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Nell'istituzione carceraria agiscono diversi sottosistemi: oltre ai detenuti, vi sono il personale di polizia penitenziaria, il personale amministrativo e gli operatori penitenziari. Tutti questi attori sociali sono in interazione tra loro, in un sistema organizzato in modo piramidale e unidirezionale.
Si evidenzia, inoltre, l'impiego dell'ottica lineare, dicotomica, complementare: superiore / inferiore, giusto / sbagliato, bravo detenuto / cattivo detenuto, contenitore / contenuto, controllori / controllati[1].
La divisione del lavoro, gli status, e i conseguenti ruoli, sono rigidamente determinati: tutto è organizzato in modo da garantire il controllo e la sicurezza. Dopo la riforma del 1975, però, la legislazione vuole anche il carcere come luogo di negoziazione, dunque il tipo di relazione non dovrebbe più essere lineare ma reticolare, la quale comprenda tra gli attori anche la comunità esterna.
Ciò evidenzia l'esigenza di trasformare la strutture sclerotiche dell'istituzione carcere, contraddistinta da ruoli troppo rigidi, che lavora per compartimenti stagni e che non ha contatti con gli operatori sociali esterni al carcere: essa dovrebbe essere un'unità in costante rinnovamento - anche perché la popolazione penitenziaria è in continuo mutamento culturale ed etnico - mentre è di fatto una struttura statica a lenta evoluzione.
Il carcere è un microcosmo che si regge su equilibri estremamente precari[2], e uno psicologo ne individua la causa nell'accanimento a "promuovere due codici: il codice paterno, rappresentato dalla vigilanza, e il codice materno dell'assistente sociale".
In questa sede si analizzerà il sistema di relazioni dei detenuti con il sistema carcere, in quanto ciò è fondamentale per la costruzione della figura e dell'identità di detenuto, ma si prenderà in considerazione solo il rapporto con gli agenti di polizia penitenziaria, i quali con i detenuti intraprendono un tipo di comunicazione verticale[4].
Il custodiale è integrato nel trattamento, dunque la figura professionale degli agenti e i rapporti con i detenuti che ne consegue, non potevano non cambiare rispetto a trenta anni fa, "anche perché hanno a che fare con soggetti talmente diversi da non poter più avere sistemi di riferimento chiari e semplici", riconosce un detenuto[5].
Ad aver cambiato l'aspetto relazionale è stato senz'altro anche l'immissione nella polizia penitenziaria di agenti di più elevato status socio-culturale: "Io mi ricordo quando sono entrati a far parte del corpo del centro di custodia gli ausiliari, la maggior parte erano tutti ragazzi diplomati; noi al primo impatto, quando li abbiamo visti arrivare, questa gente tutta fine, gli abbiamo detto: dove vi presentate con questo saper parlare e questo modo di agire? Qua sono mazzate perché devi scontrarti con il detenuto", riferisce un agente[6].
Gli agenti di polizia penitenziaria sono le prime figure professionali con le quali i detenuti vengono a contatto nell'istituzione, è dunque molto importante il loro atteggiamento affinché l'impatto sia meno traumatico possibile. In questo senso la situazione è molto diversa rispetto ad anni fa, nelle parole di un detenuto[7]: "Entro nella Casa. Sono disorientato . ma gli agenti di custodia capiscono il mio disagio e sono molto comprensivi. Non sono aguzzini: la loro preparazione e professionalità mi tranquillizza un po'".
Alcuni hanno visto nell'apertura del carcere alla società esterna, dunque anche al mondo femminile, che vi entra nelle figure degli operatori e dei volontari e permette ai detenuti di relazionarsi con l'altro sesso, un incentivo al mutamento delle dinamiche comportamentali penitenziarie: "Io provengo dall'interregno tra il vecchio regime e il nuovo", racconta un agente[8], "e qualche volta non mi sembra vero vedere questo carcere letteralmente aperto a queste figure, che fino agli anni scorsi era impensabile. Il fatto stesso di vedere una donna in carcere I primi tempi si aveva la sensazione di non aver mai visto una donna, anche se avevamo lasciato la fidanzata davanti alla portineria. Questo ovviamente ritengo che abbia notevolmente cambiato la cultura carceraria".
