soggetto deve attenersi alle prescrizioni stabilite per l'esecuzione del programma.
La recente normativa in materia di stupefacenti (l. n. 182 del 1990) appare sufficientemente in sintonia con la misura sopra descritta, in quanto, pur definendo illecita l'assunzione di droga e prevedendo una serie di sanzioni progressivamente più severe, dispone la sostituzione della pena detentiva anche in fase di cognizione qualora l'interessato opti per il programma di recupero da realizzarsi in comunità.
2.3 La detenzione domiciliare
La detenzione domiciliare consente a determinati soggetti di espiare "nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza" [11] la pena della reclusione non superiore ai due anni.
La normativa sulla detenzione domiciliare si avvicina per molti aspetti a quella sugli arresti domiciliari, misura alternativa alla custodia cautelare prevista dall'art. 284 del nuovo c.p.p., ma i due istituti differiscono sul piano della natura giuridica: l'arresto domiciliare è una misura cautelare eminentemente processuale diretta ad evitare il pericolo di fuga dell'imputato, la detenzione domiciliare è una misura alternativa di esecuzione della pena detentiva, senza alcuna funzione cautelare o preventiva.
La detenzione domiciliare si differenzia anche dalle altre misure alternative in quanto si concretizza in una integrale sostituzione al carcere e, diversamente dall'affidamento che estingue la pena solo dopo l'accertamento dell'esito positivo della prova, non è condizionata ad un particolare comportamento del reo, essendo sufficiente l'adempimento delle prescrizioni dettate dal Tribunale di Sorveglianza.
I soggetti ammessi alla detenzione domiciliare sono indicati tassativamente dall'art. 47 ter: donne incinte o che allattano o madri di prole di età inferiore ai tre anni con loro convivente; persone in condizioni di salute particolarmente gravi richiedenti costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; persone di età superiore a 65 anni, se inabili anche parzialmente; persone di età inferiore ai 21 anni, per comprovate esigenze di studio, di salute, di lavoro o di famiglia.
La recente introduzione nell'O.P. dell'art. 47 quinquies operata dall'art. 3 della l. 8 marzo 2001 n. 40, concede la detenzione domiciliare alle detenute madri di prole in età inferiore agli anni dieci, che, avendone già scontata un terzo, debbano scontare una pena residua non superiore a quattro anni ovvero che, avendo già scontati quindici anni, debbano scontare l'ergastolo, nei casi in cui non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Allo stesso beneficio può accedere anche il genitore detenuto "se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre".
La Corte costituzionale con sentenza 24 novembre - 5 dicembre 2003, n.350 ha dichiarato l'illegittimità del comma 1, lettera a, della norma annotata nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare anche nei confronti della madre condannata e nei casi previsti dal comma 1, lettera b, del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante.
Il condannato ammesso alla detenzione domiciliare non è sottoposto al regime penitenziario previsto dalla legge e dal relativo regolamento: pertanto la misura, benché inserita nel capo VI della legge penitenziaria tra le misure alternative alla detenzione, si caratterizza per l'assenza di qualunque finalità rieducativa, configurandosi come una modalità di esecuzione della pena detentiva completamente autonoma rispetto alla pena detentiva sia relativamente al regime applicabile sia all'onere finanziario dovuto per la sua esecuzione.
Il beneficio possiede rilevante carica afflittiva, privando quasi completamente il soggetto della libertà ed assumendo una funzione prettamente custodialistica, priva di elementi che assumono valenza promozionale dei comportamenti del condannato verso il reinserimento sociale.
Il condannato che, in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi indicati nel 1° comma dell'art. 47 ter, se ne allontana è punito ai sensi dell'art. 385 c.p. (evasione).
La denuncia per evasione comporta la sospensione della misura in atto, revocata in caso di condanna.
La detenzione domiciliare ha acquisito ruolo e dimensioni più significative che in precedenza, divenendo oggi la misura penitenziaria utilizzata in via principale per la realizzazione di una politica deflativa del sovraffollamento carcerario nell'ambito di pene, o residui di essa, medio-brevi[12].
