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Frames-­‐Theory | Astrazioni cognitive e risposta estetica




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Frames-Theory | Astrazioni cognitive e risposta estetica




Language evokes ideas: it does not represent them. Linguistic expression is thus not a straightforward map of consciousness or thought. It is a highly selective and conventionally schematic map. At the heart of language is the tacit assumption that most of the message can be left unsaid, because of mutual understanding (and probably mutual impatience)


Daniel Slobin, The role of language in language acquisition



Se la mente è stata affetta una volta contemporaneamente da due affetti, appena, in seguito, sarà affetta da uno dei due, sarà affetta anche dall'altro.

Spinoza, Etica


Il modello della Fludernik, basato su categorie di frames naturali, ci ha permesso di introdurre termini ed elementi mutuati dalle scienze cognitive, che ritorneranno più volte nel corso di questo studio. È venuto perciò il momento di dedicare un primo breve paragrafo per chiarire meglio alcuni di questi nel loro dominio disciplinare di nascita e appartenenza primaria. Ricorrerò più volte a questo stratagemma in cui si anticipano termini in modo sommario, che verranno poi chiariti in sedi dedicate, e con opportuni rimandi intratestuali. Così è ora per la serie riguardante frames, scripts e schemata, che quiapprofondirò, così sarà per altri più noti, ma molto dibattuti, elementi come il concetto di embodiment e di coscienza nel prossimo paragrafo.





SCHEMATA | ORIGINE DEL CONCETTO E RAPPRESENTAZIONE MOLARE DELLA CONOSCENZA




In senso cronologico, il termine schema e il suo plurale compaiono alcuni decenni prima di quello che poi verrà ad essere il suo sinonimo, vale a dire il frame. Il primo impiego del termine in accezione cognitiva lo si deve, infatti, allo psicologo inglese Frederic Charles Bartlett. Nel suo studio sul rapporto tra memoria ed esperienza (1934), su come la prima raccolga informazioni utili a interpretare la seconda, Bartlett introduce l'idea che nella memoria vi siano stoccate informazioni derivate dall'esperienza che vanno a costituire distinte forme di conoscenza generica - schemi, appunto, in grado di orientare l'uomo nel suo rapporto fenomenico col mondo. L'ipotesi, in netto contrasto con la corrente comportamentista in voga al passaggio di secolo17, era dunque che il comportamento umano, le sue scelte, azioni ed emozioni non potessero essere spiegate unicamente attraverso l'osservazione dell'azione, ma venissero guidate da costrutti psicologici, da raggruppamenti molari di conoscenza generica maturati nell'esperienza e divenuti, quindi, forme di convenzioni cognitive. Investigando empiricamente su un gruppo di soggetti sperimentali gli errori fatti nel ricordare alcune folk-tales indiane del Sudamerica, Bartlett si rese conto di come il richiamo alla storia fosse supportato da una struttura molto più convenzionale del testo stesso, e di come gli stessi errori di memoria fossero legati a questo appoggio su una rappresentazione schematica. Più precisamente, la storia presentava elementi estranei ai soggetti sperimentali, inglesi e non familiari con l'immaginario e lo stile delle storie indigene, così che i soggetti hanno dimostrato di

normalizzare le informazioni della narrazione a favore della loro conoscenza pregressa18.


La deduzione che Bartlett ne trasse fu che l'essere umano procede nell'esperienza attraverso strutture mentali inconsce (schemata) che interagiscono con le nuove informazioni costruendo interpretazioni convenzionali e che per questo a volte, come nel caso del test effettuato, alcune informazioni non vengano registrate perché troppo devianti, portando così a errori nel processo di richiamo mnemonico (Brewer 1999: 729). Ai fini del nostro discorso, è importante notare come già in questa prima formulazione rispetto queste forme molari di rappresentazione della conoscenza, Bartlett insistesse sul fatto che funzionalità di uno schema sia duplice e diversificata. La mente umana, infatti, rispetto a uno schema può dirsi tanto oggetto quanto soggetto, tanto formata quanto formante. Da un lato, lo schema orienta inconsciamente la mente umana a una reazione, lavora su di essa, sulla sua percezione e interpretazione; dall'altro, la mente può lavorare attivamente con i

propri schemata, come dispositivi cognitivi a disposizione dell'interpretazione, per rompere uno schema precedente o variarne la costruzione. Così Bartlett descrive l'attività di questi dispositivi:



