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Da qualche decennio, potrebbe dirsi all'incirca dalla seconda metà degli anni '70, ma in modo considerevole dalla fine degli anni '80 sino ad oggi, l'Italia è divenuta da Paese di emigrazione, un Paese di immigrazione. Tale evoluzione non è propriamente stata graduale, ma soprattutto ha colto impreparato il tessuto sociale, tanto che il fenomeno dell'immigrazione costituisce un tema di sentita attualità attorno al quale spesso si discute in toni allarmistici, e di frequente in stretta connessione con quello della criminalità. Da molti studiosi, anche alla luce di diverse esperienze empiriche, è stata infatti messa in evidenza la diffusa equazione immigrazione uguale criminalità, strettamente connessa alla forte richiesta di sicurezza proveniente dai cittadini, i quali avvertono gli stranieri come un pericolo, in quanto devianti. "Quale effetto della costruzione sociale dell'immigrato come diverso e socialmente pericoloso, oggi in Italia, le carceri si riempiono sempre più di extracomunitari" , si legge infatti in un articolo pubblicato a metà degli anni '90, e nel corso di questi anni tale affermazione ha trovato ulteriori conferme. Un discorso esaustivo su un fenomeno talmente complesso non è facilmente realizzabile. Il tentativo che più semplicemente si pone questo capitolo è quello di tracciare una linea che, partendo dai dati in possesso sugli immigrati, in particolare quelli relativi ai detenuti, renda anzitutto un quadro sulla attuale situazione italiana circa il flusso di immigrati; per poi passare sia attraverso il quadro normativo attualmente vigente, così da delineare la posizione giuridica degli stranieri, sia attraverso alcune teorie di tipo sociologico che intendono studiare l'impatto di tale fenomeno con il tessuto sociale, sino a giungere alla mediazione culturale (fuori e dentro il carcere) vista quale primo tentativo di risposta ad una serie di problematiche connesse agli immigrati, in un' ottica di integrazione.
Si intendono qui di seguito fornire i dati che visualizzano l'attuale situazione italiana da un punto di vista della generica presenza straniera sul territorio, mentre le statistiche relative alla popolazione detenuta, aspetto più specificatamente attinente al tema che si intende trattare, verranno esplicate nel paragrafo successivo.
I dati relativi al flusso di stranieri immigrati sono tutt'altro che chiari: al di là delle eventuali discordanze tra le diverse fonti (in particolare tra il Ministero degli Interni, la Caritas e l' ISTAT), il vero problema risiede nella stessa rilevazione, principalmente a causa del numero oscuro di clandestini ed irregolari, nonché dei minori non denunciati. Unica certezza, anche se non esprimibile in un numero che non sia approssimato, è che in Italia la presenza straniera negli ultimi dieci anni è notevolmente aumentata: secondo i dati ISTAT risultanti dalle prime elaborazioni dei valori scaturiti dal 14° censimento (ottobre 2001), i residenti stranieri ammonterebbero a 987.373 e i non residenti a 252.185, valore addirittura triplicato rispetto al censimento del 1991 quando gli immigrati erano 356.159. Anche volendo tralasciare tali ultimi dati del censimento, del resto ancora in via di elaborazione, il Ministero dell'Interno ha in ogni caso segnalato negli anni '90 un aumento dei soggiornanti stranieri che, se non triplicato, risulta più che raddoppiato: cioè da 648.935 a 1.388.155. Nonostante questa crescita, però, la popolazione straniera resta notevolmente inferiore a quella italiana, rappresentando il 3% circa della popolazione, uno straniero ogni 38 residenti: il Dossier/Caritas 2002 infatti, sostiene si possa ipotizzare una presenza regolare di circa 1.600.000 (dato che viene estrapolato aggiungendo a 1.362.630 che risultano essere i soggiornanti stranieri, un numero indicativo che rappresenti i minori basandosi sui dati anagrafici forniti dall'ISTAT relativi all'anno precedente). Per quel che riguarda le motivazioni che sottendono l'ingresso ed il soggiorno, esse sono sicuramente differenti per le diverse nazionalità rappresentate: il motivo della presenza in Italia per i cittadini non provenienti dalla Comunità Europea, ad esempio, è principalmente il lavoro, ed in generale, il 54,5% degli stranieri soggiorna proprio per motivi occupazionali (che in valore assoluto sarebbe 741.562 su 1.362.630). Inoltre, sempre secondo i dati del Dossier Caritas, il 3,2% ricerca lavoro, il 28,9% soggiorna per motivi familiari (si intendono dunque i permessi per ricongiungimento familiare), per motivi religiosi risiede il 3,6%, di studio il 2,3%, solo il 3,3% per residenza, lo 0,9% per sponsorizzazione (secondo quanto prevedeva l'art. 23 del T.U. n.286/98), lo 0,4% per asilo politico, per motivi umanitari lo 0,4%, altri motivi il restante 2,8% quali, ad esempio, l'adozione o l'affidamento o la protezione sociale che prevede un permesso rilasciato per il recupero dallo sfruttamento nell'ambito della prostituzione. Strettamente connesso all'alto numero di immigrati legati a motivi lavorativi è il dato relativo la distribuzione sul territorio italiano della popolazione straniera: infatti come si specificherà in corso di trattazione trattando le singole realtà regionali, il Nord Italia registra una presenza immigrata pari al 56,8% accreditandosi sempre più come epicentro dell'immigrazione, segue il Centro con quasi il 30% ed infine il Sud, Isole comprese, con una percentuale di poco inferiore al 14%. Tale distribuzione rispetta infatti, la capacità di creare offerte lavorative delle diverse zone che, come è noto, in Italia ha una ripartizione fortemente diseguale.
Come area di provenienza primeggia l'Est Europeo, tanto che basandosi sui permessi di soggiorno emessi nel 2001, ben il 43,4% sono stati rilasciati ad immigrati provenienti da tale area geografica, ed anche se viene avvertito che buona parte di tali permessi sono per lavori stagionali ed hanno dunque carattere temporaneo, la percentuale di soggiornanti (dati al 31.12.2001) si attesta intorno al 28,9%, confermando che la maggioranza degli stranieri proviene dall'Europa Centro Orientale . L'Africa del Nord (Marocco in primis) è la seconda area per numero di nuovi permessi, a seguire l'America Latina, ed infine si tenga presente l'importante ruolo svolto dai Paesi Asiatici e in particolar modo dall'Asia Centro Meridionale e quella Orientale, che prese cumulativamente totalizzano il 14,3% dei nuovi permessi. Confrontando tale graduatoria con i dati relativi ai soggiornanti si ottiene un quadro che viene per semplificazione riassunto nella seguente tabella:
Aree di provenienza |
Soggiornanti al 31.12.01 |
Valori in % |
Europa |
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Africa |
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Asia |
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America |
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Oceania |
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Apolidi |
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Ignoto |
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Totale |
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Fonte: Dossier/Caritas 2002
Da tali dati si rileva che nel corso di questi ultimi dieci anni il cambiamento principale ha riguardato le provenienze dall'Europa: infatti agli inizi degli anni '90 le presenze di immigrati provenienti dall'Africa erano fortemente più rilevanti superando quelle europee di ben otto punti percentuali in più. Si nota attualmente che tutti i continenti sono rappresentati con gruppi consistenti e che dunque può parlarsi di policentrismo dei gruppi etnici.
3. La situazione nelle carceri
Discorso particolare attiene a quanto si rileva circa la presenza di stranieri all'interno dei diversi Istituti di pena del territorio: infatti la crescita di detenuti immigrati non è semplicemente un naturale aumento proporzionale delle presenze su tutto il territorio, bensì presenta delle peculiarità.
Anzitutto si ribadisce, a maggior ragione nel caso dei detenuti, la difficoltà di statistiche certe. A tal proposito è piuttosto esplicativo un articolo di Massimo Pavarini risalente al 1994, ma che può essere ripreso come constatazione ancora attuale: "Per la povertà delle fonti statistiche e l'approssimazione nella disaggregazione delle stesse, non è neppure sempre facile conoscere successioni temporali costanti nel rilevamento degli indici degli ingressi in carcere dallo stato di libertà e le presenze a fine anno per quanto concerne i residenti stranieri."
Le rilevazioni compiute dal Ministero della Giustizia/Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria riferiscono una presenza di 55.275 detenuti al 31.12.2001 fra italiani e stranieri, mentre come dato parziale del 2002 vi è una rilevazione, sempre del Ministero, al 31.5 del suddetto anno che riporta un numero pari a 56.537 detenuti, quindi un dato leggermente più elevato, che, però, secondo quanto riportato dal Dossier della Caritas, rappresenta un aumento meno cospicuo rispetto a quello registrato negli scorsi anni . Scorporando i dati relativi agli stranieri, emerge che essi rappresentano il 30,2% del totale al 31.5.2002, pari a 17.095 detenuti tra uomini e donne, una percentuale di poco più alta rispetto a quella registrata dall'ISTAT nell'Annuario 2001 (i cui dati si riferiscono al 31.12.2000) che era pari al 29% (in valori assoluti 15.582 detenuti stranieri su un totale di 54.039). Ciò che dunque emerge con chiarezza è che la presenza straniera negli Istituti di pena è fortemente più incisiva e rilevante rispetto a quella generica sul territorio del Paese. Questo aspetto, ormai peculiare del territorio italiano, e preoccupante sotto vari aspetti, viene spiegato con motivazioni di carattere giuridico, ma anche da molti sociologi con motivazioni d'ordine sociale quali cause di tale corposa presenza di stranieri nelle carceri. Di queste ultime si farà apposito cenno in un paragrafo successivo , per ora si vuole solo anticipare che nella valutazione del rapporto tra detenuti italiani e stranieri, non si può prescindere dalla considerazione relativa alle difficoltà di accedere ai benefici delle misure alternative al carcere a carico di quest'ultimi. Infatti tale aspetto critico, sottolineato dagli stessi Procuratori generali nelle Relazioni di apertura dell'anno giudiziario, incide fortemente sui conteggi visto che i titolari del beneficio sono scorporati dal calcolo dei detenuti; è chiaro comunque che pur rilevante, non è questa l'unica causa di una tale significativa incidenza della popolazione immigrata sul totale dei detenuti.
Una panoramica relativa alle aree geografiche di provenienza rileva nella graduatoria dei primi cinque Paesi che ben tre appartengono al Nord Africa (cioè Marocco, Tunisia, Algeria) e due all'area balcanica (Albania e Jugoslavia): in particolare le percentuali più alte spettano anzitutto al Marocco (il 22,2% secondo il Dossier/Caritas e il 21,8% secondo il Ministero della Giustizia/DAP) e a seguire l'Albania (con il 16,3% secondo la Caritas, mentre i dati del DAP accorpano tale Paese sotto la voce Paesi dell'est con una percentuale pari al 23,9%). Per ciò che attiene la distribuzione sul territorio nazionale, aspetto approfondito nella seconda parte della trattazione, la maggioranza di detenuti si trova negli Istituti di pena del Nord Italia, ben il 54,4%, mentre al Centro il 26,2%, al Sud il 13,2% e nelle Isole il 7,2%. Dato assai rilevante concerne il rapporto tra imputati e definitivi: è noto che in generale, cioè anche per i detenuti italiani, tale rapporto mostra una elevata percentuale di non definitivi (secondo i dati del DAP riferiti al 31.12.2001 sarebbero il 42%), fatto che per gli stranieri si conferma, anzi, si rafforza considerando che la media nazionale si attesta sul 57,1%, con punte molto alte in determinate Regioni, prima fra tutte la Lombardia con una media del 68,5%).
Altro elemento da considerare, per completare il quadro generale, è quello relativo la presenza di detenute immigrate: le donne costituiscono solo il 6% dei reclusi stranieri ed appena l'1,8% del totale. Questo dato viene capovolto in alcuni casi, cioè per quelle Nazioni (come l' Ecuador, la Nigeria e la Colombia) che contano un alto numero di donne che espatriano, altrimenti, nella maggioranza dei casi, il carattere prevalente dell'immigrazione che interessa lo Stato italiano è soprattutto maschile, con età comprese fra i 18 e 35 anni.
