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Si imprigiona chi ruba, si imprigiona chi violenta, si imprigiona anche chi uccide. Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni? (Foucault, 1975).
Per meglio comprendere la figura professionale dell'agente di Polizia Penitenziaria è utile esaminare il suo contesto di lavoro: l'istituzione carceraria.
Negli anni, è cambiata e si è trasformata l'idea di un carcere che dovesse soltanto emarginare e custodire la parte nociva e marcia della società. La complessità sociale crea differenze di cultura, di risorse e di economia, in quegli individui che, aggregati in alcune zone del territorio, costituiscono dei soggetti sociali emarginati e discriminati.
È proprio quella parte di società che, privata degli strumenti di risalita sociale, il lavoro in particolare, si ritrova a cercare vie illegali per ritrovare 'dignità' sociale e più spesso per raggiungere l'agognata ricchezza, il valore più apprezzato in una società consumistica come la nostra.
Il meccanismo di repressione e controllo di quest'estrazione sociale si modifica in continuazione per consentire al sistema di potere di adeguare le strategie di controllo sulla realtà metropolitana in rapido movimento. Il carcere è il perno, nucleo forte, zoccolo duro, del sistema di repressione-controllo. Analizzare le modificazioni del carcere potrebbe aiutare a capire cosa succede nel sistema di controllo più in generale (www.pol.it). Bisogna cercare di individuare le nuove strategie del potere e le linee di tendenza che si profilano per attuare un sistema punitivo e detentivo che abbia come obiettivo primario la prevenzione "punitiva". Dall'altra parte si deve anche analizzare e studiare ciò che si mobilita, ancora in modo disordinato, caotico e sotterraneo, tra i soggetti sociali che subiscono maggiormente misure punitive e detentive e che elaborano continuamente tecniche e lotte per sottrarvisi o anche soltanto per indebolire i meccanismi di controllo; in pratica attuare una prevenzione "primaria" che riduca le condizioni criminogene dell'ambiente fisico e sociale (Bandini et al., 1991).
Il carcere, nel secolo scorso in Italia, è stato sostanzialmente un sistema basato sulla logica 'custodialista' (in carcere ci si entrava per restarci). Il meccanismo carcerario era attrezzato per imporre sofferenze e discriminazioni d'ogni sorta per i poveri, i disgraziati e i ribelli. In sostanza il sistema carcere era oliato per annientare la personalità di chi veniva recluso/a. È sufficiente considerare il fatto che l'ordinamento penitenziario fino al 1975, dopo più di 40 anni dalla fine del fascismo, era rimasto quello redatto nel 1931 in piena epoca fascista; ci sono volute centinaia di lotte e rivolte con un costo altissimo pagato dai detenuti per ottenere, almeno nominalmente, l'abrogazione del regolamento fascista e l'introduzione, sulla carta, di una serie di innovazioni già in voga da decenni nelle carceri di altri paesi d'Europa. L'unico surrogato della riforma che si è cercato di introdurre nelle carceri italiane è stata l'individualizzazione nella valutazione del soggetto detenuto, anche se questa valutazione non consentiva ancora l'accesso alle misure alternative e la riconquista della libertà prima del "fine pena".
Solo con la riforma dettata dalla Legge del 26 luglio 1975 n° 354 si è attuata realmente una revisione del trattamento penitenziario con l'effettiva individualizzazione (art. 13) e rieducazione (art. 15) dei detenuti e internati, applicando una teoria utilitaristica e risocializzante, che assegna alla punizione un valore di 'utilità' sia per la società sia per il deviante: si pone l'obiettivo di ridurre il danno prodotto dal reato attraverso il reinserimento del reo in un ambito sociale, lavorativo e familiare sano e che educhi al rispetto della legalità, come presupposto per evitare che continui a commettere reati. Si basa sulla valutazione dei motivi sociali del delinquere e sulla convinzione che la modificazione dei comportamenti del singolo si può raggiungere agendo sulle condizioni sociali di partenza, soprattutto attraverso il lavoro in modo da ridurre la propensione del soggetto a delinquere (www.giustizia.it www.pol.it
La legge su citata, è dichiaratamente una legge di riforma, che, come tale, non si è limitata ad organizzare giuridicamente un'istituzione dello Stato, ma ha messo in moto una serie di meccanismi propulsivi, che mirano a modificare non solo il sistema penitenziario, ma anche le interrelazioni fra questo e le altre componenti del sistema sociale.
Nel 1975 si è avviato, quindi, un processo di trasformazione che, per produrre i suoi effetti, doveva essere analizzato e valutato, e sostenuto da una serie di interventi, mirati a determinare anche un mutamento culturale.
Dall'applicazione di questa legge e dagli aggiornamenti e decreti delegati, è stata possibile una lenta progressione dell'idea di un carcere umano, attento agli interessi della società e soprattutto dei detenuti che ne fanno parte; purtroppo è sempre rimasto uno scarto di formazione e cultura relativo agli organi che ne facevano già parte rispetto al cambiamento di mentalità che disponeva la riforma dell'istituzione penitenziaria.
La nuova riforma, Legge del 15 dicembre 1990 n° 395, ha avuto l'obiettivo di modificare, in modo lungimirante, l'amministrazione penitenziaria e di istituire il Corpo di Polizia Penitenziaria per aumentare la formazione e la professionalità di coloro che operano negli istituti di pena. Questa riforma ha buttato le basi di un cambiamento radicale e moderno necessario, ma è di difficile applicazione, perché basato su soggetti che già operano nel 'pianeta carcere' da tempo e che mantengono una mentalità che non è affine ad una riforma moderna come questa, che affida loro compiti che necessitano di una specifica formazione.
I doverosi e delicati compiti che gli agenti di Polizia Penitenziaria devono espletare, vanno al di là di quelli che comunemente la società ritiene debbano svolgere. Questi compiti spaziano da una dovuta autorevole durezza, che possa permettere l'ordine e la sicurezza all'interno degli istituti di pena, ad un'altrettanta dovuta sensibilità, che possa permettere la partecipazione degli agenti alle attività d'osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati.
Queste considerazioni rendono più attenti nel considerare la delicata e gravosa opera svolta dagli agenti, che devono sempre più contare su un'adeguata formazione professionale e umana, dato che devono trattare con un gruppo di persone con molteplici problemi e con caratteristiche specifiche. Ciò significa avere una considerevole preparazione e formazione nell'ambito delle dinamiche psicologiche, sottolineando in particolare il versante relazionale e tutto quello che riguarda i meccanismi psicologici di pensiero e comunicazione.
Tutte queste considerazioni nascono da un'attenta lettura della riforma, del regolamento, delle leggi sull'amministrazione penitenziaria e sul suo ordinamento, ma purtroppo tra l'obiettivo cui si mira e la realtà non c'è un'effettiva coincidenza, e molti dei risultati di rinnovamento e modernizzazione che il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria si prefigge di raggiungere rimangono tuttora lontani, se non addirittura utopici.