What, precisely, does the 'schema' do? Together with the immediately preceding incoming impulse it renders a specific adaptive reaction possible. It is, therefore, producing an orientation of the organism toward whatever to is directed to at the moment. But that orientation must be dominated by the immediately preceding reaction or experiences. To break away from the

'schema' must become, not merely something that works the organism, but something with which the organism can work (Bartlett [1932] 1997: 208-209)




La catena cognitiva in cui vengono impiegate queste moli concettuali di informazioni, quindi, può essere vista come un impulso che genera, attraverso uno schema, una reazione e, subito dopo, la stessa reazione che funziona come impulso per un nuovo orientamento. In questo senso la natura degli schemata è altamente dinamica, e rende ragione dell'esperienza come di una continua alternanza tra conoscenza generica e reazione individuale.





A FRAMEWORK FOR REPRESENTING KNOWLEDGE | MINSKY E LA TEORIA DEI FRAMES




Oltre quarant'anni dopo le riflessioni di Bartlett sul funzionamento degli schemata, Marvin Minsky - scienziato cognitivo americano, specializzato in intelligenza artificiale presso i laboratori della Massachusetts Institute of Technology, ne recupera lo studio, introducendo il termine frame e proponendo a sua volta una visione della mente come sistema basato su questi dispositivi di organizzazione dell'esperienza. Il problema per Minsky era trovare il modo di trasferire in un computer un sistema in grado di reagire in modo simile alla mente umana a nuove informazioni, che superasse le precedenti ricerche di stampo per lo più logico-matematico. Per quanto ancora all'interno di un'ottica computazionale della mente, quindi, e alimentando la metafora di una MIND AS COMPUTER tipica delle scienze cognitive di prima generazione19, la teoria di Minsky ha però il merito di avere articolato più a fondo l'idea di una rappresentazione concettuale della conoscenza, indicando più nel dettaglio la natura dinamica dei frames, che verrà successivamente ampliata in senso più pragmatico, esperienziale e sensoriale da studiosi come George Lakoff e Mark Johnson (1987).

Nel suo articolo Misnky definisce da subito e in modo semplificato l'essenza della sua teoria, che ricalca inizialmente la deduzione di Bartlett nell'importanza assegnata alla memoria per il funzionamento di questi dispositivi:


Here is the essence of the theory: When one encounters a new situation (or makes substantial change in one's view of the present problem) one selects from memory a structure called a Frame. This is a remembered framework to be adapted to fit reality by changing details as necessary (1, sottolineato nell'originale).


Fino a qui, non sembrano esserci sostanziali novità rispetto quanto detto rispetto agli schemata di Bartlett. Anche per Minsky, infatti, la mente utilizza un proprio corredo d'informazioni pregresse, raggruppate in una struttura coesa, il frame appunto, che vengono recuperate attraverso la memoria per essere adattate alla situazione fenomenica in corso. Più interessante vedere come, poco dopo, Minsky distingua tra tre tipi di zone informative presenti in ciascuna mole di dati o, come lui la definisce, una «data-structure»:


A frame is a data structure for representing a stereotype situation like being in a certain living room, or going to a child's birthday party. Attached to each frame are several kinds of information. Some of this information is about how to use the frame. Some is about what one can expect to happen next. Some is about what to do if these expectations are not confirmed. (1)


Questa definizione può essere esemplificata in questo modo. Immaginiamo una situazione piuttosto comune in cui un uomo va in edicola e chiede il suo quotidiano abituale, che però è terminato. In questa nuova situazione potrà recuperare dalla memoria un frame di questa

situazione stereotipica che conterrà, seguendo la tripartizione di Minsky, tre zone informative: la prima riguarderà l'utilizzo stesso del frame, che in questo caso corrisponde al fatto di sapere che un'edicola ospita numerosi quotidiani, e che potrà utilizzare questa informazione per chiedere un ulteriore testata, diciamo la sua seconda scelta. La seconda zona di informazioni si attiverà per costruire l'aspettativa che l'edicolante risponda positivamente alla richiesta, mentre la terza si occuperà di soccorrere l'uomo nel caso in cui l'edicolante risponda che, sfortunatamente, anche la testata di seconda scelta è esaurita - in questo caso il frame può generare possibilità distinte in cui l'uomo insiste per una terza scelta o, più semplicemente, esce a cercare un'edicola alternativa.

