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Il trattamento inframurale in realtà si limita, come visto, ad interventi certamente significativi per la umanizzazione della pena, ma "saranno ben pochi i delinquenti che muteranno vita - salvo ovviamente quando tale proposito è una spontanea scelta - per il solo fatto che vadano a lavorare quando sono in prigione, o giochino a pallone, frequentino una scuola carceraria, o perché vanno talora a casa in licenza premio"[1]. Tutto questo, infatti, è visto dai più come un'opportunità per abbreviare la pena o - come nel caso delle attività ricreative, culturali e sportive - per vivere meglio la detenzione. La risocializzazione non può essere, infatti, conseguita solo con tecniche pedagogiche, psicologiche o psicoterapiche, perché è un processo interiore che consiste nel volontario abbandono da parte del delinquente dei valori antisociali e nell'accettazione delle comuni norme etiche: è impensabile ottenere tutto ciò senza la reale disponibilità dei singoli.
"È utopistico tentare di far sorgere, soltanto mediante l'intervento di operatori penitenziari e strumenti standard, questa volontà risocializzativa in soggetti che hanno fatto consapevoli scelte di vita, e che traggono grandi profitti e benefici dalla attività illecita: se costoro cambiano vita è perché ritengono soprattutto opportuno o utile farlo, dopo un accurato calcolo dei costi e dei benefici, o per un ripensamento morale[2]". "Nessun uomo può costringere un altro a cambiare se questi non lo vuole e non ne avverte la necessità", conferma infatti un detenuto , in quanto l'unico risultato che di fatto si ottiene è che si finga un cambiamento, che in realtà non è mai avvenuto, solamente per poter scaltramente ottenere dei benefici: ed ecco che l'obiettivo rieducativo fallisce per sua stessa mano.
Sono gli stessi detenuti a criticare l'ideologia trattamentale, a percepire la quasi inutilità di un intervento calato dall'alto - pur se vissuto con partecipazione - , a costatare su se stessi come il più delle volte il progetto miseramente fallisca una volta tornati sulla strada.
Analogamente deve essere ridimensionato la fiducia nell'effetto risocializzativo delle misure alternative, semi-alternative e premiali. Anch'esse sono opportunità offerte ai condannati, ma ne fruisce quale occasione di integrazione sociale solo una quota ben modesta di soggetti. L'abbreviare o abolire la detenzione in carcere è ovviamente ben accetto a chi ne fruisce, ma in buona parte dei casi essi verranno vissuti dai beneficiari solo come vantaggi che rendono la pena meno afflittiva e più breve, più che uno stimolo verso la risocializzazione: non mettono di per sé in moto processi per modificare i progetti di vita.
A ciò bisogna aggiungere i limiti insormontabili dei magistrati di sorveglianza - ed anche degli esperti nelle scienze dell'uomo - nel prevedere le effettive intenzioni delle persone: oltre all'ostacolo della non scientificità degli strumenti valutativi, si deve evidenziare che si ha a che fare con soggetti che, aspirando a fruire dei benefici, cercheranno di presentarsi a chi deve decidere, nel migliore dei modi per far credere di avere un'autentica intenzione di ravvedersi. In realtà spesso inesistente. Tali rischi sono riducibili solo con la perspicacia, l'accortezza e l'estrema prudenza dell'esperto e soprattutto del magistrato di sorveglianza, e proprio per questo motivo, come si è visto in precedenza, sono stati adottati dei criteri di valutazione meno soggettivi della pericolosità, e si sono introdotti sbarramenti non eludibili per la concessione di codesti benefici. Ci si riferisce agli autori di quei delitti che generano particolare allarme sociale - quelli connessi all'appartenenza alle associazioni di tipo mafioso, al traffico di droga, al sequestro di persona per fini di estorsione[4] - prescindendo dalle caratteristiche di personalità dei singoli.