3.1. La tipologia degli illeciti
Un cenno a parte merita il tema degli illeciti commessi dagli stranieri visto che si tratta di argomento da più parti utilizzato per una riflessione sulla criminalità di quest'ultimi. Per questo tipo di indagine vengono riportati alcuni dati desunti dal Dossier Caritas che, in un capitolo dedicato alla criminalità degli immigrati, riporta uno studio che comprende la comparazione di cinque anni, dal 1997 al 2001[8]. Da questo parallelo si desume che l'andamento della criminalità immigrata si è mosso nel senso di un aumento costante del numero degli illeciti e di un'incidenza sempre maggiore sul totale dei reati ascritti alla generalità dei detenuti: si passa da una percentuale del 13,5% nel 1997, ad una del 19,2% del 2001. Naturalmente tale aumento deve anche essere messo in rapporto con il generale aumento del numero degli immigrati regolarmente soggiornanti in Italia sommato a quello dei nuovi irregolari, elemento che riduce l'effettiva portata di tale variazione. Nell'arco del quinquennio si è ridimensionato il ruolo svolto da alcune fattispecie delittuose: i reati contro il patrimonio hanno subito una congrua diminuzione pari al -4,1%, così anche quelli contro la persona con -3%. Gli aumenti invece, hanno interessato anzitutto le violazioni della legge sulle sostanze stupefacenti, aumentate del 6,4%, che rappresenterebbero attualmente il 38,5 % del totale delle violazioni, nonché naturalmente, l'infrazione della normativa sull'immigrazione. Quanto alla prima, secondo il Dossier Caritas, si tratta di un primato rimasto tale dal 1997 e le ragioni di esso sarebbero da rintracciare sia in una "progressiva sostituzione degli spacciatori italiani con gli stranieri" , sia in relazione ad una esposizione all'azione repressiva delle forze dell'ordine che nel caso degli stranieri sarebbe maggiore, anche perché operano in luoghi facilmente identificabili che agevolano l'azione investigativa.
A proposito delle violazioni della normativa sull'immigrazione viene fatto notare che spesso queste investono non solo chi entra clandestinamente in Italia, ma anche da chi perde la condizione di regolarità (si pensi al caso dei condannati). Inoltre, rivestono una certa importanza una serie di reati commessi proprio da irregolari per raggiungere la condizione di regolarità: specie questo si verifica in concomitanza delle sanatorie che rappresentano un'occasione importante di regolarizzazione. Si pensi in tal senso ai vari reati di falso (artt. 480, 483, 485, 495 c.p.), di contraffazione di sigilli (artt. 467, 468 c.p.), di ricettazione (art. 648 c.p.), di corruzione (artt. 318, 319 c.p.), etc., reati connessi al « business della regolarizzazione fraudolenta » .
Ciò che più fortemente emerge dal paragone tra i totali relativi a tutti i detenuti e ai soli stranieri, è che questi ultimi producono picchi percentuali più alti in un gruppo ristretto di reati, cosicché le principali fattispecie attribuite agli immigrati (tre in particolare: reati contro la normativa sulla droga, contro il patrimonio, contro la persona) incidono sul relativo totale con una percentuale addirittura del 72%. Stessa cosa non si verifica nel caso dei detenuti italiani per i quali si riscontra una maggiore omogeneizzazione fra i diversi illeciti. Altro aspetto peculiare che viene messo in luce, riguarda una scarsa corrispondenza tra la percentuale di stranieri che compiono una certa tipologia di reato e la percentuale che questa stessa tipologia detiene sul totale dei reati commessi da stranieri. Per un esempio che chiarisca, si pensi al reato di sfruttamento della prostituzione: secondo i dati a disposizione, considerando il totale dei detenuti a tale titolo, ben il 77,2% è di nazionalità straniera, ma se si considera il totale dei reati ascritti ai detenuti immigrati, questo rappresenta il 4,9%, e come si vede, trattasi di una discrasia piuttosto evidente. Quindi, una elevata concentrazione di stranieri commette una tipologia di illeciti che, tuttavia, risulta rappresentare una percentuale molto esigua rispetto al totale dei reati ascritti alla popolazione carceraria. Il caso citato, dello sfruttamento della prostituzione, non è l'unico titolo di reato in cui ciò accade, anche se il più evidente, mentre in altri casi, come quello delle violazioni sulla normativa circa gli stupefacenti, risulta esserci una maggiore corrispondenza: il 38,5% del totale relativo, e il 35,4% del totale reale.
Ulteriore aspetto che dalle statistiche può evidenziarsi è quello relativo alla posizione giuridica dei detenuti immigrati, in particolare il rapporto tra definitivi e non. Tale rapporto, che risulta essere uno dei grandi ed irrisolti dilemmi dell'Istituzione penitenziaria a causa del fatto che la popolazione detenuta è in numero assai consistente non definitiva, nel caso degli immigrati presenta una realtà preoccupante che vede il 57,1% di questi, essere detenuti appunto, non definitivi. Le implicazioni di tale dato significativo sono argomento di riflessione del paragrafo che segue.
4. Le ragioni della sovrarappresentazione: a) motivazioni d'ordine giuridico; b) le due teorie circa la criminalità degli immigrati
La questione della sovrarappresentazione degli stranieri nelle carceri italiane ha destato l'interesse di diversi tipi di studiosi, dai sociologi ai giuristi, in quanto fenomeno preoccupante sotto diversi aspetti. Il maggior rischio, basandosi esclusivamente su quanto viene riportato dalle statistiche penitenziarie, è quello di favorire sentimenti collettivi ostili nei confronti della popolazione straniera nel convincimento di un indissolubile, quanto inevitabile connubio tra questi e la criminalità. Tale sentimento, lungi dall'essere inconsueto, bensì assai frequente in moltissimi dei Paesi che hanno vissuto massicci fenomeni di immigrazione, sembra attualmente spingere l'opinione pubblica sempre più verso un'allarmante etichettamento dell'immigrato quale criminale. La riprova di tale tendenza, oltre che essere alla portata di tutti grazie ai mass media che spesso parlano proprio in termini di allarme sociale, sarebbe secondo alcuni confermata da quei movimenti politici, più o meno recenti, che si ispirano proprio a rinnovati sentimenti neonazionalisti inneggianti a crociate contro gli immigrati. Secondo altri autori, inoltre, tale atteggiamento sarebbe confermato anche dall'analisi dei dati circa i denunciati: gli stranieri risulterebbero denunciati cinque volte di più degli italiani .
Tale discorso circa la percezione della criminalità, si innesta con un altro tema piuttosto attuale che è quello della sempre maggior richiesta, da parte dei cittadini, di penalità, in nome di un diffuso e dominante senso di insicurezza. Il tema della sicurezza, e delle ragioni dell'ascesa dell'allarme sociale, non può in questo contesto essere affrontato rappresentando un argomento complesso che necessita di apposita trattazione; ciò che qui si vuole evidenziare, è soltanto la rilevata connessione tra questo e il fenomeno immigrazione. Secondo un recente articolo[13] dove sono riportati i dati di ricerche empiriche sull'evoluzione del sentimento di insicurezza dei cittadini dal 1997 al 2001, si legge non solo che la "questione criminalità" diviene prima nella graduatoria delle preoccupazioni (da sesta che era nel'97 anno in cui era la disoccupazione a trovarsi al primo), ma anche che quale fonte di tale criminalità in aumento è indicata proprio l'immigrazione. Infatti, in ragione di tale connessione, specialmente per i sostenitori della efficacia della "tolleranza zero", la difesa della sicurezza passa proprio attraverso una "ispirazione segregazionista" che vuole l'esclusione dei diversi, primi fra tutti, gli immigrati: "l'immigrazione è, sempre ed ovunque, un fattore di insicurezza, perché l'incontro non cercato con il diverso provoca, inevitabilmente, ansia e paura" .
Inoltre, trattando il tema della sicurezza dal punto di vista delle istituzioni di controllo sociale, Salvatore Palidda , secondo un suo recente studio, sostiene che l'atteggiamento nei confronti della devianza e criminalità fra gli immigrati, sarebbe emblematico della illusoria idea oggi predominante, secondo cui l'insicurezza può eliminarsi propri grazie ad un'azione repressiva più efficace., Secondo l'Autore, sarebbe riduttivo ricondurre tale convincimento ad un diffuso razzismo comune all'Italia e all'Europa, come sostenuto da alcuni. Piuttosto, sarebbe da ricondurre ad una assenza di teoria e di formazione professionale adeguata, ad esempio, della stessa polizia, prima istituzione a contatto con la criminalità. Una preparazione che si accompagni a nuovi strumenti di monitoraggio delle variazioni della criminalità urbana nel tempo, e non solo l'affidarsi a statistiche risultanti dal conteggio dell'azione repressiva svolta. La tematica della produzione di professionalità adeguata tra le forze dell'ordine, inoltre, è da alcuni autori connessa al complesso tema della prevenzione generale finalizzata proprio alla produzione di sicurezza.
Analisi dell'evoluzione della criminalità, sicurezza, sistemi di controllo sociale, prevenzione generale, sono tutti temi che si intersecano fortemente con quello dell'immigrazione.
In tale contesto, la sproporzione del rapporto tra l'incidenza degli stranieri sulla popolazione e invece sulla popolazione carceraria, ha inoltre sviluppato un dibattito circa l'eventuale incidenza di fattori criminalizzanti gli stranieri: si sono formate due fondamentali correnti di pensiero, di cui si tratterà successivamente, che tendono a interpretare i dati relativi la statistiche penitenziarie, in particolare nei confronti della criminalità degli immigrati, in modo del tutto differente.
Cambiando prospettiva, lasciando momentaneamente il discorso circa le cause che a tale sproporzione conducono, ed entrando, per così dire, in carcere, ciò che preoccupa è anche che essa tanto incide sulla stessa qualità della vita carceraria, intendendo la duplice prospettiva degli operatori e dei detenuti stranieri. Quanto alla prima, si parla molto, infatti, dei nuovi equilibri che si sono venuti a creare dentro gli Istituti e sulla difficoltà di gestione degli stessi da parte degli operatori, nonché sulla necessità di una preparazione professionale di questi che tenga debitamente conto del nuovo assetto. Ponendosi, invece, nella prospettiva dei detenuti, si intende riferirsi specialmente all'abbassamento della soglia dei diritti effettivi degli immigrati, specie a causa di impreparazioni del sistema penitenziario stesso che finiscono inevitabilmente per penalizzarli.
Il paragrafo che segue sintetizza appunto gli istituti che, secondo la maggior parte dei giuristi, comportano nella loro applicazione una disparità di condizioni tra detenuti, o imputati, italiani e stranieri. Il successivo ancora, riassume i contenuti delle teorie cui si è fatto cenno, circa la criminalità degli immigrati.
4.1. a) motivazioni d'ordine giuridico
Diversi autori hanno messo in luce quanto determinati istituti, la cui applicazione nei principi è assolutamente identica che si tratti di imputato o detenuto, italiano o straniero, poi risultino, nella sostanza dei fatti, pregiudizievoli per quest'ultimo. In tal proposito si legge: "analizzando alcuni aspetti procedurali, lo straniero, ancorché formalmente equiparato all'italiano, si trova nel procedimento penale in una posizione di svantaggio che può in vario modo incidere sulla rappresentazione della criminalità che ci forniscono le statistiche giudiziarie, di polizia e penitenziarie"[17]. Non si discute, quindi, delle cause che hanno portato i soggetti a delinquere, o delle loro condizioni di vita prima che entrassero nel circuito penale, bensì cosa accade nella fase successiva, quando sono già indagati, imputati o condannati in via definitiva.
Vengono qui di seguito analizzati singolarmente alcuni dei punti principali:
Come indicato in un articolo di Massimo Pavarini[18] "in carcere si può essere per ragioni di custodia cautelare o in esecuzione di pena". Argomentando circa la prima ipotesi, che è "solo una delle possibili risposte cautelari tra le molte oggi percorribili", ci si trova a riscontrare che con molta probabilità, un immigrato soffrirà maggiormente di quella misura cautelare più limitativa della libertà, che è appunto il carcere, in quanto difficilmente possiede quegli elementi che possano far propendere verso un altro tipo di scelta: "se l'imputato è uno straniero spesso senza fissa dimora, con lavoro precario, è inevitabile che i criteri di affidabilità sociale finiscano per penalizzarlo". E questo poiché " la valutazione che il giudice deve compiere sulla sussistenza del pericolo di fuga e del pericolo di recidiva è decisamente influenzata da considerazioni che devono attenersi alla personalità, allo stile di vita, alle condizioni sociali, economiche e giuridiche del soggetto da giudicare" .