Si sarà forse notato come in quest'esempio, così come nella definizione di Misnky, al frame siano assegnate tanto funzioni contestuali che informazioni relative a sequenze di azioni. Questo potrebbe creare confusione rispetto alla distinzione, fatta nel precedente paragrafo, tra il frame come serie statica di informazioni legate alla costruzione di una situazione - agli elementi del suo contesto, così come ai partecipanti, e lo script, termine di derivazione psicologica, il cui compito cognitivo è di fornire informazioni sulla concatenazione di azioni previste in un dato frame. Tanto nella letteratura scientifica, quanto nei testi di narratologia cognitiva, l'oscillazione sinonimica è frequente e non sempre risolta. Certo, da un punto di vista di priorità, uno script non può costituirsi senza appoggiarsi a un contesto, quindi a un frame, mentre quest'ultimo potrebbe non necessariamente animarsi in una sequenza di azioni. Tuttavia, ritengo che la distinzione abbia un qualche valore esplicativo, per quanto sia difficile considerare svincolati i due dispositivi, e continuerò così ad appoggiarmi alla seguente distinzione di Dennis Mercadal, citata da David Herman nel capitolo del suo Story Logic dedicato ai frames (2002: 85-113).

Per Mercadal, anche lui come Minsky esperto di intelligenza artificiale, la comunanza dei due dispositivi si gioca sull'attesa e l'aspettazione, ossia sul fatto che entrambi vengono utilizzati per dettagliare un'aspettativa, mentre la differenza si gioca su un fattore temporale. Mercadal, infatti, spiega come uno script «is a description of how sequence of events is expected to unfold [.] . A script is similar to a frame in that it [a script] represents a set of expectations [.] Frames differ from scripts in that frames are used to represent a point in time. Scripts represent a sequence of events that take place in a time sequence» (255). I due dispositivi sono quindi interlacciati, ma distinti nella loro natura temporale: come già detto, si può riassumere la loro solidarietà pensando che un frame abbia informazioni per costruire un contesto in un dato momento, mentre lo script serva a costruire la sequenza di azioni tipica e, aggettivo che vale per entrambi, stereotipica, legata a quel contesto. Naturalmente, cosa importante, il grado di stereotipia dipenderà dall'esperienza depositata nella memoria, poiché l'essere umano non è dotato di uno stesso corredo di frames e scripts, ma al contrario li costruisce con il passare del tempo e a seconda della propria particolare consuetudine individuale. La teoria dei frames, infatti, si appoggia sull'idea di come l'abitudine si strutturi in forma concettuale e agisca su ogni nuovo fenomeno.

Proseguendo nella sua articolazione sulla morfologia di un frame, Minsky spiega poi come ognuno di questi abbia due livelli, uno inferiore e uno superiore. Il livello più alto racchiude informazioni più generali, sempre vere rispetto alle situazioni a cui il frame si riferisce. Il livello inferiore, invece, racchiude diversi "terminali", o slots che possono ospitare molte delle possibili variazioni che il quadro generale racchiude. Inoltre, aggiunge un'importante rilievo sulla relazione tra frames differenti, cosa che lo porta a parlare di sistemi di frame, e del possibile utilizzo di questi stessi sistemi:


We can think of a frame as a network of nodes and relations. The "top levels" of a frame are fixed, and represent things that are always true about the supposed situation. The lower levels have many terminals - "slots" that must be filled by specific instances or data. Each terminal can specify conditions its assignments must meet. [.] Collections of related frames are linked together into frame-systems. The effects of important actions are mirrored by transformations between the frames of a system. These are used to make certain kinds of calculation economical, to represent changes of emphasis and attention, and to account for the effectiveness of "imagery". (1-2, sottolineato nell'originale)


Andando oltre la terminologia chiaramente mutuata e motivata dal campo dell'intelligenza artificiale, in questa ulteriore specificazione della forma e del funzionamento di un frame ci sono tre importanti punti da porre in rilievo.

Il primo è come un frame sia in sé complesso, ovvero come abbia un livello più convenzionale, più astratto e meno dettagliato, e un livello inferiore con numerosi slot informativi minori, demandati a sostenere la mente nelle variazioni di una situazione. Se non ci fossero queste porte informative più piccole, ma solo frame altamente generici, la mente sarebbe continuamente spiazzata di fronte alla minima irregolarità. In questo modo, invece, prima che un frame diventi inutilizzabile e vada sostituito, le irregolarità devono superare la capacità degli slot di anticipare i dettagli e le variazioni.