4 Il regime di semilibertà
Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.
La parte residua del giorno, viceversa, viene trascorsa dal condannato in un istituto anche se, per evitare o comunque ridurre al minimo la promiscuità con i detenuti non ammessi a tale beneficio, fonte di comprensibili problemi, la legge prevede che i semiliberi siano assegnati in appositi istituti o in apposite sezioni autonome di istituti ordinari (art. 48 co. 2).
Il regolamento esecutivo della legge prevede poi che sezioni autonome di istituti per la semilibertà possano essere ubicate in edifici o parti di edifici di civile abitazione (art. 101 co. 8 reg. esec. O.P.).
Le modalità con le quali la semilibertà si svolge (luoghi di lavoro, possibilità di movimento, orari di entrata ed uscita dall'istituto, .) vengono stabiliti nel programma di trattamento.
Va sottolineato come la semilibertà, più che una misura alternativa alla detenzione sia rintracciabile come una modalità di esecuzione della pena detentiva; è importante evidenziare come il semilibero conservi a tutti gli effetti lo status di detenuto ed il periodo trascorso in regime di semilibertà valga a tutti gli effetti giuridici come effettiva pena detentiva scontata.
Per l'ammissione al beneficio è necessario che sia accertata quale fra le attività indicate nell'art. 48, 1° comma, il semilibero possa in concreto svolgere al fine della realizzazione del suo reinserimento sociale, e ciò per evitare che i periodi trascorsi all'esterno siano dedicati ad attività prive di ogni significato. [13]
Va sottolineato il superamento dell'ideologia tradizionale, mitizzatrice del lavoro come strumento di rieducazione: infatti, accanto a questo, è previsto che il semilibero si dedichi ad occupazioni diverse, ritenute comunque funzionali alla risocializzazione.
La L. n. 354/1975 distingueva tra ammissione obbligatoria ed ammissione facoltativa al regime della semilibertà: la prima ipotesi è stata abrogata dalla L. 24 novembre 1981, n. 689; la seconda è prevista per i condannati alla pena dell'arresto o alla pena della reclusione non superiore ai sei mesi, semprechè il condannato non sia affidato in prova al servizio sociale (art. 50, 1° comma, O.P.).
La semilibertà può essere disposta anche nei confronti dei condannati a pene superiori ai tre anni con la finalità di attenuare lo shock da libertà, ponendosi come momento cruciale di quel trattamento progressivo che, partendo da una fase condotta in istituto passa per la semilibertà per concludersi poi con il trattamento in ambiente libero.
In questi casi il condannato può essere ammesso al regime di semilibertà solo dopo l'espiazione di almeno metà della pena o almeno due terzi di essa se la condanna è stata inflitta per uno dei reati di cui all'art. 4 bis.
Anche in questo caso, come nelle misure predette, la concessione della semilibertà è condizionata ai progressi compiuti nel corso del trattamento: la risposta positiva del soggetto e la disponibilità ad una ripresa personale nella prospettiva del reinserimento appaiono di indubbia importanza pratica ai fini della concessione del beneficio.
I progressi compiuti nel corso del trattamento e le condizioni per un graduale reinserimento nella società sono i presupposti sulla base dei quali può essere disposta la semilibertà nei confronti dei condannati a pene comprese fra i sei mesi ed i tre anni; quest'ultimi non dovranno attendere il termine perentorio di metà pena ma solo lo spirare del termine del periodo minimo di osservazione necessario, a meno che la condanna non sia relativa ai reati in presenza dei quali è necessaria l'espiazione di due terzi di pena per la concessione del beneficio (art. 50 co. 2 in relazione all'art. 4 bis co. 1).
La responsabilità sui semiliberi, sull'andamento della misura in corso e l'osservazione delle prescrizioni sono affidati al direttore dell'istituto, il quale per opportune e doverose informazioni, si avvale dei centri di servizio sociale territoriali.
