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Il carcere visto con gli occhi (e sentito sulla pelle) dei detenuti




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IL CARCERE VISTO CON GLI OCCHI (E SENTITO SULLA PELLE) DEI DETENUTI


In questo capitolo si vuole tentare di penetrare il mondo della reclusione attraverso lo sguardo delle persone che lo vivono in primis e che risultano essere tra gli interlocutori principali incontrati dall'educatore penitenziario nello svolgimento del suo servizio: i detenuti. Si tenta così di attivare quel processo di comprensione preliminare all'instaurarsi di una relazione autentica, necessario altresì, per riconoscere i meccanismi che la rendono così difficile all'interno dell'istituzione carceraria, onde non esserne imprigionati. Tentare di sentire come le persone recluse vivono l'esperienza della restrizione può aiutare l'educatore stesso ad accogliere in modo più sereno ed al tempo stesso consapevole le modalità relazionali che si instaurano e si mantengono nel corso dei mesi o degli anni (dipende dalla durata della pena), spesso scarne di partecipazione umana e falsate - non di rado, da entrambe le parti - da mascheramenti più o meno visibili. Ed allo stesso tempo, affermare che in questo capitolo si attua un tentativo di comprensione, significa riconoscere che una tale comprensione non potrà mai darsi pienamente, poiché essa si arresta di fronte all'inafferrabile peculiarità di ciascun essere umano e della sua storia di vita.

Dare spazio alla loro percezione, dare loro voce, vuol essere un modo di accostarsi alla realtà del contesto carcerario in modo disincantato; si tratta di un mezzo di conoscenza della realtà penitenziaria che può presentare dei limiti, ma che di sicuro si rivela autentico da un punto di vista umano, e che tende a sottolineare il "valore irriducibile dell'esperienza individuale in nome della sua 'soggettività esplosiva' che, in tal modo, non viene più considerata [.] un limite ma una risorsa, poiché costringe a [.] porsi delle domande escluse magari all'inizio e ad avere il coraggio della revisione" [1]

Ed è un modo per entrare nel vivo dell'intenzionalità educativa, dalla quale spesso scaturiscono motivi di stupore e di meraviglia rispetto a quanto l'altro, spesso inconsapevolmente, può recarci in dono con la narrazione della sua storia di vita o di una parte di essa. Non mi dilungherò oltre in anticipazioni e preamboli: le testimonianze che presenterò successivamente non necessitano di troppi commenti, vanno "solo" ascoltate.

In questo modo, si tenta inoltre di realizzare una sorta di "iniziazione" ad uno degli aspetti fondamentali, essenziali al costituirsi di una relazione di aiuto, ma che pur essendo necessario trova sempre meno realizzazione, specialmente entro quei servizi e quelle professioni che si dovrebbero occupare della cura delle persone in difficoltà: l'ascolto. Anche l'educatore penitenziario è all'interno di un contesto problematico, dove la dimensione del dolore, della sofferenza è presente a vari livelli: fisico, psichico, affettivo. E quella sofferenza, va ascoltata. Il che è meno facile di quel che sembra. Per rendersene conto, è necessario provare a farlo, e le pagine che seguiranno, vogliono essere un tentativo di ascolto, il più attento possibile. Per questo motivo mi sono imposta di non togliere la parola a coloro che meglio di chiunque altro, possono farci capire cosa significa vivere l'esperienza della detenzione, evitando di porre interpolazioni di sorta, eccetto quelle rese necessarie da "motivazioni espositive". Infatti il materiale, che consiste in testimonianze tratte sia da testi scritti direttamente dai detenuti, sia da autori che scrivono di vicende di vite "fuori margine" - attraverso la raccolta di interviste fatte sul campo o di lettere -, verrà raggruppato per "temi", legati da un lato agli eventi/episodi che una persona affronta nel passaggio dalla condizione di "uomo libero" allo status di "uomo privato della libertà", dall'altro alle emozioni, alle riflessioni, agli stati d'animo ed agli "apprendimenti" che tali eventi suscitano [2].

Non avendo potuto riportare tutti gli argomenti emersi dalla lettura degli scritti, ho dovuto effettuare una scelta, la quale si è basata su un criterio che potrei definire criterio di ricorsività: ho cioè dato voce ai vissuti esperenziali che sono ricorsi nelle testimonianze degli autori, pur tentando di coglierli nelle loro peculiari modalità di viverli e di intezionarli (nel senso dato al termine intenzionalità nell'approccio fenomenologico, che indica i modi infiniti con cui il soggetto tende verso ed è alla perenne ricerca dell' "oggetto mondo")[3].

È importante sottolineare le diverse collocazioni storiche delle testimonianze raccolte, dal momento che alcune si focalizzano nel periodo precedente ed immediatamente successivo alla Riforma Penitenziaria del 1975 (Notarnicola), altre sono a ridosso dell'ulteriore evoluzione della stessa avvenuta attraverso la legge del 10 ottobre 1986, n. 663 - conosciuta come legge Gozzini[4], ma prima della smilitarizzazione degli addetti alla sicurezza avvenuta con la legge n. 395 del 1990 (Ordinamento del Corpo di Polizia penitenziaria), come ad esempio, quella di Ciro Cozzolino. Altre ancora, come quelle di Andraous, attraversano la storia dell'istituzione carcere nel corso di questi venticinque anni. Le testimonianze raccolte da Salierno sono molto più recenti, sono frutto di interviste effettuate per due anni, a partire dal 1999. Le lettere inviate da detenuti/detenute di tutta Italia alla Redazione del giornale "Ristretti orizzonti" operante all'interno della Casa di Reclusione di Padova, sono state scritte durante gli anni 2002/2003.

La diacronia delle produzioni può essere utile al fine di attuare una comparazione delle condizioni di vita detentiva nel corso del tempo, ed in base ai particolari periodi storico giuridici in cui sono collocate osservare se e cosa è effettivamente mutato e se e cosa invece è rimasto invariato nel contesto penitenziario e nel tipo di dinamiche infra ed inter soggettive che esso contribuisce a mettere in moto.


2.1 - Le fasi del passaggio dalla luce al buio totale (e ritorno, in alcuni casi).


PRELIMINARI.

Definizione concreta del concetto di carcere.


L'affanno per esserci ancora.

Osservato.

Censurato.

Castrato.

Catena che pesa

più di ogni consapevolezza.

Quando giungerà

il tempo di vivere,

e non più sopravvivere[5].


Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrapresentabile se non lo si tocca con mano [.].

L'immagine che si ha di una prigione è uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l'anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle sue stessa grida, dall'imprecare, sanguinare, chiedere[6].


È il luogo in cui alcuni uomini rinchiudono altri privandoli così della libertà personale. Nel carcere dovrebbero esserci rinchiuse persone che hanno trasgredito le leggi dello stato per periodi di tempo che altri, i magistrati, stabiliscono a seconda della gravità o dell'entità della violazione della legge [.]. Va detto però che secondo l'art. 27 della Costituzione della nostra Repubblica la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Molte volte questo non avviene[7].


Là, dov'era più umido

fecero un fosso enorme

e nella roccia scavarono

nicchie e le sbarrarono


alzarono poi le garitte e i torrioni

e ci misero dei soldati, a guardia


ci fecero indossare la casacca

e ci chiamarono delinquenti


infine vollero sbarrare il cielo


non ci riuscirono del tutto


altissimi

guardiamo i gabbiani che volano[8].


La prigione è incredibile. Un'istituzione pazzesca. Entri delinquentello di mezza tacca, ed esci criminale. Anche se sei innocente, ti incattivisci. Anzitutto piombi in una fogna. E come in una fogna ci trovi soprattutto stronzi. Forse lo sei anche tu, ma non lo sai. È una fogna dove discaricano i rifiuti. Più sei povero, più sei ignorante, più sei meridionale e più è facile che tu finisca dentro. Non c'è niente da fare. Lo sanno tutti. Così come tutti sanno che il carcere è la più grande fabbrica di recidivi. Tutti ne parlano, soprattutto quando succede qualcosa: una rivolta, un pestaggio, detenuti che s'impiccano, ammazzano o s'ammazzano. Allora si scatenano i giornali, i politici tuonano, i religiosi pregano. I professori si appellano all'art. 27. della Costituzione: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Poi nessuno fa nulla. E non fanno nulla perché non possono fare nulla. Per mettere mano alle prigioni, devi mettere mano ai codici, ai giudici, ai poliziotti, agli assistenti sociali[9].


Ecco cosa pensa e come definisce l'ambiente penitenziario Robert. O[10], un uomo di 29 anni, proveniente dal Kenya, vissuto sin dalla prima infanzia in una bidonville - Korogocho - nei pressi di Nairobi, con la madre il padre ed il fratello ed altre migliaia di persone distribuite in non più di un centinaio d'ettari . Vita dura, quella di Robert, ben al di là dei limiti di una qualsivoglia decenza umana. Per anni la sua esistenza ruoterà attorno al concetto di sopravvivenza; vedrà suo padre ridotto ad una "larva umana" dall'alcool e sua madre morire di Aids, ma questo non lo angoscerà affatto, perché "L'accaduto (.) faceva parte della vita quotidiana del campo" . Una vita passata allo stato brado, un mondo in cui la legge è spietatamente quella del più forte, del più scaltro, del più aggressivo, in cui l'unica arma utile per sperare di non morire è l'aggressività. Ridotto a "vivere alla giornata come un animale" , Robert riteneva il campo la sua patria ed i suoi compagni di giochi i suoi compatrioti. La sua religione era una sola: sopravvivere nella bidonville di Korogocho. Tutto questo fino al giorno in cui entra a far parte della sua vita un personaggio inaspettato: un missionario comboniano italiano. I padri comboniani avevano aperto una scuola vicino alla bidonville, della quale presto Robert divenne il guardiano: inizia una svolta nella sua vita, perché finalmente ha una casa, ha da mangiare e, soprattutto un "ambiente sereno, dove la violenza non era l'unico codice di vita". Robert rimase per dieci anni con i padri comboniani, imparando, oltre che a leggere sebbene in modo stentato, anche il lavoro di falegname. Decise infine di provare a oltrepassare la soglia di un mondo che oramai sentiva troppo stretto e che gli si presentava senza futuro. Non c'era più nulla a trattenerlo a Korogocho. Con i documenti procurategli dai padri comboniani e facendo i salti mortali per racimolare il denaro, spiccò il volo: direzione Italia. Dell'Italia Robert si era costruito un'immagine mitica, gioiosa, quasi si trattasse di una donna bellissima, generosa e piena di fascino. Se ne era innamorato: in lei vedeva l'avvenire, un mondo da esplorare, da conquistare. Ma all'arrivo all'aeroporto di Fiumicino quella mitica immagine cominciò a sgretolarsi. Robert conosceva a malapena qualche parola in italiano: non riusciva a spiegarsi né capiva quanto gli succedeva attorno. Il traffico lo spaventava, tutto gli appariva troppo veloce, lo smarrimento era completo. Iniziò così il suo approdo in Italia. Se l'impossibilità di comunicare e l'orientamento iniziale costituì un problema, difficoltà ben più grave ed inaspettata fu la possibilità di trovare un lavoro: senza un appoggio da parte dei propri connazionali - a Roma erano pochi i Kenioti - le difficoltà aumentavano notevolmente. In un primo momento trovò un'ancora di salvezza presso la Caritas, ma in lui vi era il desiderio di poter costruire qualcosa contando sulle proprie forze, l'orgoglio di un uomo di essere protagonista della propria vita. Si diede quindi da fare per trovare un impiego: dapprima lavorò per conto di un capo zona nigeriano - vendita di elefantini di legno, accendini, finte La coste e borse Vuitton - e poi trovò una migliore occasione come raccogli pomodori e caricatore di cocomeri, per un guadagno di trentamila lire giornaliere. Dormiva in casolari abbandonati insieme ad altri immigrati. Nel tentativo di trovare un posto di lavoro più stabile, rischiò nuovamente, un altro salto verso l'ignoto: il Nord. In una trattoria di Milano trovò lavoro in nero come uomo di fatica e cameriere tuttofare: lo stipendio era ritenuto da R. buono - un milione e trecentomila al mese -, ed in più mangiava nel locale. "L'unico" problema era costituito dalla mancanza di alloggio : trovare una stanza decente in affitto si rivelava un'impresa disperata, praticamente impossibile perché le abitazioni non si trovavano e comunque, in ogni caso, l'affitto era troppo caro per poterlo pagare. Venne ospitato a casa di un suo collega di lavoro. Di qui cominciarono i guai seri. Una mattina, a seguito di un'irruzione da parte della polizia in casa loro, comprese di coabitare con uno spacciatore di hashish e marijuana. Si ritrovarono entrambi al carcere di San Vittore. In carcere, Robert rimase fino all'interrogatorio con il Giudice per le Indagini Preliminari: "Cosa abbia capito il giudice di quel che, per difendermi, spiegavo in un italo-inglese balbettante, con l'avvocato, il cancelliere, l'interprete che interloquivano a tratti, lo sa solo il cielo. Comunque, mi mise fuori. Una volta uscito, mi trovai nei guai; guai veri, insormontabili. Niente più posto di lavoro e alloggio: ambedue occupati da altri extracomunitari" . Ricorse ancora una volta all'aiuto della Caritas, ma all'orgoglio ed alla voglia di riscatto - che tra l'altro, lo avevano spinto a compiere un viaggio di circa cinquemila chilometri - si sostituirono il senso di impotenza di frustrazione e di rabbia nei confronti di una situazione più grande delle sue forze e della sua volontà, e per finire, di umiliazione: aveva compiuto chilometri per ottenere una vita degna di un essere umano e si ritrovava punto e a capo, con nessun punto di riferimento, con la paura di essere espulso solo per il fatto di essere entrato in carcere, con l'insicurezza derivante dal non sapere quali fossero i suoi diritti, immerso in un contesto sociale pronto a chiedere ma restio a dare.