In secondo luogo i frames, che già sono raggruppamenti di informazioni, si uniscono in relazioni ulteriori con altri frames, in modo da formare dei sistemi. Questa caratteristica relazionale rende ragione di come avvenga il passaggio da un frame al successivo, e in particolare come la cognizione proceda per quelli che potremmo chiamare ponti o raccordi concettuali senza che la mente debba ogni volta cadere in un vuoto informativo e da lì ricominciare a cercare nella memoria un supporto. È un sistema di conduzione che procede per alternanze, ma che cerca di non produrre discontinuità. Ogni situazione, come scrive Minsky, nuova e per questo importante in senso cognitivo, stimola così delle trasformazioni che si rispecchiano nel sistema dei frames, nel loro continuo sorgere e cedere il passo al successivo.

Infine, cosa che ci porta più vicini finalmente al nostro ambito di ricerca, Minsky scrive come, si possa ricorrere alla teoria dei frames «to account for the effectiveness of "imagery"»20. Se, infatti, frames e scripts non sono che astrazione mentali derivate dall'esperienza, e consolidatisi come nuclei informativi, che tipo di rapporto si può supporre intercorra tra questi dispositivi e una forma complessa di rappresentazione mentale qual è l'immaginazione? E, stringendo ulteriormente verso l'oggetto di questo

studio, la teoria dei frames può illuminare il nostro modo di concepire e di recepire una narrazione finzionale? Come abbiamo visto, questa è la posizione su cui la Fludernik

costruisce il suo approccio narratologico. Altri con lei e dopo di lei hanno utilizzato questa teoria21 per spiegare da una parte come la risposta estetica possa essere descritta come una dinamica di alternanza di frames narrativi, frames specificamente costruiti su e attivati da l'atto di lettura; dall'altra come lo stesso concetto di narratività possa essere descritto attraverso una minore o maggiore stimolazione di conoscenze stereotipiche maturate nel mondo reale. Prima di passare ad altri elementi di narratolgia cognitiva, vediamo velocemente le potenzialità applicative di una teoria dei frames narrativi.



HERMENEUTIC INTERPLAY | FRAMES NARRATIVI E ATTO DI LETTURA



Nei volumi di narratologia cognitiva che hanno tentato di sistematizzare il portato di questo nuovo approccio interdisciplinare tra scienze e analisi letteraria, alla teoria dei frames è sempre dedicata una particolare attenzione (Hogan 2003: 44-47, 71-103; Stockwell 2002: 75-89; Herman 2009: 85-113)22. Tra le prime applicazioni e, a mio modo di vedere, ancora ricche di concreti utilizzi analitici della teoria dei frames in ambito letterario, vi è quella realizzata da Manfred Jahn, tra i più autorevoli esponenti della narratologia cognitiva23. A differenza della Fludernik e, successivamente, di David Herman, che si sono concentrati su come la teoria dei frames possa dare ragione del vincolo che la narrativa intrattiene con il mondo reale attraverso simili astrazioni concettuali, Jahn si interessa dei frames specifici all'atto di lettura, in altre parole quelli compresi al livello III e IV del modello della Fludernik.

Partendo dal presupposto che la lettura stessa sia essa stessa un'esperienza reale, di cui ciascuno ha una diversa consuetudine e quindi diverse rappresentazioni stereotipiche a cui fare riferimento, Jahn indaga il modo in cui il testo narrativo fornisca stimoli per il

recupero di frames precedenti legati alla pratica narrativa o fornisca informazioni per variare, scartare e rigenerare ulteriori frames. Se, infatti, nella risposta estetica il lettore impiega frames e scripts derivati dalla propria esperienza nel mondo reale di situazioni simili a quelle descritte nella narrazione, ci sono però una serie di informazione stoccate nella sua memoria, sotto forma di frames, che riguardano la stessa attività estetica di lettura. In aggiunta, oltre a quanto già conosce rispetto a cosa sia un narratore onnisciente, un personaggio, le tracce di un genere narrativo disseminate in informazioni contestuali o nella struttura del plot, e altre competenze narratologiche derivate dalla pratica narrativa, durante l'atto di lettura nuovi frames vengono costruiti dalle informazioni interne alla narrazione stessa, e durante questa richiamati, variati o scartati. È l'insieme di quelli che Stockwell definisce dei literary schemas, così descrivendoli:


Schemas have also been used to explain bundles of information and features at every level of linguistic organisation, from the meanings perceived in individual words to reading of entire texts. Literary genres, fictional episodes, imagined characters in narrated situations can all be understood as part of schematized knowledge negotiation. One of the key factors in the appeal of schema theory is that it sees these knowledge structures as dynamic and experientially developing. (78-79)



Descrivere l'atto di lettura come una dinamica, come una negoziazione di significato, restituisce un potere informativo ai due poli di quest'attività, ossia al lettore e al testo. Il primo accede al mondo finzionale con una competenza di informazioni rispetto alla pratica narrativa che il secondo modifica, delude o rigenera.

Nel suo denso saggio, infatti, Jahn integra la terminologia di Menakhem Perry sull'ordinamento di un testo letterario (1979), le regole di preferenza del linguista americano Ray Jackendoff (1983) e la teoria dei frames di Minsky per descrivere come il lettore processi di volta in volta alcune particolari situazioni narrative. Jahn si concentra in particolare sulle forme di narrazione in terza persona, e su alcuni problemi riguardanti l'attribuzione di frames tra narratore e personaggi. In particolare, delle tre situazioni

narrative enumerate da Franz Stanzel24, la teoria di Jahn cerca di spiegare da un punto di vista cognitivo la più problematica, ossia quella particolare forma di mediazione mista che Stanzel ha definito come una «figural narration» (Stanzel 1984: 160), dove nel discorso del narratore si inserisce il punto di vista di un personaggio, che diventa quindi un «reflector charachter» (48). Il lettore per ogni personaggio, infatti, costruisce dei frames a cui lega

«perception, imaginary perception, thought, feelings, and other mental processes; and the product of those mental activities will be summarily referred to as a character's consciousness-data» (Jahn 1997: 445). Nella narrazione figurale, allora, come può il lettore riconoscere di essere all'interno della prospettiva del personaggio e non semplicemente all'interno del punto di vista del narratore, vale a dire del frame percettivo e mentale che ha costruito per lui, mediando le proprie conoscenze pregresse su cosa sia un narratore con le informazioni del testo che hanno dettagliato questo frame?

La risposta di Jahn è che s'ingaggi nel lettore una competizione cognitiva tra frames differenti, che asseconda regole di preferenza selettiva e di conservazione. Per quanto riguarda le prime, riprendendo Jackendoff, Jahn sostiene che, nella scelta tra il frame del narratore, il frame del personaggio, o la loro combinazione in un frame figurale, agiscano nella preferenza del lettore la percezione che il nuovo frame da assumere sia possibile, tipico o eccezionale (446). Prima però che a questa valutazione del lettore segua uno spostamento di frame, prima cioè che la mente del lettore scelga se conservare la sua posizione all'interno del narratore o compiere un «cognitive jump» (452) verso il frame di un «reflector character», nel frame di partenza si sviluppano due spinte opposte. Mutuando questa volta da Perry l'idea che ogni situazione narrativa abbia un carattere di continuità (primacy) e di novità (recency), Jahn descrive così la loro applicazione alla teoria dei frames nella risposta estetica:



Primacy and recency are cognitive mechanisms that can be profitably explained against the background of frames and preferences. Normally, a frame can be imagined to have two quasi- organic instincts: It tries to protect itself, and it tries to maximize its scope. Both of these instincts save it from being discarded at the earliest appearance of exceptional or irregular data. In addition, admitting excuses, modifications, and perhaps also some judicious bending of low level conditions ensures that a frame correctly adapts to new, idiosyncratic, and unusual situations. (457)



La metafora di un istinto quasi-organico secondo cui il frame da un lato tenta di resistere e proteggersi, dall'altro cerca di massimizzare la propria efficacia, ossia di trovare slots capaci di ospitare le nuove informazioni, rende perfettamente l'idea di come la sua natura non vada vista come statica, ma calata in una continua negoziazione con la novità testuale. Inoltre, la metafora ha il pregio e la pericolosità di descrivere il frame come un organismo autonomo. Questo è corretto nella prospettiva in cui il lettore non può decidere di eliminare i propri frames e presentarsi al testo privo di informazioni stereotipiche, così come non può non immagazzinarne durante la lettura. Tuttavia, come suggeriva Bartlett, un frame non solo lavora sull'organismo, ma con l'organismo, questo significa che è oltre a contribuire alla struttura del pensiero, può farsene strumento. Questo piccolo rilievo servirà nel momento in cui tra poco tratteremo una possibile dimensione tanto cognitiva quanto creativa delle rappresentazioni mentali.