Qualora il soggetto si manifesti inidoneo al trattamento, il provvedimento può essere revocato in ogni momento. Occorre, a questo proposito, rilevare l'indeterminatezza delle ipotesi rientranti nell'espressione "inidoneità al trattamento". La legge, infatti, ne specifica solo alcune: l'assenza del condannato dall'istituto, senza giustificato motivo, per non più di 12 ore, dà facoltà al direttore di proporre la revoca (art. 51, 2° comma, O.P.); l'assenza protratta per un tempo maggiore configura il delitto di evasione e dà luogo alla sospensione del beneficio e quindi alla revoca in caso di condanna (art. 51, 3° e 4° comma, O.P.). La revoca del beneficio, inoltre, interviene in tutti quei casi in cui il soggetto semilibero "non si appalesi idoneo al trattamento" (art. 51 co.1).
La Legge Gozzini ha modificato anche la normativa in materia di semilibertà. L'innovazione più vistosa è rappresentata dalla previsione dell'applicabilità della misura anche ai condannati all'ergastolo, dopo l'espiazione di almeno 20 anni di pena. La condanna a vita, come è noto, era stata già da tempo eliminata dall'ordinamento in quanto la L. 25 novembre 1634 aveva ammesso per l'ergastolano la liberazione condizionale dopo almeno ventisei anni di pena effettivamente scontata.
Un ulteriore abbassamento della soglia di pena si deve, poi, all'applicazione al condannato a vita delle riduzioni di pena ai fini della liberazione anticipata. Ne consegue che il condannato all'ergastolo può essere concessa la semilibertà dopo l'espiazione di 16 anni e 20 giorni di reclusione, nell'ipotesi in cui abbia costantemente fruito delle riduzioni semestrali di pena.
La L. Gozzini ha, inoltre, esteso la concessione di suddetto beneficio a qualsiasi tipo di reato, compresi i reati ostativi alla concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale (rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione di stampo mafioso).
Va, infine, ricordata la sentenza della Corte costituzionale, 2 gennaio 1990, n. 2, che ha riconosciuto ai detenuti ammessi al regime di semilibertà (ed al lavoro all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.) la possibilità di lavorare in opere e servizi di salvaguardia ambientale, anche al di fuori di un vero e proprio rapporto di lavoro e soltanto ai fini della formazione professionale.
La caratteristica di fondo del formarsi dell'area penitenziaria esterna rispetto al carcere è il passaggio dell'intervento penale da un luogo chiuso e definito, da una sede con confini ben marcati come il carcere, ad una sede priva di confini, o almeno non completamente definiti.
Questo tipo di intervento nasce dalla convinzione che sia questa la strada per dare effettivo contenuto riabilitativo all'attività svolta.
L'area penale esterna consente al soggetto detenuto di attualizzare il percorso rieducativo e risocializzativo intramurario, proiettando nel tessuto sociale non solo competenze acquisite e formazione specifica, ma anche speranze e voglia di riscatto percorribili, anche se non espressamente regolate dall'Ordinamento Penitenziario, attraverso il lavoro di pubblica utilità e l'attività risarcitoria.
L'elaborazione unilaterale del proprio vissuto, dell'illecito commesso, delle modalità operative poste in essere per riparare alle conseguenze cagionate con il delitto, predispongono le fondamenta per ipotizzare l'attivazione dell'attività di mediazione che si muove per portare il condannato verso una consapevolezza ed una responsabilizzazione più reale e concreta.
3 Il procedimento di sorveglianza
La fase esecutiva della pena, commisurata e regolata dalla Magistratura di Sorveglianza, rappresenta, per la giustizia riparativa, il territorio di frontiera in cui si esplicano esigenze legate alla reintegrazione sociale dell'autore di reato.
In questa fase la vittima assume un ruolo marginale, in quanto l'intervento mediatorio si esplica solo dopo un intervallo di tempo sufficientemente lungo dalla commissione dell'illecito.