Cambiamento ulteriormente testimoniato dalla rivista Ristretti Orizzonti, la quale ospita anche interventi da parte degli agenti, i quali si confrontano con i detenuti su tematiche anche molto delicate. Ciò è indicatore senz'altro di un tentativo di dialogo e di confronto impensabile fino a qualche anno fa, evento che ha entusiasmato un agente[9], il quale centra la problematica: "La mia prima reazione è stata quella di credere che il mondo si fosse capovolto", racconta, "una rivista di carcerati che pubblica lettere di agenti o se preferite agenti che scrivono ad una rivista dei carcerati . Strano, impossibile, ma vero. Credo che, al di là dei forti contrasti che traspaiono sia dalle lettere che dalle risposte ad esse date - il vostro giornale non usa certamente toni amichevoli nei nostri confronti, quasi prendendoci come causa di tutti i mali del carcere e non considerando che il nostro lavoro è volto alla tutela della sicurezza - , ci sia un aspetto positivo nell'accaduto", ovvero "un'informazione più corretta, in quanto più completa".
L'augurio è che "continui questo confronto e, al fine di una più corretta informazione, spero che per il futuro venga dato più spazio alla Polizia Penitenziaria, che spesso viene bistrattata come e più di voi".
Nell'immaginario detentivo l'agente non è quasi ovunque più considerato il classico secondino aguzzino[10]; la maggior parte dei detenuti ritiene che essi non esercitano quasi mai arbitrariamente il proprio potere: "là dentro commannano loro . comandante, ispettori . i coatti so' loro!" si pronuncia un recluso , mentre "'a guardia no, 'a guardia esegue l'ordini . Che poi te ritrovi 'a guardia che te mena in sezione che fino all'altro ieri te faceva i sorsetti . e te lo ritrovi là sotto, perché chiamano pure a lui, e non può non farlo", conclude.
Tuttavia il rapporto tra detenuti ed agenti è ancora condizionato da reciproche diffidenze e stereotipi[12], aspettative deluse da entrambe le parti, e spesso rimane comunque conflittuale, in quanto, soprattutto nei livelli gerarchicamente inferiori, gli agenti si trovano a diretto contatto con i ristretti, imbattendosi per primi con le tensioni e la rabbia di coloro i quali li percepiscono come propri carcerieri: "I primi che tentano di colpire siamo noi", afferma intuitivamente un agente , "perché, forse, nel loro pensiero dicono: lo Stato ci fa stare qua, noi colpiamo chi rappresenta lo Stato in quel momento".
È stato anche fatto notare[14] che la conflittualità carceraria è solo in parte controllabile o risolvibile, in quanto è intrinsecamente connessa con la natura stessa delle funzioni e delle finalità dell'istituzione carceraria.
È presente tuttavia anche una diffusa reticenza, da parte degli agenti, ad instaurare un rapporto troppo confidenziale con il detenuto, in quanto nell'immaginario detentivo lo stereotipo dell'agente corrotto è molto vivo e prepotente: il custodiale evita dunque di essere troppo cordiale con i detenuti, proprio per evitare di far pensare di essere in qualche modo colluso con essi: "Per la confidenza data al detenuto, la gente cominciava a guardare l'agente con sospetto", afferma uno di essi[15] "e cominciava a essere messo sott'occhio o ad essere additato come la persona che andava d'accordo col detenuto anche perché se ci si mette a parlare con loro, (i detenuti) subito pensano che ci sia un nesso".
Dinamica confermata anche da un altro agente[16], infastidito da questa contraddizione: "Riguardo al fatto che non ha conversazioni lunghe ed esaurienti con gli agenti di polizia penitenziaria, (un detenuto) omette di scrivere che normalmente vige un codice comportamentale non scritto ove il detenuto che dialoga troppo con l'agente è considerato un confidente infame".
La diffidenza verso il detenuto è mantenuta dagli agenti anche per evitare il rischio di essere manipolati: "Purtroppo quando stai nell'ambiente del penitenziario, all'interno dei reparti, inizi ad imparare un po' la mente del detenuto, perché una persona che sta ristretta studia come poter fare per ottenere qualcosa", spiega un agente[17]. "Il detenuto è imprevedibile, bisogna stare attenti, perché caratterialmente è così: studia la notte come poter fregare la mattina. Non è che ci si può dare tanta sicurezza, tanto affidamento, quindi bisogna stare sempre sul chi va là".