Tornando a Jahn, questa competizione cognitiva tra spinte conservative e rimpiazzamento di un frame con il successivo termina quando l'elasticità del frame di partenza si dimostra incapace di collocare i nuovi dati: «if the data persistently fail to match a frame's essential conditions, if the frame appears to be 'basically wrong' and its interpretation of the data exotic or suspect, then a 'replacement frame' [.] must be tried. (457). Nel caso, invece, il lettore si trovi in una situazione di indecidibilità, la competizione tra frames può trasformarsi in un blocco interpretativo che, naturalmente, può essere esattamente l'effetto estetico che chi ha creato una simile mediazione intendeva

raggiungere25. Per visualizzare questa situazione di potenziale stallo, Jahn utilizza un

esempio di ambiguità cognitiva, variando l'illusione ottica, nota come il Necker's Cube, dal nome del cristallografo svizzero che, verso la fine dell'ottocento, le diede forma. Non mi pare inutile, allora, riproporla, anche per alleggerire un attimo la densità dei concetti in corso. Al posto di un cubo, Jahn utilizza tre bricks, tre mattoncini, funzionalmente affiancati:







Vediamo, allora, in che modo la competizione tra frames di lettura e il loro potenziale blocco può essere chiarificato da questa esemplificazione visuale. Al centro (b) vi è una parallelepipedo che, poiché non opaco, può essere cognitivamente interpretato in due modi, ossia come disposto in orizzontale, sul lato più lungo, o in verticale, su quello più corto. Questa posizione, se considerata isolata, descrive perfettamente la competizione tra i due frames, quello verticale e quello orizzontale, che senza ulteriori appoggi non può essere risolta e conduce al blocco interpretativo. Come scrive Jahn, infatti, «whichever interpretation is initially chosen [.] after a while the mind somehow tires of it and spontaneously produces the other one. Among other things, a Necker cube illustrates that competing interpretations [.] tend to get blocked» (458). La mente, cioè, continuerà ad alternare visualmente una possibilità all'altra ma, come scrive Jackendoff, citato da Jahn,

«Though the two interpretations may alternate freely, they are not simultaneously present to awareness'(Jackendoff 1987:115).

Nel caso, ad esempio, il lettore debba determinare da quale punto di vista, attraverso quale personaggio, stia facendo esperienza della narrazione, mancando la sicura mediazione di un narratore e appoggi informativi in grado di disambiguare quest'esitazione, il lettore rimarrà bloccato in un corto circuito cognitivo. Tuttavia, venendo agli altri due mattoncini, ecco come ciò che precede questo frames ambiguo può determinarne l'interpretazione. Se, infatti, si arriva alla figura al centro venendo dalla figura sulla sinistra (a), l'interpretazione del mattoncino centrale (b) sarà guidata da questo frame precedente, e interpretata con il frame di una medesima disposizione orizzontale. Viceversa, se si arriva a (b) venendo da (c) il frame prescelto per risolvere l'ambiguità sarà un simile frame verticale. La dinamica, naturalmente, funziona anche in senso inverso, ossia venendo da (b) a (c), o da (b) ad (a), l'ambiguità non si scioglie in questo primo passaggio, ma ritornando successivamente a (b) e fissando a ritroso un'interpretazione stabile.


Allo stesso modo, nell'atto di lettura sarà ciò che precede o segue la situazione di ambiguità a influenzare l'interpretazione, scartando l'ipotesi meno vicina a precedenti o ai successivi frames contestuali. Come non mi stancherò di ripetere a più riprese, questa teoria può illuminare tanto il funzionamento della risposta estetica, quanto le strategie di chi costruisce la narrazione che, più o meno consapevolmente, può creare sospensioni interpretative e ambiguità cognitiva combinando diversi frames e tagliando tra essi gli appoggi necessari a stabilizzarli. È il caso, lo vedremo nella seconda parte, di numerosi passaggi nelle narrazioni che definiremo come mondi cognitivi.

