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Spin a Self | Storytelling e Regressione infinita ne L'Innomable




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Spin a Self | Storytelling e Regressione infinita ne L'Innomable










È convenzione della critica riferirsi a L'Innommable (1953) di Samuel Beckett come all'ultimo capitolo di una "trilogia" narrativa, a conclusione di una cronologicamente serrata pubblicazione dei primi due volumi, ossia Molloy e Malone Meurt, usciti entrambi nel 1951, anch'essi per Les Édition de Minuit. Tuttavia, è Stanley Gontarsky (1996) a ricordare quello che, a chi si occupa di Beckett, è altrettanto noto, ossia che egli abbia a più riprese resistito a questa etichetta onnicomprensiva per i suoi tre romanzi, prima con l'editore inglese John Calder (che dopo un primo rifiuto per la formula editoriale "trilogy", ha ritentato con il suggestivo, ma problematico titolo di "trinity") e poi con l'editore americano Barney Rosset della Grove Press. Alla fine, grazia alla tenacia consueta con cui Beckett difendeva ogni stadio dei suoi lavori, entrambe le edizioni escono con il titolo di Three Novels; tuttavia, come giustamente rileva Gontarski, sin dall'immediata pubblicazione la critica ha da subito reso moneta corrente l'etichetta da Beckett rifiutata e, come a volte accade, «critics have triumphed where publishers failed» (Gontarski: 1996: xii). Non avendo mai digerito questo raggruppamento, pur nella positività delle critiche di cui la "trilogia" era oggetto, Beckett ha continuato a negare consenso a questa formula, riferendosi ad essa come alla «so-called trilogy» (xiii). Personalmente, credo che entrambe le parti in causa avessero le proprie ragioni per sostenere la propria posizione.

Da un punto di vista logico e tematico, la continuità riscontrata dalla critica nei tre volumi è innegabile, così come un senso di progressione, a partire da un semplice dato testuale, ossia dalla presenza o assenza nei singoli testi dei personaggi-narratori degli altri volumi. In una crescita inclusiva, come per scatole cinesi, in Molloy non si trovano tracce dei nomi presenti in Malone Meurt (quello di Malone stesso e delle sue creazioni, ossia Saposcat, Macmann, Lemuel, Mme Pédale) e ne L'Innommable (qui solo le creazioni di questa voce innominabile, ossia Basile, Mahood e Worm). Procedendo, invece, in Malone Meurt si trova almeno un esplicito riferimento a Molloy e a Moran, il protagonista della

seconda parte del primo romanzo1, che consente così di supporre oltre a una relazione con esso, anche una posteriorità. Ne L'Innommable, poi, nella misteriosa fissità che costringe il narratore ha guardare dritto davanti a sé, verso uno spazio scuro, privo di riferimenti, in apertura di romanzo ecco che la prima fantasmatica presenza che viene percepita deambulare, in un moto circolare, attorno al narratore è proprio Malone o, forse, Molloy:



Malone est là. De sa vivacité mortelle il ne reste que peu de traces. Il passe devant moi à des intervalles réguliers, à moins que ce ne soit moi qui passe devant lui. Non, une fois pour toutes, je ne bouge plus. [.] Je le vois de profil. Parfois je me dis, Ne serait-ce pas plutôt Molloy? C'est peut-être Molloy, portant le chapeau de Malone. Mais il est plus raisonnable de supposer que c'est Malone, portant son propre chapeau. (I 10)



Non fosse solo che per questi riferimenti onomastici, allora, sostenere una direzione e una continuità tra i tre volumi, parrebbe più che lecito. E allora perché Beckett si è dimostrato così recalcitrante a fondere le autonomie di un singolo testo, in un'unità che appare così salda ed evidente? Credo che le ragioni possano essere almeno due.

Prima di tutto gli indicatori nominali, i rimandi intertestuali tra i romanzi, non si


limitano internamente alla "so-called trilogy». Se in Molloy, infatti, non ci sono riferimenti a personaggi dei due successivi volumi, tuttavia ve ne sono a precedenti romanzi di Beckett. Nella fase di ritorno del viaggio che avrebbe dovuto portare Moran a trovare Molloy, il primo spiega come la sua attività non consista solo nel cercare ciò che gli è stato comandato di trovare (da Gaber, a sua volta ambasciatore di Youdi), ma agire su costui, in quella che appare come una metafora del lavoro immaginativo di un narratore per dare forma a un personaggio, a sua volta inclusa nella più generale metafora della creazione come viaggio, alla ricerca di un personaggio e di una storia: «mon travail à moi ne s'arrêtait jamais au repérage. Ç'aurait été trop beau. Mais je devais toujours agir sur l'intéressé d'une façon ou d'une autre, suivant les instructions. Ces interventions revêtaient des formes extrêmement diverse. Depuis les plus énergiques jusqu'aux plus discrètes» (M 186). A conferma che Moran sia il narratore non solo responsabile di trovare Molloy, e quindi di crearlo, ma che la sua attività narrativa abbia uno storico che va ben oltre questa ultima caccia, eccolo poco dopo ricordare i suoi precedenti bottini, vittime, creazioni. Rivolgendosi, infatti, con mossa metanarrativa, a un potenziale pubblico, ai lettori, dice (anche se sarebbe più corretto dire "scrive", dal momento che quello che leggiamo si suppone essere un rapporto destinato a Gaber): «Oh je pourrais vous raconter des histoires, si j'étais tranquille. Quelle tourbe dans ma tête, quelle galerie de crevés. Murphy, Watt, Yerk, Mercier et tant d'autres. Je n'aurais jamais cru que - si, je le crois volontiers. Des histoires, des histoires. Je n'ai pas su les raconter. Je n'aurai pas raconter celle-ci» ( M

187).


Di questa turba, che ancora si agita nella testa di Moran, al lettore beckettiano manca all'appello solo il nome di Yerk, riguardo al quale però è lo stesso Malone a riferire come, pur avendolo trovato, non ne è stato chiesto rapporto («On ne me demandait jamais la preuve que j'avais réussi, on me croyait sur la parole» M 186), e così non ne resta traccia. Tutti gli altri sono titoli di romanzi e omonimi antieroi della prima stagione narrativa di Beckett, elencati in un rigoroso ordine, non di pubblicazione, ma di creazione: Murphy (1938); Watt, redatto tra il 1942 e il 1945, precedentemente a Molloy, quindi, ma pubblicato nel 1953; Mercier et Camier, uscito con grande ritardo editoriale nel 1970, ma scritto nel 1946, anch'esso così precedente alla trilogia.

In Malone Meurt avviene similmente che, come riportato in nota, a fianco al nome di Molloy appaiano gli altri cari (de)relitti dell'immaginazione, in questo caso dell'ennesimo personaggio creatore/scrittore che è Malone, chiuso in una stanza a


raccontare storie. E persino l'apparente omissione di Watt, viene colmata nel finale con una neanche troppo velata allusione a un certo "inglese", ospitato in un edificio costruito dall'immaginazione di Malone e che ha tutta l'aria di un ospedale psichiatrico, simile a The Magdalen Mental Mercyseat dove aveva terminato la sua esistenza Muprhy. L'allusione a questo "inglese" diventa esplicita nell'esclamazione finale che il suo creatore gli mette in bocca, spesso fornita dalla critica come interpretazione stessa tanto del suo nome (Watt= What?) che del titolo del romanzo:



On l'appelait l'Anglais, quoiqu'il fut loin d'être, peut-être parce qu'il s'exprimait en anglais de temps en temps. [.] Good-morning, good-morning, good-morning, dit-il, avec un fort accent étranger, tout en lançant autour de lui des regards scrutateurs, fucking awful business this, no, yes? Peut-être avait-il peur de trahir sa pensée. DE brusques élans aussitôt réprimés l'éloignement insensiblement e son poste d'observation optimum au milieu de la chambre. What! S'exclama-t-il. (MM 181)



Così anche l'arco intertestuale di Malone Meurt non solo incorpora Molloy ed è a sua volta incorporato da L'Innommable, ma si estende fino all'intera opera romanzesca di Beckett. Ne L'Innommable, poi, la galleria è al completo, e senza ulteriori esempi, basti la dichiarazione, anche se dalla firma per statuto impronunciabile o illeggibile, della voce narrante, che all'inizio del romanzo, dopo l'avvistamento incerto di Moran, dichiara come, per quanto la sua condizione non gli permetta alcuna affermazione certa, tutte le creature o i fantasmi della creazione che l'hanno preceduto sembrano essere presso di lui: «Quant à Molloy, il n'est peut-être pas ici. Le pourrait-il à mon insu? L'endroit est sans doute vaste. [.] A vrai dire, je les crois tous ici, à partir du Murphy tout au moins, je nous crois tous ici, mais jusqu'à présent je n'ai aperçu que Malone» (I 10).