Nonostante ciò, la giustizia riparativa ricopre una veste utilitaria concreta anche nel procedimento di sorveglianza relativamente l'allargamento della base valutativa del giudice, in vista della concessione di benefici penitenziari (misure alternative alla detenzione, liberazione condizionale,..) e per garantire la sicurezza collettiva.
Rispetto al procedimento di sorveglianza, il principale canale normativo atto a veicolare l'ingresso di misure riparative è contenuto nell'istituto dell'affidamento in prova ai servizi sociali, di cui all'art. 47 O.P. il quale, al comma 7, sancisce che "l'affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima di reato
L'attività risarcitoria ed il lavoro a titolo gratuito sono visti in funzione della risocializzazione del soggetto e le esigenze della vittima di reato assumono un ruolo di maggior rilievo, fino a condizionare la concessione delle misure.
Attraverso il 7° comma dell'art 47 O.P., dunque, si intrecciano vicendevolmente esigenze prettamente risocializzanti ed esigenze riparative, convergenti ai medesimi obiettivi.
Un'ulteriore ipotesi riparativa si intravede nell'art. 176 c.p. [14] che disciplina la concessione della liberazione condizionale, l'istituto che consente di ridefinire i termini della durata della pena sulla base di una valutazione che coinvolge non solo la condotta del reo durante l'esecuzione della pena detentiva, ma anche l'accertamento circa il sicuro ravvedimento e la revisione critica del proprio vissuto, verificabile attraverso i rapporti che il detenuto intrattiene con i familiari, con il personale carcerario e con i compagni, attraverso la partecipazione alle attività culturali, ricreative, di studio e di lavoro intraprese e attraverso la reale volontà di riparare le conseguenze cagionate da una condotta irregolare.
Questi parametri valutativi attribuiscono all'attività riparativa rilevanti contributi alla fase di mediazione.
Gli organi giurisdizionali forniti di poteri decisori e di controllo sulla fase dell'esecuzione penale, sono il Magistrato di Sorveglianza ed il Tribunale di Sorveglianza: il primo è una diretta derivazione del "giudice di sorveglianza" istituito per la prima volta nei codici penali del '30, all'altro sono attribuite alcune competenze che incidono in modo rilevante sullo stato di detenzione.
Il Coordinamento Assistenti Sociali della Giustizia da anni si sta interrogando sull'adeguatezza dell'attuale sistema penale e sulla sua coerenza con l'ordinamento penitenziario, relativamente l'esecuzione delle pene soprattutto esterne al carcere.
L'O.P., infatti, nato per adeguare le regole dell'esecuzione della pena rieducativa (art. 27 Cost.) e ribaltare l'indirizzo di politica legislativa espresso dal Codice Rocco del 1930, non essendo poi mai stata accompagnata dalla correlata modifica del codice penale, ha dovuto fare riferimento ad un sistema sanzionatorio che considera la detenzione come unica pena principale, a prescindere dal reale disvalore sociale dell'illecito, caricando le misure alternative alla detenzione della funzione impropria di riparare, in sede esecutiva, ad un eccessivo rigore punitivo.
A tutt'oggi, purtroppo, la contraddizione tra sistema penale ed ordinamento penitenziario non ha trovato, a livello politico e legislativo, una soluzione definitiva, né si prevede possa trovarla nell'immediato futuro, nonostante se ne parli da qualche tempo e siano state istituite varie commissioni, l'ultima la cosiddetta "Commissione Grosso".
Alcuni recenti provvedimenti legislativi che hanno introdotto alcune modifiche, ad esempio quello relativo alla depenalizzazione dei reati minori e all'ampliamento delle competenze del giudice di pace, rappresentano, però, timidi passi in avanti verso un sistema penale che tende a prevedere la rottura dell'esclusivo binomio pena/carcere, a ripensare il sistema sanzionatorio prevedendo nuove ratifiche quali:
la permanenza domiciliare
il lavoro di pubblica utilità
la conciliazione tra le parti attraverso l'attività di mediazione
la non procedibilità per fatti tenui ed occasionali
l'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie
In questo frangente entrano in gioco i servizi sociali ed in particolare il Centro di Servizio Sociale per Adulti (C.S.S.A.) che da anni ha maturato una competenza nell'esecuzione delle misure alternative, relativamente al controllo sull'osservanza degli obblighi connessi al lavoro di pubblica utilità.