Concludendo, questo nuovo approccio alla risposta estetica ha, così, un doppio pregio. Il primo, suggerito dallo stesso Jahn nella conclusione al suo articolo, è di descrivere la dinamica della lettura come un «hermeneutic interplay between top-down (frame-determined) and bottom-up (data-determined) cognitives strategies» (464), in una prospettiva, quindi, che dà eguale importanza agli elementi testuali e alle strutture mentali che supportano la loro decodifica. La seconda, conseguente e forse più importante, è che mette in luce come, sul versante creativo della narrazione, si possano elaborare storie che volutamente sfruttano i frames di lettura come strategie allo stesso tempo cognitive e narrative. È in questa direzione che, come vedremo ora, David Herman recupera la teoria dei frames per ridefinire il concetto di narratività.





MODELLI MENTALI E NARRATIVITY I | L'ESPERIENZA OBLIQUA DEL LINGUAGGIO




Secondo la definizione compilata da Gerald Prince, con il termine narrativity si deve intendere «the quality of being narrative, the set of properties characterising and distinguishing them from non-narratives [.] It also designates the set of optional features that make narrative more prototypically narrative-like, more immediately identified, processed, and interpreted as narratives» (2005: 387). Prince è stato il primo teorico che ha spostato il discorso sulla narratività da un più classico asse di esclusività (cosa è narrativo e cosa non lo è), a una dimensione scalare tra differenti gradi di narratività (1982:145). È sulla scia di questa distinzione scalare che Herman integra quest'idea con la teoria dei frames, e dei loro sottoinsieme dinamici, ossia gli scripts.


Per comprendere la prospettiva di Herman, occorre chiarire prima un concetto che fa da premessa a tutto il suo studio sulla narrativa, ossia l'idea, mutuata dalla psicologia cognitiva, che esistano dei "modelli mentali", e che le narrazioni per Herman devono essere intese alla pari di questi dispositivi. I modelli mentali, la cui messa in luce si deve allo psicologo scozzese Kenneth Craik (1943) sono «psychological representations of real, hypothetical, or imaginary situations» (Johnson-Laird 1999: 525). Da questa definizione, tuttavia, non è facile comprendere la differenza che intercorre tra quanto detto per i frames, anch'esse rappresentazioni concettuali, e l'idea che la mente lavori attraverso dei modelli anch'essi localizzati nella memoria a breve e lungo termine.

Per semplificare, mi pare che la sostanziale differenza possa essere questa. Come abbiamo visto, la teoria dei frames presuppone una doppia funzionalità di queste moli di informazioni, una passiva e una attiva. Da un lato, infatti, i frames agiscono sulla percezione, orientandola, e all'altro possono farsi strumenti da orientare per la comprensione di una situazione. L'idea dei modelli mentali è più spostata su questo lato attivo, considerando i modelli come strumenti e solo secondariamente come strutture inconsce26. Tuttavia, i frames e gli scripts possono essere visti come il materiale di costruzione di questi modelli. Essendo, quindi, costituiti da frames, ne condividono la dinamica di interazione costruttiva con il mondo esterno, per dare senso e coesione al caos informativo dell'esperienza e, cosa più importante, possono giocare un ruolo fondamentale nella ricostruzione di un mondo narrativo. Ancor più imporante, come spiega Johnson- Laird, citato dallo stesso Herman, questi modelli possono essere generati e richiamati attraverso il linguaggio:


It is now plausible to suppose that mental models play a central and unifying role in representing objects, states of affairs, sequences of events, the way the world is, and the social and psychological actions of daily life. They enable individuals to make inference and predictions, to understand phenomena to decide what action to take and to control its execution, and above all to experience events by proxy; they allow language to be used to create representations comparable to those deriving from direct acquaintance with the world; and they relate words to world by way of conception and perception (Johnson-Laird 1983: 397, mio il corsivo)


Ecco così spiegata la doppia importanza dei modelli mentali, e dei frames e degli scripts che li costituiscono, rispetto a una teoria naturale della narrazione: da un lato, consentire al lettore di compiere inferenze e predizioni, costruendo quindi più di quanto il testo non dica; dall'altro, veicolare una forma obliqua di esperienza, comparabile con quella diretta del mondo quotidiano, attraverso una delega cognitiva con cui il linguaggio può mettere in relazione il mondo del racconto al mondo reale, unendo rappresentazione e percezione, concetto e percetto.