Dunque, in un certo senso, già la condizione stessa di migrante, a causa della carenza di riferimenti all'esterno e di un tessuto sociale conosciuto, e quindi con legami deboli e precari con il territorio, pone quest'ultimo, a parità di condotta, in una posizione di svantaggio rispetto ad un ipotetico imputato italiano.
Un discorso analogo a quello appena fatto circa la custodia cautelare in carcere vale anche, spostandosi nel momento del giudizio, per le valutazioni che presiedono alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (art.163 c.p.). Anche se, in questo caso, rispetto all'applicazione dell'istituto precedente, tale scelta si svolge in un momento ad una certa distanza temporale dal reato, momento in cui gli eventuali elementi positivi, come la valutazioni circa la effettiva gravità del reato, possono più facilmente venire fuori. In ogni caso, le valutazioni che il giudice è chiamato a fare, visto quanto disposto dall'art.133 c.p., attengono sempre a quella condotta e condizione della vita individuale, familiare e sociale, antecedente, contemporanea, e susseguente al reato, rispetto alle quali la condizione particolare in cui l'immigrato per lo più si trova, lo pone facilmente esposto ad un giudizio sfavorevole.
Tornando all'articolo di Pavarini, l'Autore trattando la seconda ipotesi, cioè quella in cui lo straniero sia in carcere in esecuzione di pena scrive: "è importante valutare le seguenti variabili: in primo luogo la severità della condanna, in secondo l'incidenza giocata dalle modalità alternative alla pena in fase esecutiva". Sotto il primo profilo l'Autore mette in evidenza che, sulla base di molte ricerche empiriche, è possibile affermare che "la severità dei castighi legali spesso è in ragione inversa al grado di immunizzazione posseduto dal condannato, per cui a parità di gravità di reati giudicati, si è puniti più severamente tanto più ci si trova verso il basso nella scala sociale", e tale è comunque oggi in Italia, la posizione dell'immigrato.
Il secondo punto di vista è, invece, quello della fruibilità da parte dei detenuti stranieri delle misure alternative al carcere. E' statisticamente dimostrato, e da più parti denunciato, che di fatto, tranne rare eccezioni, gli stranieri, anche se astrattamente nelle condizioni di goderne, non riescono ad accedere a tali benefici. Le motivazioni per cui ciò accade sono comprensibili qualora si guardi ai singoli istituti e dunque ai requisiti previsti per accedervi. Infatti, sia l'affidamento in prova (art.47 ord.pen.), sia la detenzione domiciliare (art.47-ter ord.pen.) che la semilibertà (art.48 ord.pen.), pur nelle grandi differenziazioni, hanno dei requisiti di tipo oggettivo (i limiti della pena) in cui facilmente il condannato straniero rientra, tanto più che gli immigrati si caratterizzano per la commissione di reati per cui sono previste pene medio basse. Il problema sono i requisiti soggettivi, perché spesso l'applicazione di una misura alternativa presuppone un inserimento nel territorio (una casa, un lavoro, familiari di riferimento, etc.) che è proprio ciò che ad un immigrato spesso manca. A ciò si aggiunga l'importante ruolo svolto dalla difesa: l'accesso alla misura alternativa presuppone la messa in moto di un procedimento tramite un'istanza di parte. La qualità della difesa diventa quindi strumento primario per conoscere tempi, modalità e funzionamento di ciascun istituto, è facile immaginare che trattasi di conoscenze tecniche difficilmente possedute da chi è detenuto, e, a maggior ragione, da chi non è di nazionalità italiana. L'aspetto della difesa sarà meglio discussa nel prossimo punto.
Inoltre, si tenga presente, che come già visto in precedenza, anche tale aspetto del non accesso ai benefici, influenza le statistiche sul totale dei detenuti venendo scorporato chi fruisce di tali benefici, e trattandosi nella stragrande maggioranza dei casi di detenuti italiani, è relativamente falsata la statistica finale.
A questi elementi se ne aggiungono altri non meno rilevanti che incidono sulle probabilità, evidentemente più alte per gli stranieri, di saggiare la detenzione, in primis le condizioni della difesa. Si tratta, infatti, nella maggior parte dei casi, di una difesa d'ufficio, spesso costretta dalla contumacia degli imputati (quasi in tutti i casi preceduta da decreto di irreperibilità), ma altrettanto spesso causata dalla impossibilità per l'immigrato di ricorrere ad un legale di fiducia. Questo aspetto non è di poca rilevanza poiché una semplice difesa tecnica, non pone le stesse garanzie di una di fiducia, e nella struttura del processo penale una buona difesa, se non condiziona gli esiti, di certo riesce a garantire all'imputato il migliore degli esiti possibili, o quanto meno il tentativo di raggiungerli.
Poi, per quanto attiene alla delicata questione generale dell'istituto del diritto al gratuito patrocinio, recentemente rivisto dal DPR 115/2002 che ha abrogato la L. 217/1990 in materia pur reiterandone i principi fondamentali, viene fatto notare che nonostante questo sia pensato proprio per favorire le fasce più deboli, queste sono quelle che con più difficoltà riescono ad accedervi. Per gli stranieri, risulta nel concreto ostativa l'ammissione al gratuito patrocinio per due ragioni fondamentali: anzitutto la necessaria produzione d'attestazione dell'autorità consolare competente, dalla quale risulti che l'autocertificazione che viene dall'imputato prodotta, relativa alla mancanza di redditi prodotti all'estero, non sia mendace, e che nella maggior parte dei casi è difficile ottenere. Bisogna inoltre richiamare il disposto di cui all'art.1 comma 6 della L. 217/90, rimasto invariato, che sembrerebbe limitare ai soli stranieri residenti nello Stato l'applicabilità delle disposizioni in materia di patrocinio a spese dello Stato (restandone esclusi i numerosi irregolari).
Altro elemento di notevole rilevanza, anche se non attiene al sistema procedurale di cui si è finora detto, ma che fortemente incide sull'aumento dei valori assoluti degli stranieri detenuti, risulta essere la condizione di irregolarità. Sia chi entra in Italia clandestinamente, sia chi perde la precedente condizione di regolarità di cui era in possesso, si viene a trovare in una condizione che lo pone in collusione con il nostro sistema penale. "In effetti, se è vero che un immigrato clandestino che non abbia commesso alcun reato non può essere rinchiuso in carcere, è però vero che quando non viene espulso, o non può essere espulso, accumula inevitabilmente infrazioni che diventano anche di carattere penale"[20].
Negli anni che hanno preceduto l'emanazione della L.40/98 in realtà si è molto discusso dell'introduzione del reato di clandestinità, per quanto tale argomento sarà meglio affrontato nel paragrafo sul quadro normativo, si chiarisce che tale introduzione nei fatti non è mai avvenuta. Ciò che più è accaduto, e che si ripete nella recente normativa, è la previsione di nuove fattispecie di reato miranti a punire severamente la clandestinità e chi la favorisce.
Uno dei punti più critici e discussi, circa la condizione di clandestinità, è quello delle difficili condizioni della regolarità che sono le prime ad alimentare il bacino degli irregolari. Non favorire i processi di regolarizzazione, o renderli eccessivamente macchinosi, porta alla conseguenza di una irregolarità assai dilagante, in cui può scivolare persino chi è già inserito nel tessuto sociale .
4.2 b) le due teorie circa la criminalità degli immigrati
Come accennato in precedenza, si sono formate nel corso degli anni due teorie circa la criminalità degli immigrati: partendo dall'analisi delle statistiche penali, al fine di studiare le connessioni tra devianza ed immigrazione, si sono formate due correnti di pensiero che approdano a risposte diverse. In estrema sintesi potrebbe dirsi che una interpretazione "analizza le statistiche della delittuosità come indicatori di un'attitudine criminale degli stranieri più accentuata di quella degli autoctoni", ed un'altra invece, "li interpreta come prova della criminalizzazione dell'immigrato ed in generale degli esclusi".
I principali sostenitori della prima teoria, rilevano che la particolare propensione alla devianza criminale da parte degli immigrati scaturisce dal non trovare quelle opportunità di inserimento sperate che hanno motivato e spinto verso il percorso migratorio. Una sorta di condizione forzosa verso la criminalità, oppure una criminalità ricercata sospinti da una specie di deprivazione relativa. Per tali ragioni, gli immigrati delinquono più degli autoctoni.
Appartiene a tale filone, ma non come estremista, Marzio Barbagli, il quale ha esposto la propria teorica nel testo "Immigrazione e criminalità in Italia"[23], suffragandola appunto dai dati statistici a disposizione. La ragione per cui l'Autore non condivide pienamente l'ipotesi netta e semplicistica, della maggiore commissione di reati da parte degli immigrati, risiede nel fatto, supportato nel testo dai dati che vengono riferiti, che tale tesi porta con sé l'idea di una invarianza nello spazio e nel tempo, della relazione fra immigrazione e criminalità. Questa idea Barbagli la contraddice, sostenendo di contro (ed è una delle conclusioni a cui arriva nel suo testo), che la suddetta relazione varia nello spazio e nel tempo, e che tale presupposto deve guidare lo studio di questo fenomeno. Al contempo, però, le conclusioni del suo libro lo portano a collocarsi ad altrettanta distanza dalle teorie degli Autori appartenenti a quello che in questa sede si è definito secondo filone, egli infatti, confuta la teoria della criminalizzazione, eccezion fatta per alcuni svantaggi strutturali del nostro sistema. Secondo l'analisi fornita nel suo testo, i dati riportano una maggiore criminalità degli stranieri, e tale aumento non è riconducibile a fattori criminalizzanti, al massimo le cause di esso sono riconducibili alla teoria della privazione relativa. Trattando i punti principali della sua opera si tenta una sintesi di quanto ivi si sostiene.
Nel volume viene anzitutto individuato quale spartiacque il periodo sullo scorcio della fine degli anni '70: sino a tale momento, infatti, le ricerche empiriche mostrano la criminalità autoctona comunque superiore a quella immigrata, dopo, si registrerebbe una totale inversione di rotta in senso opposto. Tale aumento si conserva costante nel corso degli anni, e la crescita della presenza di stranieri in gruppi visibili di devianti, specialmente nel caso dello spaccio di stupefacenti e della prostituzione, avrebbe favorito il convincimento dell'immigrazione quale causa principale dell'aumento della criminalità oltre il reale, nonché quale causa di insicurezza urbana. L'Autore, però, esclude fortemente che tale aumento della insicurezza "abbia spinto la polizia e la Magistratura ad operare in maniera sempre più selettiva nei confronti degli stranieri, arrestandoli e condannandoli in misura molto maggiore rispetto ai delitti che hanno compiuto". Pur concordando sugli svantaggi che gli immigrati soffrono nei confronti del sistema penale, Barbagli sostiene che "nulla faccia pensare che questi (svantaggi) siano aumentati nell'ultimo decennio" come aumentati sono, invece, gli immigrati coinvolti in procedimenti penali. Quanto si propone di dimostrare, è se gli svantaggi suddetti influiscano sulla frequenza con cui gli stranieri sono denunciati e arrestati. L'affermazione riportata è suffragata nel testo dall'analisi dei dati in due fasi distinte delle reazione del sistema di controllo formale alla violazione di una norma.
Per prima fase, si intende quella che va dalla commissione del delitto all'arrivo della notizia criminis all'Autorità giudiziaria. Perché un procedimento abbia inizio, o la notizia criminis viene assunta dagli organi di polizia, o vi è la denuncia da parte dei cittadini (ricordando che la perseguibilità di una serie di reati è esclusivamente su istanza di parte). A tale scopo, sono analizzati i dati circa quanti e quali persone vengono fermate a piedi dalla polizia: Barbagli utilizza questo dato come indicativo circa la presunta opera selettiva delle forze dell'ordine. Da quanto riportato pare che la percentuale di stranieri ed italiani fermati è più alta nei confronti di questi ultimi. Non solo, quando l'accento viene posto anche sui dati circa le denunce, l'Autore sottolinea che se operasse una selezione da parte della polizia, allora i dati dovrebbero aver registrato un aumento considerevole di quei reati, commessi dagli stranieri, rispetto ai quali il procedimento penale è messo in moto proprio dalle forze dell'ordine, non dalle denunce dei cittadini, ma questo pare non venga riscontrato. Un ulteriore dato porterebbe alle stesse conclusioni: ricerche empiriche dimostrerebbero che mentre un italiano denuncia indifferentemente sia che si tratti di un connazionale, sia di uno straniero, lo stesso non accade per gli stranieri che parrebbero più restii alla denuncia dei propri connazionali. Se così fosse, la quantità di denunciati stranieri avrebbe addirittura un numero oscuro non indifferente da tenere in considerazione.