A volte tra questi due attori sociali si mette infatti in scena una sorta di cinico ed ipocrita braccio di ferro; l'agente può evitare per esempio di redigere un rapporto disciplinare a carico di un detenuto scomodo per potersene liberare, "perché facendoci rapporto e denuncia è anche controproducente per noi", dichiara un agente[18]. "Ammettendo che un domani (il detenuto) va fuori e ritorna dentro, tu lo devi far tornare (in questo istituto), perché c'è questo rapporto da cui dipende. Allora ti tocca inchiodartelo qua fuori. Invece quando non ha niente . guardano il fascicolo, e vedono che non ci sono rapporti, si dice al dottore che non ha mai dato fastidio. Prima ce lo togliamo dai piedi e meglio è . Il detenuto sa di tutti questi sotterfugi e ci gioca anche su queste cose". E la recita si ripete.
Spesso invece c'è anche il detenuto che non sa far valere le proprie ragioni con le armi della minaccia e della dissimulazione, il quale "spesso viene emarginato, tanto non dà fastidio: buttalo là, tanto questo là lo lasci e là lo trovi. Non è che dicono: però questo è a posto, si comporta bene, vediamo un po' se possiamo aiutarlo". Tuttavia il considerare l'internato quasi come un non-umano è a volte funzionale al lavoro dell'agente: se deve infliggere punizioni, egli può sentirsi infatti moralmente riprovevole[19].
La percezione del custodiale è di conoscere il detenuto meglio di chiunque altro, anche degli operatori, in virtù della maggiore convivenza: "Senz'altro sapranno qualcosa più di noi", ammette un agente[20],"perché senz'altro hanno studiato qualcosa più di noi. Un educatore vede un detenuto un quarto d'ora, venti minuti, noi lo vediamo otto ore al giorno. Noi ci basiamo sulla vita che svolge questo detenuto, su come si comporta, cioè lo vediamo noi. Secondo me è quella la cosa più basilare".
E un altro[21]: "(I detenuti) a noi ci guardano come dei nemici, anche se delle volte siamo più noi che riusciamo a capire loro che il medico, e lo psicologo che lo vede cinque minuti, e il direttore o qualunque esso sia, che faccia parte di questa équipe". In ciò è determinante il fatto che "la guardia ci vive con il detenuto e cerca di capire il momento in cui è agitato, cerca di capire il motivo per cui ha risposto male, magari aveva appena letto la lettera, oppure si è comportato male dopo aver fatto la telefonata, o perché ha avuto delle discussioni, o perché porta dietro questa patologia".
Gli agenti percepiscono questa sorta di superiorità pratica nei confronti delle altre figure professionali anche perché i detenuti, pur di ottenere benefici, spesso mostrano al trattamentale un'altra faccia, sicuramente più rispettosa delle regole e più finalizzata al reinserimento sociale, oppure tendono ad accentuare eventuali patologie: nelle parole di un agente[22], "il detenuto bisogna vederlo quando vive nella sezione. Dal momento che si alza, dal momento che va all'aria, i passeggi, e quando mangia e cucina; ecco, lì si vede il detenuto vero e proprio. Perché chiamando un detenuto in udienza, oppure dallo psicologo o dal criminologo, insomma, il detenuto si trasforma per dare un aspetto peggiore della sua patologia".
Ciò si traduce inevitabilmente in una diffusa sfiducia, parallela all'ottimismo manifestato generalmente dagli altri operatori del trattamento, nei confronti del processo di reinserimento dei detenuti.
Tale stereotipo faceva apparire l'agente come un individuo sadico e corrotto, che costantemente lavorava alle spalle del direttore dell'istituto, solitamente visto come il vecchio zio. Sull'argomento anche E. GOFFMAN, op. cit., 1968.
Si pensi all'esperimento condotto da P. G. Zimbardo, in una finta prigione. Si assegnarono arbitrariamente i ruoli di carcerato e carceriere per osservare alcune dinamiche relazionali, ma l'esperimento si dovette concludere quasi subito a seguito della piega estremamente violenta che prese: la risposta a quegli specifici status fu condizionata dagli stereotipi sui ruoli che si presumevano corrispondere ad essi. La credenza creò infatti la realtà, e la de-individualizzazione - ovvero lo stato psicologico caratterizzato da una riduzione del controllo del proprio comportamento, da una minore attenzione per gli standards normativi, da una minore consapevolezza della propria identità, e da un maggior senso di identità del gruppo - sull'argomento cfr. G. ATTILI, op. cit. 2000 - fece il resto. Da tale esperimento è stata tratta la sceneggiatura di un film, The Experiment, che realisticamente ha trasposto su schermo i risultati di quell'osservazione.
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