Ora, è sulle modalità con cui un testo stimola questo «experiental repertoire» (Herman 2002: 89», che si può ridefinire il concetto di narratività su parametri cognitivi. Herman sostiene, sulla scia di Prince, l'idea di una narratività intesa come dimesione scalare, ma fa leva sulla teoria dei frames e degli scripts che costituiscono quel particolare tipo di modello mentale che è una narrazione, per definire le polarità di quest'asse. Citando il noto articolo di Jerome Bruner sulla costruzione narrativa della realtà, dove lo psicologo cognitivo spiega come una storia, per essere tale, deve alternare canonicità e violazione

(«canonicity and breach»), altrimenti risulterà «pointless» (Bruner 1991: 11)27, senza quid narrativo, Herman traduce quest'idea nei termini, per noi ora noti, di frames e scripts, e ridefinisce così il concetto di narratività:


Narrativity, then, is a scalar predicate: a story can be more or less prototypically story-like. Maximal narrativity can be correlated with sequences whose presentation features a proportional blending of "canonicity and breach", expectation and transgression of expectation. Conversely, a story's narrativity decrease the more its telling verge on pure stereotypicality, at one end of the spectrum, or on a wholesale particularity that cannot help but stymie and amaze, at other . [.] (91)


La narratività è, quindi, per Herman una questione di equilibrio cognitivo. Questo equilibrio però non va cercato unicamente nel testo, ma nelle potenzialità che gli stimoli semiotici contenuti in esso avranno di stimolare frames e scripts nel lettore, con i quali quest'ultimo potrà costruire o ricostruire modelli mentali che lo supportino nell'esperienza e nella su interpretazione. Così come per la Fludernik, anche per Herman il testo è solo una metà del processo costruttivo in atto nella risposta estetica. Alla luce di una simile definizione, però, come applicare quest'idea di narratività ai romanzi e racconti di tipo più sperimentale, in cui gli appoggi cognitivi a stereotipi concettuali sembrano mancare totalmente, in favore di una costante violazione della consuetudine? Herman conclude che sia un eccesso di convenzione che un eccesso di violazione minano la qualità narrativa di un testo. Un eccesso di attivazione di frames e scripts, infatti, conduce a quella che potremmo chiamare un'inerzia cognitiva (o più semplicemente, alla noia). Una scarsa o nulla potenzialità cognitiva degli stimoli semiotici, invece, conducono a uno smarrimento tale da impedire al lettore la ricostruzione di qualsivoglia modello mentale e con essa la partecipazione al racconto. Questi due eccessi, tuttavia, possono però costituire in sé due opposti marginali nella grandezza scalare che è una narratività così intesa, ampliando le potenzialità dell'approccio cognitivo anche alla storia della letteratura e dei generi:


Narrativity is a function of the more or less richly patterned distribution os script-activating cues in a sequence. Both too many and too few script-activating cues diminish narrativity. Further, narrative genres are distinguished by different preference-rule system prescribing different ratios of stereotypic to nonstereotipic action and events. An avant-garde work by Robbe Grillet or Joyce's Finnegans Wake can be said to prefer a lower ration of stereotypic to nonstereotypic beahiovrs and occurences - and thus to display less narrativity- than a news report, a classical epic, or a novel by Dickens. (91)


Al centro dell'idea di Herman, come si vede, vi è ancora una narratività intesa come sequenza di azioni ed eventi, o meglio, dei corrispondenti scripts attivati dal testo. In questo senso, infatti, attribuisce un minor grado di narratività a narrative sperimentali. La mia idea, invece, è che proprio alcuni testi ascrivibili a questa categoria, che analizzerò nella seconda parte, mostrino un alto grado di narratività proprio perché stimolino frames e scripts minandone continuamente l'equilibrio. Per ora, chiamo la narratività descritta da Herman Narrativity I, per distinguerla dalla riformulazione del concetto che ne ha fatto Monika Fludernik e che chiamerò Narrativity II, dove la progressione del numero non è cronologica, ma interna alla presentazione che se fa in questo studio. L'idea che svilupperò nella seconda parte, dopo un diretto confronto con i testi, sarà un'integrazione dei due approcci verso una narratività di terzo grado.

Dopo aver visto nel dettaglio tanto la nascita del concetti di schema, frame e script, quanto della loro applicazione possibile sia all'atto di lettura in sé, che nella transazione tra mondo reale e mondo finzionale, è tempo di proseguire nel percorso lasciatoci a lato, e vedere altri due elementi di base della nuova narratologia.


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