Il Servizio Sociale, inteso come bagaglio professionale e tecnico, può dare un contributo informativo significativo all'azione del Magistrato grazie alle indagini socio-familiari ed alla collaborazione con altri professionisti.
La realizzazione delle opportune sinergie tra questi livelli consente di operare in un'ottica di integrazione e valorizzazione delle risorse disponibili nel territorio.
L'introduzione nel circuito penitenziario di operatività sociali opera sia nei confronti delle persone in espiazione di pena offrendo sostegno ed interventi volti alla promozione individuale, sia come contenitore dell'allarme sociale.
Preme tuttavia sottolineare che, in linea con le indicazioni dei documenti internazionali e con quelle della nostra Corte costituzionale, l'esecuzione penale deve avere finalità di riabilitazione e inserimento sociale della persona.
Nel nostro Paese si è lavorato sulla pena detentiva ma pochissimo sui trattamenti penali ed amministrativi che la accompagnano. L'esecuzione delle pene pecuniarie nei confronti di coloro che non sono in grado di pagare, le pene accessorie, le misura di sicurezza, le misure di prevenzione, i cosiddetti effetti penali della condanna, conservano finalità di esclusione o rappresentano, quanto meno, ostacoli alla inclusione e al reinserimento sociale delle persone.
Nel corso del Convegno "Diritti, accoglienza, perdono: quale posto in questa società" [16] è stata messa in luce la duplice problematica che interessa la situazione italiana: il sovraffollamento negli istituti carcerari, da un lato, ed il crescente tasso di recidiva, dall'altro.
A fronte di ciò, si richiede un sistema efficace ed efficiente in grado di ridurre il soprannumero della popolazione detenuta e il rischio di reiterazione dei reati. La giustizia riparativa si propone nel panorama sanzionatorio quale sistema alternativo in grado di personalizzare la pena e ridurre le problematiche che gravano sull'ordinamento previgente.
Il C.S.S.A. riveste un ruolo importante, quale catalizzatore e sensibilizzatore per la promozione di atteggiamenti mutuamente vantaggiosi tra i soggetti separati dal conflitto, permettendo la rielaborazione del dettato costituzionale ed il reinserimento sociale, in un'ottica di raccordo, conciliazione, confronto e costruzione concreti e produttivi.
I sistemi sanzionatori differenziati, come risposta alternativa al crimine, si fondano oltre che sulla pena detentiva, anche su pene alternative o sostitutive ad essa.
La genesi di tali sistemi trova giustificazione nella concomitante crisi della pena detentiva tradizionale, da un lato, e delle misure clemenziali, dall'altro.
La crisi della pena detentiva o della fiducia della sua funzione cautelare si sostanzia nelle alternative tangibili che lo Stato pone in essere, nella stigmatizzazione che la condizione restrittiva può comportare per taluni soggetti e nell'erosione della sua funzione di prevenzione generale e speciale.
Questi fenomeni, che hanno portato alla crisi della funzione intimidatrice conferita alla sanzione penale con il conseguente aumento della popolazione carceraria, rendono gravosi l'ordine, l'umanizzazione ed il trattamento, postulati fondamentali per garantire la sicurezza dei cittadini, da un lato, e un percorso risocializzante del reo, dall'altro.
La crisi che ha investito il sistema detentivo viene letta come una tappa nel percorso evolutivo della sanzione penale nel tentativo di raffinarsi nella lotta contro le condotte antisociali.
La detenzione, considerata oggi l'espressione più rigida della sanzione penale a fronte del sistema dei diritti propri dell'uomo, in primis, della libertà, alla fine del XVIII si configurò come un progresso sulla via dell'umanizzazione della pena, in sostituzione a risposte meramente afflittive e disumane quali la pena capitale, le pene corporali, i lavori forzati,.