Per seconda fase, invece, l'Autore si riferisce ad un momento successivo, e cioè quello che conduce alla sentenza o all'archiviazione, ponendosi l'obiettivo di scoprire l'eventuale comprovato comportamento selettivo ad opera degli organi della magistratura. A tal proposito, sostiene che gli svantaggi che gli stranieri possono ragionevolmente subire nell'applicazione delle misure cautelari, subendo più spesso il carcere, si compensano, secondo l'Autore, con i vantaggi circa i precedenti penali, visto che gli stranieri risultano essere più spesso incensurati di quelli italiani. Non solo, questo inciderebbe anche sulla maggiore concessione agli stranieri della sospensione condizionale della pena[25], che dipende, sia da un maggior ricorso di questi al patteggiamento di cui all'art.444 c.p., ma anche appunto, dall'essere incensurati. Nonché, si aggiunge, nel caso dei minori, molti di essi godono del perdono giudiziale, istituto che risulterebbe più applicato agli stranieri.che agli italiani. A tutto questo l'Autore unisce la considerazione circa il dato di fatto non poco rilevante, dell'occultamento della vera identità da parte degli stranieri, come meccanismo di difesa. A livello processuale, per come è strutturato il processo, l'uso di fornire generalità false non ha altro risultato che paralizzare il sistema. Con l'ulteriore risultato che chi è irregolare ha goduto di maggiore impunità rispetto a chi è invece regolare. Elemento, anche questo, che condurrebbe verso l'idea che la maggiore criminalità degli immigrati sia un dato di fatto, non una interpretazione forzosa delle statistiche penali. Secondo Barbagli, il fenomeno dell'irregolarità, inoltre, conduce a fare considerazioni diverse sulla natura stessa dei procedimenti migratori: "ai numerosissimi immigrati venuti per trovare lavoro, se ne sono aggiunti altri in cerca di esperienze nuove ed eccitanti, di avventure, di occasioni di rapido arricchimento e dunque con una propensione per il rischio e una disponibilità a violare la legge molto maggiori". Avvertendo, però, che tale criminalità tra gli irregolari è stata in qualche modo favorita dall'inefficienza dei controlli, interni quanto esterni.
In conclusione, analizzando proprio quelle variazioni nello spazio e nel tempo dei fenomeni migratori di cui si è detto, e quindi cosa è accaduto nell'Europa occidentale dalla fine degli anni settanta sino ad ora, e tenendo conto delle differenze caratterizzanti ogni Paese d'Europa, Barbagli richiama le principali teorie sociologiche al fine di spiegare tali variazioni, e di rispondere agli interrogativi sui comportamenti devianti degli immigrati, regolari e non. La teoria della privazione relativa è quella che secondo l'Autore aiuterebbe a dare una risposta agli interrogativi centrali. Per privazione relativa si intende l'intensa frustrazione provocata dallo squilibrio esistente fra struttura culturale che definisce le mete verso le quali tendere, ed i mezzi per raggiungerle. Questo spiegherebbe, ad esempio, la forte differenza in Italia tra Nord e Sud, cioè perché sia irregolari che regolari violino le leggi più al Nord - Italia piuttosto che il contrario. Ciò accadrebbe poiché al Sud vi sono standard più bassi di vita, che portano a meno frustrazione, ed anche una maggiore facilità ad inserirsi in forme di lavoro in nero, specie in campo agricolo. Non solo, con tale teoria si spiegherebbero anche le differenze tra immigrati di prima generazione e di seconda generazione: se quest' ultimi hanno commesso sempre più reati di quelli della prima è almeno in parte perché diverso è il loro gruppo di riferimento e più elevate le loro aspirazioni. Infine, prescindendo dalle differenze fra generazioni, con tale teorica si potrebbe tentare una risposta circa i mutamenti avvenuti dalla metà degli anni '70, e cioè perché da tale momento in poi le statistiche penali parlano di un costante aumento di criminalità immigrata. Barbagli, infatti, sottolinea che "oltre al peggioramento che vi è stato nella loro situazione sociale ed economica, con il passaggio da una immigrazione prevalentemente da domanda, ad una principalmente da offerta, dobbiamo prendere in considerazione i mutamenti che hanno avuto luogo nei progetti migratori e nei gruppi di riferimento". Pur se ancora per molti migranti la propria condizione è provvisoria, in quanto lavorano con il fine di tornare nel proprio Paese d'origine, e dunque la privazione, il sacrificio viene sopportato in nome della sua transitorietà, e con la prospettiva di migliorie future, nel proprio Paese, altrettanti partono con prospettive di tutt'altro tipo. Sarebbero sempre più i migranti non poveri nel loro Paese, con una buona istruzione, che potrebbero aspirare ad una condizione più che dignitosa nella propria terra, ma che affrontano l'emigrazione "per gettarsi nei consumi di quei beni pubblicizzati dai mezzi di comunicazione di massa", aggiunge l'Autore, "questi migranti hanno assorbito la meta del successo economico del Paese dove andranno e hanno scelto come gruppo di riferimento, gli abitanti di questo Paese".
Passando a quello definito secondo filone, è da premettere che i sostenitori di tale tesi, in contrapposizione a quanto sostenuto dall'autore che si è appena trattato, partono dall'interpretare i dati delle statistiche penitenziarie come indicatori anzi tutto della "produzione dell'attività delle forze di polizia e dell'amministrazione della giustizia"[26]. Questo significa che tali dati parlano, più che della criminalità reale, della criminalità perseguita.
Un sociologo molto importante, che tanto si è occupato del tema immigrazione, è senz'altro Alessandro Dal Lago; questi, in uno dei suoi testi più famosi,[27]ha sostenuto fortemente la teoria della criminalizzazione dei migranti, trattati, dalle società di accoglienza come "non-persone". Punto di partenza della sua analisi, condivisa da molti autori, è la considerazione che la scienza dell'immigrazione che si basa sui dati quantitativi, dimentica che tali dati, al pari di qualsiasi altro dato, sono socialmente costruiti. I numeri dicono ben poco se non si ricostruisce la modalità con cui sono stati raccolti ed assemblati. Conferma l'Autore nell'introduzione del libro citato: "mentre sono piuttosto scettico sulla possibilità che i dati quantitativi rappresentino la realtà sociale dei fenomeni migratori, ritengo che essi possano darci talvolta un'idea dell'ordine di grandezza di ciò di cui stiamo parlando". E significativamente aggiunge: "per esempio, mentre le statistiche sulla criminalità dei migranti esprimono più che altro l'attenzione delle istituzioni repressive verso i migranti, altri dati, in particolare quelli relativi all'ordine di grandezza dei flussi migratori, possono essere utili per smontare i luoghi comuni sulle invasioni". Altro discorso viene fatto per i dati di tipo qualitativo: trattandosi di uno studio sociologico questo tipo di dati riveste un ruolo importante, e ad essi si ricorre, con le dovute cautele, per giungere ad una delle conclusioni principali a cui l'Autore approda. Infatti, attraverso l'analisi dei media, in quanto "le informazioni scritte o audiovisuali, sono il luogo in cui il senso comune viene raccolto, filtrato, riprodotto e trasformato in versione oggettiva della realtà", nonché attraverso le interviste di stranieri e cittadini, ma anche di esperti come avvocati, magistrati, poliziotti, Dal Lago trova conferma di quanto sostiene circa quei "meccanismi sociali, politici e cognitivi che fanno dell'immigrato un (o forse il) nemico pubblico della società contemporanea". La società dunque, etichetta lo straniero perché lo considera una minaccia, e sente l'esigenza di produrre tale ostilità in quanto il fenomeno dell'immigrazione la costringerebbe ad un'analisi su sé stessa. Gli studiosi parlano di funzione specchio dell'immigrazione: questa, più di ogni altro fenomeno è capace di rivelare la natura della società detta di accoglienza. Scrive Dal Lago "quando parliamo di immigrati, noi parliamo di noi stessi in relazione agli immigrati; è per questo motivo che un'analisi che si occupi di immigrazione senza mettere in gioco chi parla, è costitutivamente amputata, perciò falsa". In aggiunta, la contrapposizione "noi/loro mediante la creazione di un nemico, accelera il percorso della costruzione dell'identità nazionale e, in piccolo, di quella cittadina, e per questa via si possono stabilizzare la relazioni tra i membri della società locale" .
In tal senso sembra spiegarsi quella che gli Autori chiamano "selettività negativa" dei sistemi repressivi e giudiziari nei confronti degli immigrati[29]: lo scopo è che la società possa proteggersi. Da ciò consegue che perseguire la criminalità degli immigrati si colloca sul piano politico - simbolico dell'esigenza della rassicurazione del corpo sociale sul pericolo invasione immigrati. La selettività negativa, però, finisce per inserirsi in una specie di circolo vizioso per cui da conseguenza della creazione dello "straniero come nemico", diventa autrice del consolidarsi del binomio immigrato-criminale. Ma l'apparato istituzionale non è il solo che contribuisce al radicarsi del fenomeno della criminalizzazione dei migranti, con esso "gli imprenditori morali e politici per procurarsi consenso", e non ultimi i media, per i quali la figura dello straniero come minaccia è funzionale al loro tipico sensazionalismo. Dalla ricostruzione degli articoli dei quotidiani , si riscontra una prevalenza netta di informazioni negative, e, al contempo, una assenza significativa di notizie circa gli episodi in cui gli immigrati sono vittime, specie quelli di tipo discriminatorio. Discriminazione ed episodi di razzismo, tutt'altro che rari, registrano in tutta Europa un sorprendente aumento, che, secondo alcuni, è strettamente connesso con quella che viene definita la costruzione della "fortezza Europa" che passa attraverso il ricorso a politiche migratorie proibizioniste, funzionali alla costruzione della cittadinanza europea: ancora quindi il discorso della chiusura come forma di protezione, come pendant di un processo identitario. Secondo lo studio di un illustre autore quale è Salvatore Palidda, sulla vittimizzazione dei migranti , e in polemica con Barbagli e l'interpretazione di questi circa i dati sulle vittime straniere di reati (secondo l'Autore non riconducibili a effetti dell'odio razziale), si può sostenere che gli episodi xenofobi e di discriminazione sono molto più frequenti di quanto le statistiche registrano. Anzi, l'Autore sottolinea come ricerche empiriche in tale campo siano state trascurate, "le denunce relative alla vittimizzazione degli immigrati e le relative indagini delle forze dell'ordine sembrano piuttosto rare". Anche questo sarebbe un aspetto che confermerebbe quanto una semplice lettura dei dati statistici risulta essere faziosa, nonché fornisce una parziale descrizione del fenomeno.
A conferma di tale teorica, in un altro lavoro dello stesso Autore[33], che concerne uno studio sull'attività della polizia, sulla base di una serie di esperienze empiriche afferma che "oggi la diffusione di comportamenti discriminatori tra le polizie, come tra i magistrati, operatori sociali e altre categorie professionali, sembra essere dovuta anzitutto al crescente consenso che riscuote la definizione dell'immigrazione come reato di fatto, e all'enfasi sulla criminalità attribuita agli immigrati". Tale discorso si innesta in quello più ampio e complesso che l'Autore affronta circa "l'ordine postmoderno" tema che si interseca con quello sulle migrazioni. Il tipo di atteggiamento delle Istituzioni e di una buona parte della popolazione nei confronti di questo fenomeno, può ricondursi al generale atteggiamento delle società dominanti i cui "sviluppi economici e sociali favoriscono l'inasprimento del dominio delle minoranze sulla stragrande maggioranza della popolazione mondiale, dei Paesi cosiddetti democratici sviluppati sulle società dominate". Da qui, il grande consenso ottenuto in questi anni dalle politiche di "tolleranza zero". Molti autori, concordando con Palidda, parlano di un momento storico delicato, ossia che si sta attraversando un cambiamento definito come una "transazione all'ordine sociale post-moderno" che sta mettendo in crisi l'assetto sociale tradizionale. Sarebbe tale attuale congiuntura economica, sociale e politica, la responsabile di una società "inquieta", responsabile del diffuso panico e dell'ascesa dell'allarme sociale. Da tali paure l'esigenza di un capro espiatorio, di identificare nello straniero il responsabile dei propri squilibri. In tal senso, secondo i sociologi, poco conta la scientificità dei dati, in quanto un fenomeno per il semplice fatto di essere interpretato in un determinato modo dal pensare comune, diviene reale. E così numeri che parlano di un flusso migratorio che nulla ha a che vedere con un'invasione non bastano per ridimensionare il fenomeno nell'immaginario collettivo, mentre un'altrettanto dato statistico, quale potrebbe essere quello del numero di detenuti stranieri, viene iper-rappresentato e ritenuto, senza indugi, conferma della tendenza generalizzata alla criminalità degli stranieri.
