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La mediazione ed il diritto
La personificazione della Giustizia nella tradizione iconografica, dalle monete romane[1] alle miniature, dai bassorilievi alle sculture, dagli affreschi alle incisioni, prende corpo in una raffigurazione declinata al femminile, talvolta bendata, recante nella mano sinistra una bilancia e nella mano destra una spada. Una perfetta allegoria che ha fronteggiato per secoli non solo l'evoluzione dell'idea di giustizia ma anche i conseguenti cambiamenti relativi i paradigmi processuali e le tecniche sanzionatorie.
Le costanti figurative si materializzano negli assunti propri del sistema giuridico. La benda sugli occhi simboleggia l'imparzialità dell'organo giurisdicente rispetto alle diversità caratterizzanti il sottoposto al giudizio, la bilancia è la metafora dell'idea di proporzione, principio ispiratore dello ius dicere e criterio applicativo della pena, la spada si esaurisce nel divieto di ricorrere alla violenza ed alla forza privata per imporre il diritto.[4]
La spada, secondo una diversa prospettiva, potrebbe rappresentare lo strumento in grado di recidere il conflitto tra le parti avverse; è questa l'ipotesi sulla quale si fonda l'idea di mediazione penale quale tentativo per superare il modello autoritario e violento di risoluzione del conflitto.[5]
E' necessario elevare la questione ad un piano tangibile quale il rapporto fra diritto e mediazione, terreno non privo di insidie.
Una prima problematica si solleva relativamente le interrelazioni fra mediazione e diritto: vicendevolmente intrecciati fra loro, perdono le connotazioni demarcanti la loro costituzione e i relativi campi d'azione. Alla fievole caratterizzazione, si associa la paradossale condizione della mediazione nel nostro Paese, concepita come lo strumento di risoluzione dei conflitti ma, al contempo, in posizione conflittuale con le strutture giuridiche a cui accede o si affianca.[6]
Ci si trova dunque a dover fronteggiare categorie di pensiero completamente nuove, che, in un futuro forse neanche troppo lontano, disegneranno nuovi modelli di giustizia: "i moduli di pensiero dominanti nell'età nostra, che alcuni di noi sono inclini a considerare chiari e coerenti, saldamente fondati e definiti, difficilmente agli occhi delle prossime generazioni potranno sembrare tali".[7]
Violenza e disordine sociale hanno da sempre caratterizzato la storia dell'uomo, ponendosi come paradigmi costanti ed universali.[8]
A seguito del profilarsi, nel corso della storia, del primato del dominio dell'uomo sull'uomo, i diritti della persona sono andati via, via, affievolendosi.
Del resto, la storia dell'umanità è interamente dominata dall'immane conflitto tra sopraffazione e spirito di libertà, dove, qualunque sia il diritto rivendicativo dell'oppresso, esso è sempre incentrato nel nucleo fondamentale dei diritti della persona.
"L'uomo è la misura di tutte le cose" diceva Protagora. Anche nel corso della violenza, risalta l'efficacia di questa affermazione che si estende dal singolo all'intera società.
In ambito conflittuale, quando le parti iniziano a darsi delle regole (e già questo è un assunto importante nell'attività di mediazione) si coglie una evoluta apertura intellettuale che trova compimento ed assoluta realizzazione nell'atto linguistico. Qualora, nella comunicazione, non si abbia l'esito positivo atteso, le parti rimettono la questione ad un terzo che "metaforicamente, impugni la spada della giustizia" [9] e soddisfi la fiducia riversa non solo dalle parti ma dall'intera comunità.
La riflessione sull'opportunità e l'utilità della giustizia riparativa si muove, in quasi la totalità degli ordinamenti occidentali, dall'ancorata insoddisfazione degli esiti della giustizia penale, sia relativa al controllo del crimine, sia relativa all'inadeguatezza della pena rispetto agli scopi che le sono propri.[10]
L'esponenziale incremento dei tassi di criminalità e di recidiva, cornice attendibile della funzionalità rieducativa della pena, nonché la marginalizzazione della vittima all'interno della fase processuale, attestano il progressivo indebolimento del sistema giuridico penale.
L'apertura al discorso sulla mediazione nasce dalla progressiva affermazione di una innovativa cultura dei rapporti sociali e dall'accoglimento dell'istanza che implica una maggiore attenzione nei confronti delle vittime del reato.[11]
Il paradigma riparativo tenta, sostanzialmente, di garantire una certa continuità tra reato e pena, legata alla gravità del fatto e ai bisogni di rieducazione del reo. L'inscindibilità della predetta diade concettuale, sembra, a tutt'oggi, minata da una crisi profonda subentrata a seguito delle innovazioni legislative che si sono fatte largo dapprima con la l. n. 354 del 1975 (che ha introdotto le c.d. misure alternative alla detenzione) a cui ha fatto seguito la l. n. 689 del 1981 (che ha previsto la sostituzione delle pene detentive brevi) e da ultimo la l. n. 165 del 1998 (che ha ampliato i presupposti per la concedibilità delle misure alternative ed ha introdotto l'istituto della sospensione obbligatoria dell'esecuzione di pene detentive inferiori ai tre anni).