La prima ragione, così, per cui credo Beckett potesse dimostrarsi poco propenso alla rilegatura concettuale dei tre volumi in un'unica fascia interpretativa, è perché questa continuità, per quanto innegabile, non può dirsi esclusiva rispetto a questi testi, ma deve essere estesa all'intera produzione romanzesca di Beckett. Il secondo motivo è più semplice, e non richiede verifiche testuali, poiché consiste nell'autonomia di ogni singolo volume, che non necessariamente richiede l'appoggio degli altri per essere attraversato. Tuttavia, le due ragioni sono complementari, poiché, se con la prima si evidenzia la coerenza della cosiddetta trilogia rispetto a un più ampio percorso di ricerca iniziato fin da


Murphy, con il secondo motivo si mette in luce l'autonomia di ogni singola tappa. Se, come tra poco vedremo, il problema tematizzato ne L'Innomable vede in Murphy il suo cominciamento, ogni testo e ogni singolo personaggio/narratore corrisponde a una funzione di avanzamento nella strada verso le radici del problema stesso: come dice la stessa voce de L'Innommabe, insomma, «c'est le même problème. Mais peut-être pas le même personnage, après tout» (I 109).

Cerchiamo, allora, di schematizzare il problema, della cui indagine L'Innommable costituisce se non il punto conclusivo, la sua massima avanzata rispetto a ciò che lo precede. Per ricalcare la distinzione fatta dalla voce de L'Innommable, «à partir du Murphy tout au moins», i romanzi di Beckett sembrano descrivere una traiettoria di recessione dalla luce verso il buio. Naturalmente, non si tratta di un problema cromatico, ma queste due polarità corrispondono agli estremi di una distinzione spaziale tra esterno e interno, una cromotopìa che a sua volta descrive la problematica oscillazione tra la luminosità del mondo fenomenico e le scure cavità della mente.

Il primo, e per certi versi unico, eroe di questa ritirata cognitiva è, infatti, Murphy, la cui storia si può riassumere come un percorso di allontanamento dal mondo, e dalla più intima esteriorità del corpo, verso la beatitudine interiore della propria mente. Nel noto passaggio in cui Murphy, nell'immobilità coatta a cui si costringe legandosi alla sua sedia a dondolo, viene descritto dal narratore come nell'atto di amare se stesso attraverso un amore "intellettuale" (Amor intellectualis quo Murphy se ipsum amat), l'arretramento verso l'interiorità della sua mente, allontanandosi dal proprio corpo e, conseguentemente, dal mondo, viene descritto come una progressione cromatica dalla luce al buio. Più precisamente, è a sua volta la mente stessa ad essere descritta come una sfera, ermeticamente sigillata, spazializzata in una zona più luminosa, quella più prossima all'esterno, e una zona più scura, quella a maggiore profondità:



It is a most unfortunate, but the point of this story ha been reached where a justification of the expression "Murphy's mind" has to be attempted. [.] Murphy's mind pictured itself as a large hollow sphere, hermetically closed to the universe without. This was not an impoverishment, for it excluded nothing that it did not itself contain. Nothing ever had been, was or would be in the universe outside it but was already present as virtual, or actual, or virtual rising into actual, or actual falling into virtual, in the universe inside it. [.] The mind felt its actual part to be above and bright, its virtual beneath and fading into the dark, without however connecting this with the ethical yoyo. [.]. It was made up of light fading into dark, but not of good and bad. It contained forms with parallel in another mode and forms without, but not right and wrong forms. It felt no issue between its light and dark, no need for its light to devour its dark. The need was now to be in the light, now in the half-light, now in the dark. That was all. [.] He was split, one part of him never left this mental chamber that pictured itself as a sphere full of light fading into dark, because there was no way out. But motion in this world depended on the rest in the world outside. A man is in bed, wanting to sleep. A rat is behind the wall at his head, wanting to move. The man hears the rat fidget and cannot sleep, the rat hears the man fidget and dares not move. They are both unhappy, one fidgeting and the other waiting, or both happy, the rat moving and the man sleeping. (MP 107-110, corsivo mio).



Il problema cognitivo, che fa da tema a tutto il romanzo, è così nientemeno che il più classico dei problemi della filosofia della mente, vale a dire il post-cartesiano dilemma di come spiegare la comunicazione tra la mente - ossia tra le rappresentazioni mentali, concettuali, di cui ci siamo occupati nel primo capitolo della prima parte - e l'esteriorità fenomenica del mondo, di cui il corpo è l'agente fisico incaricato di farne esperienza diretta. Murphy avverte la profonda scissione tra questi due poli («felt himself split in two, a body and a mind», 109), ma si limita a riconoscerne l'autonomia, l'indifferenza, e a preferire la propria «mental chamber». Quello che ci interessa, e che interessa Murphy, non è tanto se e come le due estremità, l'interiorità della mente e l'esposizione al mondo del corpo, siano in comunicazione (pur essendo notevole vedere come Beckett sembri anticipare anche qui, in forma narrativa, un problema discusso dalle scienze cognitive,

definito come un «explanatory gap»2), ma il fatto che egli problematizzi questa divisione, per decidere di ritirarsi in una sola di queste due separatezze, ossia nella sfera ermetica della propria interiorità. Ma, come spiega il narratore in terza persona, perché il movimento in questa zona mentale possa essere liberato, occorre arrestare le attività all'esterno o, con l'immagine aneddotica presentata nel testo, perché l'uomo (la mente) e il topo (il corpo, il mondo) siano liberi, il primo di dormire e il secondo di scorrazzare, devono definitivamente ignorarsi. Si tratta di immobilizzare il corpo, come Murphy a più riprese cerca di fare legandosi alla sua sedia a dondolo, oppure smettere di dargli attenzione, di essere vigili e in contatto con esso, abbandonandosi invece al sonno dei processi mentali, privati di oggetti esteriori, direzionati solo su se stessi.

In realtà le due modalità sono due strade complementari, che Muprhy perseguirà entrambe, prima legandosi ripetutamente alla sedia, e in seguito cercando sempre di più di avvicinare la demenza dei malati pscihiatrici della Magdalen Mental Mercyseat, ossia un patologico ritiro dal mondo e, quindi, dal corpo; tutto, insomma, per arrivare a prendere sede permanente nella sua «mental chamber». Ed è proprio da questa camera che, da Murphy in poi, il lettore e i personaggi di Beckett non usciranno mai più all'esterno. La stessa dicotomia tra luce e buio, che continua a ricorrere anche nei romanzi successivi, non starà più ad indicare l'esterno e l'interno, il mondo e la mente, ma verrà incorporata, e già lo era nella descrizione della sfera ermetica di Murphy, come cromotopìa interna allo stesso spazio mentale. Per certi versi, infatti, con Murphy finisce il mondo, o almeno questa è la mia ipotesi. Per capirla meglio, occorre dire ancora qualcosa su una metafora molto antica, ossia quella che vede la ricerca di sé come un viaggio, un cammino verso la comprensione della propria identità cercata nel mondo.