Nonostante le controverse ragioni che stanno alla base della sua origine, l'avvento della segregazione cellulare, segnò un indiscutibile affievolimento del collettivo istinto di vendetta, fortemente limitato dalla consapevolezza che la carcerazione riusciva a cumulare effetti punitivi e neutralizzativi rispetto al reo, deterrenti rispetto a potenziali devianti, di sicurezza comunitaria e di redenzione dei trasgressori.
La crisi delle misure clemenziali costituisce il rovescio della medaglia incarnata dal rigido sistema della pena detentiva.
L'oggettiva mancata punibilità che le caratterizza, ha indebolito fortemente la prevenzione generale senza potenziare quella speciale, incentivando, a volte, i fattori criminogeni che stanno alla base degli illeciti perseguibili penalmente.
I provvedimenti di clemenza (amnistia, indulto e grazia), le misure sospensive condizionali (liberazione condizionale e sospensione condizionale della pena) e le forme prescrizionali si fondano sulla presunzione di un interesse a non punire che si scontra con la realtà; la fuga dall'effettiva applicazione sanzionatoria sobilla la popolazione che si sente inerme ed esposta, senza alcuna protezione, alla criminalità.
Una risposta a questa duplice crisi si avverte nell'affermazione del dualismo del diritto punitivo-diritto premiale che ricopre sia la fase legislativa che giudiziaria ed esecutiva.
Tale dicotomia si attua in una duplice direttiva:
- attraverso il recupero della concreta punibilità della sanzione penale perseguibile attraverso la riduzione dell'area dell'illecito penale (mediante la decriminalizzazione e la depenalizzazione o la privazione della sanzione punitiva al fine di concentrare gli strumenti repressivi e specialpreventivi nella difesa contro le forme più consistenti di antisocialità) e la riduzione dell'area della pena detentiva e della carcerazione (circoscrivendo tale pena alla criminalità grave e media e dei recidivi e affiancando alla pena detentiva il sistema delle pene alternative che conservano il carattere di punibilità proprio della pena).
- attraverso il potenziamento del sistema premiale-promozionale; solo a chi dà progressive e concrete prove di adeguamento alla convivenza sociale, lo Stato può pensare ad una progressiva attenuazione della sanzione punitiva.
Il primo presupposto dovrebbe essere il ripristino del rapporto comunitario attraverso la riconciliazione con la società, in generale, e con la vittima, qualora effettivamente tangibile, in particolare. Tale pacificazione è perseguibile attraverso la riparazione ed il risarcimento del danno prodotto dal reato, laddove siano oggettivamente possibili, e l'adoperarsi comunque a favore dell'offeso, indipendentemente dalla sua oggettivazione.
Le misure alternative cumulano, almeno idealmente, la riduzione dell'applicazione delle misure detentiva e clemenziale ed il rafforzamento della funzione general-preventiva del sistema penale.
I sistemi differenziati, sulla sussistenza dei presupposti di legge, concorrono ad alimentare un modello meno repressivo ma comunque punitivo.
L'alternativa al carcere custodiale, qualora il reato possa essere controbilanciato dal punto di vista penale mediante un'azione riparativa, consente di attenuare, se non di annullare, gli effetti deleteri che la detenzione inevitabilmente crea nel soggetto recluso.
E' più proficuo, infatti, investire in azioni che impegnino il condannato in favore della collettività che non optare per un regime che fomenta le disuguaglianze sociali. La distinzione tra "pena utile" e "pena giusta" [18] si configura come resistenza ad accettare fino in fondo i costi inevitabili di un diritto penale che si fa strumento di controllo e di disciplina sociali.
Non si censurano fatti, ma si rimproverano gli autori; non si puniscono le condotte antisociali ma si fanno soffrire i colpevoli.
L'idea di giustizia non riesce ad opporsi, o per lo meno discostarsi, dal perseguimento dell'utile, esprimendo la memoria storica di una resistenza da parte di chi, contingentemente, teme, non condivide o si oppone ad una determinata rappresentazione dell'utilità sociale.