Attualmente Robert sopravvive spacciando marijuana, anche se tra tutti i crimini esistenti, lo spaccio di stupefacenti è quello che disprezza di più, in quanto lo ritiene "un commercio subdolo, che prospera sulle debolezze altrui"[17]. Ma nemmeno a fare il delinquente può permettersi di scegliere, dal momento che "per i neri non è facile mettersi a fare i rapinatori. Tutti vedono che siamo scuri di pelle e non lo dimenticano di sicuro. Per la polizia è facile rintracciarci e agguantarci" e che "per gli scippi vale un po' il discorso delle rapine: la pelle scura è un handicap. In realtà vorrei smettere di spacciare e di scippare" . Ecco cosa gli è rimasto dell'esperienza - seppur breve - trascorsa tra le mura del carcere San Vittore di Milano:

In carcere non ci sono finito per scelta o per colpa: ci sono capitato per caso. E faccio il delinquente perché altrimenti non saprei come mangiare e dormire []. In prigione ho trovato gente stupida e sfortunata. Non ho visto boss, ma poveracci incapaci di difendersi: per lo più, tossici ed extracomunitari. La criminalità, la giustizia, le carceri sono un'immensa, tragica fogna in tutto simile a quella di Korogocho. Come in quella lontana discarica africana, vi precipitano o vi vengono gettate persone che finiscono stritolate senza neppure sapere di esserlo. Anzi, illudendosi, come criminali, di essere qualcuno[19].


L'ENTRATA E PROCEDURE DI AMMISSIONE.


Attraverso e oltre la soglia: quali sensazioni prova la persona che viene per la prima volta a contatto con questa istituzione, sin dai primi passi che vi muove dentro? In che modo viene vissuto il primo impatto con il carcere?


Il grosso portone si chiude alle tue spalle, scendi dal furgone cellulare che ti ha condotto alla questura della polizia o alla caserma dei carabinieri []. Oltrepassato il primo portone sei rimasto per pochi attimi chiuso tra i due portoni. Anche il secondo portone ora ti si chiude alla spalle, hai oltrepassato la soglia del carcere. Un nuovo mondo ti attende.

Un po' di angoscia ti prende, ti tremano le gambe, sei tutto proteso a percepire un segnale, un qualcosa che ti aiuti a capire cosa ti attende []. Vieni condotto in una saletta vuota in attesa che venga qualcuno a prenderti. Incominci a guardarti attorno, c'è poco da guardare, lo spazio offerto alla vista è quasi sempre poco, angusto. Il carcere incomincia a lanciarti i suoi primi segnali, sta a te saperli ricevere, decifrare [].

L'attesa in questa celletta può variare, da pochi minuti a qualche ora, dipende dal carcere[20].


In carcere si entra da soli. Senza pubblico, senza testimoni, senza fanfare (anche se dentro sarai un detenuto di lusso), come un pacco postale, come tutti quelli che sono arrivati prima di te. Si entra privi di affetti, perché il rito, per essere completo, richiede solo la presenza dei protagonisti strettamente indispensabili. Apparentemente tutto avviene per caso, eppure vi stanno aspettando. In carcere regna una sincronia perfetta. L'impatto è forte [][21].


Perquisizione: cosa significa essere perquisiti? Come avviene concretamente una perquisizione e quali ripercussioni ha - se ne ha - a livello psicologico, la spoliazione fisica della persona che viene accolta in carcere? Quali modalità di perquisizione si attuano all'interno del carcere?


Senti dei passi avvicinarsi [.].

Si apre la porta, di solito vengono due agenti con un brigadiere. Inizia la prima perquisizione, meticolosa, scrupolosa, quasi sempre avvilente. Nudo dovrai fare delle flessioni. Un metal detector ti verrà passato per tutto il corpo. Accovacciato come una gallina, ti sarà avvicinato alle parti più intime. Il tutto non dura più di dieci minuti. A te saranno sembrate ore. Non ne capisci il motivo, la ragione, forse sono i primi uomini a vederti nudo come un verme. Cerchi una risposta a questa prima violenza, non ti verrà data.

Col tempo la troverai da solo, forse li giustificherai. Ti rivesti in un baleno e ti senti un po' meglio[22].


Poi ti portano in uno stanzino. Ti fanno spogliare nudo e ti perquisiscono. Ti fanno chinare, ti guardano pure il buco del culo. E tu ubbidisci, sei umiliato, sconvolto, ma ubbidisci. Non ti ribelli: ti farebbero a pezzi. Ti senti un vile, un verme, una cosa inutile. La sensazione principale è proprio questa: sentirti una cosa, non una persona. Non sei più tu, il tuo nome è sparito, andato, la tua famiglia è andata, sparita. Tu sei andato, sparito, come sono andati, spariti, i lacci delle scarpe, la cinta, l'orologio, la fede nuziale. Tutto quello che eri prima è andato, sparito. Non sei più nessuno, conti meno di un manico di scopa[23].


[.] Perquisizione personale = ce ne sono di quattro tipi: "strategica, sportiva, tattica e strumentale".

In quella strategica devi spogliarti in modo che l'Agente possa vedere se nascondi qualcosa.

In quella sportiva, dopo esserti spogliato, sei invitato a compiere esercizi ginnici in modo che eventuali oggetti nascosti tra le pieghe del corpo fuoriescano.

In quella tattica l'Agente ti palpeggia attraverso i vestiti per sentire se nascondi qualcosa di sospetto. In quella strumentale ti passa addosso il metal detector per accertarsi che tu non abbia parti bioniche [.][24].


L'ufficio matricola: è il luogo in cui la vita di ciascun detenuto è gelosamente registrata: sia quella precedente alla detenzione sia quella che condurrà all'interno dell'istituto. E questo la popolazione reclusa lo capisce in fretta.

Ma è anche il luogo in cui i neo reclusi assaggiano per la prima volta il sapore della macchina burocratica dell'istituzione penitenziaria, fatta di carte, archivi e impronte digitali.


Inizia la prassi burocratica: fotografie, impronte digitali, connotati. Inizi a scambiare qualche parola, intanto ti fanno tutte le domande necessarie che verranno riportate nell'apposito registro d'ingresso. La sensazione di disagio che ti aveva assalito durante la perquisizione incomincia ad andare via [.]. Più tardi capirai che sei stato nel centro nevralgico del carcere: lì sanno tutto di te, cosa hai fatto, quando uscirai. È lì che ogni notizia che ti riguarda arriva. Lì giace il tuo fascicolo personale, la tua cartella biografica [.]. Lì dentro verrà scritto se "sei bravo", "meno bravo", in quella sorta di diario verranno annotate le punizioni, i rapporti ricevuti. Saranno annotati vari permessi occorrenti per i colloqui con i familiari, per telefonare. La tua "persona" fisica sarà certamente nella cella, nella sezione, ma è lì che rimarrà la tua persona giuridica. Anche nell'ufficio immatricolazione rimarrà parte di te [].

Gli stessi agenti che ti hanno preso in consegna al tuo ingresso ti porteranno in una cella di transito. E mentre tu sei in transito, all'ufficio matricola si sta già lavorando su di te [.][25].


[.] L'identikit dei vostri polpastrelli, non sarebbe giusto nasconderlo, costituirà un duro colpo. Sarà quello il primo momento in cui vi sentirete un perfetto delinquente, pur sapendo, almeno me lo auguro per voi, che non è vero. Vi sentirete umiliati, mortificati, marchiati come foste ladri di cavalli nel vecchio West. Sarete rigidi, tutti d'un pezzo come una statua. Perciò il vostro rilevatore d'impronte vi inviterà a sciogliervi[26].


Entro nella 'Casa' e, dopo l'identificazione di rito, vengo accompagnato nell'ufficio per le impronte digitali e la fotografia, che vergogna! Sono disorientato, ma gli agenti di custodia capiscono il mio disagio e sono molto comprensivi. Non sono aguzzini: la loro preparazione e professionalità mi tranquillizza un po'[27].


IN STATO DI DETENZIONE.


La cella: è la nuova casa delle persone recluse. Luogo di coabitazione forzata, dove si frammischiano uomini diversi per età, abitudini, vite, gusti, in cui costante sembra essere solamente un aspetto, nel corso degli anni: lo stato di perenne sovraffollamento, con tutto ciò che ne consegue in termini di vivibilità e di potenziale verificarsi di episodi connotati da aggressività verso gli altri, ma più frequentemente verso se stessi[28].

Non è la tua casa ma lo sarà. Per ogni cella che girerai vi sarà sempre un comune denominatore, l'affollamento. Sentirai sempre la mancanza di spazio; potrebbero anche bendarti gli occhi, saprai sempre il punto in cui sei. Qui nella cella passerai quasi tutto il tempo della tua detenzione. [.]

La cella è di pochi metri quadrati, oppure è un lungo camerone. Le brande quasi sempre a castelletto per potervi ammassare quanti più detenuti possibile. Qualche tavolino a volte in legno, a volte in ferro, infisso nel muro, qualche sgabello, un televisore, una bilancetta per riporvi gli effetti personali anch'essa infissa nel muro. L'immancabile cancellata alla finestra che occuperà grande spazio rubando molta luce alla cella, senza migliorarne la visibilità; quasi mai ci sarà un'adeguata ventilazione: la cella sarà un forno d'estate, un frigorifero d'inverno[29].


Mi alzo, indosso l'accappatoio e inizio lo schema di danza mattutino: tre passi in avanti, e sono nel bagno cucina; tre passi a sinistra, e sono al piano cottura. Accendo il fornelletto a gas, tipo camping, sopra, il bricco con l'acqua per il tè. Un passo a destra, ho il lavandino; allungo il braccio, ecco la busta dove conservo gli articoli da toilette. Mettendo il dentifricio sullo spazzolino penso che, specialmente al risveglio, è molto comodo avere "tutto a portata di mano"; vivere in un ambiente di quindici metri quadri ha i suoi vantaggi, ma il guaio è che in un ambiente così limitato ci devi passare buona parte del giorno e la comodità del mattino, il "tutto a portata di mano", nel corso della giornata diventa un impiccio, un "tutto tra i piedi"[30].


Del sovraffollamento.


Verso le ore sette e mezza sono quasi tutti svegli, ma sarebbe un guaio se tutti si alzassero contemporaneamente: altro che i mezzi pubblici nelle ore di punta! Non si esagera.

Lo stanzino è lungo quattro metri e largo due metri e mezzo circa. Poi metteteci dentro sei brande di ferro (due a castello per tre). Poi ancora aggiungeteci i sei stipetti (cinquanta centimetri per cinquanta ognuno) e, infine, un tavolo (cinquanta centimetri per cinquanta - per sei persone!) contornato con qualche sgabello, finisce l'inventario della cella.

Il piccolo monitor che svolge la funzione del televisore è posto sopra gli stipetti, in un angolo della cella, visibile da tutti. Ma qui parliamo dell'inventario ministeriale e non di quello personale, cioè non del vestiario e degli oggetti di proprietà del recluso: tra i vari capponi, gli accappatoi, gli asciugamani e i vestiti che solitamente si usano per gli incontri coi familiari, o per i processi, immaginate allora quanto spazio ci rimane e quale confusione si creerebbe se tutti i sei uomini, come si accennava prima, si alzassero nello stesso momento, ovvero alle sette e mezza di mattino. Perciò, mentre uno è in bagno, l'altro riceve dallo spioncino (una apertura nella porta, larga ventitré centimetri e alta diciotto) la razione del pane giornaliero, la frutta (di solito due mele a testa) e, se vuole, un bicchiere di latte, mentre gli altri quattro stanno buoni buoni dentro le loro brande.

Una volta finiti i turni con il bagno arriva il cosiddetto passeggio [.]. Alle ore quindici e un quarto si entra definitivamente in cella, per rimanerci fino alle nove del mattino seguente. E, in quelle diciassette ore e quarantacinque minuti, cosa si fa?

Ripetiamo ancora una volta; niente! [.][31]


Ho 26 anni, sono detenuto presso questa struttura. Reati connessi all'uso di sostanze stupefacenti [.]. Celle sempre stracolme, oltre ogni limite di decenza. È difficile per me descrivere che significa stare in una cella con altre sei, sette, otto e anche dieci persone per 24 ore al giorno. Gli odori, i colori, gli umori di persone senza spazio, quasi l'anticamera della follia [.].

Il sovraffollamento, detto così non rende l'idea. Allora forse posso dare un contributo facendo riferimento allo zoo, dove i cittadini che non conoscono il carcere qualche volta portano il figlioletto a vedere gli animali, compresi quelli feroci. Allo zoo, infatti, gli animali sono tenuti in gabbie che sono più grandi degli spazi che vengono riservati in carcere a ogni persona detenuta.

Ma c'è un'ulteriore differenza [.]. In gabbia, infatti, il leone viene lasciato in pace, quando non deve essere addestrato, forzato a fare delle cose. Per noi non è così [.].

La mia stanza, quattro metri per quattro, ospita altre sette persone, oltre me. Otto detenuti con letti a castello che vanno fino al soffitto. Più un tavolinetto da spiaggia, come tavolo su cui mangiare (in otto!).