Murphy è l'ultimo viaggiatore, o almeno così sembra al lettore che ne ripercorre le peripezie. Se il tema del romanzo può essere riassunto come un conflitto tra l'universo mentale del protagonista e l'universo a lui esterno, come una guerra tra mondi, non di meno un mondo esterno il lettore lo può ricostruire, ritrovandovi persino i tratti concreti di una Dublino e di una Londra controfattuali. Inoltre, il viaggio di Murphy, in ragione anche dei suoi conflitti con i bizzarri personaggi con cui la sua storia s'intreccia, sembra essere sintetizzabile come una anomalo, ma pur sempre letterariamente riconoscibile, viaggio verso la scoperta di sé. Ed è su quest' ultimo punto che in Murphy si prepara e si inizia a compiere quell'inversione di marcia, di cui i romanzi successivi sono la formale e inarrestabile avanzata. L'idea del viaggio come scoperta di sé viene rifiutato da Murphy, che al contrario cerca l'immobilità e in essa si cerca. Questa retromarcia non è interpretabile come un semplice rifiuto solipsista del mondo esterno, ma è motivata da una riflessione di natura epistemica che ci permetterà di arrivare fino al fuoco del nostro interesse analitico, ossia al rapporto tra conoscenza di sé e narrazione.

Alla base dell'introflessione di Murphy non c'è un giudizio di valore, ma una priorità di tipo cognitivo, che può essere così formulata: se il mondo esterno non esiste che come rappresentazione, e più di tutti il soggetto che in esso avrebbe le pretese di cercarsi, perché tentare una strada di conoscenza allontandosi da se stessi, quando è presso di noi che tutto comincia e finisce? È Beckett stesso a spiegare, nel suo diario redatto in Germania, come la figura del viaggio verso se stessi, alla base di molta letteratura tedesca contemporanea a quegli anni, fosse per lui un paradosso antieconomico, un'inutile fatica che allontana dal problema che vuole avvicinare, ossia la comprensione del soggetto. In una nota redatta proprio negli anni di stesura di Murphy, infatti, Beckett, riflette perplesso sul titolo di un romanzo di Walther Bauer, dal titolo di Il viaggio necessario, spiegando come per lui:



Journey anyway is the wrong figure. How can one travel to that from which one cannot move away? Das notwendige Bleiben [The Necessary Staying Put] is more like it. That is also in the figure of Murphy in the chair, surrender to the thongs of self, a simple materialisation of self- bondage, acceptance of which is the fundamental unheroic. In the end it is better to perish than be freed. But the heroic, the nosci te ipsum [know thyself], that these Germans see as a journey, is merely a different attitude to the thongs and chair, a setting of will and muscle and fingers against them, a slow creation of the desire and power to stand up and walk away, a life consecrated to the possibility of escape, if not necessarily the fact, to a real freedom of choice, i.e. he is not free to act against his inclination. The point is that the nosci te ipsum is no more mobile than the carpe te ipsum [gather thyself] of Murphy. The difference is that in the one motionless there is the seed of motion, and in the other not. (Beckett [1937] citato in Knowlson

1996: 247,)




Questa nota è di un'importanza chiave per comprendere la traiettoria di ricerca che lega i romanzi di Beckett, fino all'elaborazione più complessa de L'Innommable. In Murphy sono presentati due mondi, quello mentale e quello esterno, allo scopo di mostrare il primo gesto antieroico di recessione dal secondo al primo, poiché il vero viaggio verso di sé può essere compiuto solo andando alle radici della rappresentazione stessa, di cui il mondo esterno è visto come un'illusoria emanazione. Questo è ancor più vero per la prima e ultima di queste costruzioni, vale a dire il soggetto stesso, la sua identità.

Conoscere e comprendere la verità sul mondo e su se stessi, per Beckett come per Murphy, non significa quindi cercarsi nel viaggio, ma afferrarsi, rendersi immobili e costringersi a non uscire dalla propria camera mentale. Con fare scientifico, con parole che richiamano una fisica della rappresentazione, Beckett spiega come nel modo eroico del viaggiatore solitario, nel suo movimento alla ricerca di sé s'inquini - per una distrazione dovuta al credere che sia il mondo col suo dinamismo a modificare e informare il soggetto e non il mondo una dinamica creata dal soggetto stesso - la condizione d'immobilità necessaria ad avvicinare la sorgente stessa della rappresentazione, «the seed of motion». A partire da Murphy, così, non ci saranno più due mondi in conflitto, né un movimento dei personaggi dall'uno all'altro, ma una sola «mental chamber».

Ed ecco, infatti, nei primi due volumi della trilogia comparire una serie di camere, una metaforica cognizione d'interni: Molloy scrive dalla camera di sua madre; Moran, terminato il viaggio alla ricerca della sua preda narrativa, ritorna nel buio della sua camera; Malone è ricoverato, per motivi che ignora, in una camera ospedaliera. La camera mentale di Murphy, insomma, diventa lo spazio in cui i personaggi narrano le proprie storie, dove l'aggettivo possessivo non va inteso, è fondamentale, in senso riflessivo, come tra poco sarà chiaro. Da queste camere però, sembrano tutti uscire, visitare luoghi e descrivere mondi, ma il movimento è solo apparente. In realtà, i loro spostamenti corrispondono ai viaggi compiuti con l'immaginazione narrativa, attraverso la creazione e il racconto delle storie di vite altrui. Il problema cognitivo, allora, si sposta dall'esterno all'interno, poiché, una volta tolto di mezzo il mondo, in quanto illusoria rappresentazione, questo sembra non smettere di riproporsi e riprodursi, sotto forma di storie e di mondi finzionali, nella


narrazione e nel linguaggio interiore di questi narratori mentali. E con la sua riproduzione in scala, con la sua duplicazione narrativa e immaginativa, ogni mondo finzionale a cui Moran, Molloy e Malone danno forma, replica l'antica tentazione di fuggire da sé, nelle vite dei personaggi che queste storie: c'è, insomma, ancora troppa luce e ancora troppo movimento, troppa distanza dal problema. Ed è così che ne L'Innommable Beckett cerca l'ultimo scatto formale necessario alla sua ricerca sul soggetto, cercando di smascherare anche l'ultima illusione rappresentativa, quella che permetteva a Moran, Molloy e a Malone tanto di sfuggire da sé stessi nelle storie degli altri, quanto di raccontare la loro situazione in prima persona; si tratta, per Beckett, di risalire dal movimento dello storytelling al suo seme, facendo di questo seme l'oggetto e il soggetto stesso di una narrazione. Beckett, insomma, affronta l'ultimo paradosso, la più profonda fallacia cognitiva dell'uomo, quella particolare forma di abitudine narrativa che tiene unita la nostra identità sotto forma di

storia.


Cognitivamente parlando, (Cf. § 2.1) il problema è rubricato come l'ipotesi di un narrative self, dove il paradosso non percepito consiste nel fatto che, nella costruzione narrativa dell'identità, siamo allo stesso tempo autori, narratori e personaggi della nostra storia: siamo, cioè, il frutto del linguaggio che noi stessi utilizziamo per raccontarci. È un nastro di Moebius materiato di parole, di storie che, mentre crediamo di essere noi a spingere, siamo da esse spinti e costruiti, come sottolinea Dennett, in un passo che è il caso di riproporre:



Our fundamental tactic of self protection, self-control, and self-definition is not spinning webs or building dams, but telling stories, and more particularly concocting and controlling the story we tell others - and ourselves - about who we are. And just as spiders don't have to think consciously and deliberately, about how to spin their webs, [.] we (unlike professional storytellers) do not consciously and deliberately figure out what narratives to tell and how to tell them; they spin us. Our human consciousness, and our narrative selfhood, is their product, not

their source. (1991: 418)