Il Corpo della Polizia Penitenziaria
Il Corpo della Polizia Penitenziaria è posto alle dipendenze del Ministero di Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. L'Amministrazione Penitenziaria è quel settore dello Stato che provvede all'esecuzione della pena, sotto tutti gli aspetti, per quei cittadini che hanno commesso un reato punibile dalla legge dello Stato Italiano.
Prima della Legge del 15 dicembre 1990 n° 395, che ha istituito il Corpo di Polizia Penitenziaria, al Corpo degli agenti di custodia e delle vigilatrici penitenziarie erano demandati, prevalentemente, compiti di custodia e sicurezza; successivamente sono state ampliate le mansioni di tale corpo in virtù di una migliore identificazione dell'effettiva professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, considerato un Corpo civile avente ordinamento, organizzazione e disciplina rispondenti ai propri compiti istituzionali (Pascone et al., 2000).
La suddetta legge è una vera e propria 'riforma' dell'Amministrazione Penitenziaria che trasforma, rimodernandolo non solo il Corpo di Polizia Penitenziaria ma tutto l'ordinamento penitenziario.
Oltre ai compiti, svolti precedentemente dal Corpo degli agenti di custodia, di sorveglianza e di sicurezza, il nuovo corpo di polizia penitenziaria (art.5 Compiti Istituzionali):
attende ad assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale;
garantisce l'ordine all'interno degli istituti di prevenzione e pena e ne tutela la sicurezza;
partecipa, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati;
espleta il servizio di traduzione e di piantonamento dei detenuti e degli internati ricoverati in luoghi esterni di cura (Ministero di Grazia e Giustizia, 1990).
Tale Legge n° 395/90 è uno degli anelli fondamentali dell'evoluzione legislativa che ha costituito il vigente sistema giuridico penitenziario e che ha preso le mosse dall'art. 27, comma 3, della Costituzione Repubblicana: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Nel suo complesso, l'attuale sistema giuridico penitenziario delinea un'amministrazione penitenziaria completamente e profondamente rinnovata quanto alle sue strutture organizzative, operative e funzionali, quanto all'ordinamento ed alla gestione del suo personale, quanto ai suoi fini istituzionali e alle sue competenze, quanto alle caratteristiche della sua azione ed al tipo di regime penitenziario che è chiamata a realizzare.
I successivi decreti delegati, previsti dalla legge di riforma, costituiscono un fondamentale momento dell'attuazione della riforma, anche se il tempo impiegato per il loro articolato iter formativo ha allungato il tempo di effettiva attuazione della riforma sia a livello centrale sia periferico.
Degno di menzione è il decreto D.P.R. del 15 febbraio 1999 n° 82 che riprende il regolamento di servizio del Corpo di Polizia Penitenziaria aggiornando alcune disposizioni della riforma n° 395/90, dopo ben nove anni dalla sua pubblicazione:
Art. 10 Norme generali di condotta:
Il personale del Corpo di polizia penitenziaria ha in servizio un comportamento improntato a professionalità, imparzialità e cortesia e mantiene una condotta irreprensibile, operando con senso di responsabilità ed astenendosi altresì da comportamenti o atteggiamenti che possono recare pregiudizio al corretto adempimento dei compiti istituzionali.
Art. 11 Formazione e aggiornamento professionale:
Il personale del Corpo di polizia penitenziaria è tenuto alla formazione ed all'aggiornamento professionale, anche mediante la frequenza di corsi a carattere residenziale, secondo le modalità stabilite dall'Amministrazione penitenziaria, che attua in tale settore ogni iniziativa utile al fine di assicurare livelli di adeguata professionalità e costante aggiornamento.
- Art. 15 Doveri di comportamento:
Il personale del Corpo di polizia penitenziaria è tenuto al rispetto e alla lealtà di comportamento nei confronti dei superiori, dei colleghi e dei dipendenti.
Il personale del Corpo di polizia penitenziaria, nell'espletamento dei propri compiti istituzionali, si uniforma ai principi in materia di trattamento e di rieducazione stabiliti dall'ordinamento penitenziario e dal relativo regolamento di esecuzione, operando nei confronti dei detenuti e degli internati con imparzialità e nel rispetto della dignità della persona.
Il personale del Corpo di polizia penitenziaria ha l'obbligo di tenere un comportamento corretto nei confronti delle altre persone con le quali viene a contatto per ragioni del proprio ufficio
Quello che più influenza le modalità di trattamento e di servizio degli agenti all'interno degli istituti penitenziari, non è il regolamento generale del corpo di Polizia Penitenziaria, ma il regolamento di esecuzione della Legge del 26 luglio 1975 n° 354, recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà. Dopo il D.P.R. del 29 aprile 1976 n° 431, che rendeva operativa la tanto attesa "riforma" penitenziaria del '75, sono passati ben 24 anni per ritoccare e modificare il regolamento penitenziario con il D.P.R. del 30 giugno 2000 n° 230. È utile fare una comparazione tra i due decreti per vedere come si sono modificate nel tempo sia l'idea di detenzione e pena, sia le modalità trattamentali di esecuzione della pena.
Il D.P.R. del 30 giugno 2000 n° 230 aggiunge al precedente decreto poche ma significative frasi esplicative di un giusto trattamento:
Art. 1. Interventi di trattamento:
Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali.
Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.
- Art. 2. Sicurezza e rispetto delle regole:
Art. 4. Integrazione e coordinamento degli interventi:
Alle attività di trattamento svolte negli istituti e dai centri di servizio sociale partecipano tutti gli operatori penitenziari, secondo le rispettive competenze. Gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazioni e collaborazione.
Art. 70. Norme di comportamento:
I detenuti e gli internati hanno l'obbligo di osservare le norme che regolano la vita penitenziaria e le disposizioni impartite dal personale; devono tenere un contegno rispettoso nei confronti degli operatori penitenziari e di coloro che visitano l'istituto.
I detenuti e gli internati, nei reciproci contatti, devono tenere un comportamento corretto. Nei rapporti reciproci degli operatori penitenziari con i detenuti e gli internati deve essere usato il "lei".
Questi articoli vigenti nel regolamento penitenziario intendono stabilire, per linee generali, le condotte da seguire sia da parte dei detenuti sia da parte degli operatori penitenziari, tra cui gli agenti di polizia, ma non approfondiscono il tipo di relazione che è preferibile instaurare tra agenti e detenuti, lasciando tutto ciò alla volontà dei singoli.
A giudizio di quest'analisi sarebbe necessario concentrare l'attenzione proprio sulle modalità con cui interagiscono tali soggetti e che, sicuramente, hanno una notevole influenza sul modo in cui le norme vengono rispettate, sullo stile di vita del detenuto, sul clima lavorativo degli agenti e, possibilmente, sul cambiamento stesso che il sistema penitenziario intende promuovere nell'individuo deviante. Quindi, s'intende rilevare che una rigorosa osservazione e applicazione degli articoli in vigore non riesce da sola ad apportare significative modificazioni in un sistema che fino ad ora non ha dato i 'frutti' sperati, e che, invece, una sensibilizzazione del personale penitenziario rispetto alle forme più adeguate di contatto con i detenuti potrebbe fornire un sostegno notevole ad entrambi.