A qualche metro di distanza, il bagno (un lavabo e il water) che, ovviamente, funziona anche da cucina. Sarebbe interessante chiedere a tutte le ASL una perizia sui luoghi del confezionamento e consumo dei cibi in quasi tutte le carceri italiane! Ma è solo un dettaglio!

'Vivere' in queste condizioni è davvero allucinante[32].


. e dell'isolamento


Dal 1982 al 1987 qualcosa iniziò a mutare in me. Vennero inaugurati i tristemente noti "braccetti della morte". E io sfondai il muro della follia [.].

Tomba. Silenzio assordante. Nessun sentimento [.].

Rivedo quei braccetti angusti, quelle celle buie, quattro o cinque celle per ogni sezione, ognuna di tre metri o poco più. Una scatola interamente chiusa, blindata, senza nulla al suo interno, tranne uno sgabello, una branda e un tavolinetto, tutti ben cementati al terreno. In compenso c'erano i topi di fogna, di due-tre chili l'uno. Con cui noi giocavamo: mettevamo le briciole, i pezzettini di formaggio [.].

Non potevi tenere nulla, non avevi nulla tranne la tua solitudine.

Guardato a vista ventiquattr'ore su ventiquattro[33].


[.] Torno indietro di qualche anno per raccontare il mio periodo di isolamento giudiziario, non per amore biografico, ma piuttosto per evidenziare alcune assurdità: quando sono stato arrestato, nel 1994, sono stato rinchiuso in una cella d'isolamento nella quale c'era soltanto lo spazio per la branda ed una sedia. Oddio, spazio, diciamo che la sedia si incastrava a forza tra il muro e il letto perché era in plastica morbida, altrimenti ci sarebbe stato soltanto per il letto.

Non c'era alcuna finestra, ma fortunatamente l'abile geometra che aveva progettato quella fortezza aveva previsto, come sistema di chiusura, il solo cancello e non anche il "blindato", altrimenti l'unico modo per respirare sarebbero state. le bombole dell'ossigeno [.]. Naturalmente ero nel più totale isolamento: avevo la censura della posta, il divieto di vedere la TV e di ascoltare la radio, di leggere i quotidiani (ma mi veniva negato qualsiasi libro, anche vecchio di decenni: forse qualche veggente poteva aver scritto in anticipo della mia vicenda e suggerirmi elementi utili ad inquinare le prove?) e la vigilanza era rigorosamente a vista, effettuata da non meno di 3 agenti per turno. La notte sembrava il momento ideale per le perquisizioni: non so cosa ci fosse da cercare, dal momento che ero guardato a vista e senza la possibilità di avere alcunché, neppure lo spazzolino da denti (e dove mi sarei sciacquato la bocca.?), ma tant'era. Dopo un po' di tempo fui autorizzato ad usare un bagno che si trovava in fondo al corridoio del reparto isolamento. Nonostante fosse un locale cieco, senza alcuna finestra, gli agenti avevano la precisa disposizione di guardarmi a vista in qualsiasi momento e, siccome la turca nasconde ben poco, il loro imbarazzo era più evidente del mio. Tutto questo andò avanti per un buon periodo, ma non me ne poteva fregar di meno, perché avevo davanti un muro che mi ero costruito dentro per sopravvivere, e non era certamente quel regime di vita a spaventarmi [.][34].


L'attesa.


L'attesa nel carcere scandisce il ritmo delle ore, dei giorni, poiché si attende il passare del tempo per poter ritornare in libertà. In carcere si attende sempre per qualsiasi cosa. Si attende per mangiare, per potersi fare la doccia, per poter andare a prendere un po' aria, si attende per andare al colloquio. Si attende per andare in udienza dal direttore, per andare in chiesa la domenica. Si attende per andare dal medico, si attende sempre al momento della distribuzione della posta. Devi attendere per andare da qualsiasi parte [.]. Attendere, attendere, attendere. Qualsiasi cosa tu faccia o voglia fare in carcere, attendere è la prima cosa da fare

Armati di pazienza, attendi che prima o poi arrivi il giorno della libertà. Allora tutte le attese finiranno[35].


Trasferimenti e relative traduzioni.


All'alba

i guardiani

scostarono bruscamente

le coperte: "Si alzi,

lei è trasferito in altro

carcere". Dove? chiedi

(come se fosse importante.)


Restano mute le bocche

e cerchi allora

di raccogliere i pensieri,

i primi del giorno,

e ti chiedi:

Le Nuove o

S. Vittore,

Porto Azzurro

Rebibbia o Regina Coeli?

(come se fosse importante.)


Poi, un pensiero fesso:

Portofino o Santa Marinella?[36]


[.] Mi chiamo Licia, sono una ragazza triestina arrivata qui a Venezia dal carcere di Udine; quando mi hanno chiamato in matricola, per dirmi che partivo e dovevo essere pronta il giorno dopo per le nove, sono rimasta impietrita. In poco tempo era il secondo trasferimento, ormai pensavo di rimanere a Udine per organizzare un programma per l'affidamento [.]; poi c'era la mia cella, la sentivo mia, perché tappezzata da poster e disegni miei, e poi per le mie compagne [.]. Udine non offre nulla, è un edificio vecchio e fatiscente, per non parlare della pulizia: tre docce alla settimana, per tre minuti, perché ci sono solamente tre ore di tempo e se arrivi ultima la doccia non la vedi. L'aria poi, si chiama aria uno spazio di cinque metri quadrati tra le immondizie, lì dove ti stendi magari per fare quattro chiacchiere.

Da lì sono partita alla "Fantozzi"; ammanettata, piena di bagagli, sono montata nel blindo, sino alla stazione ferroviaria di Cervignano, dove ci aspettava il treno chiamata "periodica": si parte sempre di sabato, quando ci sono i trasferimenti, o meglio sballamenti [.][37].


Siamo detenuti nel carcere di Busto Arstizio, nella Sezione Tossicodipendenti, compagni di cella, come compagno di cella era Cristian, trasferito il 9 febbraio al carcere di Chieti, a 700 chilometri da casa. Una pena da scontare di 10 mesi, 6 di questi sofferti insieme a noi [.]. Cristian è un ragazzo di 28 anni, compiuti in carcere lo scorso 4 febbraio, un compleanno passato chiuso in cella, ma lontano dalla droga. In un anno era riuscito a uscir vivo da ben 9 overdose; per il problema dell'Hiv seguiva una terapia di 6 pastiglie al giorno [.]. Con l'aiuto dei compagni riusciva a seguirla in modo corretto.

Un ragazzo, Cristian, schivo, con difficoltà a comunicare [.] se non che, quando lo si coinvolgeva nelle attività (rare) con il passare del tempo emergeva il vero Cristian: intelligente, simpatico e molto socievole, con tanto bisogno di segni e gesti d'affetto. Ormai era chiaro che tra noi si era creata un'armonia da fratelli, ma quanta fatica per raggiungere questo risultato! È a questo punto che interviene 'chissà chi?' a trasferire un detenuto in un altro carcere, dove deve ricominciare tutto da capo. Per alcuni è solo un problema di ambientamento, ma per Cristian è tutto un altro discorso, perché lui deve incontrare persone che lo capiscano e lo aiutino; [.]. Quali sono i criteri di trasferimento di un detenuto? È vero o no che esiste una legge che vieta la lontananza di oltre 300 chilometri da casa? Noi ci chiediamo se è giusto trasferire un detenuto che deve scontare ancora solo 4 mesi di reclusione così lontano dalla propria famiglia, con tutto quello che comporta: la sofferenza e la disperazione per una persona cara che non si sa ma soprattutto non si vede come sta[38].


SENTIMENTI, EMOZIONI, RIFLESSIONI, APPRENDIMENTI.


L'abbruttimento e l'odio.


[.] Le carceri speciali, invece, di sicuro, in quegli anni, rendevano gli uomini bestie feroci. Erano una tortura, toglievano a chi vi era costretto ogni umanità. Con l'esplosione del "pentitismo", poi, le cose si erano ancora più complicate. Il sospetto era diventato legge. Un dubbio, una chiacchiera, un malinteso e il presunto infame veniva fatto a pezzi. Alla lettera. Ci sono state persone a cui è stato strappato il cuore, tagliate a fette le budella. E magari non erano delle spie. Vivere in quelle condizioni era peggio che morire. Per desiderare di crepare, ti bastava assistere o partecipare a uno strangolamento [.][39].


È difficile da spiegare a chi non lo ha provato, la forza che ti dà l'odio, la consapevolezza di essere solo. E in prigione sei solo, in camera di sicurezza sei solo, di fronte ai giudici, ai poliziotti, agli avvocati sei solo. Solo, solissimo. Tutti ti possono sputare in faccia; molti lo fanno. E non solo in senso figurato, per modo di dire. Ti sputano proprio in faccia, ti trattano come una merda, ti pigliano per il culo. E tu impari, t'incazzi e impari. Impari a odiare, a odiare con tutte le tue forze. Oppure ti spezzi e diventi un rottame umano che ha paura anche di se stesso. Io imparai, e imparai in fretta. Divisi in due il mondo: di qua noi, i "delinquenti", i "criminali"; di là gli altri, tutti gli altri: guardie, secondini, commercianti, impiegati e burocrati[40].


Amicizia?


L'amicizia, questo sentimento vitale per l'uomo, non esiste nel carcere, non la troverai.

È sconsolante dirlo? È necessario dirlo! In carcere troverai qualche surrogato dell'amicizia, come la solidarietà su un problema comune, la comprensione per le tue vicende giudiziarie non potrai scambiarla per amicizia [.]. Il sorriso, l'atteggiamento, i comportamenti sono sempre falsi perché ciò che si fa, quasi sempre non corrisponde a quel che si pensa realmente [.].

Se un giorno ti ritroverai, ingannato, tradito, non dare la colpa agli altri, il colpevole sei tu che hai voluto credere in qualcosa di inesistente[41].


Solitudine


Da giorni mi succede che ho come una specie di vuoto nella testa e non so che scrivere [.].

Sei solo, come se intorno a te ci fosse un deserto di sabbia infinito, seduto di fronte ad una scrivania, cercando di mettere ordine alle idee che passano sfiorandoti [.]. Scrivo queste poche righe dalla solitudine della mia cella, nel profondo del corridoio, da un Paese che non amo e non odio, dove i campi che ci circondano sono già seminati.

Scrivo da un fabbricato chiamato Due Palazzi, dove ci sono più di seicento vite e nessuna è di re o principe, dove ci sono italiani di tutte le regioni, africani di tante nazioni ed europei di tanti mercati, dove nessuno conosce nessuno, dove è rara l'amicizia che perdura nel tempo.

Scrivo con una penna da molto lontano e con una angoscia da molto vicino. Non ho nessuna storia da raccontare. Ultimamente mi sento stanco di storie, come se da subito avessi scoperto che tutte sono state raccontate. Che storia! Nello stesso momento godo di questa solitudine scrivendo (a chi?) [.][42].


Caro amico, ti scrivo questa mia sperando che ti trovi in ottima salute. Da parte mia sto abbastanza bene, ma solo fisicamente visto che sono ancora in questo buco dimenticato da Dio, speriamo per poco ancora [.].

Ieri sera ho visto un film giallo, non so qual era il titolo né chi erano i protagonisti. Non avevo voglia di guardare, di fare nulla: non voglio pensare, anzi la verità è che ho una paura dannata di pensare, allora ho deciso di buttare tutto quello che mi viene in mente su un foglio di carta. Detesto la scrittura, però è l'unico modo di passare il tempo finché arriva l'infermiera con il carrello della terapia [.][43].


La speranza e consapevolezza di sé.


Vorrei richiamare l'attenzione su una esperienza che esiste da circa 12 anni ed è stata l'apripista per altre realtà dello stesso tipo: parlo della Casa circondariale a custodia attenuata Mario Gozzini, nota come Sollicciano, dove ho la 'fortuna' di risiedere. Si tratta di un carcere che ha come fine il pieno reinserimento nella società di soggetti relativamente giovani (fino a 40 anni) e con problemi legati alla dipendenza da sostanze.

Se il fine può sembrare scontato, non lo sono i risultati raggiunti nel corso del tempo seguendo una politica di 'attenzione alla persona' che è l'esatto contrario della spersonalizzazione e deresponsabilizzazione imperante negli istituti ordinari [.].

Certo ad alcuni potrà sembrare un eccessivo investimento di persone e mezzi (operatori, educatori, agenti etc.), ma bisogna rendersi conto che questo è uno dei punti di forza del progetto, grazie al quale l'istituto raggiunge percentuali di 'non rientri' impensabili per le strutture tradizionali. Bisognerebbe poi riflettere su quanto 'paga' un investimento del genere in termini di risparmio sui costi sociali e rendersi conto che la 'vera' sicurezza sociale si ottiene con la prevenzione, agendo sui fattori di discriminazione e di disagio che sono il terreno di coltura dei comportamenti cosiddetti 'devianti', e col concreto reinserimento della maggior parte di coloro che hanno commesso dei reati.

Interventi che possono essere efficacemente realizzati solo da una struttura pubblica, pur con il fruttuoso contributo dell'associazionismo privato e degli enti di volontariato [.][44].


Forse sono proprio io, apparentemente restato in vita, a essere morto, assente, chiuso nel limite temporale del ricordo e prigioniero della finzione dell'esistenza. La mia gabbia la conoscete [.].