Probabilmente non ci sarebbe quarta di copertina per L'Innommable più aderente che questo passaggio appena citato. Tuttavia, questa constatazione di Dennett è una premessa parziale, è l'antefatto di quanto ne L'Innommable il lettore si trova a dover interpretare, e per certi versi, subire. Se noi, in quanto narratori non professionisti, non dobbiamo interrogarci in modo riflessivo sulla storia che di noi raccontiamo, e non guardiamo oltre il paradosso dell'essere un prodotto di ciò che produciamo - pena, lo sgretolamento e la tenuta dell'identità stessa -, l'obiettivo di Beckett è esattamente quello di indagare cosa si nasconda dietro questa abitudine protettiva, che cosa ci sia, insomma, oltre il linguaggio che ci dà forma. Se sono le storie a costituire il soggetto, o meglio a mascherarne l'inconsistenza concreta individuandolo come un puro e invisibile «center of narrative gravity» (Dennett 1991: 418), come può questa fallacia essere smascherata e resa percettibile? La risposta di Beckett è: dando voce al centro stesso, che non può che negare la sua esistenza, o dichiararsi, che è lo stesso, semplicemente fatto di parole. Se le scienze cognitive hanno strumenti tutti loro per decretare l'inesistenza del soggetto, la letteratura, e in particolare questo tipo di letteratura di ricerca, ha strade alternative, che possono essere persino più efficaci, perché praticabili come esperienza tanto di scrittura, che di lettura. Essendo, poi, questo particolare tipo di problema cognitivo vincolato al linguaggio, il linguaggio stesso e i processi interpretativi che esso stimola possono essere ritorti contro la sua stessa mascherata. È sufficiente il famoso inizio de L'Innommable ha rendere evidente tanto quanto la spiegazione di Dennett coincida con la direzione di ricerca di Beckett, quanto quest'ultimo, con pochi elementi, dia forma al problema, e alla ricerca in corso:



Où maintenant? Quand maintenant? Qui maintenant? Sans me le demander. Dire je. Sans le penser. Appeler ça des questions, des hypothèses. Aller de l'avant, appeler ça aller, appeler ça de l'avant. [.] Peut importe comment cela c'est produit. Cela, dire cela, sans savoir quoi. Peut- être n'ai fait qu'entériner un vieil état de fait. Mais je n'ai rien fait. J'ai l'air de parler, ce n'est pas moi, de moi, ce n'est pas de moi. (I 7)



Il lettore non può che essere sconcertato dal fatto che, in apertura, le fondamentali categorie di spazio, tempo e persona con cui abitualmente gli è garantito l'ingresso in un mondo finzionale, gli vengano negate dalla stessa guida diegetica, dalla coscienza che si troverà costretto ad abitare per tutta la durata del romanzo, perché in soccorso non arriverà mai un narratore esterno: il problema è già tutto qui, dunque, poiché se tutto parte e rientra nel centro di gravità, non c'è niente al di fuori di questo, che ha sua volta non ha sede, spazio e tempo in cui collocarsi, e tanto meno prima persona con cui esprimersi. Inoltre, da subito il lettore è confrontato con l'aspetto formalmente ancora più destabilizzante, vale a dire con il fatto che la narrazione è mostrata nel suo farsi, nel suo potere di nominazione sincronico alla lettura, dove il narratore prima si esprime («aller de l'avant») e poi invalida il procedere e la creazione del movimento narrativo, rilevando l'arbitrarietà di quanto appena detto, la sua natura di superficie («appeler ça aller, appeler ça de l'avant»).

Maurice Blanchot fu uno dei primi recensori de l'Innommable, e il suo articolo inizia proprio concentrandosi sullo smarrimento del lettore, a cui Blanchot dà voce ricalcando la struttura interrogativa dell'incipit del romanzo:



Qui parle dans les livres de Samuel Beckett? Quel est ce «Je» infatigable qui apparentement dit toujours la même chose? Où veut-il en venir? Qu'espère l'auteur qui doit bien se trouver quelque part? Qu'espérons-nous, nous qui lisons? Ou bien est-il entré dans un cercle où il tourne obscurément, entraine par la parole errante, non pas privée de sens, mais privée de centre, qui ne commence pas, ne finit pas, pourtant avide, exigeant, qui ne s'arrêtera jamais [.](Blanchot 1959: 286)



Non c'è dubbio che queste siano le domande che, fin dall'inizio, non solo il critico, ma anche il lettore più comune si pone di fronte a una narrazione come questa. Proviamo allora a fornire alcune risposte alle domande di Blanchot, in forma volutamente sommaria. Chi parla in quest' opera di Samuel Beckett? Chi è questo «Je»? La risposta è nel titolo e nel problema cognitivo che abbiamo visto: a parlare è lo stesso centro di gravità che, non esistendo, è una pura voce senza persona, innominabile, appunto. Che cosa si aspetta l'autore, che dovrà pure essere da qualche parte? Tralasciando il problema narratologico tra autore reale e autore implicito, che non è certo interesse del lettore comune, una possibile risposta è che l'efficacia dell'esperimento di Beckett stia proprio nel fare scomparire l'autore, nel rendere formalmente la totale autonomia del narratore come centro narrativo senza indicazioni, scopi e teleologie, mostrandolo nella sua inconsapevole attività narrativa. E i lettori, cosa si aspettano? Di certo, non quanto trovano.

Al contrario, la ricerca di Beckett funziona proprio sulla delusione delle aspettative del lettore di trovare una coscienza e un mondo narrativo in cui muoversi (Cf.§ 1.3), ed essere invece continuamente parificati alle lacune del narratore stesso, alla sua oscurità informativa, con il notevole impedimento di non poter nemmeno prendere forma umana in un personaggio, dovendo far fronte all'impossibilità di naturalizzarlo e cedere allo smarrimento di accettarsi (il lettore) come pura voce, come parola errante. Da Blanchot, però, ricaviamo un ulteriore spunto quando sottolinea che il lettore è chiamato a interpretare parole non prive di senso, ma prive di centro. Questo giusto rilievo va però integrato con quanto detto fino ad ora. Se, infatti, lo scopo di Beckett è di mettere in scena l'impossibile rappresentazione del centro di gravità narrativo che, data la sua concreta inesistenza, non ha luogo, tempo e spazio, ma è un punto di pura narrazione, il senso coincide con la mancanza di centro. Tuttavia, l'innominabile narratore si chiede quale sia la sua posizione e, ironicamente, dice di credersi al centro, e di compiacersi in fondo di quest'illusione:



Mais l'endroit, je l'ai déjà signalé, est peut-être vaste, comme il peut n'avoir que douze pieds de diamètre. Pour ce qui est d'en pouvoir reconnaitre les confins, le deux cas se valent. Il me plait de croire que j'en occupe le centre, mais rien n'est moins sur. [.] Tout est possible, ou presque. Mais le plus simple vraiment est de me considérer comme fixe et au centre de cet endroit, quelles qu'en soient la forme et l'étendue. (I 7-14, corsivo mio)



Il lettore, privato di ogni trascendenza rispetto a quanto accade, di ogni distanziamento necessario a comprendere il senso di questa strana avventura della parola, e di informazioni certe con cui collocare questa voce in uno spazio determinato, essendogli, insomma, impedita quella forma di integrazione a distanza e quella superiorità visiva che Iser

definisce come un «wandering viewpoint»3, è confinato nella stessa gabbia cognitiva del


narratore («comme une bête née en cage» I 166), che continuamente ribadisce la sua impossibilità ad accertare alcunché. Di per sé, ci sarebbero già sufficienti elementi, che potrebbero essere ampliati con innumerevoli rimandi testuali, per poter sostenere l'eccezionalità dell'esperimento beckettiano nella sua resa formale del problema cognitivo in rapporto alla narrazione, completata soprattutto attraverso la ripetuta negazione delle aspettative informative del lettore - di pressoché tutti gli elementi visti nel primo capitolo di questo lavoro, quali una coscienza umana, un corpo, uno spazio, un mondo; basterebbe questo a mostrare come abbia tradotto in termini narrativi l'inconsistenza di un narrative

self e la sua illusoria solidità, mostrandone il centro come una voce che nega la propria esistenza, creando così uno spazio, un senso e una figura impossibili che, mentre si costruiscono con le parole, sono da esse distrutti.