Caratteristiche professionali della Polizia Penitenziaria
Per capire come operano e lavorano gli agenti della Polizia Penitenziaria, si dovrebbe cercare di risalire al percorso che questi uomini attuano per diventare agenti penitenziari.
Prendiamo in considerazione, come esempio esplicativo, la storia comune di un giovane che, raggiunta la maggiore età e conseguito il titolo di studi della scuola dell'obbligo, non riuscendo a trovare un lavoro stabile e sicuro, o avendo volontà e motivazione ad entrare nelle armi, inizia a fare i vari concorsi che, l'esercito, i carabinieri, la polizia e tutti i corpi di stato, bandiscono. Non ottenendo l'ammissione in nessuno di questi corpi, infine il 'nostro' giovane decide di partecipare anche al concorso di polizia penitenziaria, nonostante consideri questa professione più dura, difficile e meno 'rispettabile' delle altre figure di pubblica sicurezza. Riesce a superare le varie prove, compreso i test psico-attitudinali che il concorso dispone per selezionare i partecipanti al bando, e, quindi, dopo tanta fatica, entra a far parte della scuola di formazione per agenti di polizia penitenziaria.
Il corso di formazione per agenti dura da tre a dodici mesi, in relazione della necessità, da parte dell'amministrazione penitenziaria, di reperire, a breve, personale in servizio effettivo. In questo corso le principali materie di formazione si sviluppano seguendo quattro aree: l'area culturale riguarda, oltre argomenti di cultura generale, di educazione civica e nozioni di igiene e pronto soccorso, aspetti sociologici, pedagogici e psicologici di tecniche penitenziarie; l'area giuridica, in cui si cerca di disporre le basi di diritto e procedura penale, approfondisce, soprattutto, lo studio dell'ordinamento penitenziario e delle leggi di riforma che interessano il Corpo di Polizia Penitenziaria; l'area operativa addestra l'allievo all'uso delle armi, alla difesa personale e alle tecniche penitenziarie operative; infine le attività integrative permettono la riflessione, la discussione e il confronto tra allievi e docenti, cercando di stimolare una crescita personale (De Leo, Patrizi, 1995).
Finito il corso di formazione il giovane, ormai agente di Polizia Penitenziaria, viene destinato in un istituto penitenziario, che molto probabilmente sarà lontano dalla città di residenza. In questo luogo per lui del tutto nuovo dovrà cercare di adattarsi, confrontandosi con la nuova esperienza lavorativa, ma soprattutto, in un'istituzione totale[1], con i colleghi e con i detenuti.
Il tipo di adattamento che questo giovane affronterà dipende, in gran parte, dal tipo di personalità e dalle capacità relazionali di cui dispone; indubbiamente sarà dura per lui farsi accettare e integrarsi con i colleghi, adattarsi alla realtà in cui deve operare uniformandosi al clima e al modus operandi degli altri agenti, senza disturbare o interferire nelle attività standardizzate cui gli altri operatori si sono adagiati per il quieto vivere con i detenuti. Non dovrà, soltanto, cercare di mettere in pratica il bagaglio formativo che ha ricevuto dal corso di formazione appena svolto, ma dovrà, adesso in loco, apprendere la vera professione dell'operatore penitenziario prendendo esempio dagli agenti che per grado gerarchico sono superiori.
Purtroppo questa fase di adattamento alla nuova realtà potrebbe essere molto frustrante e egodistonica per il 'nostro' giovane, che non riuscendo ad inserirsi con i colleghi e trovandosi criticamente in difficoltà nel rapportarsi con i detenuti, si chiude in un isolamento preoccupante che lo inaridisce e indurisce giorno dopo giorno.
Quest'esempio esplicativo serve per fare capire come spesso sia difficile per un giovane, che già in partenza difetta di una motivazione forte e solida, affrontare una professione cui non ambisce particolarmente, ma che è spinto ad intraprendere perché la considera sicura e ben retribuita.
In un ambiente così particolare e complesso, come è l'istituzione totale del carcere, in cui i soggetti sono presenti non per volontà personale ma per una decisione punitiva inflitta nei loro confronti, un'analisi approfondita della motivazione di coloro che devono operare all'interno di tale istituzione è, secondo questo elaborato, necessaria e sufficiente per un regolare svolgimento della funzione, sia detentiva che rieducativa, dei detenuti ristretti.
La storia raccontata ha svariati finali così come sono molteplici le notizie di cronaca, che non arrivano all'opinione pubblica perché meno interessanti e più fastidiose da elaborare, ma che si susseguono nel tempo e che fanno emergere situazioni drammatiche e critiche del 'pianeta carcere'. Sono diverse le notizie di suicidio attuate da parte di agenti che, non riuscendo a adattarsi alla realtà lavorativa che devono affrontare tutti i giorni, forse anche per una particolare caratteristica di personalità incline alla chiusura, all'introversione e alla depressione, non trovano altra via di fuga se non la drastica decisione di porre fine alla vita per lenire e dare fine alla sofferenza e al riscontro di un fallimento professionale (Il Mattino di Padova, 26 gennaio 2002)[2].
Molto più frequenti sono i casi in cui gli agenti arrivano al punto in cui frustrati dalla loro condizione di impotenza nello svolgere, sia compiti di sicurezza e ordine, sia compiti di trattamento e rieducazione, per l'eccessiva durezza e intrattabilità dei detenuti e internati, si ritrovano sempre più a disumanizzare il proprio comportamento nei loro confronti, ostentando violenza e aggressioni come predominante strumento per riportare ordine e disciplina all'interno di aree del carcere (notizie di cronaca di vari quotidiani e divulgazioni dell'Amnesty International). Queste sono notizie che suscitano più scandalo e risuonano maggiormente nell'opinione pubblica che taccia, generalizzando, tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria di essere violento e di non rispettare la dignità di ogni essere umano.
Esistono pure situazioni in cui coloro che subiscono violenza e aggressioni, fino alla morte, sono proprio gli agenti che, svolgendo il loro quotidiano lavoro, si trovano di fronte ad eventi di rivolta e sommossa da parte dei detenuti (La Repubblica, 17 novembre 1998)[3].