Un nucleo che non è fatto solo di sbarre, bensì di gabbie invisibili, ancora più strette e soffocanti, che stritolano l'ambizione, la libertà, l'intelligenza. Chi di voi là fuori non si è mai sentito in gabbia? Che può condividere la sensazione di prigionia, d'inadeguatezza e infelicità? Forse fai parte di coloro che, al lavoro come in famiglia, devono sottostare alla gente richiedente, pretendente e arrogante. Forse sei uno dei tanti adolescenti in crisi che abusano d'alcol, droghe e quant'altro.

Oppure sei uno di quei bambini ai quali dovrebbe essere garantito il diritto all'esistenza di una vita decorosa, invece sono costretti alla miseria, all'ignoranza, se non addirittura alla guerra. O un anziano con la sua gran dignità nell'interpretare il tempo che inesorabile sfugge tra le mani. Ce n'è per tutti i gusti. Gabbie, gabbie, gabbie! Le gabbie sono costruzioni mentali, sono abitudine, sudditanza, logorio. L'esistenza di queste gabbie è un dilemma che non si risolverà mai, perché ogni risposta implica la sua contraddizione.

Allora io cercherò di comprendere in che modo il mio destino possa emergere dalla melma. Non mi resta che combattere (mentre sprofondo sotto il peso del presente) lottando per vincere o perdere. Mi batterò fino all'ultimo battito di cuore, finché un briciolo d'aria nei miei polmoni alimenterà quell'ultimo soffio capace di spazzar via ogni sorta di gabbia[45].


Per onestà devo dire che avevo una cattiva opinione dei preti che circolavano nelle galere, perché molti di loro erano asserviti alle direzioni, e svolgevano il loro compito come una mansione qualsiasi da sbrigare alla svelta: una messa e via.

Ma questo Monsignore era di un altro pianeta.

Era un uomo dal passo lento, parlava senza fretta e aveva pazienza nello starti ad ascoltare e, cosa ben più importante, non dimenticava mai che aveva a che fare con degli uomini e non con delle bestie.

All'inizio ero diffidente, assai attento alle sue mosse, mi ero ripromesso di "cuccarlo" in errore. I primi colloqui che ho avuto colui sono stati una partita a scacchi, ma non l'ho mai colto in fallo.

Lui voleva scendere nei meandri nascosti della mia coscienza, scavare un solco per farmi respirare. Intuivo che cercava di capire oltre le parole, e soprattutto al di là delle cose scritte dai giornali e riportate sul fascicolo di ogni detenuto. Poi, e soltanto poi, ho capito che la sua era una "teologia dell'ascolto"[46].


Sessualità ed affettività: come sono - o non sono - vissute queste dimensioni esistenziali fondamentali per ciascun essere umano, all'interno della realtà penitenziaria? La parola ai protagonisti.


La fase della scrittura è iniziata [.] nell'82, nel 'braccetto della morte' di Foggia. Erano riflessioni. Bestemmie, tante. E quando mi accorgevo, rileggendo, che traspariva un grido di aiuto, diventavo furibondo. Non volevo permettermelo. Scrivevo dove capitava [.] e subito strappavo tutto [.]. Scrivevo perché avevo bisogno di parlare con qualcuno. E strappavo [.] perché gli altri non vedessero con chi parlavo e di cosa parlavo. [.] ricorrente era il bisogno di una donna. Ma non solo da portare a letto, non era la cosa più importante, voglio dire. Volevo una donna da avere davanti a me, mi sarebbe bastato tenerle le mani[47].


Alla pena della reclusione cui si è condannati si applicano pene accessorie che non vengono scritte nella sentenza, ma di fatto fanno parte della condanna. Una delle più gravi, se non la più grave, è il blocco delle emozioni e delle pulsioni che la detenzione provoca, vuotandoti di ogni tipo di contatto-rapporto con persone appartenenti al sesso opposto al tuo [.].

Spesso per gli stessi reclusi è tabù il contatto 'emotivo' con persone del proprio sesso. La persona, costretta a vivere con questa privazione - negazione di una parte importante che compone l'essere, non può certamente divenire adulta, crescere, accertare le proprie responsabilità, e anche da ciò il carcere dimostra la sua inutilità a far sì che da qui le persone escano 'migliori'[48].


Durante i brevi permessi, sono stato con donne. Per fortuna. Almeno uscirò meno rovinato sessualmente. Ma è diverso rispetto a ciò che provo[49].

Il loro [riferito ai suoi genitori] trasferimento a Milano fu un sollievo per me. Ogni volta che venivano a trovarmi ai "minorenni", stavo male. Cominciavo a sudare freddo già prima che arrivassero. Ero attanagliato dall'angoscia. Vomitavo. Trasferendosi al Nord, mi liberarono da un peso. Ma a tutt'oggi preferisco non parlarne. È una ferita ancora aperta[50].


Per me, donna e reclusa, l'affettività è un turbine di intense emozioni che può innalzarmi fino al cielo della felicità o sprofondarmi nell'inferno della disperazione.

Bisogna ammettere che, pur da detenuta, mi è possibile non soffocare la mia affettività avendo la possibilità di periodici colloqui e telefonate che permettono un confronto immediato con i miei sentimenti.

La vera valvola di sfogo però sono le lettere: la cosa più bella in assoluto! Infatti non hanno orari, non impedimenti, nessuno può interromperle [.].

Tutto si può in questi fogli di piccola grande libertà. Puoi anche stuzzicare, provocare e ritirarti, buttarti e ripensarci, sedurre, farti sedurre, far l'amore far sesso

Ah, il sesso! Ecco il punto dolente per noi recluse, credo sia una parte integrante dell'affettività, uno stimolo umano, un desiderio legittimo, ma proprio nel momento in cui, forse, avremmo più bisogno di essere rassicurate anche in questo, ci viene negato.

Palliativi ne esistono, eccome, ma palliativi appunto come l'autoerotismo o l'omosessualità [.].

Credo però che l'affettività sia anche voler bene a se stessi, perdonarsi, pazientare, smettere con il vittimismo, con le lamentele, con la diffidenza ed il sospetto [.]. Personalmente so che pur conoscendo difficoltà, disagi, sofferenze, sacrifici, piccole e grandi rinunce, starò male solo se e quando mi accorgerò di non aver più niente da dare, ma forse anche allora avrò pur sempre un sorriso, una carezza, un ciao per tutti voi[51].


I colloqui e le telefonate con i propri cari: per le persone che si trovano in stato di detenzione, è un momento importante, doloroso e felice ad un tempo, quando si ha la fortuna di poterlo realizzare.


Un colloquio di ieri:


Un giorno mia figlia venne a trovarmi, era un giorno come tanti, vuoto e senza tempo.

Quando accadeva che me le trovavo davanti, mia madre e mia figlia, le mie due donne, ero l'uomo più felice del mondo [.].

Intanto mia figlia rimaneva sempre più silenziosa.

Mi guardava e taceva.

Sorrideva quando accostavo le mie mani a quel vetro impolverato e le sue dall'altra parte cercavano un contatto che non poteva esserci.

L'ho vista crescere dietro un vetro divisorio, con le labbra chiuse e incollate a un citofono, senza poter accarezzarla, senza poter baciarle i capelli lunghi e neri [.].

Soffriva [.][52].


I colloqui e le telefonate di "oggi".


[.] l'intera conversazione sarà ascoltata in sala regia e integralmente registrata [.].

È vietato l'uso del dialetto, pena la caduta brusca della linea. Ascoltate cosa accadde a un ragazzo catanese che aveva commesso una rapina e si era ritrovato in un carcere del nord. Stava finalmente parlando con sua madre, che viveva a Catania. I due avevano iniziato a conversare in catanese strettissimo [.]. Dalla regia gli lanciarono un primo avvertimento. I due lo ignorarono [.]. La comunicazione venne tolta. Il ragazzo, che non sapeva darsi pace, era in preda a una crisi di nervi, strillò frasi incomprensibili verso la guardia. Quando finalmente si calmò, spiegò: "Mia madre, da quando sono nato, ma ha sempre sentito parlare catanese. E lei non conosce una parola d'italiano. Non potevo permettere che mi morisse di pena. Se mi avesse sentito parlare in italiano avrebbe detto: "Come parla strano mio figlio . perché parla così? Che cosa gli è successo?". E le sarebbe venuto un infarto"[53].


[.] vorremmo portarvi a conoscenza dei primi disagi che sono costretti ad affrontare i familiari che si recano ai colloqui alla Casa Circondariale: prima di tutto chi non possiede un mezzo proprio e viene da un'altra città, scendendo dal treno, alla stazione ferroviaria di Padova, è costretto a grossi disagi, in quanto ancora non esiste una semplice linea di autobus di collegamento []: non si possono poi tralasciare quelli che sono i danni economici di chi come noi (io romano e Roberto sardo) è costretto a trascorrere la detenzione lontano dalla nostra città di residenza, che potrebbero essere alleviati con il trasferimento con la procedura più semplice e svelta di quella attuale nelle Case Circondariali delle città di appartenenza, o almeno in quelle più prossime. Per ciò che riguarda le stanze dell'affettività, noi saremmo del parere per il momento di accontentarsi anche dei semplici colloqui nelle "zone verdi", senza il bancone divisorio, come già si effettuano in altre Case Circondariali e non solo del nord [.][54].


Mi chiamo Enrico e parlerò della mia situazione personale [.]. Io sono detenuto da dieci anni, oggi più distaccato che mai da mio figlio [.]. Il fatto è che la mia vita affettiva ora è in crisi e vedere mio figlio è diventato ancor più difficile, anche perché il lavoro che fa la madre di mio figlio non le permette molte possibilità, sia di tempo, che economiche: da Milano per venire fin qui a Padova, entrare a fare colloquio e ritornare ci vuole un mezza giornata, e almeno centomila lire, salvo complicazioni per il viaggio [.]. Il mio rapporto con lui, quello che tristemente ho con mio figlio, si può benissimo definirlo un 'non rapporto'.

Mio figlio è cerebroleso, con sette patologie diverse in quell'unico corpicino, nove anni e mezzo e non parla, non cammina, ma grazie a Dio nonostante tutto sa farsi capire bene, sa dare affetto, tenerezza, e trasmettere amore con i suoi sguardi e i suoi gesti. Il fatto però di vederlo ogni quindici giorni, ed ora una volta al mese, rende difficile mantenere saldo un rapporto affettivo, il bambino tante cose non può capirle, e i distacchi continui lo portano automaticamente a vedermi come una persona qualsiasi, ride e gioca poco con me perché spesso è infastidito per il viaggio pesante [.]. Dopo un viaggio di ore, dopo un'altra ora di attesa prima che ci si possa riabbracciare, ci si incontra il più delle volte in locali desolanti. Imporre alle famiglie dei detenuti condizioni di incontro così avvilenti significa non aiutare certo i figli a mantenere saldi gli affetti e a desiderare i colloqui [.]. Ero un delinquente, mi piaceva questo genere di vita, mi ha dato momenti di soddisfazione, non lo nego e non mi vergogno di dirlo, questo però faceva parte del mio passato, oggi mi guardo indietro e mi rendo conto che quella vita in realtà mi ha levato tutto, mi ha levato le vere gioie, il crescere mio figlio, l'essergli concretamente vicino, [.]. Quel poco che mi è rimasto è l'essere padre, ma ancora più che mai 'latitante' per mio figlio[55].


[.] La legge prevede che sia un diritto del detenuto mantenere vivi i rapporti con la famiglia [.]. Quei colloqui che aspetto con ansia da un sabato all'altro, per passare un'ora in compagnia di mia moglie e mia sorella. Un'ora che non arriva mai, poi come un batter d'occhio se ne va, lasciandomi con la nuova ansia fino al colloquio successivo [.][56].


Era un giorno di gennaio, un giorno freddo ma con il sole. E quel giorno lo ricordo non perché faceva freddo e c'era il sole ma perché alle 2 del pomeriggio di quel giorno arrivò una telefonata. Dopo 16 mesi di carcere, la direzione mi aveva dato il diritto di parlare al telefono [.].

Le ore che dovevo aspettare mi sembravano le ore più lunghe della mia vita, ma erano piene di emozioni e di ricordi. Finalmente le 2 sono arrivate [.];

Esco dalla cella e vado vicino al telefono. Il telefono squilla, alzo la cornetta, le mani tremano. Comprimendo l'emozione della mia voce, dalla bocca escono le prime due parole 'alla mamma', aspettavo dall'altra parte di sentire la voce di mia madre ma era inutile. Riuscivo a sentire solo una persona che piangeva: era mia madre che non riusciva a parlare ma solo a piangere [.][57].


Suicidi in carcere: due testimonianze di umana disperazione.


Sono Laura, sorella di Stefano il ragazzo morto suicida nel carcere di Ivrea, le scrivo dopo aver visto l'intervista che ha rilasciato alla RAI il 2 gennaio.

Vorrei precisare una cosa e la voglio sottolineare.

Stefano non era un tossico. Può darsi che, in mezzo a tanti amici, qualcuno gli abbia offerto qualche sigaretta di hashish, ma da qui a chiamarlo drogato, come tanti giornalisti l'hanno definito, è troppo.

Stefano aveva da venti giorni compiuto diciotto anni, era in macchina con altri tre, due di questi erano già conosciuti dalla polizia e la droga non era nelle sue tasche, ma lui si è autoaccusato, scagionando completamente gli altri tre [.].