In conclusione, la criminalità degli immigrati è fenomeno ingigantito, strumentalizzato per fini politici se non demagogici specie perché è tema trattato diversamente dalla criminalità degli autoctoni. Resta, ad ogni modo, che i fenomeni di devianza tra chi è immigrato sono tutt'altro che rari. Volendo tentare una sintesi di quei fattori responsabili della produzione e riproduzione della devianza e criminalità tra gli immigrati, secondo i sostenitori della cosiddetta "questione sociale"[34], è necessario soffermarsi in primis, sulla politica migratoria adottata dal Paese di accoglienza. Quest'ultima, infatti, più rende complessa la migrazione regolare, più si può ritenere divenga la prima responsabile dell'esclusione sociale, e della conseguente criminalizzazione degli immigrati. Scrive Palidda: "sino a quando la politica migratoria continuerà a privilegiare l'azione repressiva piuttosto che favorire l'immigrazione e l'inserimento dei regolari (si pensi anche alle difficoltà a trovare un alloggio o un lavoro), e non si contrasterà la riproduzione dell'irregolarità in cui scivola buona parte di questi, il rischio di approdo all'irregolarità non potrà che essere alto" . Studi meno recenti in tal proposito , all'esordio del boom del fenomeno, avevano già messo in luce le conseguenze negative di una politica migratoria di chiusura. Tanto più che in Italia la lunga assenza di una normativa organica in materia di immigrazione, ha lasciato vuoti significativi che hanno da un lato favorito l'irregolarità, dall'altro hanno anche dato ampio spazio alla discrezionalità dei funzionari di ogni grado, con il risultato di forti differenze di trattamento e di discriminazioni.
Non solo, una legge equilibrata sulla condizione giuridica dello straniero, dovrebbe incidere significativamente su quelle condizioni che oggi sono dettate e "regolate" solo dal mercato del lavoro[37]. Ciò che le ricerche mettono in luce, è che l'immigrato è disposto a svolgere quei lavori a cui gli italiani non si dedicano più, non solo e non soltanto per la tipologia di lavoro (tendenzialmente umile), ma soprattutto per le condizioni di salario e di precarietà di questi. In sostanza gli stranieri risulterebbero fondamentale manodopera in determinate aree della produttività (in agricoltura, nelle fabbriche, nelle collaborazioni domestiche, etc.) anche perché facilmente disposti al lavoro in nero e a condizioni lavorative disagiate. Questa situazione comporta la permanenza nell'irregolarità, e condizioni di lavoro al di fuori di ogni garanzia; un intervento anzitutto di tipo legislativo dovrebbe andare anche nel senso di arginare il lavoro sommerso così dilagante, agendo proprio su quei presupposti che fanno di chi è (forzatamente) irregolare, facile preda di tale mercato. Infatti, l'istituto circa le condizioni di ingresso che viene più criticato, in quanto responsabile di indurre forzosamente ad un ingresso irregolare, è quello relativo al soggiorno per motivi di lavoro (recentemente ancora modificato, cfr. par 7.1). Nei fatti la legislazione italiana, nel tentare di garantire reali possibilità lavorative, e di non andare ad ingrandire la sacca della disoccupazione, ha sempre figurato l'ingresso per motivi di lavoro connesso ad un pregresso incontro della domanda e dell'offerta, cioè in un momento precedente all'ingresso dello straniero in Italia, cioè quando si trova ancora nel suo Paese d'origine. L'immigrato quindi, entra in Italia per lavoro solo quando ha già instaurato un contatto con il suo futuro datore di lavoro. Questa previsione, in concreto, è sempre stata aggirata, soprattutto perché l' inserimento degli immigrati nell'economia italiana è, nella maggior parte, in settori basati su rapporti di lavoro con forte contenuto fiduciale (servizi alla persona tipo la collaborazione familiare, e la piccola impresa), che difficilmente si contraggono senza che il datore di lavoro abbia mai visto il suo eventuale dipendente.
Inoltre per allargare il campo visuale, sempre restando in tema di politica migratoria, si aggiunge la riflessione circa l'importanza che riveste la cooperazione tra Paesi di immigrazione e società locali di origine. Una cooperazione, però, che non sia "solo tra le polizie ed in materia di repressione delle migrazioni" , ma che passi attraverso il risanamento dei rapporti favorendo lo sviluppo sostenibile dei Paesi d'origine. E questo anche perché la spirale dell'esclusione assieme alla "diffusione dei modelli devianti, la nuova transnazionalizzazione delle mafie e la globalizzazione dell'intreccio tra attività informali e illegali", favoriscono ulteriormente lo scivolamento degli immigrati in attività devianti.
Quello che in estrema sintesi è sostenuto da questi Autori, con le dovute differenze e sfumature, è che l'adozione di modelli devianti sarebbe nella maggior parte dei casi, il prodotto di una serie di fattori che non è l'immigrato ad innescare. Primo fra tutti, si è appena detto, le condizioni per la regolarità poste dalla società di accoglienza. Ma anche i costi imposti dalla società suddetta per mantenere la legalità non sono da sottovalutare. Questo perché anche chi è regolare subisce discriminazioni nell'ambito lavorativo (in quanto spesso è lavorio precario), nella ricerca degli alloggi, che complicano il mantenere tale condizione di regolarità, e che lo conducono lontano dall'equiparazione con gli autoctoni nell'ambito dei diritti, avvicinandolo, di contro, alla scelta della carriera criminale.
Questa interpretazione, si badi, non vede l'immigrato esclusivamente come vittima del sistema, né sono fautori di crociate pro-immigrati tout court. L'invito è verso una politica che regoli l'ingresso, ma che garantisca poi a chi entra una reale ed effettiva garanzia di godimento dei diritti al pari degli altri cittadini. Gli autori avvertono, inoltre, che è anche necessario considerare che rispetto al passato, sono mutati alcuni aspetti del fenomeno migratorio. Molti sono gli immigrati che oggi scelgono assieme all'emigrare l'adesione ad un modello deviante, proprio anche grazie a quella maggior diffusione dei traffici a cui poco fa si accennava. Non solo, la frustrazione di mete non raggiunte, per false proiezioni con cui si affronta la scelta migratoria, spesso è fonte di una consapevole e voluta scelta dell'illegalità. Secondo Palidda, infatti, la vicinanza geografica di provenienza (la maggioranza degli stranieri in Italia proviene dal Marocco, Albania, Tunisia, ex Juoslavia) nell'ambito del processo di globalizzazione di aspettative e di modelli di consumo, induce a sostenere che "le società dei Paesi più vicini all'UE si configurano sempre più come periferie europee, in cui anche i modelli devianti che si affermano tra alcuni giovani incitano all'illusione di un'emigrazione destinata ad attività devianti" . Questi aspetti, però, non tolgono che la società di accoglienza con la chiusura, e con i suoi scarsi strumenti di integrazione, è causa di carriere criminali né volute, né progettate; non solo, essa soprattutto non è in grado di creare e prospettare alternative tanto a chi ha intrapreso già la scelta della devianza, che a chi vi incappa come soluzione di vita più o meno obbligata.
5. Breve sintesi sul quadro normativo
La storia del diritto dell'immigrazione è piuttosto recente, soprattutto se si pensa che la prima vera legge organica risale solo al 1998, e prima di questa, le leggi fondamentali in materia di immigrazione in Italia sono state davvero poche.
La prima normativa specifica sugli stranieri viene varata a metà degli anni '80, mentre in precedenza l'immigrazione si era configurata in prevalenza come un problema di polizia regolata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931, e da circolari ministeriali che, in assenza di previsione normativa, assumevano di fatto valore di legge. Si tratta della L. 943 del 1986, contenente anche la prima regolarizzazione legislativa a beneficio degli immigrati inseritisi nel mercato del lavoro irregolarmente (che sarà prorogata fino al 30 ottobre 1989).Tale legge è il primo segno della presa di coscienza legislativa del fenomeno immigrazione, essa, però, manifesta notevoli limiti in sede applicativa per l'insufficiente rispondenza delle amministrazioni chiamate all'applicazione, e per la mancata costituzione degli organismi previsti a sostegno (presso i vari ministeri). Il Governo, negli anni successivi, prende importanti decisioni, con cui intende assicurare una più completa attuazione della legge: passaggio dei regolarizzati dalle liste speciali di collocamento a quelle ordinarie, costituzione della consulta per i problemi dei lavoratori extracomunitari. Si rende in ogni caso urgente un secondo intervento legislativo che tenga conto di tutte le possibilità di inserimento lavorativo degli immigrati, delle difficoltà burocratiche costituenti un ostacolo nella gestione dei flussi, e della serie di problematiche inerenti ad una sostanziale parificazione dei diritti degli immigrati.
Il secondo intervento legislativo, che per quasi dieci anni resterà il solo, è il D.L. 416 del 30-12-1989, convertito con la legge n.39 del 28-02-1990, la c.d. legge Martelli. La nuova legge, oltre a disporre una nuova sanatoria, e ad introdurre delle misure sui richiedenti asilo e sui rifugiati (come, ad esempio, il ritiro della limitazione geografica), cerca di affrontare in maniera organica la normativa relativa ai permessi di soggiorno. In realtà questa legge, al centro di un aspro dibattito, nasce come disegno organico di riordinamento della materia, ma viene invece diviso in due tronconi. Solo per il primo, comprendente appunto le norme circa ingressi, respingimenti e soggiorno, venne emanato il decreto legge poi convertito; per le altre materie, il Governo approvava il cosiddetto disegno di legge "Martelli-bis", che però non sarà mai discusso in aula. A tal proposito scrive Massimo Pastore : "il ricorso alla decretazione d'urgenza per le norme di polizia dell'immigrazione ed il contestuale rinvio sine die della discussione sui diritti che dovrebbero essere garantiti agli stranieri extracomunitari in Italia, è purtroppo il segnale istituzionale di un approccio verso la questione migratoria ancora fortemente condizionato da una visione emergenziale, che continua a privilegiare gli aspetti dell'ordine pubblico e del controllo". Ancora dunque, una legge non organica caratterizzata dalla soggezione ai poteri della polizia e dalla precarietà dei diritti riconosciuti.
Primo tentativo per superare la frammentarietà proviene dal Ministero per gli affari sociali, che nel 1993, con decreto, costituisce una commissione di studio (la Commissione Contri), per l'elaborazione di una legge completa sulla condizione giuridica dello straniero, che tenga conto dei diritti e dei doveri, e degli strumenti amministrativi idonei alla loro attuazione. La Commissione consegnerà i propri lavori nell'aprile del 1994, ma, il vicinissimo cambio della legislatura, porterà i nuovi schieramenti politici ad ulteriori scontri, e di fatto, il lavoro della commissione non verrà mai esaminato dal Parlamento. In questi anni si susseguiranno altri decreti legge, ( primo fra tutti il DL n. 489 del 1995 del Governo Dini, che prevede una nuova sanatoria, pur se parziale), che non saranno convertiti, a riprova che non ci discosta dal filone dell'emergenza visto che legiferare per decreto è dalla Costituzione previsto solo in ipotesi di estrema urgenza. A conclusione di tale periodo, l'emanazione della L.617/1996 consente la salvaguardia degli effetti prodotti dai vari decreti, dal DL 489/'95 e seguenti, e bisognerà attendere altri due anni per l'emanazione della prima legge che tenta veramente una proposta organica in materia.
Si tratta della Legge n.40 del 1998 che è poi confluita nel Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione, emanato con Dlgs.286/1998.