Il profilo professionale che si è finora delineato è supportato da una ricerca, effettuata da Silvia Cerrato nel 1993[4], sull'analisi della domanda di formazione del personale di Polizia Penitenziaria, che va ad indagare e analizzare la tipologia delle risorse umane di questo settore. Il quadro delle caratteristiche sociali, culturali e professionali del personale di sorveglianza, tracciato attraverso i dati statistici a disposizione, fa risaltare una leggera trasformazione nel periodo che va dal dopoguerra agli anni novanta (De Leo, Patrizi, 1995). La situazione che emerge, confrontando e analizzando le fonti e le documentazioni indicate, è la seguente: gli agenti di Polizia Penitenziaria provengono da ceti sociali ai margini del mercato del lavoro che, quando il tasso di disoccupazione incrementa, non trovano altra soluzione che indossare una divisa; gli agenti provengono prevalentemente dalle regioni meridionali (78%); i candidati ai concorsi di Polizia Penitenziaria sono in possesso di licenza media nel 80% dei casi e solo il 20% è in possesso di diploma.
Altro merito di questa ricerca è di sondare gli obiettivi che la riforma dell'ordinamento penitenziario del 1990 intende perseguire, considerando il nuovo status civile del personale e la compartecipazione alle attività d'osservazione e trattamento dei detenuti all'interno delle èquipes specificatamente preposte. Delucida, quindi, il dovere di un cambiamento del processo formativo, che da essere prevalentemente rivolto al 'sapere', che rappresenta l'aspetto quantitativo delle necessarie nozioni culturali, e al 'saper fare', che rappresenta l'aspetto qualitativo delle capacità tecniche del determinato ruolo di agente, deve essere sempre più rivolto al 'saper essere' cambiando qualitativamente l'allievo agente e stimolando in lui capacità di empatia e comprensione degli altri (ibidem).
La relazione tra agente e detenuto
Quanto finora esposto rende esplicita l'idea che il sistema penitenziario manchi ancora di alcune importanti modificazioni, nonostante non si possa negare un notevole miglioramento sia nella considerazione del detenuto, come figura istituzionale da aiutare, rispettare e tutelare nel suo essere reo in attesa di essere risocializzato, sia nella valutazione del lavoro, arduo e irto di difficoltà, che gli agenti devono sostenere, riconoscendone così il valore e la professionalità.
La grande complessità del sistema penitenziario è connessa con l'assoluta singolarità delle funzioni dell'esecuzione della pena, che pone problemi e difficoltà ed esige interventi da parte di tutti gli operatori penitenziari (agenti, educatori, psicologi, medici e dirigenti), non riscontrabili in nessun'altra organizzazione. La singolarità nasce dal rapporto costante tra individui che partecipano ad una convivenza non per loro libera determinazione, bensì per una decisione coattiva. Tale convivenza genera una condizione permanente di conflittualità poiché i risentimenti del detenuto verso la società si ripercuotono contro quelle persone che sono con lui a stretto contatto nella struttura carceraria e che rappresentano, per il tempo della sua pena, la sua ristretta società (De Leo, Patrizi, 1995).
Il progresso, che si ritiene indispensabile da avviare, riguarda una consapevolezza più profonda delle dinamiche relazionali che intervengono tra agente e detenuto, allo scopo di riuscire a delineare una modalità di contatto che possa risultare più propizia alla rieducazione del detenuto e al contempo possa rendere meno gravoso e stressante il lavoro dell'agente penitenziario.
È difficile definire il tipo di rapporto che lega due figure complementari e contrapposte come quella del detenuto, che avendo commesso reato, è punito dalla Giustizia con la restrizione della propria libertà, e quella dell'agente di polizia penitenziaria, che ha come compito istituzionale quella di assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà dei detenuti che gli sono affidati.
Non può essere considerata una relazione d'aiuto, anzi spesso è considerata una relazione di ostacolo da entrambe le parti, ma da un punto di vista istituzionale i compiti degli agenti non si esauriscono con la sorveglianza, ma includono l'area trattamentale.
Possiamo illustrare l'esistenza di due modelli ideal-tipici del ruolo dell'operatore penitenziario che possono essere rappresentati con i codici archetipici di paterno e materno. Innanzi tutto occorre precisare a quali soggetti ci si riferisce quando si utilizza il termine operatore penitenziario. Si adotta una nozione duale del termine operatore penitenziario, distinguendo in essa due insiemi di categorie professionali: gli operatori prevalentemente addetti alla sicurezza del carcere e alla custodia dei detenuti (operatori del custiodale), e gli operatori che si occupano della attività di osservazione intra-muraria dei reclusi e del loro reinserimento sociale (operatori del trattamentale).
Nella prima categoria si colloca essenzialmente tutto il Corpo della Polizia Penitenziaria, ai vari livelli gerarchici in cui esso è strutturato; alla seconda categoria, più variegata al suo interno, appartengono le varie figure professionali (assistenti sociali, educatori, psicologi, criminologi, etc.) che si occupano della valutazione e della gestione del percorso riabilitativo del detenuto. Si tratta di due universi culturali e professionali estremamente distanti, nonostante da alcuni anni molti paesi occidentali abbiano cercato di ridurre tale distanza, assegnando in particolare anche al personale di custodia compiti di collaborazione alla fase trattamentale della detenzione. Tuttavia, tale avvicinamento funzionale non ha potuto cancellare le profonde diversità di livello culturale, di formazione professionale, di prassi organizzativa, che tutt'oggi caratterizzano i due gruppi (Sarzotti, 2001)
Dal punto di vista dei programmi che i due settori dell'amministrazione esecutiva sono chiamati ad attuare, si può affermare che mentre il custodiale ha il compito e gli strumenti per attuare programmi regolativi, il trattamentale attua invece programmi di prestazioni. Ciò in altri termini significa che mentre il primo opera con un armamentario di ordini, divieti, autorizzazioni e minacce di sanzioni, il secondo tratta di prestazioni di servizi personali o tecnici da parte dell'amministrazione, quali assistenza socio-relazionale, sostegno psicologico, riabilitazione sociale, ecc. Al di là di queste considerazioni, trattamentale e custodiale, così come stilizzati nei due modelli qui esposti, risultano possedere un diverso rapporto con le norme giuridiche assegnate loro e in piena contraddizione di modelli applicativi.
L'agente di sorveglianza concepisce il proprio compito essenzialmente come quello di colui che deve far rispettare la legge attraverso la sanzione negativa, il divieto. Il suo obiettivo è di far rispettare il regolamento carcerario concepito come una serie di azioni che sono o meno permesse al detenuto. In tale prospettiva, assumono massimo rilievo gli imperativi della vigilanza e della sicurezza.
La norma è vista come strumento di difesa dell'ordine e della sicurezza e l'agente è il soldato che in prima linea, mettendo in gioco anche la propria incolumità fisica, cerca di difendere la società (e in specifico il carcere) dalla minaccia del disordine. In questa attività di sorveglianza l'agente è consapevole che il suo compito è di imporre delle regole che per loro natura non possono essere fondate sul consenso del detenuto: da ciò scaturisce la violenza della vita carceraria. All'interno del carcere molte volte si agisce ricorrendo a delle forme più o meno violente. Il personale di polizia è costituito da quegli operatori che intervengono per placare e per risolvere gli stati di tensione e le situazioni di violenza. Tuttavia, la funzione complessiva e preminente del carcere e della custodia è, realisticamente, quella contenitiva e afflittiva. Si è consapevoli che la riforma penitenziaria dovrebbe aver introdotto nuovi principi, ma si tende a considerarla un'aspirazione astratta di un legislatore al quale sembra sfuggire la dura realtà del carcere.