Ho voluto in seguito conoscere il giudice e chiedere spiegazioni, mi ha risposto con queste parole: "Signora non posso più tornare indietro, non era lui che volevamo, alle nostre domande rispondeva confusamente, si capiva che non ne sapeva più di tanto, ma sorrideva sempre, scherzava, sembrava che la cosa non gli importasse poi molto". Così decisero di punirlo, doveva essere solo una punizione. Mio fratello era quello che, quando a scuola veniva interrogato e non sapeva la lezione, si girava verso i compagni e rideva, così tante volte prendeva le note, ma la sua era solo una forma di timidezza [.][58].


[.] Quella mattina, non so perché, l'odore era diverso. Non saprei descriverlo, so solo che impediva di respirare a pieni polmoni, come il presentimento di qualcosa di grave che fosse accaduto nella notte. Alcune ore dopo, arrivava nelle varie sezioni la voce che un detenuto, un nostro compagno, si era tolto la vita impiccandosi in cella. Abbiamo cominciato a porci le prime domande. Prima di tutto, chi fosse.

Quando abbiamo saputo che era un ragazzo marocchino di vent'anni, molti di noi hanno provato un brivido sotto la pelle. Subito dopo, ci siamo chiesti perché l'aveva fatto. Gli mancavano, si diceva, soltanto 4 mesi alla libertà. Abbiamo poi saputo che Nizar, questo il suo nome, era in isolamento, cioè sotto osservazione.

E allora è venuto spontaneo chiedersi come avesse potuto portare a termine quell'ultimo, estremo gesto sfuggendo ai controlli. Qualcuno suggeriva, riferendosi alla sua provenienza dal Marocco, che 'forse aveva bisogno di parlare con qualcuno perché era successo qualcosa alla sua famiglia'.

Probabilmente, aggiungeva qualcun altro, era in carcere per la prima volta e, quindi, aveva bisogno di maggiori attenzioni. Forse Nizar aveva soltanto bisogno di essere ascoltato. Di uscire dal suo doppio stato di emarginazione, come detenuto e come extracomunitario, sentire qualcuno esprimergli solidarietà e appoggio morale. Non ti conoscevamo, amico Nizar, ma ti abbiamo dedicato il nostro spettacolo.

Preparandomi per la recita, ho guardato a lungo le ali d'angelo, un costume di scena. Quelle ali che hai utilizzato davvero per volare lontano e che nessuno ormai potrà più toglierti[59].


Regole (scritte e non) di ordinaria .sopravvivenza: tra doveri e diritti.


[.] La violenza raramente si manifesta in modo esplicito, ma passa attraverso gli sguardi, le parole dette e quelle taciute, le malignità che condizionano la vita in carcere.

Del resto, ogni detenuto è costantemente oggetto di violenza, attraverso la miriade di piccole e grandi ingiustizie che subisce, tra ritardi, rifiuti e incomprensioni; e questa carica di violenza accumulata è difficile non sfogarla da qualche parte: su se stesso, con l'autolesionismo ed il suicidio, ma a volte anche sugli altri, con il sopruso e l'intimidazione [.].

Per logica, noi dovremmo occupare il gradino più basso della scala sociale, poiché godiamo di minori garanzie e diritti, spesso siamo anche i più poveri, comunque siamo soggetti alle decisioni di politici, magistrati e funzionari, operatori sociali ed agenti; tutti scelgono al posto nostro e noi non possiamo scegliere neanche per noi stessi.

Però è umanamente difficile accettare di essere gli ultimi, e allora nascono le sottospecie di detenuti, contraddistinte da una serie di caratteristiche personali e sociali, cominciando da quella che viene chiamata "coerenza con le proprie scelte passate": al primo posto ci sono di solito gli irriducibili, poi vengono i dissociati, infine i "pentiti", o collaboratori di giustizia che dir si voglia.

Un altro criterio di separazione è quello delle condizioni personali, dalla provenienza, alla cultura, alla salute, per cui ci sono situazioni in cui lo straniero è considerato inferiore all'italiano e lo zingaro inferiore a tutti, il tossicodipendente inferiore a chi non lo è, l'omosessuale all'eterosessuale, e così via, all'infinito, in modo ci sia sempre qualcuno inferiore ed ognuno possa costruirsi una sua personale "classifica".

Infine c'è il criterio giuridico-morale, secondo il quale alcuni reati godono di maggiore considerazione, mentre altri sono stigmatizzati e, ancora, i criminali professionisti godono di una certa "rispettabilità" e sono tenuti in maggior conto dei dilettanti ed i dilettanti di quelli "casuali".

Sul gradino più basso ci sono i violentatori, i magnaccia e altri simili "personaggi": questa realtà è comunemente accettata ma determina anche situazioni paradossali per cui succede, ad esempio, che un detenuto responsabile dell'uccisione dell'ex fidanzata sia accettato dai compagni, mentre se l'avesse "soltanto" violentata sarebbe considerato un infame, da relegare nelle sezioni protette [.][60].


[] In prigione ho passato un sacco di guai perché non so stare zitto [.]. Devo avere, per forza, un mio punto di vista. Farlo valere. Non sopporto le regole cretine. E in carcere le regole sono quasi tutte stupide. Sembrano fatte apposta per farti incazzare. Sono proibiti specchietti, pettini, cinte. Dicono che puoi tagliarti le vene, impiccarti. Ma alle finestre delle celle ci sono i vetri e ti puoi appendere alle sbarre con le lenzuola. In realtà, è solo un problema burocratico. Ti puoi fare a pezzi, strangolarti come ti pare. L'importante è che tu lo faccia con oggetti regolamentari. Così la responsabilità non è di nessuno. Ti fanno fare una vita di merda per una questione di responsabilità burocratica[61].


Il sistema disciplinare, nelle carceri, è costituito da due ambiti: uno riguardante il rapporto tra i detenuti e l'istituzione (compresi gli operatori che la rappresentano) e l'altro il rapporto tra compagni di detenzione.

Un problema, comune ai due settori, è l'insufficienza delle informazioni sulle regole di comportamento. Ciò che è consentito o vietato viene solitamente appreso giorno per giorno, spesso sbagliando e subendo le relative sanzioni. La legge Penitenziaria e le norme per la sua applicazione dovrebbero essere consegnate nel momento dell'ingresso in carcere, assieme alla consueta fornitura di lenzuola, stoviglie, etc. Questi materiali dovrebbero anche essere tradotti in lingua straniera, visto che un terzo dei detenuti proviene dai paesi esteri . ma ciò non viene fatto quasi mai[62].


[.] Credevo di aver capito come si vive in carcere, per non prendere rapporti avevo imparato a schivare le provocazioni di tutti i generi, ma il mio primo rapporto . iniziò il suo "iter" mentre stavo dormendo. Questo non potevo né prevenirlo, né evitarlo [.]. Al 1°A (la sezione giudiziaria della casa di Reclusione in cui sono ristretti esclusivamente stranieri), i tempi erano rigidi e miserabili, si stava davvero male [.]. Il primo rapporto lo potrei riassumere così: "Maledetta caraffa, ti sei messa nello spioncino, impedendo all'agente la chiara visione della cella". Sì, perché le cose sono andate proprio così: per comodità, perché ho visto che altri lo facevano, ho messo la caraffa per il latte sullo spioncino, non sapendo che non è permesso. E quando l'agente me l'ha buttata per terra, ho reagito perché non ne capivo il motivo [.][63].

IL FINE PENA.


Mal di libertà prima di uscire.


Uno come me, che è dentro da tanto, tanto tempo, e ne ha passate di tutti i colori, protestando per ottenere i propri diritti da detenuto, dopo tanti anni di detenzione, con l'approssimarsi della possibilità di uscire, viene colto dai dubbi. o, più che altro, da tante paure. Come sarà una volta fuori [.]? Sarò all'altezza di mantenere quelle promesse, realizzare quei progetti che faccio assieme ai familiari quando vengono a trovarmi ai colloqui?

La mia sarà una intromissione nella loro quotidianità, anche se in 20 anni mi sono sempre stati vicini? Mi sono fatto i calcoli: quattro ore di colloquio al mese in pratica, in tutto questo tempo, ho passato con i miei circa due mesi[64].


Mal di libertà col senno di poi.


Sono una ragazza che di entrate e uscite dal carcere ne ha vissute molte, e ogni volta in maniera diversa [.].

Sono uscita con l' ultimo indulto alle 18 di una vigilia di Natale. Andando a casa mi è preso un attacco di panico.

Era buio come nelle sere d'inverno e ricordo i fari delle macchine che sembrava mi venissero addosso. Fino ad allora avevo vissuto in un posto 'protetto' e ora dovevo attraversare una strada: quello che viene fatto automaticamente in una situazione ordinaria, per me rappresentava una difficoltà. Anche dentro casa tutto mi sembrava strano, in particolare i piatti di ceramica pesanti e i bicchieri in vetro; per tutto quel tempo trascorso in carcere avevo avuto contatto solo con oggetti in plastica o carta. Anche il territorio era cambiato, dei campi avevano ceduto il posto a centri commerciali: questo è l'aspetto visivo della libertà [.].

La solitudine, con una morsa, mi attanagliava alla gola per l'intero primo giorno di libertà [.].

Ero sola. Il silenzio mi faceva sempre più pensare alla mia solitudine. Ho cercato lavoro ma avevo la sorveglianza e un brutto timbro dietro la carta d'identità: 'polizia anticrimine'. Ma chi mi poteva assumere?![65]


Libertà: quando la si riacquista la gioia è totale. È l'incontro con la famiglia, l'allegria di essere vivo. Le reazioni iniziali sono le tipiche da stress acuto: alcuni parlano, altri piangono, altri ridono, alcuni ritornano con un senso di spiritualità rinforzato, con l'idea che hanno rivalutato la loro vita e diventeranno migliori. Passano i giorni e le cose cambiano, alcuni lasciano indietro la spiritualità iniziale [.].

La detenzione lascia un'impronta di dolore sociale. I sintomi dello stress iniziale si prolungano per molti mesi, lasciando una depressione molto grande e la presenza fortissima di fobie. Ci si sente insicuri, ci si riempie di domande in cui persiste la sfiducia, non ci si fida più di nessuno, neppure dei vicini di casa o dei compagni di lavoro. La mancanza di fiducia rompe il tessuto sociale e questa è la conseguenza più grave della detenzione[66].


Oggi ho una vita diversa e riesco a non ricordare più gli odori [.].

Ogni carcere ha un suo particolare odore: le Nuove puzza di vecchio e di muffa; Alessandria, di ferro e di polli; Alba, di letame e lavanda; Novara, di ferro e cera per pavimenti [.].

Quando l'ultimo cancello si chiude dopo di noi, non ricordo più l'odore che mi era diventato familiare, l'ho già perso. Oggi ho una vita diversa, più povera di emozioni rispetto al mio ieri, ma è serena, ora il mio ricordo è concentrato sulle fatiche che ho dovuto affrontare quando quei portoni si sono chiusi per l'ultima volta dietro di me. Da detenuta pensando al 'mio fuori' sapevo per esperienza che era proprio questo il momento più difficile, e ora lo so con certezza [.][67].

Quando si esce? La prima volta sei euforico, se ci sono familiari li cerchi tutti, vuoi dire agli amici che sei libero, vuoi quasi ripeterlo a te stesso continuamente, come per spezzare un incubo maledetto. Quando hai scontato una lunga pena, ti accorgi che fuori è tutto diverso; io ero [.] libero, ma avevo bisogno di tempo, per questo stavo rigido e mai a mio agio, volevo soltanto che mi portassero in macchina a vedere tanti posti, volevo vedere spazi, non volevo mangiare, volevo vedere tutto. Dovevo essere informato sulle modalità d'uso del telefono pubblico, le macchine erano diventate per metà computer e i miei remoti studi in meccanica non erano più applicabili.

È duro reiniziare, è duro dover imparare e dover competere nell'immediato [.].

I primi tempi è necessario un supporto psicologico concreto, una persona amica per noi, 'noi' intendiamo noi sulla strada![68]


[.] Mi è facile e difficile nella stessa misura parlarti di ciò che hanno rappresentato questi lunghi anni e di quello che è stato e continua ad essere l'inserimento nella vita "comune", "normale", "sociale" o che dir si voglia.

Uscito dal carcere, mi sono reso conto di quanto fossi strutturato per vivere, o meglio, per sopravvivere all'interno del mondo chiuso e di quanto fossi carente di strumenti per affrontare la vita esterna.

Mi sentivo (e lo ero anche) piccolo per tutti gli aspetti pratici che riguardano il vivere quotidiano, burocrazia, lavoro, casa, spese, impegni, tempi, ritmi, insomma: responsabilità. Apparivo grande, a volte, nelle mie elucubrazioni mentali, ma non mi garantivano nulla che fosse la sopravvivenza materiale.

Certo è che mi sentivo fortemente schizzato: un uomo bambino [.][69].


Queste invece le considerazioni di Benito B., un "guappo" al servizio della camorra napoletana ancora "in carriera", nonostante l'intenzione maturata a fatica e dopo lunghissimo tempo (e riflessioni) a cambiare vita. Mi hanno colpito molto le motivazioni che lo hanno indotto a riflettere e a desiderare di cambiare, quindi le riporto nella maniera più integrale possibile:


In prigione ho letto molto, soprattutto testi giuridici. Chi non ha soldi per gli avvocati, è bene che abbia almeno un'infarinatura di diritto [.]. Come mestiere, ho imparato a fare il cuoco. Ma, soprattutto, ho pensato. Sono stato anche aiutato a farlo. Da una dirigente sanitaria del carcere di Verona, deputato dei Ds [.]. Mi ha anche dato man forte a ragionare su me stesso e gli altri la mia convivente [.].