Eppure, l'articolazione del problema ne L'Innommable sembra spingersi decisamente oltre, così come la stupefacente consonanza tra quanto Beckett indaga e quanto la fenomenologia e la filosofia della mente discutono intorno al circolare paradosso cognitivo di un narrative self . In un altro passo del romanzo, infatti, mentre il narratore ribadisce il suo essere materiato unicamente di parole, così come lo spazio in cui si trova, allo stesso tempo delega ad altre fonti la loro origine, complicando non poco le cose: c'est moi qui parle, inutile raconter des histoires, dans la soif, dans la daim, dans la glace, dans la fournaise, on ne sent rien, que c'est curieux, on ne se sent pas une bouche, les mots sont partout, dans moi, hors moi, ça alors, tour à l'heure je n'avais pas d'épaisseur, je les entends, pas besoins de les entendre, pas besoin d'une tête, impossible de les arrêter, impossible de s'arrêter, je suis en mots, je suis fait de mots, des mots des autres, quelques autres, l'endroit aussi, l'air aussi, les mur, les sol, le plafond, des mots, tout l'univers est ici, avec moi, je suis l'air, les mur, l'emmure, tout cède, s'ouvre, dérive, reflue, des flocons, je suis tout ces flocons, se croisant, s'unissant, se séparant, où que j'aille je me retrouve, m'abandonne, vais vers moi, viens de moi, jamais que moi, qu'une parcelle de moi, reprise, perdue, manquée, des mots, je suis tous ces mots, tous ces étrangers, cette poussière de verbe, sans fond ù se poser, sans ciel où se dissiper [.]. (I 166, corsivo mio)



In questo passo, poco prima che il romanzo si concluda (anche se non c'è conclusione più aperta), il narratore, mentre ribadisce come qualunque architettura, sia di se stesso che del proprio mondo, non abbia altra fibra che il linguaggio, e proprio mentre esordisce con una rara fiducia affermativa rispetto al fatto che sia lui a parlare, allo stesso modo invalida tutto questo spostando il fuoco narrativo, e la responsabilità di tutto, verso misteriosi terzi, spossessandosi delle sue stesse parole e delegandone la paternità altrove. Come dobbiamo interpretare queste parole straniere che però sono il tessuto stesso da cui l'innominabile voce si dice costituita? Chi le articola? E da dove? L'intero romanzo è in realtà disseminato di queste misteriose presenze, come vedremo tra poco. L'interpretazione che vorrei tentarne richiede una parantesi funzionale verso la fenomenologia del soggetto e la filosofia della mente, rispetto a un problema legato alla costruzione narrativa del soggetto e alla coscienza di sé.


La disputa intorno alla natura narrativa del sé è incorporata in un più ampio dibattito su quanti livelli di coscienza si debbano supporre per ottenere il senso di una prospettiva individuale, di una percezione soggettiva dell'esperienza. La più forte opposizione tra differenti ipotesi è la più generale distinzione che vede schierati da una parte i sostenitori di un doppio livello necessario alla coscienza di sé, e chi invece sostiene un unico piano di esperienza soggettiva. Il primo gruppo è a favore di quella che convenzionalmente si definisce una High-Order Theory of Consciousness, la cui ipotesi può essere facilmente schematizzata come segue: perché uno stato mentale X possa dirsi cosciente, occorre un secondo ordine X1 che lo renda tale. Per il minimo grado di coscienza di sé, quindi, occorrerebbero due diversi stati mentali, uno di base e uno superiore che, attraverso il monitoraggio, lo renda cosciente. Traducendo il tutto in termini più discorsivi e a noi vicini, perché ci sia un self, ci deve essere uno stato superiore che abbia questo come oggetto e crei così, in questa relazione, una condizione di self-awarness. Questo tipo di approccio è ampliamente contestato, perché conduce a quello che in fenomenologia, fin dai tempi di Husserl, è definito come una una regressione infinita che Dan Zahavi riassume così:



Typically, the regress argument has been understood in the following manner: If all current mental states are conscious in the sense of being taken as objects by occurent second-order mental states, then these second-order mental states must also be taken as objects by occurent third-order mental states, and so forth ad infinitum.(Zahavi 2005: 24)



È un gioco di rifrazioni in cui ogni stato di coscienza deve essere affiancato e reso cosciente da uno stato di coscienza superiore, che a sua volta dovrà essere monitorato, e così via. L'alternativa a questa infinita catena di rifrazioni è quella di supporre un solo livello, non riflessivo, vale a dire un solo stato di coscienza sufficiente a fornire una prospettiva soggettiva, pur non dovendo essere oggetto di alcuna riflessione e rifrazione. È la linea iniziata da Sarte, che sosteneva come, in francese come in italiano, sia solo una necessità grammaticale a costringere a parlare di una coscienza di sé, che Sartre, infatti, riformulava graficamente mettendo tra parentesi il genitivo possessivo («conscience (de) soi», citato in Zahavi 2008: 23). Zahavi, sostenitore di questo singolo livello di coscienza, porta un esempio che, anche per il fatto di riguardare l'attività di lettura, può esserci utile:



If I am engaged in some conscious activity, such as the reading of a story, my attention is neither on myself nor on my activity of reading, but on the story. If my reading is interrupted by someone asking me what I am doing, I immediately reply that I am (and have for some time been) reading; the self-consciousness on the basis of which I answer the question is not something acquired just that moment, but a consciousness of myself that been present to me all along. To put it differently, it is because I am pre-reflectively conscious of my experiences that I am usually able to respond immediately, that is, without inference or observation, of somebody asks me what I have doing, or thinking, or seeing, or feeling immediately to the question. According to Sartre, consciousness has two different modes of existence, a pre-reflective and a reflective. Whereas the former is an immersed non-objectifying self-acquaintance, the latter is detached objectifying self-awarnses that (normally) introduces a phenomenological distinction

between the observer and the observed. (21)




In sintesi ci sono due modi di esistenza e di esperienza di sé, uno non riflessivo, in cui compiamo viviamo le nostre esperienze soggettive senza rappresentarle come nostre, ma con una naturale e fluida immersione in una «self-acquaintance», e un secondo in cui invece facciamo la nostra esperienza oggetto di un riflessione. Ma venendo a quanto ci preme qui verificare in Beckett, in quali di questi due modi di esistenza si sviluppa la nostra idea di noi stessi, la costruzione rappresentativa che corrisponde al nostro narrative self ? Zahavi, e prima di lui Sartre, sostiene che nel livello pre-riflessivo niente di simile a un ego appaia, ma che questo sia il frutto di un distaccamento riflessivo, di un secondo stato di coscienza che prende l'ego come oggetto. Cosa importante, però, questo secondo stadio non è a sua volta " egologico", poiché l'ego è qualcosa che esiste solamente come oggetto di riflessione di questo livello distaccato:



Lived pre-reflective consciousness has no egological structure. As long as we are absorbed in the experience, living it through, no ego appears. It is only when we adopt a distancing and objectifying attitude toward the experience in question, that is, when we reflect upon it, that an ego appears. Even then, however, we are dealing not with an I-consciousness, since the reflecting pole remains non-egological, but merely with a consciousness of an ego. The ego is not the subject, but the object of consciousness. It is not something that exists in or behind consciousness, but in front of it. (Zahavi 2008: 101)



Strano destino, allora, quello dell'ego. La sua vita inizia solo quando uno stato di coscienza superiore si china su di lui, ne fa il proprio oggetto di riflessione, ma questo stato a sua volta non è l'io, ma la sua rappresentazione che lo assume come oggetto. Spazialmente parlando, allora, l'io non ha sede, esistenza, non ha voce, ma si può solo parlare di lui, costruirgli una storia che non è la sua, ma che viene dall'alto, da un altrove. E da qui possiamo ritornare a Beckett, e formulare la mia ipotesi.

La mia idea è che Beckett abbia trovato il modo, più o meno consapevolemente, di integrare le due prospettive, i due opposti approcci alla coscienza di sé, trasformando il problema in forma narrativa, e per certi versi narratologica, con una mossa integrativa che alla fenomenologia è per certi versi interdetta: da una parte Beckett ne L'Innommable dà voce all'io, ne fa un personaggio, riuscendo a farci partecipare un'inesistenza, collocandoci cioè in quello spazio liminare tra lo stato in cui la coscienza non riflette su di sé (in cui non è ancora un self) e lo stato in cui qualcuno si china su di lui, ossia gli dà voce, ma che a sua volta non è più un self; dall'altra, in un capovolgimento cognitivo altrettanto impossibile, il lettore si trova non nel livello riflessivo, ma nel punto più basso di questo processo, nel sottosuolo («au sous-sol? Ne searias-je après tout qu'au sous-sol?» I 53) insieme all'innominabile, e da lì, attraverso il gesto pronominale che abbiamo già visto, percepisce un altrove da cui una serie di non precisate figure sembrano moltiplicarsi descrivendo esattamente una regressione infinita di stati di coscienza che slittano in continuazione.