'L'arte del bastone' consiste non solamente nell'attività interpretativa del significato delle norme, ma soprattutto nella scelta del momento in cui essere rigidi o di chiudere un occhio nell'applicazione delle stesse. In tale prospettiva, svolge un ruolo fondamentale l'uso della violenza fisica e, della più sottile, violenza psicologica (anche non direttamente esercitata dall'agente). Si tratta di saper dosare con cura, e con la capacità di prevedere le reazioni dei detenuti, l'esercizio del minimo di violenza consentita dalla legge e dal contesto carcerario. Ecco, la grossa abilità professionale è quella di ottenere i risultati ricorrendo ad un minimo di attività violenta. In realtà quest'ultima, anche se è ammessa dalla legge per vincere una resistenza, la si deve considerare l'ultimo espediente, poiché la violenza chiede e porta violenza (ivi).
La partecipazione degli agenti del corpo di polizia penitenziaria alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo è lasciata alla volontà dei singoli agenti di fare parte dei gruppi di osservazione e trattamento, senza nessun obbligo e incentivazione da parte dei superiori o dei dirigenti.
Solo la sensibilità e l'interesse dei singoli agenti, purtroppo scarsa, favorisce un loro inserimento e partecipazione ad attività prettamente di discussione educativa e umana dei detenuti in osservazione e trattamento. In casi particolari in cui gli agenti hanno il compito di sorvegliare il comportamento dei detenuti, secondo i vari livelli di prescrizione (sorveglianza, grande sorveglianza e sorveglianza a vista), è chiesta loro la semplice descrizione dei comportamenti osservati, ma non sono istruiti o indirizzati al giusto modo, sensibile e sostenitivo, di relazionarsi con il detenuto preso in considerazione.
Possiamo prendere ad esempio esplicativo il caso in cui un detenuto ha dimostrato dei comportamenti violenti auto ed eterodiretti; in queste situazioni scattano subito dei provvedimenti speciali sia di sicurezza e ordine, sia di osservazione e trattamento. Se si presenta il rischio di un'aggressione o di un suicidio il detenuto viene controllato con un livello di sorveglianza a vista da parte di un agente che non ha indicazioni specifiche riguardo al caso e che, se non è consapevole del grado di fragilità emotiva e cognitiva del detenuto, potrebbe causare con una comunicazione errata un successivo crollo psicologico del detenuto stesso, con l'eventualità di un suicidio repentino per impiccagione.
Forse è l'agente che conosce meglio la vera indole del detenuto, che può comprendere le ragioni delle sue azioni; solamente lui, compagno d'esistenza del detenuto, in qualche misura recluso tra i reclusi, può immedesimarsi nella posizione del detenuto. Tale 'superiore' conoscenza del detenuto, non deriva all'agente solamente dalla sua posizione di condivisione dell'esistenza quotidiana, ma anche dal fatto che il detenuto mostra un atteggiamento diverso nei confronti degli operatori del custodiale rispetto a quelli del trattamentale. L'agente è colui che applica sanzioni, l'operatore del trattamentale, invece, è colui che può contribuire a concedere benefici. Il detenuto con l'educatore tende a fingere, a dare un'immagine di sé, per un verso, rispettosa delle regole della prigione, per l'altro, eccessivamente prostrata dalla condizione detentiva, ovviamente per ricevere sconti di pena[5].
L'agente percepisce che il suo sapere è svalutato dall'istituzione; nonostante la legge preveda la sua collaborazione nell'attività trattamentale, egli si rende conto che ciò resta inesorabilmente sulla carta e il suo unico modo di intervenire in tale attività è di 'fare rapporto' disciplinare. In tal modo, tra l'altro, viene rafforzato il suo ruolo meramente normativo, in senso repressivo.
Un aspetto dei tratti generali della cultura giuridica del custodiale è quello dell'autoritarismo. Si entra, in tal modo, nell'ambito della sfera dei rapporti tra agente e detenuto il cui principale elemento è senza dubbio l'atteggiamento di diffidenza complessiva degli operatori penitenziari nei confronti della popolazione reclusa. Questo atteggiamento implica un perenne stato di tensione da parte dell'agente e che non vi possa mai essere totale fiducia nel detenuto. La riforma ha inciso solo parzialmente su quest'aspetto, la diffidenza del mondo carcerario verso quegli agenti che instaurano rapporti troppo cordiali coi detenuti è tuttora presente.
L'immaginario carcerario è percorso ancora dal mito dell'agente colluso col detenuto. Il vecchio regolamento non dava ad un agente la possibilità di poter stare lì a parlare con un detenuto più di qualche minuto. In una situazione di questo tipo, mondo del detenuto e mondo del custodiale non possono che essere mondi separati da una barriera che a volte arriva all'odio.
Nel caso che la polizia si renda colpevole o complice di violazioni di diritti umani o di maltrattamenti, vi potrebbero essere differenti modi per identificare, e quindi risolvere, il problema. Un primo approccio, di tipo individuale, risolve il problema in chiave di responsabilità del singolo (la 'mela marcia'). La soluzione del problema sarebbe semplice: rimuovere la mela marcia. Si attiva una procedura disciplinare e la questione è risolta. La seconda prospettiva è di tipo contestuale e prende in considerazione le specifiche circostanze che hanno determinato gli abusi. In taluni casi gli ufficiali accusati di maltrattamenti possono essere anche giustificati in certi contesti, si dice in tali casi: «era un pericoloso criminale». Così viene ridimensionato il gesto illegale. L'ultimo approccio è di natura ambientale. Questo prende in esame l'ambiente complessivo in cui i poliziotti operano. Ad esempio, se nella formazione viene data enfasi ai concetti di disciplina e gerarchia, non si favorisce una riqualificazione della polizia in termini di adesione ad accettabili obiettivi sociali. Qualora si orienti l'azione di polizia solo ed esclusivamente nel combattere il crimine si può incoraggiare un uso violento degli strumenti a disposizione. Appartiene a questo stile di lavoro il codice del silenzio, o anche detto 'spirito di Corpo', che rende solidali gli agenti tra loro anche di fronte a situazioni di palese e chiaro eccesso di comportamenti violenti da parte di colleghi.
In realtà ognuno dei tre approcci sceglie una prospettiva non preventiva. Prioritariamente deve essere invece cercata una soluzione diretta a prevenire l'ipotesi che un agente si trasformi in 'mela marcia'. Non è sufficiente puntare solo su un punto, come sulla formazione, vi è urgente bisogno di altre misure. La struttura delle forze di polizia deve modificarsi radicalmente, sviluppando meccanismi interni ed esterni di controllo. Le forze di polizia sono un'organizzazione fondata sulla gerarchia: devono trasformarsi in un'organizzazione fondata sulla responsabilità collettiva e personale.