La L 40 del 1998, "Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", rappresenta la presa di coscienza dell'immigrazione come di un fenomeno strutturale, che comporta una programmazione di un certo respiro (il documento di programmazione diventa triennale da applicare con decreti annuali), una strutturazione più significativa a livello governativo (la competenza passa alla presidenza del consiglio), ed una collaborazione più stretta con i Paesi di emigrazione (si prevede la stipula di accordi bilaterali) e gli altri Paesi Europei. Legge molto discussa, e frutto di grandi scontri, ha senz'altro il merito di tentare, per la prima volta, una equiparazione sostanziale anche sul piano dei diritti. Vista la natura politica del tema da essa trattato, nonché dall'attenzione che il fenomeno immigrazione suscita in termini di allarme sociale, i commenti evidenziano alcune contraddizioni insite in questo testo, frutto probabilmente, di tentativi di compromesso. La linea che la legge segue è quella della costituzione di un doppio, assai netto, regime giuridico per chi è regolare, e dunque incluso, e per chi è irregolare ed escluso.
E in tal senso, l'aspetto che ai commentatori è apparso più grave, è che tale rigida divisione non tiene conto della molteplice natura dell'irregolarità, non sono previste valutazioni sulla gravità della violazione della disciplina dell'ingresso e del soggiorno, con la conseguenza dell'equiparazione di situazioni soggettive profondamente diverse. Sostanzialmente tale testo normativo pare avere una doppia natura. Da un lato, la condizione giuridica dello straniero conosce un innegabile miglioramento qualitativo: per le persone in situazione regolare, si attenua in parte la condizione della reciprocità, e viene introdotta la carta di soggiorno come garanzia di inserimento stabile (acquisibile dopo cinque anni). Per chi è invece, irregolare viene comunque garantito l'accesso ai diritti fondamentali della salute e dell'istruzione obbligatoria, e , almeno negli intenti, la garanzia giurisdizionale in ordine ai provvedimenti adottati nei loro confronti.
Dall'altro lato è anche vero, però, che gli strumenti repressivi, di respingimento e, specialmente, dell'espulsione, vengono riformati e potenziati. Si intende perseguire una maggiore efficacia repressiva, sia ampliando le ipotesi di espulsione, anche sulla base di situazioni discrezionali, sia garantendone l'esecuzione tramite misure coattive. In tal senso, sia preso quale esempio, il fatto che ad uno straniero che abbia ricevuto una condanna, è applicata l'esecuzione dell'espulsione anche qualora questa non sia passata in giudicato, ciò contravvenendo al principio di presunzione di innocenza vigente nel nostro ordinamento.
Per accennare ai contenuti di tale normativa, essa anzitutto si articola in sette titoli: 1) principi generali, 2) ingresso, soggiorno, allontanamento, 3) disciplina del lavoro, 4) diritto all'unità familiare, 5) sanità, istruzione, alloggio e integrazione sociale, 6)disposizioni relative ai cittadini dell'Unione Europea, 7)norme finali. Senza entrare nel merito dei singoli titoli, si tenta un commento che chiarifichi le intenzioni di tale legge.
Alcune innovazioni riguardano il collegamento tra immigrazione e mondo del lavoro: infatti, per la prima volta, sono disciplinate le ipotesi del lavoro stagionale e del lavoro autonomo. E in tal senso, un aspetto ancora più innovativo, consiste nella previsione della possibilità di ingresso per la ricerca del lavoro, a prescindere quindi da una richiesta, nell'ambito delle quote stabilite in fase di programmazione dei flussi, con la cosiddetta prestazione di garanzia. Quest'ultima, disciplinata dall'art. 21 della 40/98, poi art. 23 del TU 286/98, permette al cittadino italiano o straniero regolarmente residente (con un permesso che duri ancora un anno), di garantire l'entrata per la ricerca di lavoro di uno, massimo due, stranieri l'anno. Previsione fortemente voluta dalle organizzazioni sociali, finalizzata a favorire l'incontro tra domanda ed offerta, anche se nell'applicazione ha risentito di qualche ambiguità.
L'istituzione, poi, di un fondo nazionale per le politiche migratorie, tiene realisticamente conto del fatto che la politica di integrazione necessita di adeguati supporti finanziari, e consente di evitare la grave incongruenza, verificatasi nel passato, con l'aver affidato al sistema delle autonomie locali un compito di supplenza forzato.
Entrando un poco più nel dettaglio della disciplina di alcuni istituti, si tenta un quadro sintetico circa la materia di ingresso, di soggiorno, respingimento ed espulsione, ed in materia di integrazione. Il motivo per cui tali istituti presentano forte interesse è che, a parere di molti giuristi, ma anche di sociologi che si occupano del tema dell'integrazione degli immigrati, la politica migratoria è il primo strumento per realizzare in concreto un buon inserimento degli stranieri, una reale equiparazione di questi ai cittadini italiani nei diritti e nei doveri, nonché primaria arma contro l'irregolarità.
a) come si entra in Italia
Ogni anno il Governo italiano fissa le quote massime, secondo criteri stabiliti (offerte di lavoro, chiamate nominative, etc.), di cittadini extracomunitari che possono entrare in Italia. I cittadini di Paesi Extraeuropei e gli apolidi, devono presentare in frontiera il passaporto ed il visto, non così chi proviene dall'area degli accordi di Schengen. Il visto è negato agli stranieri precedentemente espulsi dall'Italia, o da uno dei Paesi dell'area di Schengen, e a quelli considerati pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza, in base ad accordi o intese a livello internazionale. I motivi per cui richiedere il visto sono disciplinati dalla legge[41], ed esso si ottiene presentando richiesta e documenti necessari, al consolato o all'ambasciata italiana nel Paese di residenza (entro 90 giorni le autorità diplomatiche devono accogliere o respingere la domanda).
La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano senza i requisiti richiesti per l'ingresso. Inoltre, il questore decide il respingimento, con accompagnamento alla frontiera, nei confronti degli stranieri che sono entrati in Italia senza passare dai controlli di frontiera, ma sono stati fermati all'ingresso o subito dopo, o che sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di soccorso.
Si tratta come è noto, del documento che autorizza i cittadini stranieri a stare in Italia: va richiesto entro 8 giorni lavorativi dall' ingresso, al questore del luogo di destinazione, e viene rilasciato per lo stesso motivo per cui era stato richiesto il visto d'ingresso in Italia.La durata del permesso è quella prevista per il visto d'ingresso e dipende dal motivo per cui il visto è rilasciato.
Il rifiuto o la revoca del permesso, comunicati allo straniero direttamente o con notifica del provvedimento scritto e motivato, possono essere impugnati con ricorso davanti al TAR, entro 60 giorni dalla comunicazione.
Altro è la carta di soggiorno, documento che consente agli stranieri il soggiorno a tempo indeterminato, da vidimare ogni dieci anni. Si acquisisce dopo cinque anni di regolare soggiorno, e con un permesso di soggiorno che abbia ancora un anno di validità; la richiesta è fatta con domanda corredata dei necessari documenti da presentare al questore, ed è proponibile anche dallo straniero sposato con uno straniero che abbia la carta, nonché un minore figlio di un possessore della stessa. In caso di sentenza di condanna per reati particolarmente gravi (previsti dall'art 9 del TU), anche non definitiva, il questore può disporre la revoca della carta.
La disciplina circa l'espulsione dello straniero dallo Stato è quella che ha suscitato più forti polemiche, nonché dubbi di costituzionalità, specialmente per l'istituzione dei noti "centri di permanenza temporanea", tanto che è stata definita come "un quasi delitto a cui rispondere con una inedita quasi detenzione".[42]
I tipi di espulsione previsti dalla legge sono tre: l'espulsione amministrativa, per motivi di sicurezza, e a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione.
La prima, quella che di gran lunga ha trovato più applicazione (art.13 del TU), è emanata dal prefetto, con decreto motivato, nei confronti dello straniero che: 1) è entrato sottraendosi ai controlli della frontiera; 2) soggiorna senza avere richiesto il permesso, ovvero ha un permesso revocato, annullato o scaduto da oltre 60 giorni e non ne ha chiesto il rinnovo; 3) appartiene ad una delle categorie ex art 1 della L 1423/'56 (persona abitualmente dedita a traffici delittuosi, che vive dei proventi di tale attività) ovvero art 1 della L 575/'65 (indiziati di appartenere a associazioni di stampo mafioso). Lo straniero ha 15 giorni di tempo dall'intimazione per lasciare l'Italia. E' previsto in determinati casi l'accompagnamento alla frontiera, cioè se lo straniero è considerato pericoloso, o se si trattiene oltre quanto previsto a seguito di un'intimazione. Il provvedimento di espulsione prefettizia è un atto dovuto. Tale espulsione può (e non deve) essere disposta anche dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza. Tale misura si caratterizza per il suo contenuto ampiamente discrezionale, che trova quale unico limite, quello previsto dall'art 19 del TU, per le ipotesi di prosecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali. Avverso il provvedimento può essere presentato unicamente ricorso al tribunale in composizione monocratica (il testo di legge prevedeva il pretore) entro 60 giorni.
Il secondo tipo di espulsione, previsto dall'art. 15 del TU, si ha nei casi in cui lo straniero sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p., ed è commissionata dal giudice, sempre che risulti una valutazione di pericolosità sociale del soggetto condannato.
Infine, l'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione, è prevista nei casi di condanna anche ex art 444 c.p.p., dello straniero che si trovi in condizioni di irregolarità, sempre che il giudice ritenga di dover irrogare una pena inferiore ai due anni, e consiste appunto nella espulsione dello straniero, per un periodo non inferiore ai cinque anni, in luogo della detenzione.
A tali ipotesi di espulsione se ne aggiunge un'altra, facoltativa, prevista dall'art 5 comma 7 del TU, disposta nei confronti di stranieri muniti di permesso di soggiorno, o di titolo equipollente rilasciato da uno Stato appartenente all'UE, valido per il soggiorno in Italia, che non abbiano dichiarato la loro presenza in Italia al questore entro 60 giorni dall'ingresso.
I "centri di permanenza temporanea" vengono istituiti dalla L. 40, che prevede che alla loro costituzione provveda il Ministero dell'interno con decreto. Il questore dispone la permanenza presso tali centri "quando non è possibile l'immediatezza dell'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo".
Entro 48 ore tale provvedimento deve essere convalidato dal giudice monocratico competente. La convalida comporta una permanenza nel centro per un periodo di complessivi 20 giorni, prorogabili di altri 10, in ogni caso, appena possibile, l'espulsione viene eseguita. Contro tali provvedimenti è esperibile ricorso per Cassazione, ricorso che però non sospende l'esecuzione della misura.
Con la L 40 vengono riconosciuti in via esplicita, a tutti gli stranieri, i diritti fondamentali. Anzitutto, il diritto alla salute: sono assicurate, a tutti gli stranieri, compresi gli irregolari e clandestini (e ciò non può comportare segnalazioni alla polizia[43]), le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti, per malattia ed infortunio, e gli interventi di medicina preventiva.
Tutti i ragazzi stranieri fino ai 15 anni, regolari e non, hanno diritto all'istruzione. Quest'ultima è garantita anche agli stranieri adulti, regolarmente soggiornanti.
Viene riconosciuto il diritto alla difesa agli stranieri indagati od imputati, e perciò sono autorizzati a rientrare in Italia, anche qualora espulsi, per il tempo necessario ad esercitarlo. Possono accedere, in caso di indigenza, all'istituto del gratuito patrocino con le modalità di cui si è già detto[44].
Viene riconosciuto il diritto all'unità familiare attraverso la richiesta di ricongiungimento (art 29 TU) esperibile da uno straniero in possesso della carta di soggiorno, o di permesso valevole ancora 1 anno, per: 1) il coniuge non legalmente separato; 2) figli minori a carico, anche nati fuori il matrimonio; 3) genitori a carico; 4) parenti entro il terzo grado, a carico, inabili al lavoro secondo la legge italiana.
Inoltre, aspetto importante risulta essere la previsione di misure di protezione sociale per le donne vittime di violenze: in tali casi il questore può rilasciare uno speciale permesso di soggiorno (di 6 mesi, rinnovabile) che consenta di inserire la donna straniera in appositi programmi di assistenza.
Si riconosce il diritto all'alloggio: sono in tal senso previsti i centri di accoglienza, istituiti dalle regioni, province e comuni, fruibili per il cittadino regolare in difficoltà, che dovrebbero assicurare servizi sociali, sanitari e culturali.