Naturalmente, Beckett traduce quest'ultima in forma narrativa e narratologica, ossia utilizzando gli elementi di regressione a catena già insiti nella gerarchia strutturale tipica della narrazione: vale a dire che se la voce dell'innominabile è il personaggio/narratore, sopra di lui ci sarà uno stato di coscienza ulteriore che sarà qualcosa di simile a un narratore extradiegetico, e poi un autore, e così via. È a queste voci, a questi stati di coscienza superiori che, come descritto dalla fenomenologia, spetta far nascere l'io:



Leurs attributs, ils m'en ont chargé, et je le traines, comme un carnaval, sous les missiles. A moi maintenant faire le mort, à mois qu'ils n'ont pas su faire naitre, et ma carapace de monstre atour de moi pourrira Mais c'est entièrement une question de voix, tout outre métaphore est impropre. Ils m'ont gonflé de leurs voix, tel un ballon, j'ai beau me vider, c'est encore eux que j'entends. Qui, ils? (I 64)



L'intreccio, se di un intreccio si può parlare, consiste proprio nel fatto che questi «ils» sembrano avere fallito l'opera di monitoraggio con cui l'io viene stabilizzato e riassorbito in una illusoria sensazione di unità, in una percezione di sé come soggetto, mentre non può, come abbiamo visto dalla fenomenologia, essere che l'oggetto di un racconto, di una riflessione, una costruzione fatta di parole. Ne L'Innommable avviene cioè quello che in natura, salvo distaccamenti patologici, non è dato percepire: vale a dire la voce dell'io che si ribella ad essere riassorbito, a parlare in una prima persona mentre, al contrario, cerca di smascherare lui stesso la sua inesistenza e rifiutare ogni pronome personale ( «Puis assez de cette putain de première personne» I 93).

Nel farlo, usa la sintassi come arma prospettica per illuminare il paradosso di una regressione infinita in cui la sorgente delle parole di cui è gonfiato continua progressivamente ad allontanarsi, in una rifrazione che è l'immagine del problema fenomenologico in cui l'io non può essere che da altri raccontato, ma gli stati di monitoraggio e di provenienza delle voci sembrano slittare in continuazione. Eccone alcuni esempi, dove l'innominabile, dal fondo della sua inesistenza, porta il lettore in una regressione verticale, che sembra necessitare sempre di un ultimo "padrone", di un centunesimo livello su cento, di un ultimo autore:



Le maitre. Ils seraient x qu'on aurait besoin d'un x-et-unième. (I 132) Je le savais, nous serions cent qu'il nous faudrait être cent et un. (I 87)

C'est moi qui me fais cette vie, c'est moi qui me parle de moi. Alors le souffle manque, c'est la fin qui commence, on se tait, c'est la fin, ce ne est pas une, on recommence, on a oublié, il y a quelqu'un, quelqu'un qui vous parle, de vous, de lui, puis un deuxième, puis un troisième, puis le deuxième encore, puis les trois à la fois, ces chiffres à titre d'indication, tout à la fois, qui vous parlent, de vous, d'eux, je n'ai qu'à écouter. (I 179)



E, infine un'ultima suprema regressione, figurata come un'impossibilità burocratica simile all'inattingibile vertice de Il Castello di Kafka, dove queste voci, questi «fantômes parlant» descrivono una traiettoria verticale di doppifondi dove "il padrone" non è che un funzionario di alto livello e, a voler proseguire oltre lui, si finirebbe a supporre di avere bisogno di Dio, ipotesi che ironicamente l'innominabile preferisce evitare:



Oui, heureusement que je les ai, ces fantômes parlant, ils finiront par me faire croire que j'ai pipé. Le maitre, en tout cas, nous n'allons pas, voilà qu'ils mettent de l'eau dans leur piquette, nous n'allons pas, sauf cas de nécessité absolue, commettre l'erreur de nous en occuper, il s'avérerait un simple fonctionnaire haut place, à ce jeu-là on finirait par avoir besoin de Dieu, on a beau être besogneux, il est des bassesse qu'on préfère éviter. (I 146)




Questi fantasmi parlanti, queste voci che provengono da un altrove, sono la resa diegetica, per successive stratificazioni di membrane autoriali, di un problema di regressione infinita dovuto alla frattura dell'armonia che normalmente permette all'io di lasciarsi inconsapevolmente costruire come finzione, come personaggio non riflessivo. Qui, invece, l'io riflette fin troppo sulla sua inesistenza, mostrandosi consapevole della sua natura finzionale, di oggetto rappresentato, chiamato a nascere e ad integrarsi alla sua funzione di vitale fallacia fenomenologica, a cui oppone resistenza cercando di raccontare la sua storia. Come nell'esempio portato da Zahavi sull'atto di lettura che, per essere fluido, non deve essere accompagnato da una metarappresentazione del soggetto che lo compie, così l'atto di formazione di un narrative self non deve essere percepito nel suo distaccamento tra oggetto e soggetto, tra autore e personaggio, ma deve essere integrato in una continuità non problematica.

L'obiettivo di Beckett, invece, è esattamente mostrare la problematicità di questo paradosso circolare, dando voce, attenzione e consapevolezza all'oggetto, facendone un personaggio e un narratore che rinnega ogni autorità su di sé, svelando la sua innominabilità, il suo essere un centro oscuro che altri cercano di portare alla luce. Beckett, insomma, spinge in primo piano, con gli strumenti della narrazione (sintassi, deissi, aggettivazione pronominale) un processo che normalmente deve restare inconsapevole, per essere una finzione cognitivamente efficace a dare solidità al soggetto.

Questo tipo di attenzione innaturale ai processi interni è, in natura, tipico unicamente delle patologie psichiatriche, e in particolare è descritto come un fenomeno di iper-riflessività normalmente associato al disturbo schizofrenico:



At first, hyperreflexivity is not a volitional kind of self-consciousness; it occurs in a more or less automatic manner and has the effect of disrupting experiences and actions that would normally remain in the background of awareness. Thus, the normal stream of consciousness is interrupted by sensations, feeling, or thoughts that suddenly become the focus of attention with an objectlike quality [.] These primary disruption and disturbance then attract further attention and thereby elicit a process of self-scrutiny and self-objectification, or reflective turning-inward of the mind. (Zahavi 2008: 137, corsivo mio)


L'Innommable sembra essere esattamente il risultato di una simile introflessione della mente, dove ciò che accade sembra non essere altro che uno scrutinio del processo stesso di costruzione dell'identità, che genera un distaccamento tra il sé come oggetto (l'innominabile, appunto) e il sé come soggetto (loro, le voci). L'interesse di Beckett per le patologie psichiatriche, e in particolare per la schizofrenia, è stato negli ultimi anni portato sempre più in primo piano4. Quello che mi pare notevole, e che sarà anche la conclusione del prossimo breve studio su Company, è come Beckett abbia ricavato dai suoi contatti diretti - , per il tramite di Alfred Bion, negli anni di analisi a Londra, e di Geoffrey Thomson, amico e psichiatra irlandese - o da letture inerenti disturbi neurologici, una figurazione per restituire narrativamente ciò che in realtà è la nostra normalità non percepita, il paradosso di cui siamo vittime e fautori, ossia la fallacia cognitiva generata dal linguaggio e dalle sue rappresentazioni.