L'invenzione penitenziaria, infatti, si sostanzia nella sua presunta capacità di dare piena soddisfazione alle necessità di un sistema moderno di giustizia penale, cioè ad una giustizia uguale, mite, utile, che nonostante l'irrogazione di una violenza segnata da elementi irriducibili di crudeltà e nocività sociale, esaspera la constatazione di non possedere alcuna valida strategia per un effettivo contenimento della criminalità: la popolazione detenuta, infatti, aumenta, ed i reati non diminuiscono.
Nella storia del sistema penitenziario ci sono stati dei periodi in cui il settore più in crisi era quello del trattamento, della riabilitazione, sempre enfatizzato sul piano dei diritti, sempre incerto e discusso sul piano dei risultati.[19]
In realtà, il potere e gli effetti problematici della funzione custodialistica e detentiva del carcere, perno centrale del sistema penitenziario, sono sempre stati fortemente criticati.
L'attuale crisi che investe da un lato il trattamento e dall'altro la sicurezza, fornisce forse i presupposti per interrogarsi più a fondo sul loro rapporto, un rapporto che interessa anche gli attori deputati al loro perseguimento ed attuazione, un rapporto la cui qualità è direttamente proporzionale alle loro interazioni.[20]
E' ormai comprovato che il sistema penitenziario, in termini di efficacia, non può essere concepito e valutato come una struttura separata dalla società, ma va colta la sua interconnessione con le attività deputate a produrre sicurezza e trattamenti extramurari.
Numerose ricerche sulla deterrenza delle pene e sugli interventi della giustizia penale, hanno ricondotto le loro conclusioni ai seguenti punti:
- il fenomeno della criminalità sembrerebbe influenzato maggiormente dall'andamento dei problemi sociali più che da quelli penitenziari; in sostanza, il sistema della giustizia penale ha un impatto debole sulle condotte devianti
- ciò che influenza la gravità e la persistenza dei e nei reati non è la severità della pena irrogabile quanto la probabilità percepita di essere puniti per la commissione di un illecito penale
- tale probabilità dipende dal sistema di informazioni/comunicazioni entro cui le persone sono inserite
- la migliore deterrenza per le azioni antisociali risiede nello sviluppo di alternative prosociali attrattive e motivanti per i soggetti coinvolti. [21]
Il Sistema Penitenziario, concepito isolatamente, non può produrre effetti rilevanti sul crimine, sul recidivismo, sull'esplosione di reati gravi.
La sicurezza sociale è l'obiettivo primario e si pone come risultato prioritario.
Per produrre deterrenza, sicurezza e riabilitazione è necessario mettere al centro degli interventi la persona reale, con le sue motivazioni per potersi, così, rapportare alle strategie future.
La paura della punizione può essere utile ma non è mai sufficiente a motivare un cambiamento durevole, il quale necessita della costruzione e dell'esperienza di alternative prosociali attrattive, coinvolgenti ed allo stesso tempo condivise.
Solo questo può consentire l'apertura ad un intervento della giustizia penale in grado di garantire la sicurezza nella vita quotidiana e il recupero di chi, una volta saldato il debito con la giustizia, merita per diritto di rientrare a far parte della collettività.
Questa matrice si propone obiettivi centrati sugli interessi generali dei singoli, ma enfatizza la centralità della persona concreta, reale, del cittadino, del reo e del detenuto.
Vi è oggi una divisione funzionale troppo rigida tra sicurezza e trattamento, sia all'interno del carcere che fuori; non si è mai realmente posto il problema di creare una rete di qualità tra questi servizi.
La penalità della post modernità, nonostante l'enfasi posta sui valori della razionalità burocratica, dell'efficienza e del calcolo, finisce per affidarsi ad un sistema espressivo di castigo smodato.
Nella democrazia d'opinione, ad essere esaltata è la percezione emozionale del soggetto, ridotto alle sue emozioni più elementari. La paura ed il rancore articolano un sistema di giustizia penale in grado di esprimere un nuovo discorso politico, costretto a dare una qualche risposta al processo di emergenza di una domanda di penalità da parte del collettivo.