E' stato inoltre introdotto un intero capo (il capo IV) recante disposizioni sull'integrazione sociale e sulle discriminazioni. Le prime, disciplinate dall'art 42 del TU, individuano le attività di integrazione che stato, regioni, province e comuni, in collaborazione con le associazioni di stranieri o le organizzazioni che operano in loro favore, devono favorire al fine di "rimuovere gli ostacoli che impediscono l'effettivo esercizio dei diritti e dei doveri dello straniero".
Quanto alle discriminazioni razziali, l'art 43 del TU, definisce il comportamento che costituisce discriminazione come "ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza, l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose (.)". Segue al secondo comma l'individuazione di alcuni autori di eventuali atti discriminatori, quali il pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni (che compia o ometta atti nei riguardi di un cittadino a causa della sua condizione di straniero), il datore di lavoro e i suoi preposti (che mettano in atto discriminazioni dirette o indirette, come l'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza). Ma anche chiunque imponga condizioni svantaggiose o rifiuti l'accesso a servizi offerti al pubblico, o all'occupazione, o all'alloggio, all'istruzione, ed anche impedisca attività economiche legittimamente intraprese, soltanto, è ribadito, in ragione della differenza razziale o religiosa. Quale norma di chiusura l'ultimo comma aggiunge che "il presente articolo e l'art 44 (azione civile contro la discriminazione) si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea presenti in Italia."
L'azione civile esperibile davanti al tribunale in composizione monocratica, è proposta con ricorso; il giudice, provvede con ordinanza ad accogliere o rigettare la domanda, e in caso di accoglimento, i provvedimenti che emette sono immediatamente esecutivi. Contro i provvedimenti è proponibile reclamo al tribunale. E' prevista anche la forma del ricorso collettivo da parte delle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, nei casi di atti discriminatori di carattere collettivo posti in essere da un datore di lavoro.
Infine, questo capo istituisce un Fondo nazionale per le politiche migratorie (art 45), presso la Presidenza del Consiglio, destinato al finanziamento delle attività che la stessa legge intende promuovere e favorire (quelle appena elencate, nonché le misure di protezione temporanea previste dall'art 20 in caso di conflitti, e l'attivazione delle iniziative circa l'istruzione degli stranieri). "Lo Stato, le regioni, le province ed i comuni adottano programmi relativi iniziative ed attività concernenti l'immigrazione, per l'effettiva attuazione operativa del presente testo unico".
Si istituisce, inoltre, una Commissione per le politiche di integrazione (art 46), presso la Presidenza del Consiglio, con il compito di predisporre per il Governo, il rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l'integrazione degli immigrati, e di formulare proposte di interventi. Tale Commissione è composta da esperti nella materia e da rappresentanti dei Ministeri interessati (anzitutto il dipartimento per gli affari sociali della Presidenza del Consiglio, dei Ministeri degli affari esteri, dell'interno, del lavoro e della previdenza sociale, della sanità, e della pubblica istruzione), può, nell'ambito della disponibilità dei fondi di cui all'art 45, affidare l'effettuazione di studi e ricerche mediante convenzioni, per il migliore esercizio dei propri compiti.
Il regolamento d' attuazione delle norme sull'immigrazione contenute nella L 40 e successivamente nel TU, è entrato in vigore nel novembre del'99 con il DPR n.394 del 31-08-1999 pubblicato nella Gazz. Uff. n.258 del 3-11-99.
Successivamente, diverse circolari ministeriali, (soprattutto del Ministero dell'interno), hanno regolato diversi aspetti della materia in questione, secondo molti a dimostrazione che, nonostante gli sforzi del legislatore, l'impianto legislativo in materia di immigrazione soffre della carenza di organicità.
Di recente, la materia è stata rinnovata dalla novella 189 del 2002, che si è andata ad innestare, non sostituendola completamente, sulla precedente normativa di cui si è trattato, il prossimo paragrafo espone appunto gli aspetti peculiari di tale nuova legge.
6. Aspetti significativi della nuova normativa: cenni
La recentissima normativa, L.189/2002 cosiddetta legge Bossi-Fini dal nome dei due ministri firmatari, pur lasciando sostanzialmente inalterata la struttura della Turco-Napolitano, introduce significative modifiche in materia di immigrazione. In un clima politico particolarmente acceso tale legge è stata bersaglio di notevoli critiche, in primo luogo a causa dell'inasprimento delle norme circa l'ingresso ed il soggiorno, responsabili, secondo molti giuristi, di ingrandire il bacino degli irregolari e dei clandestini.
Non è possibile in tale contesto approfondire tutti gli aspetti della nuova normativa, verranno messe in luce solo le modifiche principali ad alcuni istituti.
Il meccanismo fondamentale di regolamentazione dell'immigrazione resta fondato sulla politica dei flussi, con la predisposizione annuale di un decreto con il quale il Governo indica quanti cittadini stranieri possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Secondo la nuova legge, però, in caso di mancata pubblicazione del decreto, mentre prima si prevedeva che ci si basasse su quello dell'anno precedente, ora il Presidente del Consiglio può, e non deve, adottare un decreto provvisorio. Qualora ciò non accadesse, di fatto potrebbe bloccarsi per un anno la possibilità di ingresso regolare.
Le previsioni circa i visti restano praticamente invariate. Quanto ai motivi di esclusione dal rilascio del visto, inoltre, ne è stato introdotto un altro, fermi restando quelli già esistenti: sono esclusi dal rilascio gli stranieri che abbiano riportato una condanna penale, anche a seguito di patteggiamento, per i reati per cui è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza (art 380 c.p.p.), e per determinati reati inerenti gli stupefacenti (di qualsiasi entità, anche lieve), la libertà sessuale, compresi favoreggiamento all'immigrazione e all'emigrazione clandestina.
Per quanto riguarda le procedure d'ingresso aspetto assai rilevante è la rivoluzione nella disciplina inerente gli ingressi per lavoro. Anzitutto viene abolita la figura dello "sponsor", cioè il garante, che era in sostanza l'unico meccanismo che prevedeva l'ingresso in Italia per cercare lavoro. Al posto di quest'istituto, vengono introdotti i "titoli di prelazione": le organizzazioni nazionali degli imprenditori, le associazioni operanti nel settore dell'immigrazione da almeno tre anni, e determinate organizzazioni internazionali, possono, nell'ambito di programmi approvati dal Ministero del lavoro e da quello dell'Istruzione, prevedere attività di istruzione e formazione professionale nei Paesi d'origine. Gli stranieri che abbiano partecipato a tali attività possono iscriversi in apposite liste; il datore italiano che voglia assumere il lavoratore straniero, può chiedere di assumere, e quindi di fare entrare in Italia, un cittadino straniero iscritto in tale lista. Resta, poi, il meccanismo della chiamata nominativa, nonostante il suo scarso, o fasullo, impiego, che si è riscontrato abbia avuto in questi anni. "E' noto che le chiamate nominative di lavoratori residenti all'estero riguardano in realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, lavoratori di fatto già presenti in Italia, per lo più illegalmente, a seguito di un ingresso clandestino o del prolungamento irregolare di un soggiorno legale" [45].
In secondo luogo, viene introdotto il "contratto di soggiorno", che è il presupposto per il conseguimento del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Tale contratto, stipulato tra straniero e datore di lavoro italiano, deve contenere anche la garanzia da parte del datore della disponibilità di un alloggio che rientri nei parametri della legge, nonché l'impegno al pagamento delle spese di viaggio per l'eventuale rientro dello straniero nel Paese d'origine. La novità di tale introduzione, connessa con l'eliminazione della figura dello sponsor, è che è di fatto impedito che si possa immigrare in Italia per cercare lavoro. Inoltre si noti, che anche a fronte di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, lo straniero dovrà comunque rinnovare, ogni 2 anni, il suo permesso di soggiorno (sino a maturare i tempi per la richiesta della carta di soggiorno).
Infine, ancora in relazione alle norme circa l'ingresso, una delle novità più discusse dell'attuale normativa, è la previsione ex art 5 co 2-bis, secondo cui lo straniero che richiede o rinnova il permesso di soggiorno è sottoposto a rilievi foto dattiloscopici. La discussione su tale previsione si è incentrata sul valore politico di tale scelta visto che finora le impronte digitali venivano rilevate solo agli stranieri clandestini; viene criticata la scelta di sottoporre a tale procedura anche chi entra regolarmente in Italia nella celata presunzione che possa scoprirsi con una falsa identità. Le forti polemiche, infatti, hanno portato ad estendere l'adozione di tale misura (preventiva) anche ai cittadini italiani quando, rinnovando il sistema circa i documenti, saranno disposte le carte d'identità elettroniche.
Aumentano le pene pecuniarie e detentive per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, ed è previsto, quale nuovo reato, il favoreggiamento dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso un Paese nel quale lo straniero non ha titolo di soggiorno. Viene inoltre previsto un nuovo pattugliamento navale, per cui le navi militari italiane, e le navi in servizio di polizia, possono fermare ed ispezionare una qualsiasi nave se ha motivo di ritenere che sia adibita al traffico di migranti.
Quanto a tali nuove disposizioni, motivate dalla necessità di combattere l'immigrazioni clandestina, è stato osservato che esse contrastano con l'art.13 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo (1948), in cui si prevede che "ogni uomo ha diritto di lasciare il proprio Paese",[46]visto che in tali casi lo straniero non è neanche entrato in Italia.
Le tipologie di espulsione restano quelle previste dalla Turco-Napolitano, le modifiche più rilevanti riguardano gli aspetti esecutivi che verranno trattati nel punto successivo. Quanto all'espulsione amministrativa, resta quella più importante, i motivi per cui può essere disposta restano invariati, alcune novità riguardano, invece, le connessioni tra procedimento di espulsione e procedimento penale. Le diverse forme di coordinamento previste sono finalizzate ad una più celere e sicura espulsione dello straniero coinvolto in un procedimento penale. Infatti non sussistono profili di interferenza nella fase della adozione del provvedimento dell'espulsione, bensì è nella fase di esecuzione della stessa che deve intervenire l'autorità giudiziaria con il rilascio del nulla osta, che, nella novella del 2002, diviene fattispecie più compiutamente dettagliata. Brevemente le tipologie:
1) Nulla osta su richiesta del Questore: è quanto previsto dal nuovo comma 3 dell'art 13, e cioè il questore, prima di eseguire l'espulsione, per lo straniero sottoposto a procedimento penale (e non in custodia cautelare), richiede il nulla osta. Questo, rappresenta una condizione meramente integrativa dell'efficacia rispetto all'esecuzione dell'espulsione. Se l'autorità giudiziaria non provvede entro 15 giorni, il nulla osta si ritiene concesso (procedura del silenzio-assenso). I motivi per cui non può essere concesso, sono disciplinati: in caso di custodia cautelare, in caso di inderogabili esigenze processuali, nel caso di necessario accertamento della responsabilità di coimputati o imputati in procedimento connesso, ed infine nel caso di interesse della persona offesa[48]. Viene sottolineata l'assenza tra tali inderogabili esigenze processuali, della partecipazione dell'imputato al procedimento . Unico modo per consentire la partecipazione al processo è quanto previsto dall'art 17 del TU, che disciplina proprio il diritto alla difesa, anch'esso rinnovato in quanto sono stati assimilati lo straniero persona offesa e lo straniero imputato. Secondo la previsione di tale articolo è previsto il rientro in Italia per il tempo strettamente necessario per esercitare il diritto alla difesa; l'autorizzazione è rilasciata dal questore anche per il tramite di una rappresentanza diplomatica.
Inoltre, il nulla osta non può essere concesso, secondo il nuovo comma 3- sexies, nel caso in cui si proceda per delitti particolarmente gravi.
2) Nulla osta all'atto della convalida dell'arresto o del fermo: il comma 3-bis dispone che, salvo l'applicazione della custodia cautelare, o altre ragioni di diniego previste, il giudice in sede di convalida, rilascia il nulla osta. Non è chiaro se in tal caso il giudice procede d'ufficio, o se resta necessaria la richiesta del Questore che la norma, però, non nomina. Pare prevalere la prima ipotesi nonostante in tal modo si configuri un caso di adempimento preventivo, visto che i tempi rapidissimi di decisione pongono arduo il verificare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del nulla osta.