Ma il modello schizofrenico, neurologico e fenomenologico, è altrettanto importante che quello narratologico, poiché tra i due vi è un rispecchiamento. Dopotutto, così come un paziente schizofrenico divide la sua unità in più strati, opera una scissione dove dovrebbe esserci una solidarietà compatta, se un personaggio e/ un narratore si interrogasse sulla propria genesi non potrebbe che sfaldarsi in membrane diegetiche sempre superiori, perdendo consistenza e unità. Da un'altra prospettiva, se un personaggio non si domanda da dove provengano le parole con cui racconta la sua storia, il lettore allo stesso tempo sa e dimentica che la provenienza deve essere extratestuale, che chi sta parlando parla con parole non sue. Bene, traducendo tutto questo nel problema del narrative self, perché l'illusione funzioni dobbiamo non chiederci quale sia l'origine della nostra storia, del nostro personaggio, poiché altrimenti attiveremo una regressione che ci porterebbe a trovare, al posto dell'autore, noi stessi, e il cortocircuito sgretolerebbe ogni verità su di noi poiché non ci sarebbe nessuna terza autorità (come auspica l'innominabile: «mais que deux tiers me constatent, en tout objectivité, là, devant moi, et je me charge du reste» I 93) a

convalidare le nostre parole dall'alto, e la nostra identità si rivelerebbe per ciò che è: nient'altro che una storia raccontata da noi stessi su noi stessi, e quello che ipotizzavamo essere il nostro centro si rivelerebbe solo come un processo circolare della nostra mente, un centro di gravità narrativo.

Ed è a questo processo che L'Innommable conduce il lettore, sfruttando il meccanismo diegetico in direzione patologica, per portarlo verso il paradosso che egli stesso, in quanto essere umano, abita ma non percepisce, costruisce ma non (ri)costruisce in modo riflessivo. Beckett, insomma, escogita una modalità di ricerca attraverso cui fare esperienza di quanto la nostra normalità sia patologica, di quanto la costruzione narrativa dell'identità sia in realtà una dinamica schizofrenica, se guardata a fondo, poiché se la sorgente e il delta del fiume di parole che noi siamo coincidono, l'io non ha luogo, ma è un processo di vociferazione che copre la sua inesistenza mentre pretende di costituirlo: la vera allucinazione, allora, è quella di non percepire come l'unico modo per descrivere questo paradosso sia supporre che dentro di noi voci parlino da noi di noi, come la scissione sia interna alla stessa natura narrativa di un io che non ha voce, luogo, mondo.

E dare voce all'io, come fa Beckett, vuol dire procedere per negazione, fare raccontare all'io della sua inesistenza come una clausura, come il racconto di un murato vivo proprio dalla vociferazione che cerca di portarlo alla luce: «je suis emmuré de leurs vociférations, personne ne saura jamais ce que je suis, personne ne me l'entendra dire, même si je dis, et je ne le dirais pas, je ne pourrai pas, je n'ai que leur langage à eux, si si, je le dirai peut-être, même dans leur langage à eux, pour moi seul» (I 65). Matematicamente parlando, come ha proposto, Hugh Culik, L'Innommable può essere descritto come una figurazione narrativa del concetto di "limite" e, in questo caso, di limite della rappresentazione dell'io, attraverso l'articolazione della sua assenza:



The mathematical notion of the limit codifies the paradox of articulating an absence. Invoking the notion of a limit as it is understood in mathematics, provides an instance of a larger structural pattern of reference in Beckett's work: a [.] structure that bespeaks the limit of language as a complex and paradoxical opportunity. (Culik 20002: 129)



Tuttavia, quest'immagine più generale, che ha il pregio di descrivere il metodo di avvicinamento aporetico dell'innominabile («Comment faire, comment vais-je faire, que dois je faire, dans la situation où je suis, comment procéder? Par pure aporie ou bien par affirmations et négations infirmées au fur et à mesure, ou tôt ou tard» I 7) non restituisce la ricchezza di mezzi e di risorse formali con cui Beckett indaga il problema cognitivo della narrazione in rapporto al soggetto. Un'immagine più efficace, a mio modo di vedere, passando dalla matematica alla geometria, è invece quella di pensare al problema cognitivo che il testo indaga come una figura frattale, ossia una medesima figura riprodotta e articolata su diverse scale, in una geminazione del tema che dalle minime unità della narrazione si espande fino alle sue macrostrutture.

La mia idea, in breve, è che a qualunque livello si voglia analizzare il testo, il problema cognitivo si troverà impresso nella sua forma, ne informerà la struttura. In una linea crescente, infatti, quanto detto sul paradosso della costruzione narrativa dell'identità, così come sull'inesprimibilità e invisibilità del centro di gravità narrativo, si può verificare in ognuno dei seguenti livelli di costruzione del testo: nella punteggiatura; nella grammatica; nella sintassi; nelle figure retoriche; nella costruzione del personaggio; nella categoria di spazio, tempo e luogo; e infine nella stessa idea di mondo narrativo. Il tema cognitivo produce forma e nella forma si produce, e la completa realizzazione dell'indagine, il compimento di quanto nel testo accade, trova la sua sede attiva nel lettore. Cerchiamo, in breve, di giustificare quanto appena detto, con un esempio testuale per ciascun livello narrativo.

Per quanto riguarda la punteggiatura, la presenza di punti fermi, punti interrogativi e virgole può essere già una tracciatura della progressione verso il limite di cui parla Culik. Se, come abbiamo visto, il romanzo si apre con una serie di punti interrogativi e di di brevi frasi continuamente interrotte da punti fermi, più la narrazione si evolve, più sono le virgole a scandire le pause dell'enunciazione, o meglio, a sopprimerle. Il finale del romanzo, in quanto termine ultimo di questa progressione, è un'unica emissione di parole e frasi minime, intervallate da virgole, per una durata di pagine (I 207- che costringe il lettore a rinunciare a qualunque sosta integrativa di quanto sta leggendo, ma lo costringe a cedere alla percussione, al flusso di contradditorie stimolazioni semantiche, che non gli permettono se non di avvicinare la convulsione e la compulsione della voce narrante. Ecco un breve estratto di quest' ultima volata, di questo ultimo galoppo («Me voilà lancé, on dirait pas, c'est peut-être mon dernier galop» I 190), l'inizio di quella che l'innominabile chiama la sua «dernier confession»:



L'endroit, je le ferais quand même, je le ferait dans ma tete, je le tirerai de ma même, je le tirerai de ma mémoire, je le tirerai vers moi, je me ferai une tete, je me ferai une mémoire, je n'ai qu'à écouter, la voix me dira tout, tout ce dont j'ai besoin, par petite bribes, en haletant, c'est comme un confession, une dernier confession, on la croit finie, puis elle rebondit, il y a eu tant de fautes, la mémoire est si mauvaise, les mots ne viennent plus, le mots se font rares, le souffles se fait court, non, c'est autre chose, c'est un réquisitoire, une mourante qui accuse [.] (I 207).



Come interpretare questa progressione, dal punto fermo a questa forma di pausa più respiratoria che logico-semantica? Mi pare che l'idea più convincente sia quella di vedere in essa il progressivo avvicinamento al centro stesso della gravità e della propulsione narrativa, all'innominabilità dell'io o, che è lo stesso, alla sua pura mostrazione come emissione di parole. Se, all'inizio del romanzo, l'io è ancora distante da sé, perché riempito di voci, che gli impartiscono quanto dire, verso la fine questo controllo cede sempre di più all'autenticità della sua natura artificiosa, semantica, privata di monitoraggi dall'esterno. Il punto fermo, dopo tutto, è in qualunque narrazione una marca del dominio di un autore sul narratore e sul personaggio, ed è così interpretato, più o meno consapevolmente dal lettore. Verso la fine di questa strana avventura dell'io, allora, qualunque autorità esterna viene sottratta, e l'io mostrato nella sua natura respiratoria come una flatus voci, non più eterodiretto e guidato a parlare di sé, ma mostrato in azione. In questo senso la punteggiattura porta il lettore verso un adeguamento al problema cognitivo, costretto a fronteggiare un flusso semantico privato di autorità.