Le istituzioni, data la loro connotazione implicitamente autoritaria, contengono in sé il germe della violenza. Il carcere, quale luogo di segregazione, marginalizzazione e stigmatizzazione, rappresenta l'istituzione totale per eccellenza. Non esiste istituzione che non si avvalga di qualche forma di sopraffazione e di violenza, poiché il potere non è equamente distribuito (Serra, 1998).
La vita dell'individuo detenuto, totalmente amministrata dal carcere in tempi e spazi limitati, rischia ciò che Clemmer (1940) definiva la "prisonization": un processo di identificazione col carcere, in cui viene ridotto il mondo del detenuto, i suoi bisogni, desideri ed esigenze. Questo processo viene considerato utile perché si vanno ad annullare le differenze individuali dei detenuti e vengono indotte abitudini comuni coerenti con le finalità dell'istituzione (Serra, 1994). Unica alternativa d'espressione di libertà e individualità, sembra essere rappresentata dall'appartenenza ad una sottocultura carceraria, con comunicazioni di tipo simbolico e non verbale.
Le comunicazioni avvengono all'interno della popolazione reclusa, l'agente sembra doversi limitare ad osservare queste comunicazioni; anche quando cerca di instaurare un rapporto 'umano' col detenuto il fine è, in via principale, securitario. L'agente si rende conto che se non esiste comunicazione col detenuto la situazione potrebbe diventare a rischio per la sorveglianza; se, infatti, la via della richiesta verbale è preclusa, non resta che l'alternativa violenta. Forse, quindi, è sempre più opportuno per gli agenti avere un rapporto con il detenuto per capire che tipo è, la sua personalità, se è uno che usa far violenza diretta agli altri, o contro se stesso. Ogni detenuto ha le sue particolarità, 'la sua testa' che va attentamente studiata non per un rapporto umano fine a se stesso, ma per prevedere le sue reazioni pericolose (Sarzotti, 2001).
La mancanza di occasioni di contatto spontaneo ed autentico tra soggetti, in un clima prevalentemente difensivo, rende difficilmente sanabile il profondo divario interpersonale, causa e conseguenza di divergenze comunicative e disgiunzioni percettive (Serra, 2000).
Da un punto di vista psicodinamico, si crea un circolo vizioso: l'aggressività dimostrata dal detenuto, determinata dalla sua condizione di recluso, mette l'agente in una condizione di forte tensione psichica che lo spinge a mettere in atto comportamenti punitivi e irruenti; questo a sua volta determina un aumento dell'aggressività del detenuto.
È interessante notare che la relazione di vittima-aggressore o aggressore-vittima, in questa situazione, assume una connotazione particolare: si crea confusione tra chi detiene il ruolo di vittima e chi quella di aggressore. Infatti, sia l'agente sia il detenuto si percepisce come la vittima della situazione: il detenuto perché, negata la libertà, deve eseguire le attività che il regime carcerario gli impone, l'agente perché a sua volta, ristretto nel suo ambiente lavorativo, si sente oppresso dal peso del proprio ruolo e dalla moltitudine di detenuti che deve controllare; entrambi sentono il bisogno, proprio per questo, di difendersi dall'altro.
Anche la rappresentazione sociale sembra avere le idee confuse circa chi sia la vittima e chi l'aggressore, e si divide tra chi difende e tutela i diritti dei detenuti e chi, invece, considerando tali detenuti malvagi e senza speranza di trattamento e rieducazione, 'getterebbe via la chiave'.
Alla luce di quest'analisi, pretendere che dei giovani agenti possano, dopo un breve corso di formazione, fronteggiare simili realtà e situazioni lavorative, è forse un po' ingenuo. La cosa, pertanto, non si risolve aumentando il contingente di Polizia Penitenziaria, che andrebbe semmai ulteriormente qualificato e sostenuto nel suo arduo compito. L'unico vantaggio, di tale gestione del rapporto quantitativo agenti-detenuti, sarebbe di consentire che si stabiliscano delle relazioni di un qualche valore tra personale e detenuti, elemento che non è approfondito con giusta misura, perché non sembra fare parte delle competenze fondamentali dell'agente, che anzi, quando matura dei legami significativi, corre il rischio di essere visto dagli altri agenti come un 'accamosciato'[6].
La figura professionale nella società
La nostra società guarda, indubbiamente, con occhio distratto al sistema penitenziario e l'attenzione delle altre istituzioni di potere risulta essere intermittente nei confronti del 'pianeta carcere'. Il carcere è rimasto sostanzialmente lontano dalla società civile, che ne giustifica l'esistenza come istituzione totalizzante ma solo allo scopo di rimuovere una realtà scomoda, difficile ed inquietante che è meglio dimenticare e rimuovere e su cui è più conveniente tacere. È difficile negare che il vecchio detto "occhio non vede, cuore non duole" è più che mai attuale in riferimento alla situazione dell'universo carcerario.
Il carcere segna un momento importante nella storia della giustizia penale, che fino all'inizio del diciannovesimo secolo si serviva delle punizioni corporali nei patiboli in piazza, perché segna l'accesso all''umanità' nelle forme punitive e nella considerazione del colpevole. Tuttavia, si perde di vista un elemento fondamentale, che nelle forme di punizioni corporali era principio essenziale, la partecipazione della società alla pena e la forma di deterrente che l'effetto di questa suscitava nel pubblico. Con la prigione si perde l'utilità che la pena aveva sulla società perché essa è incompatibile con la tecnica della pena-effetto, della pena-rappresentazione. L'oscurità dei carceri spesso diviene un soggetto di diffidenza per i cittadini che suppongono luogo di sopraffazione e ingiustizia (Foucault, 1975).
Gli unici individui della società civile che, sensibili alla realtà del carcere, prendono parte alla vita degli istituti penitenziari, sono le associazioni di volontariato; purtroppo, spesso questi volontari entrano in conflitto con gli operatori penitenziari per prendere le difese dei detenuti e criticare la forma trattamentale. Tutto il resto della società considera la realtà carceraria come qualcosa di estraneo e sgradevole.
Una città deve pensare al suo carcere. Non è un corpo estraneo, lontano e in qualche modo nemico, ma parte della città, della sua struttura urbana e soprattutto della sua struttura sociale.