La spinta decisiva a riflettere mi è stata data, nel 1992, dalla morte di Giovanni Falcone. Può sembrare strano. Ma stimavo quell'uomo. Era un nemico, si capisce. Ma un nemico degno. Non abusava della sua condizione. Non trattava la gente come fosse pezza da piedi. Ti combatteva. Ma ti trattava da uomo. E da uomo anche stimabile. Questo, forse, era ciò che lo rendeva diverso dagli altri magistrati, più pericoloso [.]. Non a caso è stato fatto saltare in aria in quel modo! E proprio questo mi ha indotto a ragionarci sopra. Infatti, odio i poliziotti o i giudici che prevaricano, costruiscono prove finte a tuo danno. Oppure, peggio, palpano il culo alla tua donna, cercano di andarci a letto. Insomma, si comportano da porci. È successo. Qualche agente è stato ucciso per questo [.]. Falcone era estraneo a tutto questo. Eppure era stato ammazzato. Insomma, era stata fatta fuori proprio la persona più corretta.

Ed era stato necessario farlo. Questa storia non mi quadrava. Dovevo pensarci sopra. A lungo. E l'ho fatto. Ci sono voluti anni. Ma qualcosa ho capito. Di me stesso e della vita. Solo che non basta comprendere le cose perché cambino. Ci vuole ben altro. Me ne sono accorto a mie spese. Volevo cambiare vita. Dopo l'ultima carcerazione, ero fermamente deciso a comportarmi da persona per bene. Ho persino riconsegnato al legittimo proprietario, senza aprirlo, un portafoglio che avevo trovato. Infatti, se si decide di cambiare bisogna farlo completamente. Il problema, però, è trovare lavoro. Nessuno è disposto ad assumerti. Solo i tuoi amici di un tempo ti offrono qualcosa da fare. Ma lavorare per loro non ti consente di uscire dal circuito criminale [].

E così io sono punto e daccapo. Per di più la polizia non mi lascia in pace. Mi controlla, mi sorveglia. Insomma, non ho scelta. Non mi lasciano scelta. Non ne posso più. Sono alla disperazione. O rubo, o non mangio. Ho solo un amico: il mitra. Il resto sono chiacchiere, favole per bambini[70].


Espulsione: l'espulsione è ciò che può attendere le persone straniere una volta conclusa l'esperienza detentiva, e questo a prescindere dalla realizzazione o meno di un percorso positivo di reinserimento sociale. Cosa significa per le persone straniere l'espulsione? Ciò che hanno imparato qui è veramente spendibile successivamente al rientro forzato nella propria terra di origine? Due testimonianze.


Le parole di Imed:

Venni la prima volta in Italia nel 1984, per turismo, con un mio famigliare. Quando fu l'ora di tornare indietro, decisi invece di rimanere, e in quell'attimo iniziarono i miei guai [.].

Ero un ragazzino di 14 anni, non avevo ancora commesso nessun reato. Cercavo un lavoro che mi consentisse di guadagnare qualcosa per poter continuare gli studi in Tunisia, ma fui espulso immediatamente [.].

Da parte dell'autorità locale fui accolto come se fossi un criminale, mi interrogarono all'Ufficio crimine dell'aeroporto tunisino, dopo di che mi inviarono all'Ufficio centrale immigrazione, dove avrei dovuto portare con me 260 dinari, pari a 440 mila lire italiane, per la spesa del rimpatrio.

Mi sequestrarono il passaporto e mi lasciarono andare. Purtroppo non finì tutto lì: nei giorni successivi vennero più volte a casa mia, rovinandomi l'esistenza. Il motivo era che, secondo loro, se uno viene espulso da un paese estero è certamente un criminale, uno spacciatore, un ladro [.] figuratevi lo shock dei miei famigliari: che glorioso ritorno in patria e che emozione ho dato ai miei. [.].

Con il passare del tempo pensavo che le cose cambiassero, ma purtroppo la nostra legge non lo prevede: dovevo stare per cinque anni sotto sorveglianza, per questo motivo non riuscii a concludere gli studi perché ogni volta che mi vedevano mi fermavano, così oltre ad aver dovuto lasciare la scuola trovavo grosse difficoltà a mantenere un posto di lavoro, perché certo non faceva piacere ai datori di lavoro vedersi piombare addosso la polizia. Trovai e persi alcuni lavori, alla fine avevo bisogno di soldi e dovevo decidere se diventare veramente un criminale come volevano loro o se lasciare il paese definitivamente [.].

L'immigrazione in un certo senso aumenta proprio a causa dei rimpatri, e il motivo è semplice: chi viene espulso descrive l'Italia e l'Europa come un paradiso terrestre, dove tutto è concesso, anche se devi sudare per averlo. Se ad esempio viene rimpatriato uno spacciatore, lui nel suo paese dirà che spacciare è facile e che si guadagnano molti soldi, quindi convincerà altri ragazzi a venire in Italia per spacciare, anche se ce ne sono molti, per fortuna, che continueranno a venire solo per lavorare [.].


Le parole di Chinedy:

[.] io sono nigeriano, provengo da Lagos. Tornare tramite espulsione vuol dire fare provare vergogna alla mia famiglia e per me sarebbe, oltre che una vergogna, un fallimento. Quando si parte dall'aeroporto, i doganieri ci dicono: Attento a non portare al tuo rientro vergogna per il nostro Paese. Tornare con l'espulsione è vergognoso [.].

Il rischio maggiore del rimpatrio, per noi nigeriani, è l'arrivo in aeroporto, se hai la fortuna di incontrare un poliziotto di religione cristiana forse ti può andare bene, però devi comunque avere qualche soldo da potergli dare, ma se, oltre ad essere rimpatriato, ti capita all'arrivo un ligio e ferreo poliziotto musulmano, sono dolori. Oltre ad applicare la legge dello stato, spesso in modo del tutto arbitrario, applica una sorta di legge coranica che dice che a chi ruba gli viene tagliata la mano [.][71].


TRATTAMENTO RIEDUCATIVO E REINSERIMENTO SOCIALE: è l'ultimo degli aspetti che verrà considerato, anche se non si deve dimenticare che quanto trattato precedentemente, relativo al menage della vita in carcere e dei riflessi che comporta sulle persone sia durante la detenzione che dopo, non può essere considerato in modo separato da una eventuale finalità rieducativa, poiché caratteristica di una qualsiasi intenzionalità educativa è proprio il suo concretizzarsi, il suo passare attraverso e calarsi nella quotidiana esistenza, nelle azioni od omissioni di ogni giorno, nelle relazioni esperite o mancate. Ciò detto, viene da chiedersi, a seguito anche di quanto intuito dalla lettura: quale è e quale dovrebbe essere secondo le persone recluse la funzione del carcere? In che modo sentono il tema della rieducazione e della risocializzazione? E di conseguenza, come considerano gli operatori del trattamento, ed in particolare modo gli educatori? Che cosa si aspettano da loro? Ascoltiamo.


Rieducazione e reinserimento: due parole che si sentono spesso, o per meglio dire sono alla base dei discorsi degli "addetti ai lavori" che si occupano di carcere. Sono considerate come "fine" da raggiungere, ma. dovrebbe essere così, e non lo è! Dovrebbe (condizionale) con accanto il SE, se si verificano tutta una serie di circostanze, ma con i SE spesso non si va da nessuna parte, e tanto meno in carcere.

RI/EDUCAZIONE: cos'è? Per molti detenuti, se non per la totalità, questa parola non ha molto senso. Del resto, "SE" fosse possibile RIEDUCARE, ci sarebbero sicuramente meno recidivi. Possiamo invece parlare di:

"EDUCAZIONE" al crimine, questo è reale (forse per troppi) [.].

"EDUCAZIONE" a corazzarsi contro il senso d'impotenza, contro l'impossibilità a scaricare impulsi emotivi, che portano rabbia e un'aggressività che va controllata. E per controllarla ci vuole razionalità: bisogna costruirsi dei muri a difesa della propria sopravvivenza. Ognuno ovviamente ha i suoi metodi. Chi si chiude, chi diventa iperattivo, chi piange, chi diventa amorfo, chi s'impasticca e si fa "scivolare" addosso il periodo di detenzione.

"EDUCAZIONE" a non farti coinvolgere da tutto ciò che ti circonda, a sdrammatizzare, fino (a volte) a diventare cinico o essere considerato tale. Poi, se di per sé una persona ha già un carattere considerato "forte", il carcere "EDUCA" ad esserlo di più, a coltivare la durezza, la ruvidità, la severità.

Dunque realmente e nei fatti il carcere con fini "ri/educativi" non c'è, e non c'è poi il "re/inserimento" nel tessuto sociale. Prima di questo passo, che dovrebbe consistere nel reintegrarsi nella società, esserne accettati, tornare a farne parte, una persona reclusa dovrebbe infatti essere preparata. Quindi servirebbe un passaggio intermedio tra carcere e dopo carcere. Difficilmente accade [.][72].


Io ti salverò è il titolo (nella versione italiana) di un vecchio, bel film di Alfred Hitchcock [.]. C'è in questo titolo [.] l'idea di "salvare il cattivo" che caratterizza tanti film sul carcere, e sul rapporto donna-carcere; e poi c'è qualcosa che ci ricorda un concetto che vorremmo mettere fortemente in discussione, quello della rieducazione-salvataggio del reo [.][73].


[.] Anch'io penso che probabilmente il trattamento avrebbe bisogno di essere rivisto, così com'è non è sufficientemente incisivo, ma sono anche del parere che a nessuno debba essere negata la possibilità di rivedersi e recuperarsi, e senza il sostegno delle attività trattamentali questo non è facile, per non dire impossibile.

Recuperare anche "solo" il 30 % di 60.000 persone significa reinserire nel tessuto sociale circa 18.000 individui che non rappresentano più un pericolo per la collettività, che rispettano le regole, e in questo caso non mi sembra si siano sprecate risorse economiche, ma penso piuttosto che si sia effettuato un investimento lungimirante [.][74].


[.] Molti lamentano che c'è solo il 30 % che non ricade nella recidiva, ed io ogni tanto mi meraviglio che ci sia addirittura il 30 % che non ci ricade, perché la mia impressione è che quando ci sono dei percorsi di ravvedimento - e ci sono, all'interno del carcere - questi avvengano non "grazie" ma "nonostante" il carcere.

Il carcere mette la persona di fronte a un modello che dovrebbe seguire, ma in realtà è un modello schizofrenico, è un modello che a volte gli dà esempi di ingiustizia, se non di abuso e sopraffazione[75].


[.] Dopo anni di emozioni controllate gli spunti non mancherebbero ma, uscendo, assieme alla vita libera riscopri il piacere della riservatezza, negato dal carcere. Il traguardo rieducativo, infatti, "impone" che tu sia un libro aperto, che confessi (meglio se davanti a un pubblico) le tue debolezze e i tuoi desideri. In un certo senso non importa se reciti, l'importante è parlare molto, in modo che i vari operatori possano raccogliere elementi per capire se sei sincero o se fai la commedia.

Io mi sono adeguato, pur continuando a credere che le "confessioni intime" non dovrebbero essere mai richieste e, a maggior ragione, riguardo ai permessi. Quindi ne parlerò il meno possibile, facendo soltanto delle eccezioni in casi particolari [.][76].


[.] Quello che chiediamo è il diritto a non vedersi annullati come persone: perché cancellare la sessualità, e impoverire i legami famigliari riducendoli a dei tristi colloqui in squallide salette sovraffollate, significa rendere di fatto impossibile qualsiasi percorso di reinserimento di una persona detenuta.

Il paradosso è infatti questo: da una parte si dice di voler aiutare i detenuti a reinserirsi nella società, e dall'altra si fanno ritornare nella società delle persone che, dopo anni di frustrazioni e di repressione degli istinti, dei sentimenti, degli affetti, dovrebbero di punto in bianco serenamente ritrovare un equilibrio e una "normalità" di comportamenti [.][77].


Mi convinco sempre di più che una persona detenuta debba fare ricorso alle proprie energie interiori per riuscire a vincersi e migliorarsi, ma ciò "nonostante il carcere", diventando a nostra volta soggetti sociali attivi e non solamente "larve", né tanto meno rassegnandoci a essere "oggetti" [.][78].


Rieducare, risocializzare, reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali da seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare l'inadeguatezza del dettato Costituzionale, tanto che nell'impossibilità di rendere fattivo l'intervento rieducativo, è assai più facile trincerarsi dietro i soliti scontati "motivi di sicurezza" [.]. L'esperienza mi insegna che coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o trent'anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze[79].

Il carcere così com'è non funziona, ci sono situazioni devastanti, degradanti: alcune assolutamente non scelte, né mai totalmente descritte dalla cronaca o dalla romanzata fiction televisiva. Ancor più permane il parassitismo strutturale che non consente responsabilizzazione nell'irresponsabile, ma altera e compromette ogni processo cognitivo, creando un'infantilizzazione galoppante e di contro una sorda commiserazione[80].


[.] Ma cosa fa concretamente l'Educatore in carcere?

L'Educatore è il "tuttofare" del carcere, è impegnato in compiti di segreteria, pratica attraverso i famosi "colloqui" l'osservazione scientifica della personalità del detenuto, individua il trattamento adatto alla sua rieducazione (?) coordinandosi con tutto il personale addetto, si occupa della biblioteca, delle attività sportive, di quelle culturali etc. etc.