La diffusione della criminalità che espone parte dei cittadini all'esperienza vittimologica, richiede politiche di legge, ordine e sicurezza, che si arenano nella scorciatoia repressiva.
Tale soluzione si rivela però illusoria: per quanto si tenti di elevare i tassi di carcerizzazione e penalità, essi si mostrano sempre inadeguati, correndo anzi il rischio che la penalità sfugga progressivamente ad ogni finalismo utilitarista e ad ogni raziocinio, per sfociare unicamente in una dimensione espressiva.
Di fronte all'amara constatazione che più penalità (che non è comunque sinonimo di più carcere) non è sinonimo di sicurezza, si tenta di perseguire altre vie.
Anche il trattamento di per sé non elimina il rischio di ricaduta nel delitto, ma richiede tempo per poter lavorare su se stesso.
L'obiettivo generale e prioritario si inquadra su due sistemi di utenza: reo e vittima, lavorando contemporaneamente sui bisogni e le domande del trasgressore che ha diritto al trattamento, e su quelli della vittima, simbolica o potenziale, che ha diritto alla sicurezza.
Le maggiori potenzialità sembrano essere rivestite dai modelli riparativi e di mediazione che permettono di gestire i fenomeni di microcriminalità in chiave utilitaristica.
Intervento di G.M.PAVARIN, Magistrato di Sorveglianza di Padova, al Convegno "Carcere e territorio. Percorsi di recupero e di reinserimento sociale", Galliera V.ta (PD), 28 novembre 200
BRUTI LIBERATI, E., Diritto penitenziario e misure alternative. Incontro di studio e documentazione per i magistrati, a cura del Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 1979, pag. 145.
FASSONE, L'affidamento in prova: problemi e proposte, in Riv. It. Dir. E proc. Pen., 1977, pag. 1472 ss.; FILASTRO, Osservazioni sulla riforma dell'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Giust. Pen., 1976, I, pag. 148 ss.; BARCELLONA, Le pene detentive di breve durata e le misure alternative alla detenzione, in Rass. St. penit., 1976, pag. 797 ss.
Il Servizio Sociale riveste un ruolo fondamentale di monitoraggio nell'effettiva espletazione delle misure alternative. I centri di servizio sociale previsti dall'art. 72 O.P. rivestono un ruolo centrale all'interno della misura alternativa dell'affidamento in prova: da un lato a tale servizio compete l'attività di sostegno con la quale il soggetto viene aiutato a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale; dall'altro ad esso spetta di esercitare il controllo sul comportamento del soggetto medesimo ed incombe il conseguente obbligo di riferire eventuali violazioni alle prescrizioni impartite.
Le prescrizioni dettate dal Magistrato di Sorveglianza sono relative ai rapporti che il soggetto deve intrattenere con il Servizio sociale, agli obblighi/divieti di dimora in determinati luoghi, ad eventuali restrizioni della libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa.
MANTOVANI, Pene e misure alternative nell'attuale momento storico (Atti del Convegno di studio Enrico de Nicola, Lecce, 1976), pag. 29.
BRICOLA, Pene e misure alternative nell'attuale momento storico (Atti del convegno di studio Enrico de Nicola, Lecce, 1976) pag. 398.
Art. 176, comma 1, c.p.: "Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni".
MUSCHITIELLO A., Atti del Seminario "Giustizia riparativa e riforma del Giudice di Pace", del 28 marzo 2001, pag. 24-26
XXVI Seminario di Studi organizzato dal SEAC- Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario, Camposampiero (PD), 25-26-27 giugno 2004.
Alle origini del diritto penale moderno, la pena utile indicava quella in astratto e quindi coincideva con lo scopo del diritto penale che faticosamente si legittimava politicamente a fini utilitaristici di prevenzione; la pena giusta indicava, per scrupolo e preoccupazione di garanzia, la pena in concreto, ovvero il momento commisurativo, ove la persona non può essere mai oggetto di politica criminale.
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