L'alternativa che si propone è dunque quella delineata dalla giustizia riparativa che al binomio reato-pena, contrappone il binomio conflitto-riparazione; se da un lato il reato perde la sua connotazione pubblicistica di offesa ad un bene giuridico e ritorna al conflitto fra le parti, dall'altro, parallelamente, il carattere deterrente e punitivo della pena lascia il posto ad una prospettiva di riparazione del danno e di ripristino comunicativo tra vittima ed autore del reato.
Tra gli obiettivi fondamentali spicca il recupero fisico ed emozionale, quando possibili, della vittima.
La cultura occidentale della mediazione, sviluppatasi alla fine degli anni Sessanta, rappresenta il nodo di raccordo di due correnti di pensiero:
- il percorso di ricerca antropologico puro
- la corrente abolizionista
Un importante contributo, quale l'indagine vittimologica, ha consentito di analizzare il conflitto da un'angolatura diversa, permettendo di scavalcare la tradizionale prospettiva orientata esclusivamente al reo, per abbracciare i bisogni e garantire un sostegno, materiale ed emotivo, alla persona offesa dal reato e spesso vittimizzata in relazione alla sua esclusione dalla fase processuale.
Il progressivo raccordo fra le suddette aree di ricerca hanno delineato un modello di restorative justice che rappresenta una matrice condivisa da tutti coloro che attualmente si occupano di mediazione penale.
L'antropologia giuridica costituisce un apporto di indiscussa rilevanza nel progressivo accostamento verso modelli di giustizia che contrappongono al binomio reato-sanzione paradigmi alternativi alla risposta penalistica.
Le ricerche nel campo, incentrate sull'amministrazione della giustizia "del quotidiano" propria delle "società semplici", offrono le coordinate essenziali di un modello di soluzione del conflitto sia civile che penale. Un esempio è portato, a questo proposito, dallo studio di Gibbs[12] sulla forma di mediazione in uso nella comunità Kpelle della Liberia, da cui emerge il coinvolgimento attivo della comunità nella soluzione del conflitto.
Il percorso culturale che ha condotto all'emersione del paradigma riparativo si è avvalso, oltre che del contributo antropologico, anche di quello criminologico-giuridico dell'abolizionismo penale.
Sono le correnti di pensiero fondate sulla c.d. "criminologia critica" e sulla teoria dell'etichettamento, i riferimenti auspicanti una nuova presa di coscienza nei confronti del sistema punitivo che considera l'abolizionismo una "necessità logica, una strada realistica, una esigenza di equità".[13]
Tale paradigma rileva il disincanto che il sistema punitivo si prefigge, oscurando i fini preventivi propri della pena. E' indiscussa la garanzia di difesa sociale come sicurezza che la collettività richiede a giusto titolo, ma si dovrebbe allargare la prospettiva penale ad alternative pensate in chiave correzionista come il risarcimento, per ristabilire la convivenza comunitaria in concomitanza alla finalità risocializzante propria della pena.
L'abolizionismo lascia in eredità il concetto di riappropriazione del conflitto da parte della comunità, rendendola soggetto attivo nella gestione del conflitto.
La mediazione rappresenta, dunque, l'evoluzione "verso modelli decentrati di regolazione dei conflitti che si sviluppano nel quadro di entità sociali più o meno ampie, permettendo una maggior implicazione degli attori nella risoluzione dei propri contrasti".[14]
Il panorama delle tecniche e dei modelli si esplica da un lato attraverso la pena carceraria che si estende alle alternative sanzionatorie esclusivamente orientate al reo, dall'altro attraverso meccanismi di soluzione del conflitto su base risarcitoria e di mediazione che assicurano un orientano sulla vittima.
Il nome della Iustitia appare per la prima volta sulle monete di Livia, figlia di Augusto. Cfr. JACOB, Images de la Justice, Parigi, 1994, pag. 219 ss.
Sulla personificazione allegorica dell'idea di giustizia cfr. MANNOZZI G., La giustizia senza., pag. 3 ss.
MANNOZZI, Razionalità e "giustizia" nella commisurazione della pena. Il Just Desert Model e la riforma del Sentencing nordamericano, Padova, 1996, pag. 3 ss.
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