È stato detto che all'epoca dell'introduzione del nuovo Ordinamento Penitenziario, nel '75, il problema della "DEVIANZA" era affrontato come si trattasse di una "malattia sociale" da curare. Potremmo paragonare il carcere ad un ospedale "particolare": qui l'Educatore si potrebbe dire che rappresenta quasi tutte le professionalità presenti in un nosocomio [.].

Voi vorreste essere ricoverati in un ospedale che ospita circa 600 degenti affidati alle cure di soli 5 operatori sanitari?[81]


La critica che con maggiore frequenza rivolgiamo alle educatrici è quella di non "seguirci" abbastanza, cioè di incontrarci troppo sporadicamente per conoscere a fondo i nostri problemi e aiutarci a risolverli. La risposta che, invariabilmente, ci danno è che noi siamo troppi e loro troppo poche, oltre che oberate di impegni. Il lavoro dell'educatore penitenziario è, in effetti, costituito per buona parte da pratiche burocratiche [.]. Solo se questo compito fosse meno gravoso avrebbero maggiore disponibilità di tempo ed energie da dedicare a quei compagni che attendono per mesi prima di riuscire ad incontrarle. Il paradosso è che buona parte del lavoro di ufficio potrebbe esser loro risparmiato se noi usassimo coerenza nel presentare istanze, che a volte risultano perfettamente inutili, e che comunque loro sono tenute a documentare prima di inoltrarle ai Magistrati.

Presentare richieste alla Magistratura è a volte lo stratagemma per "costringere" gli operatori ad interessarsi al proprio caso, per fargli scrivere qualcosa sulla nostra posizione[82].


Ho pensato molto alla figura dell'Educatore che lavora negli Istituti di Pena ed ho deciso di scrivere queste modeste osservazioni perché in questi anni ho avuto tanti maestri e sento gratitudine per queste persone, a loro devo ciò che sono oggi, anche a chi in questo momento è al centro del mio pensiero critico.

Infatti sono convinto dell'esistenza di alcune contraddizioni che sviliscono il ruolo di questa figura istituzionale così importante [.], che inevitabilmente si ripercuotono drammaticamente sugli stessi operatori e soprattutto sul detenuto.

Secondo quanto stabilito dall'O.P egli ha funzioni risocializzanti nei riguardi dei reclusi, i quali sono soggetti a osservazione e trattamento [.].

L'intervento dell'Educatore è rivolto ai detenuti, non su richiesta degli stessi, ma è egli stesso che formula uno specifico invito in al senso, e ciò estrinseca una assai poco edificante "dolce coercizione" da parte della figura istituzionale nei riguardi del recluso. Si esplicita un'ingiunzione da parte dello Stato, una specie di controllo della volontà altrui, e non una presa di coscienza da parte del recluso che lo porta a richiedere tale servizio.

Educatore-educare significa [.] tirare fuori, condurre fuori l'uomo, costruire la persona assieme, non imporre.

Questa maniera di operare crea immediatamente una falsa impostazione interpersonale, nel senso che il detenuto intuisce e comprende il potere decisionale che esercita l'Educatore, e quindi per renderlo ben disposto nei propri confronti, potrebbe assumere un comportamento strumentalizzante.

In questi anni trascorsi dietro le sbarre [.] ho conosciuto molti operatori penitenziari. Rammento le prime volte che ci vedevamo e potevamo parlare [.].

Con alcuni di loro, il colloquio diveniva un duello a colpi di fioretto, una serrata e tante volte aspra contesa.

E così per non scoprire le carte, entrambi rilanciavamo al buio, un bluf dietro l'altro, consapevoli che tra le mani non avevamo niente. Tranne che un milione di parole.

Comprendevo perfettamente che davanti a me stava seduto il mio salvatore o il mio carnefice, ero conscio della partita che stavamo giocando [.].

Intuivo che il rapporto che si andava instaurando era basato più sull'ipocrisia, che sull'onestà degli intendimenti reciproci, e la cosa mi faceva alterare non poco [.].

Mi faceva arrabbiare il non poter veramente confidarmi, perché a volte può accadere che si abbia bisogno di sentirsi vicino qualcuno e si cerchi in tutti i modi una mano tesa, nel momento in cui volevo comunicare ed aggrapparmi, nuovamente mi appariva l'ambiguità dell'interlocutore e ciò mi frenava o meglio mi faceva arenare in una palude di dubbi e ulteriori incertezze [.][83].


[L'educatore] è la persona attraverso le cui mani avviene tutto il progetto educativo vero e proprio. Lavora a questo, in collaborazione con l'assistente sociale, lo psicologo e il direttore. È l' educatore quello che più di ogni altro conosce il detenuto più a fondo, questo grazie ai colloqui quasi quotidiani che può avere con lui. L'educatore nel carcere è l'organizzatore, l'animatore di quasi tutte le attività sportive e ricreative. Esse [.] servono [.] anche come forma di studio per conoscere meglio il singolo detenuto; la sua attiva partecipazione o il suo disinteresse [.]. Il rapporto che si riesce ad instaurare tra l'educatore e il singolo detenuto, lo possiamo definire quasi amichevole [.]. L'educatore si interessa alla vita del detenuto e ai suoi problemi. È lui che materialmente fa le relazioni sul detenuto che poi verranno mandate al magistrato di sorveglianza. È lui che prepara le varie pratiche per la concessione delle licenze, delle semilibertà, delle condizionali, dei colloqui premiali [.]. Unico neo negativo: sono troppo pochi, e riescono a fare quello che possono, trascurando molti detenuti. Gli educatori, in carcere in media tre per ogni duecentocinquanta detenuti, sono sempre troppo pochi, rispetto alla mole di lavoro da svolgere.[84]

Ho vissuto una sorta di schizofrenia applicata. Crescevo all'interno di un ambiente che mi richiedeva di rispondere a diversi piani di relazione, e a tutti non potevo, in pratica, mostrare me stesso tutto intero: dovevo farlo a pezzi [.].

Agli operatori che osservavano (agenti, educatori, psicologi, etc), dovevo svendere, fino a volte ad apparire ossequioso, le maniere gentili ed occultare tutta intera l'altra parte Anche con loro la sensibilità, ma anche il carattere, dovevo tenerlo nascosto, poiché le volte che tentai un confronto, fui tacciato d'immaturità. Finiva sempre che ogni volta che affermavo un pensiero o un sentimento che fosse in contrasto con gli stereotipi proposti da entrambi i "sistemi", subivo una pesante punizione.

Schizofrenico - Paranoico. Chissà quali altre psicosi si sviluppano all'interno di un mondo chiuso, un'istituzione totale come lo è il carcere [.].

E' vero che mettersi al centro della propria attenzione, in tali contesti, garantisce la sopravvivenza, ma limita anche la crescita e lo sviluppo.

Proprio perché continuamente sotto l'occhio vigile del controllo, in realtà non impari a fare tue le cose che fai, ma nella maggior parte dei casi s'impara a fingere di farle. E la quotidianità fa il restoCi s'illude di cambiare vita una volta varcata la soglia, si fanno progetti, sogniMa sono campati in aria [.].

Insomma, se si fa di tutto per far vivere le persone al dì sotto della cosiddetta "normalità", come si può pretendere che le reazioni siano quelle di una personalità considerata "normale"? Come si può pensare di inserire una persona all'interno di un contesto X, se  la si fa vivere in un altro, nel quale si sviluppano dinamiche completamente differenti? Come può un individuo modificarsi all'interno di un sistema che non si modifica?

Credo di poter dire che la tanto inflazionata parola "rieducazione", rispetto ad una risposta istituzionale, sia una casualitàUn Big Bangdifficile, quanto improbabile a realizzarsi [85]


2.2 - Appunto finale.


Per ora non intendo fare alcun commento a quanto letto in questo capitolo per una serie di motivi: primo perché, come anticipato all'inizio, lo scopo principale era quello di dare voce ai protagonisti della vicenda detentiva, essendo il meno intrusiva possibile; secondo perché mi pare che non abbisognino di commenti, nel senso che dicono già tutto, o quasi; terzo, perché quel quasi di cui le testimonianze ascoltate non parlano in modo diretto, ovvero cosa la Legge prevede, verrà discusso e sarà oggetto di considerazioni critiche a termine del successivo capitolo, in cui sarò invece voce narrante di me stessa, poiché pongono gli stessi problemi e concernono essenzialmente le stesse questioni.



Bolzoni Antonella, I concetti e le idee, in Demetrio Duccio, L'educatore autobiografo: il metodo delle storie di vita nelle relazioni d'aiuto, Unicopli, Milano 1999, p. 31.

Autori che hanno provato le ristrettezze del carcere in prima persona e che divengono voce narrante di questa esperienza sono Andraous Vincenzo, nato a Catania il 28-10-1954, un uomo con alle spalle sette omicidi, cinque dei quali commessi in carcere. La sua condanna è ben sintetizzata nelle tre parole "fine pena: mai"; condannato all'ergastolo, è ristretto in carcere da circa ventinove anni, pena scontata, in data 30 giugno del 2002, da altri 946 uomini e da 35 donne. Durante la sua "carriera" detentiva, inizia dalla seconda metà degli anni ottanta un percorso di rivisitazione interiore insieme con altri detenuti, ristretti come lui nel carcere di Voghera, con una forte "determinazione di intraprendere un nuovo orientamento esistenziale". Attualmente è ristretto presso il carcere di Pavia, città in cui svolge attività di tutor ed educatore presso la "Casa del giovane" di don Franco Tassone, in quanto beneficiante della semilibertà. Ciro Cozzolino, detto a suo tempo "Enzo O' Pazzo", è stato uno di quei giovani che hanno conosciuto presto il mondo della devianza. All'età di dodici anni è stato ristretto in una scuola-prigione, interiorizzando così il comportamento violento come unico modo per vivere. Tale approccio alla vita lo accompagnerà anche per lungo periodo dell'esperienza della carcerazione di adulto. Successivamente ha inizio un processo che lo porterà prima ad uscire dal circuito delle carceri speciali, poi ad assumere un atteggiamento maggiormente disponibile, tanto da arrivare a ritenere, all'età di trentaquattro anni, che nei limiti delle norme e con la collaborazione di persone attente, anche il carcere può divenire un mezzo per il reinserimento sociale. Notarnicola Sante, nato a Castellaneta (TA) nel dicembre del 1938, è stato uno dei membri della banda Cavallero durante gli anni del terrorismo "rosso". È condannato all'ergastolo dal 1967. La sua esperienza di lotta è continuata da dentro il carcere. È rimasto nelle carceri speciali fino al 1988, quando, dopo 21 anni di prigionia tra le più dure, è stato messo in semilibertà. Divengono invece voce delle storie di vita di detenuti ed ex-detenuti, Salierno Giulio, attraverso il libro Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi (Einaudi 2001), e Lodato Saverio attraverso lo scritto Vademecum per l'aspirante detenuto, edito da Garzanti nel 1993. I due autori hanno in comune con le persone alle quali danno voce (il primo) o di cui divengono voce (il secondo), l'esperienza della detenzione. Attualmente esercitano rispettivamente l'uno, la professione di docente di Sociologia all'Università di Teramo; l'altro, quella di inviato per l'unità in Sicilia, con particolare attenzione per le vicende di cronaca nera, giudiziaria e politica.

Altre testimonianze sono state raccolte da una fonte fattami spedire a casa direttamente dal "Due Palazzi" (La Casa di Reclusione di Padova), ovvero due CD-Rom intitolati Storie e testimonianze dal carcere. 150 racconti autobiografici di donne e uomini che, nelle "ristrettezze" della detenzione, hanno scoperto il piacere di raccontarsi e Raccolta completa anni 1998-2003 e rassegna stampa. Quest'ultima fonte, composta soprattutto dalle lettere dei detenuti della Casa di Reclusione di Padova e di altri detenuti sparsi per tutte le carceri d'Italia che hanno trovato nella redazione del giornale "Ristretti orizzonti" un valido punto di riferimento, non prende sempre e sistematicamente in considerazione la vicenda esistenziale degli scriventi prima dell'ingresso in carcere, che quindi, in alcuni casi, rimane sconosciuta, non permettendo una seppur scarna ricostruzione biografica.

Per un'introduzione alla fenomenologia, al suo significato ed al compito che si prefigge, vd. Franzini Elio (a cura di), Husserl. L'idea della fenomenologia, Bruno Mondadori, Milano, 1995. Per una visione in chiave fenomenologica-esistenziale della pedagogia, vd. Iori Vanna, Essere per l'educazione. Fondamenti per un'epistemologia pedagogica, La Nuova Italia, Firenze 1988; sempre sul filone del metodo fenomenologico, declinato in psicopatologia, vd. Patarnello Ludovico, Introspezioni. Il conflitto e l'angoscia, l'aggressività e la dipendenza, il terrore e la catastrofe, Unipress, Padova 2002. Per un approccio fenomenologico relativo alla questione dell'adultità e delle sue declinazioni esistenziali (apicalità esistenziali), vd. Duccio Demetrio, L'educazione nella vita adulta: per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Carocci, Roma 1998.

