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Critiche ad alcuni contenuti del trattamento - carcere




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CRITICHE AD ALCUNI CONTENUTI DEL TRATTAMENTO - CARCERE



La religione


La religione, nella concezione della riforma del 1975, non è più intesa come strumento di ordine e disciplina - precedentemente vi era infatti l'obbligo di partecipare alle attività religiose - , ma come un diritto dell'uomo ineludibile, che non può essere cioè limitato o negato dalla condizione di reclusione.

Nonostante sia diffusa e tangibile un'esigenza di assoluzione in senso lato, connessa al senso di colpa ed alla sofferenza provata dai reclusi, il sentimento religioso risulta essere spesso, come anche nella società esterna, molto superficiale: c'è infatti molta richiesta di santini, crocifissi, rosari, ma tali oggetti rivestono più un significato magico che spirituale, in quanto nella maggior parte dei casi li si considera alla stregua dei portafortuna.

Allo stesso modo non deve fuorviare la percentuale di presenti durante le messe, in quanto spesso tale evento è vissuto dai detenuti come diversivo e come occasione di incontro[1].

Una delle idee di base sottostanti all'inclusione della religione nell'ambito del trattamento, era che il detenuto andasse rieducato sulla scorta di valori conformi alla società che lo dovrebbe riaccogliere: è un discorso che può andar bene per altri elementi del trattamento, quali il lavoro e l'istruzione, ma non più ormai per la religione cattolica. Nelle dichiarazioni dei detenuti, infatti, è quasi totalmente assente il riferimento a questo elemento trattamentale, e ciò sembrerebbe in linea con la tendenza generale, in atto dunque anche nella società libera, di un ripiegamento della spiritualità nel privato, che si traduce nella crescente individualizzazione della religiosità, la quale appare sempre più slegata dalle manifestazioni istituzionalmente conosciute[2].

E in cosa si concretizza invece, fondamentalmente, la dimensione religiosa nell'ambito trattamentale? Nella concessione di professare la propria fede e di praticarne il culto: si interviene dunque essenzialmente sulla dimensione pubblica ed esteriore di essa, sull'aspetto confessionale.

Sarebbe tuttavia impensabile utilizzare questo strumento per ottenere l'elevazione spirituale del recluso, che rimane, ora più che mai, un cammino personale frutto di esperienze di vita particolarissime. Quella della religione è una dimensione talmente autonoma e inafferrabile, che non si può pensare di disciplinarla in un programma sistematico di riabilitazione, in quanto riguarda la coscienza di ognuno[3].

Le cose si complicano ulteriormente se si considera che la religione più praticata in carcere, dopo la cattolica, risulta essere quella mussulmana: il fenomeno è attualmente in crescita, a causa dell'aumento del numero degli stranieri, soprattutto magrebini, tra la popolazione detenuta. Tuttavia, il sistema carcerario si trova completamente impreparato a gestire questo fenomeno, se non regolamentandone le forme esteriori: coloro che praticano una confessione diversa da quella cattolica, possono essere assistiti dai rappresentanti del proprio culto per celebrarne i riti.

È vero che molti detenuti praticanti una confessione religiosa diversa dalla cattolica - soprattutto islamica - chiedono di poter conferire con i cappellani, ma in ciò si deve leggere il bisogno di ricevere un'assistenza umana, più che spirituale: in questo senso il cappellano sarebbe concepito come un educatore. Anche il fatto che molti di questi reclusi partecipino alle messe e chiedano copie del Vangelo non deve ingannare: più che una conversione religiosa, questo fenomeno, ove non sia strumentale alla concessione di benefici, va letto alla luce del fatto che in carcere l'unica presenza spirituale costante sia quella cattolica.

Bisognerebbe allora disciplinare allo stesso modo tutte le confessioni religiose, con il rischio però di creare ulteriori ghettizzazioni. Più auspicabile sarebbe la promozione dei una spiritualità comune, anziché dei singoli dogmi religiosi, che scaturisca dall'incontro e dal confronto di questi ultimi: la ricerca di una comune etica - a fondamento di un progetto riabilitativo - base del rispetto delle norme di convivenza degli individui.

Tuttavia a questo punto si presenterebbe un altro ordine di problemi: si può ancora pensare di risocializzare il detenuto mussulmano, ad esempio, attraverso lo strumento religioso, quando la sua cultura - che coincide molto spesso con la sua religione - non condanna moralmente alcuni fatti previsti come reato dalla nostra legge?[4]

Il trattamento risocializzativo dei detenuti stranieri, così come pensato, dimostra dunque di tutelare, quindi di considerare, solo il singolo individuo e non il gruppo sociale di cui quell'individuo riflette identità e valori.