Le misure introdotte dalla legge Gozzini - e da quelle successive - soddisfano sicuramente lo scopo di umanizzare la pena carceraria, assicurando un clima più disteso ed eliminando le rivolte dei carcerati - frequentissime prima dell'introduzione delle misure premiali e di decarcerizzazione - ma è assai discutibile, come già notato, che abbiano una effettiva portata risocializzativa. Inoltre, via via, della riforma si accentuò sempre di più il carattere premiale, ancorando la possibilità di ottenere le misure premiali alla conformità del comportamento alle regole del carcere, insieme all'assenza di collegamenti con il contesto criminale di appartenenza del soggetto: ciò che viene indicato come scambio penitenziario. Gli istituti premiali si sono così progressivamente svuotati del significato risocializzativo che ispirò la riforma del 1975, perdendo la finalità di modifica della personalità del condannato - e quindi di rieducazione - a favore delle finalità di controllo del comportamento carcerario. Certamente anche grazie ad esse il carcere è divenuto, oltre che più controllabile , anche più umano, ma questo non ha nulla a che vedere con la risocializzazione[5].
In riferimento agli interventi del legislatore penitenziario iniziati con gli anni novanta, infine, da un lato si è inasprita la politica carceraria nei riguardi dei condannati per i più gravi delitti, ma dall'altro si sono volute allargare le maglie di alcune importanti misure extracarcerarie - quali ad esempio l'affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare - estendendone la fruibilità anche a costo di modificarne la fisionomia originaria, per conseguire l'obiettivo di una politica di deflazione, quasi a compensare o controbilanciare le soluzioni che hanno invece irrigidito il sistema penitenziario e che hanno comportato un aumento della popolazione detenuta. Tale obiettivo è stato perseguito anche, per esempio, attraverso la normativa straordinaria in materia di espulsione dei detenuti stranieri[6], dichiaratamente rivolta ad alleggerire le tensioni interne prodottesi in molti istituti proprio a causa della preponderante presenza di tali detenuti .
L'obiettivo di sfollamento delle carceri potrebbe invece essere perseguito intervenendo su altri piani e con altri metodi, ovviamente senza lo stravolgimento di valori tuttora bisognosi di tutela forte[8]. Si può optare ad esempio per la depenalizzazione dei reati minori, o fare più uso delle misure alternative alla detenzione.
Critiche dell'ideologia del trattamento risocializzativo, sono state mosse da più parti: secondo Micheal Foucault[9]nella realtà quotidiana, dispositivi totalizzanti sono adottati in misura più o meno accentuata da tutte le istituzioni ordinarie, dunque le sfere della vita che Erving Goffman riteneva separate nel quotidiano, in realtà sono unificate sotto l'egida di un unico potere disciplinante che tenta di uniformare i comportamenti degli individui. Tale potere agirebbe sull'interiorizzazione di valori e di modelli identitari, in modo che il concetto di normalità sia inequivocabile, così come quello di incorreggibile , i quali vanno recuperati alla conformità, rinormalizzati.
Alle stesse conclusioni arriva Thomas Mathiesen[11], il quale parte dall'analisi del termine riabilitare, cioè rendere nuovamente abile, per mostrare come l'abilità da riacquisire, nell'ottica societaria, sia strumentale al buon funzionamento della comunità: dunque il sistema rieducativo è visto come strumento di ordine sociale, un ordine che però è considerato lo specchio dei valori del gruppo dominante. Sono le critiche mosse in generale dalla criminologia marxista e da quella radicale, le quali fanno derivare l'illegittimità del trattamento di rieducazione dal crescente pluralismo etico delle moderne società; illegittimità manifesta anche nella pretesa di imporre dei modelli di comportamento .
L'opinione che ci si è formati, è che il trattamento rieducativo debba avere come fine ultimo l'acquisizione, da parte dei detenuti, di capacità che permettano loro la civile convivenza all'interno della società, nel rispetto delle leggi, al di là delle considerazioni di valore su di esse e su i modelli culturali che le sottendono[13].
Se, per quanto riguarda i detenuti che hanno un background socio-culturale simile a quello della comunità libera, il compito è già arduo, le cose si complicano notevolmente se si considerano i detenuti stranieri. In questo caso l'area di intervento non sarà più, per ovvi motivi, solamente il sistema penitenziario, ma la società in generale, ma la trattazione dei possibili correttivi da apportare alla situazione esula dai limiti di questa ricerca.
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