La portata innovativa della cd. Legge Gozzini rispetto all'impianto normativo originario del '75 fu ravvisata dallo stesso Mario Gozzini (che ne fu uno dei promotori) soprattutto nel fatto che essa fosse stata concepita come "una legge disincantata, non ideologica", ovvero "una legge che crede meno, rispetto alla Riforma del '75, alla rieducazione in carcere; crede in compenso molto alla partecipazione della comunità esterna, attraverso l'intervento delle Regioni e degli Enti Locali". Parole tratte da Una legge nuova per un detenuto più responsabile, p. 81., in A.A.V.V, Presente e futuro della riforma penitenziaria: sua attuazione e ruolo degli enti locali, Imprimitur, Padova 1988. Per uno studio approfondito della legge 663/86, vd. per tutti Grevi Vittorio (a cura di), L'ordinamento penitenziario dopo la riforma (L. 10 ottobre 1986 n° 663), Cedam, Padova, 1988.

Andraous Vincenzo, Silloge. Avrei voluto sedurre la luna, Vicolo del Pavone, Piacenza 1998, poesia intitolata La galera, p. 16.

Andraous V., Un viaggio. Devianza minorile carcere comunità, CdG edizioni, Pavia 2002, p. 42.

Cozzolino Ciro, In stato di detenzione. Vademecum carcere, Gruppo Abele, Torino 1988, p. 11

Notarnicola Sante, La nostalgia e la memoria, Giuseppe Maj, Milano 1986. Poesia intitolata La galera, scritta a Favignana il 1° giugno 1973, p. 24.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., pp. 79-80. Testimonianza di Daniele D., 37 anni, rapinatore.

Tratto dal testo di Salierno Giulio, Fuori margine, op. cit. pp. 29-46. La vicenda di Robert, mi ha colpito tanto quanto basta per desiderare di parlarne.

Robert O. non è nato a Korogocho: vi è stato portato dai genitori da Buna, una zona arida, desertica, del Nord del Kenya. I sui genitori erano poverissimi pastori nomadi turkana. A causa di una siccità più lunga di quanto già normalmente non fosse, lui e la sua famiglia si ridussero alla fame. Di lì a poco tempo la decisione disperata del padre di caricare tutti su un carretto e via, in viaggio verso Nairobi. Il primo contatto con la città.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., p. 33.

Ibidem.

Insomma, faceva parte di uno dei tanti uomini comunemente denominati - qui in Italia - "Vucumprà" che popolano le spiagge d'estate e le città durante il resto dell'anno.

Anche questa è una delle situazioni più comuni - almeno qui a Nord - che può trovarsi ad affrontare una persona se straniera non comunitaria, in modo analogo a quanto accadeva alle persone provenienti dal Sud d'Italia fino a non troppo tempo fa.

Ibidem, p. 42.

Ibidem, p. 42.

Ibidem, pp. 43-45. Continua poi così: "Sono venuto in Italia per lavorare non per fare l'assassino o il ladro. Non sono un clandestino, dovrei poter avere il permesso di soggiorno. Ho paura di andare in questura a chiederlo. Non so cosa abbiano scritto su di me. Non sanno dove abito e, per il momento, preferisco che i poliziotti mi ignorino. Dovrebbe, però, esserci un'organizzazione, un qualcosa che si occupi dei casi come il mio". Già, dovrebbe.

Salierno G., Fuori margine, op. cit, pp. 45-46.

Cozzolino C., In stato di detenzione, op. cit., p. 12.

Lodato S., Vademecum, op. cit., p. 11.

Cozzolino C., In stato di detenzione, p. 12-13.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., pp. 128-129. Testimonianza di Beniamino T, di 54 anni, ex detenuto.

Tratto da Glossario semiserio dedicato ai "non addetti ai lavori", a cura di Morelli Francesco, Ristretti Orizzonti n. 2/1999, in Cd-Rom Raccolta completa.

Cozzolino C., op.cit., p. 14.

Lodato S., Vademecum, op. cit., pp. 14-15.

Lettera di Franco del 04.07.2003, dalla Casa Circondariale di Lodi, in www.ristretti.it

Vari filoni di ricerca hanno tentato di individuare quali fattori possano favorire la messa in atto di comportamenti aggressivi. In particolar modo, studi di psicologia sociale hanno teorizzato che antecedenti al comportamento aggressivo sono da ritenere i fattori ambientali stressanti, tra cui l'affollamento, il rumore e l'afa, elementi solitamente presenti all'interno del contesto penitenziario (crf. infra § 1.1 e 3.1 e il presente paragrafo). Per un riscontro e per un approfondimento del tema si veda Zamperini Adriano, Testoni Ines, Psicologia sociale, op. cit., pp 190-214, .

Cozzolino C., In stato di detenzione, op. cit., p. 16.

Dall'articolo Un'ordinaria giornata di .. carcere. Prima puntata: dal brusco risveglio alla doccia, di Fabian Tiziano, ristretto presso la C.R. di Padova, in CD-ROM Raccolta completa, anno 1999, n. 2.

Lettera di un detenuto, Ivano Longo, ristretto presso il carcere San Vittore, datata 01.02.2002, in Cd-Rom Storie e testimonianze dal carcere.

Lettera di Ciccone Vito del 28.02.2003, dal carcere di Eboli, sul sito www.ristretti.it

Andraous V., Autobiografia di un assassino. Dal buio alla rinascita, Liberal Libri, Firenze 1999, p 118-122. Spiega nel testo che i "braccetti della morte" erano stati concepiti come risposta deterrente al terrorismo politico e all'emergenza carceraria di quegli anni. Divennero luogo di detenzione anche per ventun detenuti comuni, ritenuti i più pericolosi, fra cui Andraous stesso.

Occhipinti Marino, Gli orrori e l'inutilità dell'isolamento, Ristretti Orizzonti n.6/2002, in Cd-Rom Raccolta completa.

Cozzolino C., In stato di detenzione., op. cit., pp. 21-22.

Notarnicola S., in La nostalgia., op. cit., p. 30. Poesia intitolata Violenza, scritta a Favignana il 7 giugno 1973.

La testimonianza di Licia è tratta dall'articolo curato da Favero Ornella Merci da "sballamento". Quante carceri "attraversa" nella sua vita un detenuto, quanti trasferimenti forzati, quanti disagi per i famigliari., Ristretti Orizzonti, n. 1/2000, in Cd-Rom Raccolta completa.

Lettera della Sezione Tossicodipendenti del carcere di Busto Arstizio, del 30.08.2002, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., p. 96.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., p. 70.

Cozzolino C., In stato di detenzione, op. cit., pp. 23-24.

Tratto dal tema di Josep, in Scrivere fa bene alla salute?, Ristretti Orizzonti, n. 2/1999, in Cd-Rom Raccolta completa.

Tratto dal tema di Tarad, Ristretti Orizzonti, n. 2/1999, in Cd-Rom Raccolta completa.

Lettera di Noale Luca, detenuto a Solicciano, del 08.03.2002, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Lettera di Lupone Lino, del 07.03.2003, dalla C.R. "Ranza" di San Gimignano (Siena), sul sito www.ristretti.it

Andraous V., Autobiografia., op. cit., pp. 143-144.

Andraous V., Autobiografia., op. cit., pp. 131-132.

Dalla lettera di Giulia del 27.06.2003, detenuta presso l'Istituto penale femminile la Giudecca di Venezia, disponibile sul sito www.ristretti.it

Salierno G., Fuori margine, op. cit., p. 83, dalla testimonianza di Daniele D, rapinatore.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., dalla testimonianza di Benito L., camorrista, 38 anni, p. 85. All'inizio dell'intervista esordisce così: "Napoli è una città senza Dio. Raffaele Cutolo ne faceva le veci. Sono entrato nella Nuova Camorra Organizzata nel 1979. Avevo 17 anni."

Dalla lettera di Christine del 19.07.2002, detenuta nel carcere di Rovereto, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Andrauos V., Autobiografia., op. cit., pp. 150-151.

Lodato S., op. cit., pp. 71-72.

Sparaco Mario e Dore Roberto, Ci scrivono dalla Casa Circondariale di Padova, Ristretti Orizzonti, n. 0-2/1998, in Cd-Rom Raccolta completa.

Falchi Enrico, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Gianni, detenuto alla Casa di Reclusione di Padova, Com'è duro per un detenuto incontrare il proprio figlio in carcere, Ristretti Orizzonti n. 3/1999, , in Cd-Rom Raccolta completa.

Lettera di Norja Indridt, del 06.06.2003, dal carcere Le Novate di Piacenza, sul sito www.ristretti.it

Ciotti L., Chi ha paura.?., op. cit., pp. 25-26. Spiega Ciotti nel testo che sui quotidiani la vicenda venne presentata in questi termini: "In carcere per droga, si suicida". Stefano, un ragazzo di diciotto anni, morì suicida il 25 luglio 1991. Incensurato, venne arrestato dalla polizia con circa venticinque grammi di hashish: dopo otto giorni di carcere si tolse la vita nella sua cella.

Dalla lettera di Di Stefano Ciro, del 18.07.2003, dal Carcere San Vittore di Milano, sul sito www.ristetti.it

Tratto dall'articolo di Morelli Francesco, detenuto alla C.R. di Padova, Codici di comportamento carcerari, solidarietà tra detenuti, rispetto delle regole: parliamone con un po' di coraggio, Ristretti Orizzonti, n.1/2001, in Cd-Rom Raccolta completa.

Salierno G., op. cit., p. 80., testimonianza di Daniele D.

Morelli F., Qual è la pedagogia più efficace., Ristretti Orizzonti, n. 1/2001, in Cd-Rom Raccolta completa.

Ben Ali Omar, Il muro dell'incomprensione, Ristretti Orizzonti, n. 1/2001, in Cd-Rom Raccolta completa.

Dalla lettera del 18.04.2003 di Salvati Mario, dal carcere di Treviso, sul sito www.ristetti.it

Dalla lettera di A.P, del 07.02.2003, dalla Casa Circondariale di Verona, sul sito www.ristretti.it

Dalla lettera di M.L del 17.05.2002, detenuto alla C.C di Vicenza, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Dalla lettera di Franca del 22.03.2002, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Dalla lettera di Truciolo del 22.03.2002, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Tratto dal pezzo Storia di Gianni, entrato all'età di quindici anni in carcere, Ristretti Orizzonti, n. 2/2000, in Cd-Rom Raccolta completa.

Salierno G., Fuori margine, op. cit., pp. 97-99.

Testimonianze tratte dall'articolo Che glorioso ritorno in patria e che emozione ho dato ai miei., raccolto nella rubrica Voci da lontano, in Cd-Rom Storie e testimonianze.

Testimonianza di Giulia, in Ristretti Orizzonti. Periodico di informazioni e cultura dal Carcere Due Palazzi di Padova, n.5/ 2002, pp. 44-45.

Tratto da uno scritto a più mani (la redazione di Ristretti orizzonti), intitolato Io ti salverò, Ristretti Orizzonti, n. 4/1998, in Cd-Rom Raccolta completa.

Contributo di Occhipinti M., espresso nell'articolo scritto a più mani Rieducazione e trattamento. È vero che l'etica, l'ideologia, l'impostazione normativa sul trattamento sono in crisi?, in Ristretti Orizzonti. Periodico di informazioni e cultura dal Carcere Due Palazzi di Padova, n.5/2002, p. 5.

Contributo di Scialpi Graziano, detenuto nella C.R. di Padova, espresso in Ristretti Orizzonti. Periodico di informazioni e cultura dal Carcere Due Palazzi di Padova, n.5/2002, p. 5.

Contributo di Morelli F., tratto dall'articolo I detenuti e le detenute devono stare separati per ovvi motivi, Ristretti orizzonti, n. 3/2002, in Cd-Rom Raccolta completa.

Tratto dall'articolo Salviamo gli affetti, Ristetti Orizzonti, n. 2/2002, in Cd-Rom Raccolta completa.

Andraous V., Un viaggio, op cit., p. 53.

Ibidem, pp. 37-39.

Andraous V., Oltre il carcere. Per incontrare l'altro e liberare la libertà, CdG edizioni, Pavia 2000, p. 90.

Contributo di Fabbian T., dall'articolo Da un incontro con le educatrici: rieducazione o forse è meglio risocializzazione?, Ristetti Orizzonti, n. 4/1998, in Cd-Rom Raccolta completa.

Contributo di Morelli F., dall'articolo Da un incontro con le educatrici: rieducazione o forse è meglio risocializzazione?, Ristetti Orizzonti, n. 4/1998, in Cd-Rom Raccolta completa.

Andraous V., Il carcere è società, op. cit., pp. 49-51.

Cozzolino C., In stato di detenzione, op. cit., p. 79. Tengo a sottolineare il fatto che questa testimonianza è stata scritta nel 1987, periodo storico in cui era ancora in vigore il Regolamento del Corpo degli agenti di custodia del 1937 (R.D. n. 2584), tuttora in vigore per le parti non riformate dalla riforma del '90, per il quale unici compiti ritenuti consoni all'agente di custodia erano quelli di punizione e di segregazione ed il Corpo era ancora completamente militarizzato sin dal 1945 (D.L. Luogotenenziale n. 508 del 1945).

Tratto dal pezzo Storia di Gianni, entrato all'età di quindici anni in carcere, Ristetti Orizzonti, n. 2/2000, in Cd-Rom Raccolta completa.

Scarica gratis Il carcere visto con gli occhi (e sentito sulla pelle) dei detenuti
Appunti su: vincenzoandraous@cdgit mail, cache:aKGO2eQg3PgJ:wwwappuntimaniacomtecnicheforensicsil-carcere-visto-con-gli-occhi74php, se un detenuto si comporta male e possibile punirlo evitando di farlo usvire o vietare i colloqui,



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