La famiglia


La legge di riforma, soprattutto nelle sue modifiche ed ampliamenti, cerca di favorire il mantenimento dei rapporti familiari ed affettivi nell'ottica del sostegno, durante l'evento detentivo, e del reinserimento sociale, una volta che il detenuto abbia scontato la pena. Ciò, come visto nel primo capitolo, attraverso i colloqui e la corrispondenza, ma soprattutto attraverso l'applicazione delle misure alternative, le quali riavvicinano progressivamente il detenuto al suo contesto di provenienza. Tutto al fine anche di far recuperare al recluso la propria identità e il proprio ruolo sociale perso a causa della detenzione.

La famiglia è in effetti un elemento molto indicato dai detenuti, soprattutto come causa di sofferenza: si passa dal rimpianto per non potersene costruire una, al senso di colpa per il dolore arrecato ad essa, alla nostalgia per gli affetti.

L'importanza per il soggetto di mantenere le relazioni con la propria realtà pre-detentiva, e in particolare con la propria famiglia, è ribadita anche da Clemmer[5], in quanto baluardo contro il processo di prigionizzazione: "Il detenuto la cui moglie divorzia può cercare una risposta e un riconoscimento nei compagni più prossimi. Quando i ricordi dell'esperienza pre-detentiva smettono di essere soddisfacenti o utili praticamente, una barriera contro la prigionizzazione è stata rimossa". Gli incontri con i familiari, invece, così come la corrispondenza, aiutano il detenuto a mantenere vivo il ricordo della vita extra-detentiva, ma anche la sua progettualità.

Nelle intenzioni del legislatore, il carcere dovrebbe ripristinare dunque la condizione che si presume i detenuti avessero prima di commettere il reato: una situazione di piena dignità, integrazione e diritti.

Il problema è però che per la maggior parte di essi tale condizione era inesistente.

Si presume troppo semplicisticamente, infatti, che la famiglia di provenienza del detenuto propugni i valori e le regole della società, ma la realtà mostra come chi delinque spesso abbia invece alle spalle una famiglia disgregata, segnata spesso da conflitti e da precarietà sociale - frequente soprattutto nei detenuti tossicodipendenti - se non addirittura inesistente o distante: si pensi per esempio ai detenuti extracomunitari.

Molti di essi, inoltre, quand'anche abbiano avuto un nucleo familiare aggregato, vengono abbandonati dai propri cari nel corso della detenzione, ed è una situazione frequente per i detenuti tossicodipendenti, per gli autori di reati sessuali (in primis gli abusi intrafamiliari, per ovvie ragioni), ma soprattutto per i reclusi condannati a pene molto lunghe: in tali casi, infatti, l'evento detentivo fa riorganizzare la famiglia intorno ad altri punti di equilibrio, i ruoli subiscono modifiche, e le dinamiche interne possono essere quelle di esclusione del congiunto.

C'è un'ulteriore considerazione da fare, in merito all'ipotesi di riavvicinamento del detenuto al proprio ambiente: che ciò significhi anche un riavvicinamento al crimine. Alcuni studi mostrano come circa il 30% di chi delinque provenga da famiglie con genitori delinquenti[6]: ciò può essere spiegato con il processo di identificazione messo in atto dai figli che eleggono a modello di riferimento il genitore, o anche un fratello, come pure è spiegabile con l'esposizione ai medesimi agenti criminogeni.

La famiglia si dimostra così essere "una risorsa ambivalente ed incerta"[7].



Il lavoro e l'istruzione


L'istruzione è un elemento del trattamento che risocializza nella misura in cui intervenga nelle situazioni di analfabetismo: utile quindi soprattutto per i detenuti stranieri che spesso entrano nel circuito penale senza conoscere l'italiano, con la conseguente riduzione della possibilità di far valere i propri diritti. Conoscere la lingua e conseguire un grado di istruzione primaria risulta inoltre indispensabile al momento del reingresso del recluso nella società.

Tuttavia anche il raggiungimento di livelli di istruzione superiori vanno incentivati, in quanto, oltre a scongiurare il pericolo del deterioramento delle capacità intellettive del detenuto, contribuiscono al processo di critica e di revisione dei valori ai quali lo stesso in precedenza aderiva.

Sono incentivati inoltre la diffusione di libri, come stimolo all'ampliamento degli orizzonti di vita dei reclusi, ed anche il coinvolgimento degli stessi in attività culturali. Ciò contribuisce a creare un clima più sereno negli istituti e di qualità differente - si pensi, ad esempio, alle redazioni delle riviste edite nelle carceri, ma anche ai laboratori teatrali che spesso si concludono con rappresentazioni aperte al pubblico - ma bisogna anche limitarne la portata risocializzativa, in quanto troppo pochi sono attualmente i detenuti coinvolti, e comunque da soli questi accorgimenti non ottengono risultati significativi.