Il carcere è un microcosmo e, come tale, un'entità poliedrica e multidimensionale in cui persone, di varia estrazione sociale, etnica, culturale e religiosa, convivono per un determinato periodo. Persone che sono destinate a rientrare nella società urbana: la città e l'istituzione carceraria sono tenute a favorire un percorso di reinserimento e ricollocazione (www.associazione antigone.it
Del carcere e di chi lavora al suo interno, giornalisti e opinione pubblica sanno ben poco. La rappresentazione sociale dell'ambiente penitenziario è, senz'altro, forgiata dalle poche informazioni che i mass media forniscono. Elemento essenziale di conoscenza è la cultura cinematografica, ricca di film che spesso rappresentano i luoghi di detenzione in modo stereotipato, ostentando l'aggressività e la disumanità come caratteristiche fondamentali di tali ambienti. In particolare, molti film delineano la figura degli operatori penitenziari come soggetti malvagi e corrotti, che non sanno istaurare relazioni umane e autentiche con i detenuti. I film più noti che mirano maggiormente l'attenzione sulle figure degli operatori penitenziari, ma che mettono in cattiva luce il loro operare e distorcono i loro compiti e le loro funzioni fino a quasi rappresentare soggetti con personalità notevolmente malvagie e aggressive, sono: "The sleepers" di Barry Levinson, "The shawshank redemption (Le ali della libertà)" di Frank Darabont, "Midnight express (Fuga di mezzanotte)" di Alan Parker e "Ragazzi fuori" di Marco Risi. Sono pochi, invece, i film che rappresentano la figura dell'operatore penitenziario come un professionista umano e sensibile, ad esempio, "The green mile (Il miglio verde)" di Frank Darabont.
Quando si parla del pianeta-carceri, troppo spesso si dimenticano le ragioni, le necessità, le sofferenze e l'umanità di chi opera, giorno e notte, al di qua delle sbarre; di tutti quegli operatori che si pongono, con il proprio lavoro e la propria professionalità, come prima interfaccia verso la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti nella società civile.
Molti agenti penitenziari, sentendosi sminuiti nel loro lavoro, reclamano maggiore attenzione e dignità attraverso dichiarazioni come questa: «Ci chiamano secondini, guardie carcerarie o, quando va bene, agenti di custodia, definizioni che non ci appartengono, non sapendo che siamo poliziotti penitenziari. Pensano che si sia belve, killers, picchiatori. Siamo invece uomini e donne di un Corpo di Polizia dello Stato, che nonostante gravi carenze di organico, deficienze di strutture e di mezzi, rappresentano lo Stato stesso nel difficile contesto delle 'galere'. Siamo le persone che, statisticamente, in ogni istituto penitenziario d'Italia, ogni mese, sventano circa 10 tentativi di suicidi posti in essere da detenuti. Ma nessuno lo dice»[7].
Il carcere, oggi, si configura come una discarica sociale, un grande magazzino dove la società, senza eccessive remore, continua a riversare tossicodipendenti, malati di AIDS, extracomunitari, malati di mente, pedofili, mafiosi e camorristi, prostitute, travestiti e transessuali, tutto ciò che non si vuole vedere sotto casa e nelle strade. In mezzo a loro, spesso isolato se non dimenticato, il più delle volte giovane, l'agente di Polizia Penitenziaria, che deve rappresentare la dignità e la legalità dello Stato, la rappresenta da solo, con la sua divisa, con la sua coscienza professionale, con il suo coraggio, con il suo rischio. Rappresenta, dunque, la Legge e la sicurezza della società.
Se il carcere è, in qualche misura, la frontiera ultima, la più esposta del sistema-giustizia, all'interno del sistema carcerario il personale di Polizia Penitenziaria costituisce la barriera estrema. Sono loro quelli che stanno in prima linea, che stanno nelle sezioni detentive, che stanno quotidianamente in contatto con i detenuti 24 ore su 24, 365 giorni l'anno, quelli cui viene affidato, dal nostro sistema giudiziario, un compito forse più complesso e differenziato rispetto alle altre Forze dell'Ordine (www.poliziadomani.it).
È necessario metterlo in evidenza, perché la rivendicazione del ruolo, del significato, del prestigio e dell'importanza del Corpo di Polizia Penitenziaria, di una sua professionalità crescente, di una sua dignità sempre più alta, deve partire dalla considerazione della specificità dei loro compiti istituzionali.
L'agente della Polizia di Stato, il Carabiniere o il Finanziere, che svolgono una funzione fondamentale per la difesa dello Stato e delle sue Istituzioni, hanno un contatto con il criminale che si riduce al momento dell'arresto, della perquisizione, dell'interrogatorio. Viceversa, il compito dell'agente di Polizia Penitenziaria, nel confronto, anche e soprattutto fisico, con chi rappresenta, in un modo o nell'altro, il nemico dello Stato, colui che ne ha violato le leggi, si svolge giorno dopo giorno, anche a Natale, Capodanno, Pasqua e Ferragosto, di notte, minuto per minuto. Questa è già, di per sé, la ragione di una difficoltà, di una complessità, di una tensione, la ragione di un rischio che non ha confronto. Inoltre, in nessun altro ordinamento di un Corpo di Polizia esiste una disposizione che coinvolge direttamente il personale anche nell'opera di rieducazione della persona destinataria di interventi di natura coercitiva.
L'agente impersona, dunque, la Legge e la sicurezza della società, ma nello stesso tempo gli si chiede un'altra cosa: di far sì che il nemico diventi un amico. È un pò la quadratura del cerchio. Non basta che egli rappresenti la sicurezza della società, deve esprimere anche la speranza, l'offerta di una possibilità di recedere dalle proprie scelte. Con una mano lo Stato rinchiude il detenuto e lo allontana dalla collettività, con l'altra lo invita a rientrarvi attraverso il recupero, la rieducazione, il reinserimento nella vita civile (www.vita.it).
Questo agente dunque, molte volte solo, incompreso, dimenticato, rappresenta la Legge dello Stato e la speranza della società, la punizione del delitto commesso, ma anche qualcosa di molto alto, che è l'essenza della civiltà e lo spirito della nostra Costituzione: vale a dire la fiducia nel fatto che colui che ha violato la legge non la violi più. Sarebbe una meschina vittoria se lo Stato non dovesse fare altro che punire quanti continuamente violano la Legge senza riuscire a riaffermare, presso costoro, i valori civili e la speranza umana.
Si tratta di un compito che presenta difficoltà senza pari, un compito arduo e insieme straordinariamente nobile. Un compito che ci pone di fronte all'imperativo di fondo: l'essenza della Riforma del 1990, cioè la qualificazione professionale, l'innalzamento del livello di professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria che non hanno altre armi da contrapporre al 'nemico', al detenuto, se non la ricchezza delle proprie acquisizioni culturali e la complessità della formazione professionale.
«L'idea, offensiva e inaccettabile, di un ragazzo che senza qualificazione professionale e con una chiave in mano passeggiava solo e triste in una sezione per aprire e chiudere una porta, un cancello, è un'immagine che non appartiene più alla realtà lavorativa degli agenti penitenziari: è l'immagine di un passato ormai superato» ("Ristetti orizzonti", n°2 1999).
Del carcere ci si deve occupare non solo quando esplode un'emergenza, ma tutti i giorni; perché dobbiamo abituarci tutti finalmente a considerare il carcere come una struttura di 'pubblica utilità' che assolve il compito di garantire la certezza della pena e la sicurezza dei cittadini. Il carcere, in questa accezione, è una struttura che al pari delle altre, siano esse un ospedale, un'università, una scuola o quant'altro, richiede le risorse finanziarie per i dovuti interventi.