3) Nulla osta all'atto della revoca o dell'estinzione della misura cautelare: ultima ipotesi di rilascio del nulla osta, prevista dal comma 3-ter, secondo cui il giudice, con lo stesso provvedimento con cui dispone la revoca, o l'estinzione della misura della custodia cautelare, decide sul rilascio del nulla osta. Il provvedimento è immediatamente comunicato al questore.
Sempre in relazione alle connessioni tra procedimento amministrativo di espulsione e procedimento penale, bisogna sottolineare una ulteriore novità della nuova novella introdotta dal comma 3-quater dell'art.13 (che disciplina appunto l'espulsione amministrativa). Si tratta dell'introduzione di una nuova ipotesi di sentenza di non luogo a procedere per lo straniero espulso, e quindi di un caso di espulsione come condizione di non procedibilità. Il giudice, pronuncerà questo tipo di sentenza qualora non abbia ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, in caso di immigrato clandestino, o con permesso di soggiorno revocato, avuta la prova dell'avvenuta espulsione di questi. In caso di nuovo ingresso, naturalmente, l'azione penale può essere ripresa: lo straniero non deve rientrare nel termine più lungo tra quello di prescrizione del reato più grave (comma 3-quinquies) e quello indicato dal questore (che, come visto, è dai 5 ai 10 anni).
All'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva si aggiunge la nuova ipotesi di espulsione alternativa alla detenzione, per cui, per quanto attiene alla prima, come disciplinato già dalla precedente normativa, il Giudice, con la sentenza, ritenendo di dover irrogare una pena entro il limite di 2 anni ( in caso di reato non colposo, o nell'applicare la pena ex art 444), può sostituire la pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a 5 anni (revocata nei casi di rientro illegale). Inoltre, nella seconda ipotesi, secondo quanto previsto dalla 189/2002, il Giudice (in tal caso il Magistrato di sorveglianza), dispone l'espulsione del detenuto straniero, identificato, che debba scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni, e non devono ricorrere le condizioni per concedere la sospensione condizionale della pena. L'istituto non può essere disposto nei casi di reati gravi, e non è utilizzabile per gli stranieri per i quali il Prefetto non può disporre l'espulsione. Può essere impugnato entro dieci giorni, con effetto sospensivo. Si tratta di un atto dovuto, privo di ambiti di discrezionalità, a differenza del caso dell'espulsione come sanzione sostitutiva. La pena è estinta alla scadenza del termine di 10 anni, sempre che lo straniero non rientri illegalmente.
Non mutano, invece, i presupposti dell'espulsione a titolo di misura di sicurezza, viene però aggiunto un comma 1-bis circa l'esecuzione di tale espulsione che avviene dopo l'esecuzione della pena, che prevede in capo all'Autorità giudiziaria un generale obbligo di comunicazione verso la P.A.
La nuova legge specifica che il decreto di espulsione è immediatamente esecutivo (anche qualora impugnato). Anche la pendenza di procedimento penale non costituisce di per sé impedimento all'espulsione: in questi casi il questore è tenuto a richiedere il nulla osta all'autorità giudiziaria di cui si è appena detto.
Novità incisiva è che metodo ordinario di esecuzione del decreto di espulsione è l'accompagnamento coattivo alla frontiera da parte della forza pubblica (prima era l'intimazione); mentre nel solo caso di permesso scaduto si procede all'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro 15 giorni. Una seconda ipotesi di esecuzione mediante intimazione, si ha nei casi in cui sia necessario ricorrere al trattenimento presso i centri di permanenza temporanea (l'espulsione non è immediatamente eseguibile perché non è accertata l'identità dello straniero, o è necessario prestare soccorso): se sono trascorsi inutilmente 60 giorni (30 più 30 prorogati, mentre secondo la precedente normativa la durata massima era di 20 giorni, prorogabili a 30), ovvero se i centri sono saturi, il questore ordina di lasciare il Paese entro 5 giorni.
La dottrina prevalente ritiene che il provvedimento di espulsione incida solo sulla libertà di circolazione mentre la sua esecuzione mediante accompagnamento coattivo, o il provvedimento di trattenimento incidano sulla libertà personale. Il problema che in tal senso è stato ampiamente dibattuto, è quello della legittimità costituzionale di un tale potere in capo alla P.A. incidente appunto, non solo sulla libertà di circolazione, ma anche su quella personale. Tuttavia, secondo taluni, l'accompagnamento coattivo dovrebbe ritenersi strettamente connesso al provvedimento di espulsione, essendo indispensabile per renderlo efficace ed effettivo, e quindi anch'esso incidente sulla libertà di circolazione. Di teoria opposta la Corte Costituzionale[50] che ha infatti affermato che sia la misura di trattenimento, che quella di accompagnamento coattivo alla frontiera, incidono sulla libertà personale, e che pertanto non possono essere adottate al di fuori delle garanzie dell'art. 13 della Costituzione. La Corte ha inoltre affermato che il giudice, in sede di convalida del provvedimento di trattenimento, deve verificare anche la legittimità del provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera. Alla luce di tale pronuncia , deve ritenersi che tanto l'espulsione con accompagnamento, che il provvedimento di trattenimento, devono essere comunicati al giudice civile entro 48 ore per la convalida. Tale pare essere l'unica interpretazione conforme alla Costituzione della disciplina vigente, che invece sembra prevedere il procedimento di convalida solo per l'ipotesi del trattenimento.
Nel caso di espulsione effettivamente immediata, lo straniero può proporre eventuale ricorso solo dall'estero: per tale motivo il termine è stato innalzato a 60 giorni (anziché 30). Il ricorso non sospende l'espulsione.
Per dotare di maggior forza di persuasione i provvedimenti di espulsione, il legislatore ha introdotto a tutela sia delle intimazioni, che delle espulsioni con accompagnamento coattivo, che dei provvedimenti del giudice, un nuovo sistema sanzionatorio, con uno specifico regime processuale, di cui si va ad accennare.
Anzitutto, lo straniero espulso non può rientrare nel territorio dello Stato per un periodo di 10 anni, anziché 5, e può essere previsto un termine più breve che in ogni caso non sia inferiore a 5 anni, mentre prima erano 3.
Il comma 13-ter dell'art 13 ora introdotto, prevede l'arresto (ora è consentito l'arresto in flagranza), anche se trattasi di una contravvenzione, da 6 mesi ad una anno ( in precedenza era da 2 a 6 mesi), per chi rientri senza autorizzazione (del Ministro dell'interno), ed impone il giudizio direttissimo. Si tratta di un reato istantaneo in quanto la condotta sanzionata è l'ingresso e non la mera presenza. Per cui l'arresto sarà consentito quando lo straniero viene colto nell'atto dell'introduzione nello Stato, o nelle fasi immediatamente successive, non essendo sufficiente la mera presenza.
Il comma 13-bis dell'art 13, tratta due nuove ipotesi delittuose, distinte ma entrambe punite con la reclusione da 1 a 4 anni. Con la prima si sanziona l'ingresso effettuato trasgredendo il provvedimento di espulsione disposto dal giudice. In questo caso è consentito il fermo, ed è imposto il rito direttissimo. Nell'ipotesi di espulsione del giudice come sanzione sostitutiva o come misura di sicurezza, nelle quali è possibile che si proceda a piede libero, si dovrà dimostrare che effettivamente lo straniero sia uscito ed abbia fatto ingresso. Con la seconda, si sanziona il secondo ingresso operato dallo straniero espulso a seguito della commissione del reato di cui all'art 13 co. 13.
La distinta ipotesi per chi si trattiene nello Stato, è disciplinata dal nuovo comma 5-ter dell'art 14 laddove è previsto l'arresto obbligatorio da 6 mesi a un anno, per chi non rispetta l'ordine di intimazione ad uscire dallo Stato entro 5 giorni (ex art 14 co 5-bis); nonché il procedere a nuova espulsione con accompagnamento. Nel diverso caso dell'intimazione a lasciare il territorio nei 15 giorni previsti ex art 13 comma 5, che non è richiamata dalla norme in questione, non è prevista sanzione penale, fino a quando il Questore non disporrà l'accompagnamento, la collocazione nei centri, o appunto l'intimazione ex 14 co 5-bis, accertato il pericolo che lo straniero si sottragga all'esecuzione.
Con il comma 5-quater, sempre dell'art 14, viene introdotta una fattispecie funzionalmente connessa a quella appena trattata: la trasgressione all'espulsione successiva al secondo reingresso. Si tratta di un'ipotesi delittuosa punita con la reclusione da 1 a 4 anni, per chi venga successivamente trovato nel territorio dello Stato, (cioè per lo straniero che ha ricevuto l'intimazione a lasciare lo Stato entro 5 giorni, non vi ottempera, e, punito e nuovamente espulso, viola il secondo provvedimento di espulsione).
Dall'UE si registra una percentuale di soggiornanti pari al 10,8% e sommando questa alle provenienze da altri Paesi Europei, il risultato conduce al 41,4% di soggiornanti provenienti dall'Europa.
Infatti fra il 1998 e il 1999 si è registrato un aumento del 8,6%, fra il 1999 e il 2000 del 4%,mentre tra il 2001 ed il parziale del 2002 l'aumento sarebbe del 2,3%..
PALIDDA S., Devianza e vittimizzazione tra i migranti, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, 2001, pag.86.
Cfr. DAL LAGO A., Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999.
Cfr. PALIDDA S., op. cit., pag.77, per il quale secondo recenti ricerche della Fondazione Cariplo-ISMU, gli stranieri sono inoltre arrestati 9 volte di più e detenuti 12 volte più degli italiani.
DIAMANTI I. BORDIGNON F., Sicurezza e opinione pubblica in Italia, in "Rassegna Italiana di sociologia", 2001, n.1, pagg.115-135.
PEPINO L., La città e l'impossibile supplenza giudiziaria, in "Questione giustizia", 1999, n.5, pagg. 791-813.
Cfr. PAVARINI M., Produrre le condizioni materiali della sicurezza, in "Sicurezza e Territorio", 1994, n.134, pagg. 15-22.
PASTORE M., Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e criminalità tra gli immigrati, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, 1995.
Si ribadisce che l'Autore esclude in ogni caso che l'aumento della criminalità, che ha investito anche l'Italia, sia stato provocato dall'immigrazione. Cfr. op. già cit. pag.48.
DAL LAGO A., Non-persone.L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999.
COTESTA V., Conflitti etnici, violenza sociale e identità collettiva, in "Dei delitti e delle pene", n 1, 1993, pag. 47.
Viene fatto richiamo all'unica ricerca molto importante in questo campo: MANERI M., Stampa quotidiana e senso comune nella costruzione sociale dell'immigrato, tesi di dottorato in Sociologia, Università di Trento, 1995.
Palidda in Devianza e vittimizzazione tra i migranti, op già cit., definisce le due teorie come "questione sociale" e "questione criminale".
PALIDDA S., La devianza e la vittimizzazione, Terzo Rapporto sulle Immigrazioni 1997, Fondazione Cariplo-ISMU, Milano, 1998, pag.161.
Essi sono: adozione, affari, cure mediche, diplomatico, gare sportive, inserimento nel mercato del lavoro, invito, lavoro autonomo o subordinato, missione, motivi religiosi, reingresso, residenza elettiva, ricongiungimento familiare, studio, transito e turismo.
Fatto salvo l'obbligo di referto che sussiste in capo ai medici in caso di reato, come per i cittadini italiani.
BRIGUGLIO S., Diritto di immigrazione?, articolo del 3-10-2002, consultabile su www.stranieriinitalia.it.
Cfr. VITALE G., La legge Bossi-Fini: ingresso, soggiorno, espulsioni, in "Bada alla Bossi-Fini", Lunaria, opuscolo informativo dell'ASGI (Associazione studi giuridici sull'immigrazione).
Si veda anche, nel senso di un diritto all'immigrazione non riconosciuto, in contrapposizione al riconosciuto diritto d'asilo, BRIGUGLIO S., Diritto di immigrazione?, articolo del 3-10-2002 consultabile su www.stranieriinitalia.it
Il riferimento secondo la dottrina appare poco chiaro. Un interesse si potrebbe rilevare nel caso di cui al nuovo comma 3-quater che così recita: "Nei casi previsti dai commi 3, 3-bis, e 3-ter, il giudice, acquisita la prova dell'avvenuta espulsione, se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere", in quanto potrebbe interessare alla persona offesa non giungere ad una sentenza di NLP.
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