Tuttavia è il lavoro che risulta essere, in ultima analisi, l'unico strumento del trattamento pienamente risocializzativo, capace di rappresentare ancora una valida misura atta al reinserimento del detenuto nella società.

Il lavoro svolto nell'ambito del regime detentivo e semi-detentivo, poiché implica costanza, il porsi un obiettivo a lungo termine e il rispetto delle norme in uso nella comunità libera, contribuisce a strutturare una forma mentis di legalità, aiuta - così come emerso - a sentirsi come gli altri.

Lavorare onestamente contribuisce infatti all'acquisizione di uno status socialmente riconosciuto, agli occhi della società e a quelli del detenuto stesso: in questo modo si potrebbe risanare quella frattura tra il recluso e la comunità libera provocata dall'evento detenzione. Frattura a volte presente anche prima dell'arresto.

Non bisogna però fare l'errore di credere che basti abituare una persona alla fatica per farne un buon lavoratore[8], e ciò, tra l'altro, perché anche il mercato del lavoro ha cambiato fisionomia: oggi più di ieri, ai soggetti sono richieste iniziativa, flessibilità, creatività, competenze specifiche.

Facendo ovviamente i conti con i limiti delle strutture penitenziarie più volte citati nel corso del presente lavoro, un'alternativa, proposta anche dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, potrebbe essere quella di coinvolgere i reclusi nella formazione di associazioni e di cooperative sociali, al fine di stimolare l'iniziativa imprenditoriale ed uscire dall'ottica dell'assistenzialismo, oltre che ovviamente per favorire lo sviluppo delle risorse individuali. Uno dei rischi connessi alla detenzione, infatti, come visto, è proprio che l'effetto della de-responsabilizzazione operante durante la carcerazione possa protrarsi anche al rientro del detenuto nella società - frequente soprattutto nel caso di condanne lunghe - e che egli si trovi poi a non saper più gestire la propria vita e la propria ritrovata autonomia.

Un'altra proposta potrebbe essere quella del telelavoro, già attivo nel carcere di S. Vittore, esperimento che, come si è visto nel terzo capitolo, stimola la capacità del detenuto di relazionarsi con la società libera in modo corretto, contribuendo anche alla percezione di se stesso come non essere alieno da essa.

Bisogna ovviamente fare i conti con la realtà dei fatti, che cioè si stanno prendendo in considerazione anche persone abituate ad introiti molto alti, introiti che potrebbero subire una drastica flessione nel caso in cui il soggetto decida di entrare in un circuito di legalità. Si tratterebbe allora di far riorganizzare il quadro valoriale del detenuto intorno ad altre priorità. È un intervento questo che però dovrebbe utopisticamente coinvolgere addirittura la società tutta, o quantomeno le sue mete: quando l'enfasi di una determinata società è posta sul successo, economico e/o sociale, non si può pretendere che tutti coloro i quali vivano in una situazione caratterizzata da forte disagio economico e sociale, "ereditino anche l'aspirazione all'indigenza"[9]. Con ciò non si vuol certo giustificare l'adozione di condotte criminose, si vuol soltanto ribadire che la cultura dell'illegalità è diffusa trasversalmente in tutta la società, anche se poi rimane frequentemente impunita.




D. TURCONI, "Religiosità in carcere", Notiziario dell'Ispettorato dei cappellani dell'amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile, n. 5, 1994.

Sull'argomento importanti contributi da P.L. BERGER, Il brusio degli angeli: il sacro nella società contemporanea,1969, trad. it. Bologna, 1995; L.R. KURTZ, Le religioni nell'era della globalizzazione, Bologna, 2000; J.P. WILLAIME, Sociologia delle religioni, Bologna, 1996.

E. FASSONE, "Religione e istruzione nel quadro del trattamento", in V. GREVI (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981.

Così anche G. MAROTTA, op. cit., 2003; A. MORRONE, op. cit., 2003.

D. CLEMMER, op. cit., 1940.

L. SACERDOTE, "Il genitore dimenticato", Atti della Giornata di Studi "Carcere: salviamo gli affetti , Casa di Reclusione di Padova, 10 maggio 2002.

AA. VV., Donne in carcere, Milano, 1992. Per analoghe considerazioni cfr. S. MONETINI, La famiglia del detenuto: aspetti criminologici, Terni, 1993.

F. MORELLI, op. cit.

T. FABBIAN e M. SALVATI, op. cit.

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