«Un paese civile si misura anche dalla civiltà del suo sistema carcerario; un paese civile è capace di integrare e inserire il sistema carcerario nel tessuto della società e farlo vivere come una struttura che realizza una finalità certamente penosa come la detenzione, in condizioni tuttavia di civiltà» (Toqueville, 1835).
Considerazioni conclusive
L'interesse per la Polizia Penitenziaria è nato da una sana curiosità verso una professione che è celata e nascosta di fronte all'occhio sociale, perché isolata, dovutamente, tra le sue mura 'fortificate': il carcere.
La complessità e la delicatezza dell'ambiente in cui lavorano quotidianamente gli operatori penitenziari deve essere ben considerata nell'inquadramento professionale, ma è, soprattutto, la variabilità di relazioni e rapporti cui prende parte l'agente, l'elemento di maggiore tensione e stress. Svolgere le proprie mansioni, in tale ambito lavorativo, spesso corrisponde ad eseguire e a fare eseguire con rigidità i compiti del regolamento assegnati loro e nel farlo devono anche sostenere le recalcitranti posizioni dei detenuti.
Non può essere considerata una relazione d'aiuto, anzi spesso è considerata una relazione di ostacolo da entrambe le parti, ma da un punto di vista istituzionale i compiti degli agenti non si esauriscono con la sorveglianza, ma includono l'area trattamentale. Questo significa che gli agenti devono essere in grado di 'trattare' con persone con svariati profili di personalità e con i più disparati problemi esistenziali, dato che è un'esistenza ristretta, quella che si vive in prigione.
Quella di agente penitenziario è senz'altro una professione molto dura. Il contatto con persone difficili, la vicinanza alla loro quotidianità spesso drammatica, può generare una sorta di contagio psicologico che può essere deleterio. Sentendo parlare delle condizioni di lavoro degli agenti, a volte giovani ed inesperti, con i loro turni estenuanti e la difficoltà di ottenere licenze per raggiungere famiglie che magari si trovano dall'altra parte della penisola, sembra quasi di assistere alla descrizione delle condizioni di vita delle persone alle quali loro dovrebbero tener testa, quelle dei carcerati.
Chi dunque è il 'carceriere' e chi il 'carcerato'? In entrambi i casi, si vive in una condizione di isolamento, di ghettizzazione. Tutto quello che accade all'interno di un carcere raramente trova uno spazio nell'informazione trasmessa dai mass media. Sono sempre e soltanto gli episodi estremamente drammatici a far parlare delle condizioni di vita di coloro che ci vivono o ci lavorano.
Queste storie rappresentano segnali evidenti e palesi di un deterioramento psicologico oltre che strutturale, ma la prevenzione è un concetto che ancora non si è avvicinato ai cancelli delle istituzioni chiuse. Questo perché la prevenzione si basa proprio sulla comunicazione e sull'informazione, la cui assenza, come si è detto, è una caratteristica del carcere. L'ambiente che si viene così a creare, con tutte le sue controindicazioni, questa sorta di terra di nessuno, non vale solo per i detenuti, ma anche per chi ci lavora a stretto contatto.
Nei penitenziari si fronteggiano due mondi, quello della trasgressione e quello del controllo, che nutrono un reciproco pregiudizio, mentre dal benessere dell'uno dipende indissolubilmente quello dell'altro, essendo il loro un rapporto che dura nel tempo, destinato a trasformarsi in una convivenza coatta, per quanti cancelli ci siano a dividere i due fronti. Nella lingua del carcere il recluso diventa il 'camoscio' e l'agente lo 'stambecco', per testimoniare disprezzo. All'ombra di tale, più o meno dichiarata, ostilità difficilmente potrebbe accadere che maturino efficaci programmi di reinserimento e che sia mantenuta una quiete tendenziale.
Un ulteriore fattore di scontento degli agenti appare quello relativo alle difficoltà di attuazione di un aspetto fondamentale della riforma del 1990, che ha espressamente delineato, accanto alle funzioni tipiche, di natura custodiale, anche funzioni diverse che disegnavano una nuova figura professionale: l'articolo 5 della Legge n° 395/1990, infatti, espressamente prevede la partecipazione degli agenti anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati.
L'agente penitenziario, quindi, che in definitiva è l'operatore maggiormente a contatto con il detenuto, risulta inserito a pieno titolo nella catena trattamentale. Tuttavia, tale partecipazione alla rieducazione è, secondo quella che sembra essere l'opinione prevalente degli agenti, rimasta un'enunciazione di principio, essendo insufficiente il numero di corsi di formazione ed aggiornamento e scarsa la considerazione riservata loro dalla vigente normativa che, concretamente, ha poi riservato ad altro personale (educatori, assistenti sociali, esperti ex articolo 80) la totalità delle mansioni trattamentali, organico peraltro afflitto da gravi carenze di personale.
A tale partecipazione al trattamento del detenuto sembra, in verità, essere di ostacolo anche una consolidata mentalità da parte degli agenti più anziani, che sembra vedere il detenuto come 'controparte' e l'ambito custodiale come il momento esclusivo in cui si esplica la professionalità dell'agente penitenziario.
In ogni caso, anche se è ancora presto per verificare l'attuazione delle funzioni trattamentali da parte degli agenti penitenziari, la capacità professionale degli operatori deve essere incentrata sull'utilità e il valore della relazione continuativa con i detenuti. È proprio questa relazione, essenziale per l'espiazione della pena e la vita in carcere, che si deve analizzare sia per potenziare la rieducazione e la risocializzazione dei detenuti, sia per tutelare e formare gli agenti della Polizia Penitenziaria.
Istutuzione totale è un concetto introdotto da Goffman nel 1961 per definire un luogo, in un regime chiuso, in cui risiedono e lavorano individui per i quali si ritiene opportuno rompere i legami con il mondo esterno.
Il Mattino di Padova, 26 gennaio 2002, Primo Piano: "Si è sparato un colpo in bocca", notizia di cronaca di un agente di polizia penitenziaria di Padova suicidatosi per depressione da lavoro.
La Repubblica, 17 novembre 1998, Cronaca: "Un barbaro agguato ha posto fine alla vita di un operatore penitenziario", un agente penitenziario di Roma è stato ucciso in una rivolta scoppiata in carcere.
Silvia Cerrato, "Analisi della domanda di formazione degli operatori di polizia penitenziaria", Cap. 2 in De Leo G., Patrizi P. (a cura di) (1995), La formazione psicosociale per gli operatori della giustizia, Giuffrè Editore, Milano.
Appunti su: https:wwwappuntimaniacomtecnicheforensicsil-lavoro-della-polizia-penite13php, poliziotti penitenziari i meno violenti, lavoro polizia penitenziaria, polizia penitenziaria appunti, |
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