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La palestra del crimine




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La palestra del crimine


Nell'ideologia risocializzativa, il carcere dovrebbe essere lo strumento che dovrebbe servire a recuperare le persone che hanno compiuto un reato; in realtà il più delle volte restituisce alla società persone peggiori di quelle che ha rinchiuso, e lascia sugli individui un marchio che gli vieta ogni accesso legale al proprio sostentamento.

"È come se allevassero criminali in serra . riempiono (le prigioni) di coglioni che scontano pene per storie di droga da quattro soldi. Li trasformano in pazzi criminali, e poi li rimettono fuori tra la gente normale"[1].

Il carcere è una scuola di criminalità, in quanto chi vi entra per una qualsiasi ragione quasi sempre ne uscirà più violento e rabbioso, e senz'altro più esperto nel continuare a delinquere: "il carcere dunque riproduce se stesso all'infinito, come una autentica fabbrica di soggetti incompatibili alla società e alle sue regole"[2].

Il tutto è accentuato dal fatto che, come si vedrà meglio nel prossimo sottoparagrafo, la sua uscita di prigione comporta tutta una serie di effetti collaterali, quali la difficoltà nel trovare un lavoro, la perdita di quei pochi beni che possedeva prima della carcerazione, la stigmatizzazione e la conseguente emarginazione.

Le persone più a rischio sono ovviamente quei soggetti che provengono da situazioni disagiate, ma anche e soprattutto quei soggetti dalla personalità connotata dalla devianza o debole, ad esempio i giovani detenuti: questi ultimi rischiano di uscire dal carcere con un modello idealizzato del vero criminale e del suo operato, e con il desiderio di emularlo, per trovare una propria dimensione personale altrimenti assente. "Così il ladro di biciclette si trasformerà in spacciatore o rapinatore o quant'altro appreso da colui che ha eletto a leader nel corso della sua carcerazione"[3].

Per quanto riguarda i giovani adulti[4], essi provengono spesso da esperienze nelle carceri minorili, dunque sono stati già esposti a questo tipo di assimilazione criminale, nell'età per loro più delicata, perché più influenzabili e alla ricerca di modelli di riferimento. Qui i ragazzi imparano il tanti, maledetti e subito, trovano i duri, gli insegnanti qualificati, quelli che se vogliono qualcosa se la prendono, e sanno come fare.

Sembra che già nei minorili sia attiva questa palestra; nelle parole di un detenuto[5]: "Credimi, cumpa', non è nel carcere che impari l'arte criminale: qui c'è tutta gente che la sua bella esperienza l'ha già fatta, tutt'al più si prendono contatti per un futuro di collaborazione, ma la vera scuola del crimine la si fa nei minorili. Lì incontri questi ragazzi già pieni di esperienza, i quali, raccontandoti le loro storie, ti convincono che il crimine paga. Poi ti insegnano un mucchio di cose utili per la professione", ad esempio: "le porte non si aprono a spallate, ma con certe chiavi, o il grimaldello; ti insegnano ad aprire un lucchetto con una siringa e a rompere i vetri di una macchina, senza fare rumore, con le candelette. Ti insegnano ad usare il crick dell'auto per allargare le sbarre alle finestre e come procurarti una pistola, ma, soprattutto, ti insegnano l'omertà e il codice della malavita".

Totale fallimento come deterrente, il minorile "vista anche la brevità di questo, lo si considerava come una momentanea (seccatura), più che una punizione per quanto avevamo fatto; d'altronde era come ritornare in collegio, un'esperienza già conosciuta . Vedevi solo i vantaggi, che la scelta di malavita produceva: i soldi, tanti soldi. E i duri soldi ne avevano", fondamentali soprattutto "al momento del processo, più avanti: ci sarebbe stato da pagare anche l'avvocato, con i soldi avresti potuto permetterti un buon avvocato e non il solito galoppino e una buona difesa avrebbe reso minimo il rischio di tornare dentro. Cumpa', nella mentalità comune sono solo i soldi che distinguono il furbo dallo scemo, indipendentemente dal fatto che l'uno e l'altro si trovino assieme al Beccaria; noi, volevamo appartenere alla prima categoria".

Meglio è dunque evitare l'esperimento del sistema penale ai minori, "che potrebbero benissimo stare fuori, magari con appeso al collo un cartello con su scritto Sono un ladro, sono un cretino. Molto meglio che venire in galera dove magari incontri tipi come Vallanzasca". La dichiarazione è proprio la sua[6].


Altro rischio, frequente soprattutto nelle carceri del sud Italia, è il controllo della comunicazione e delle attività illecite commesse o tentate dai detenuti, compresi la formazione o il consolidamento di clan organizzati criminali, o l'imitazione di cultura, gerarchie e metodi delle organizzazioni. Infatti, spesso, soggetti appartenenti alla malavita organizzata si trovano tra i delinquenti comuni, perché condannati per un reato diverso da quello di associazione mafiosa, e giudicabili costretti a convivere con i condannati. Così la suddivisione dei detenuti può mancare: di conseguenza l'attività trattamentale può scontrarsi con l'influenza delle subculture mafiose.

Queste due problematiche, poi, si possono unire dando vita al fenomeno dell'affiliazione mafiosa da parte dei minori e dei giovani adulti. Per alcuni[7] bisognerebbe evitare il carcere anche a questi ultimi, utilizzando misure di esecuzione penale esterna, come la detenzione domiciliare, in quanto altrimenti "significa mandare i ragazzi a scuola di mafia. Io leverei dal carcere anche tutti gli under ventinove. Vogliono far scontare a dei diciannovenni la pena nelle carceri per adulti? Ma che bel regalo farebbero alla criminalità organizzata! Un vivaio di persone suggestionabili e bisognose di attenzione. Ne ho visti troppi rovinati dal carcere: esiste una vera e propria procedura di affiliazione per i giovani detenuti da parte dei gruppi delinquenziali adulti": essi, una volta entrati in carcere magari per il primo furto, vengono osservati per mesi da gruppi mafiosi preposti a questa funzione, dopodiché vengono selezionati in base alla loro personalità e alle loro caratteristiche e avvicinati.

"La mancanza di riferimenti", prosegue Nasone, "il bisogno di sentirsi protetti da parte dei giovani, ma anche la capacità di relazione umana di queste persone fanno il resto, anche perché esiste una forte componente umanitaria in questi approcci. In teoria per i più giovani la legge prevede dei circuiti penitenziari a parte, ma con l'affollamento delle carceri questo non sempre è possibile. Anche il servizio Nuovi Giunti, che dovrebbe fare accoglienza psicologica e per l'ambientamento nell'istituto penitenziario, non sempre è efficace, soprattutto dal punto di vista relazionale".

Così, alla fine "viene messa in atto una rete di protezione e ascolto da parte dei carcerati stessi, alcuni sinceri, altri con secondi fini. Quando si è presi sotto l'ala della 'ndrangheta, però, i passi successivi sono i giuramenti di lealtà ritualizzati, a partire da un minimo che consiste nel promettere, una volta fuori, di restituire l'aiuto ricevuto in carcere".

La criminalità organizzata arruola sempre di più i minori di quattordici anni sfruttandone la non imputabilità, e in generale i minorenni, in quanto beneficiari di una maggiore clemenza in fase processuale: "Nel caso qualcosa andasse male e arrivassero gli sbirri", spiega un detenuto[8], "(il minore) attirava l'attenzione su di sé, dando così tempo al professionista di dileguarsi. Se preso poi, si accollava la colpa di tutto, e al massimo si faceva due mesi al Beccaria.

Un minorenne ci guadagnava in ogni caso: se andava bene, si prendeva parte del bottino, e se andava male, si faceva un paio di mesi al minorile, ma con la riconoscenza monetizzata della persona che aveva coperto. In più, non essendosela cantata con gli sbirri, aggiungeva prestigio al proprio nome nel giro e, in quanto affidabile, poteva aspirare a partecipare a colpi sempre più ricchi". Una spirale senza fine.






Animal factory, cit.

Polvere, giornale di strada, maggio 2000.

F. BERTI, op. cit., 2003.

Sono così chiamati i detenuti di età compresa tra i ventuno e i ventinove anni.

T. FABBIAN e M. SALVATI, "Storie di socialità", Ristretti Orizzonti, ottobre 2000.

S. ARDUINI, op. cit., 2004.

Mario Nasone, dell'amministrazione penitenziaria di Reggio Calabria, testimonianza raccolta da Vita, cit., 10 maggio 2002.

T. FABBIAN e M. SALVATI, op. cit.

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