Per la grammatica e la sintassi si può sostenere una simile coincidenza di forma e contenuto. Sulla prima, Juliett Taylor-Batty ha messo bene in evidenza due aspetti più generali e, cosa che non stupisce, paradossali nell'utilizzo della grammatica francese ne L'Innommable. Partendo dal non troppo lusinghiero giudizio di Valdimir Nabokov su L'Innommable, che dichiarava di preferire Beckett nelle sue ricche manipolazioni linguistiche compiute in inglese, la sua lingua madre, rispetto al suo francese da

«schoolmaster», che sentiva come un «preserved French»5 , Taylor Batty spiega come la giusta percezione di Nabokov sia motivata in realtà da un uso consapevole da parte di Beckett di questo comportamento linguistico, più che da una limitazione espressiva dovuta all'eccessiva rigidità di un non nativo. Per Taylor-Batty, infatti, la critica di Nabokov è produttiva poiché nell'idea di una grammatica da «schoolmaster» sono implicate due direzioni di critica, una sull'agente linguistico e l'altra sulla lingua stessa: «Nabokov's criticism implies not only that the schoolmaster is teaching a language that is not his mother tongue (in reference, of course, to the fact that Beckett is indeed writing in a second language), but also that that language is too correct, too formal, too consciously grammatical». (165).

Queste due implicazioni grammaticali corrispondono esattamente a quanto Beckett vuole fare con la lingua stessa, ossia da una parte dare forma all'impossibilità di espressione dell'io come a un narratore che non può che parlare una lingua straniera («je suis en mots, je suis fait de mots, des mots des autres, quelques autres» I 166; « une langue qui n'est pas la mienne » I 33) una lingua altrui, e dall'altra svelare la natura grammaticale di ogni linguaggio, spingere all'evidenza l'artificio e l'arbitrarietà insiti nella mascherata di ogni costruzione linguistica del mondo, compresa la letteratura come forma più complessa di quest'illusione referenziale, come suprema articolazione di una convenzione. Questo eccesso di convenzione, questo ipercorrettismo, conclude Taylor-Batty «thus serves to undermine itself, to expose its artificiality as form imposed upon chaos, much as the language learner's grasp of grammar fails to mask his or her linguistic discomfort» (177), e l'impossibilità dell'io di nascere e costituirsi è così reso come il più comune e condiviso dei disagi: quello di non poter esprimere se stessi in una lingua straniera.

Scendendo più nello specifico, il tema cognitivo è massicciamente affidato agli elementi grammaticali attraverso cui l'identità viene normalmente costruita nella sua forma linguistica, in particolare la deissi, i pronomi e l'aggettivazione possessiva. Non si deve certo alle scienze cognitive aver formulato l'ipotesi di una costruzione dell'io puramente grammaticale, ma già Emile Benveniste spiegava come «L'installation de la "subjectivité dans le langage crée, dans le langage et, croyons-nous, hors du langage aussi bien, al catégorie de la personne» (Benveniste 1966: 263). Non stupisce allora che, come abbiamo già visto in alcune citazioni, Beckett affidi a ciascun elemento in grado di costruire l'idea e la posizione di una "persona" un ruolo fondamentale per indebolirne l'efficacia, creando continui effetti di spiazzamento e smottamento nel lettore. La fallacia cognitiva della soggettività, infatti, parte proprio dall'ennesimo paradosso in cui il pronome di prima persona ha pretese di costituire il soggetto, mentre è nominandolo che ne nasconde la verità, ossia il vuoto dietro il tessuto linguistico di cui esso non è che un centro senza sede concreta. E per questo il rancore dell'innominabile è diretto frontalmente a queste piccole e potenti particelle: c'est al faute de pronoms, il n'y a pas de nom pour moi, pas de pronom pour moi, tout vien de là, on dit ça, c'est une sort de pronom, ce n'est pas ça non plus, je ne suis pas ça non plus, laissons tout ça, oublions tout ça. [.] (I 195).



La negazione del potenziale costruttivo dei pronomi, così come della loro estensione possessiva negli aggettivi, non è tematizzata ma indebolita nella loro messa in funzione. Delegittimata ogni validità prospettica del pronome personale, il lettore è forzato a partecipare la superficie di un impersonale «ça», a sua volta negato, che altro non indica che la scrittura stessa nel suo farsi, la pura attività di narrazione dell'innominabile che nel suo dispiegarsi continua a nasconderlo, a lasciarlo nell'ombra, nel dorso scuro e invisibile di ciò che sta dietro al linguaggio.

Lo stesso si dica della deissi, a cui è affidato il ruolo di illudere il lettore che la voce da cui è guidato abbia una posizione, sia in qualche modo situata, fosse anche nel fondo della regressione infinita da cui l'innominabile indica le membrane diegetiche sopra di lui, le voci che sembrano provenire da lontano ed essere alla base del suo ventriloquio, posizione e spazialità che in modo alternato appena create collassano sull'unica, non situabile, enunciazione del narratore: «Il n'y a que moi, moi qui ne suis pas, là où je suis» (I

114, mio il corsivo). La continua alternanza tra un'espansione («là») e un'implosione prospettica e spaziale («où je suis») affidata alla deissi e alla continua variazione dei pronomi, che nel collasso tende al limite di scomparsa di ogni minima profondità, spinge continuamente il lettore a produrre nella sua immaginazione un mondo e degli agenti narrativi che è subito costretto a smantellare, primo fra tutti lo stesso narratore-personaggio. Quest'utilizzo della grammatica non può essere più spiegato nel dominio dell'espressione, ma va interpretato come un tentativo di attaccare la superficie del linguaggio, di cui il soggetto è la prima e ultima fallacia, attraverso dei gesti linguistici, facendo del materiale semantico un materiale plastico con cui sfibrare la tenuta dei significanti fino a mostrare il vuoto dietro la loro schiena. È questo uso gesticolare e muscolare del linguaggio che Beckett ammirava in Joyce, come scrisse nel suo saggio giovanile, in cui equiparava scrittura e pittura nella possibilità di entrambe di regredire dalla convenzione rappresentativa a una desofisticazione del linguaggio, a una selvaggia forma di articolazione primaria e primitiva: «This writing that you find so obscure is a quintessential extraction of language and painting and gesture, with all the inevitable clarity of the old inarticulation. Here is the savage economy of hieroglyphics» (D 28).

Tuttavia, è nota la successiva presa di distanza di Beckett nei confronti di Joyce, la cosidetta " conversione" che portò il primo a comprendere di voler lavorare, pur sempre muscolarmente, non verso un'apoteosi della parola, a cui Joyce aveva restituito un potenza primordiale caricandone l'energia per accumulazioni progressive, ma verso l'indebolimento del suo potenziale di conoscenza procedendo per sottrazioni, attraverso una crescita di lacune informative e uno stile sempre più denotativo. In un intervista a James Knowlson, infatti, Beckett riassumeva così la sua posizione rispetto a Joyce:



I realised that Joyce had gone as far as one could in the direction of knowing more, [being] in control of one's material. He was always adding to it; you only have to look at his proofs to see that. I realised that my own way was in impoverishment, in lack of knowledge and in taking ways, in subtracting rather than adding. (Knowlson 1996: 352).



Questo depotenziamento del potere informativo del linguaggio, tuttavia, dal versante della risposta estetica genera tutt'altro che una diminuzione di movimento interpretativo. Al contrario, le strategie formali con cui Beckett cerca di attaccare i bordi rappresentazionali del linguaggio si appoggia esattamente sull'impossibilità, da parte del lettore, di rinunciare al processo cognitivo di costruzione di senso che il linguaggio stimola. In poche parole, il senso di ciò che accade accade come evento nel lettore, nel suo continuo scarto di frames contestuali, costruiti da Beckett con minime mosse deittiche o pronominali, e immediatamente invalidati. Come abbiamo visto nella prima parte (§ 1.4), è nel poco che il lettore cerca e porta il mondo, è nella negatività del testo, in ciò che esso non dice o smentisce che l'attività ricostruttiva del lettore aumenta la sua cinetica immaginativa. Così, nelle contraddizioni grammaticali e nei paradossi spaziali e nominali che Beckett attiva con pochi stimoli semantici, il lettore si trova a percepire continuamente attriti e scontri tra opposti e incompossibili frames di lettura. Nel sottrarre estensione connotativa al linguaggio, Beckett ci porta così tanto a sperimentare quanto poco occorra alla mente per generare rappresentazioni, dimostrando così il potere cognitivo del linguaggio anche ridotto ai suoi minimi termini, dall'altra nel cercare di attaccarne i fondamenti fa di noi degli inconsapevoli complici della sua ricerca, poiché è in noi che le immagini e gli orientamenti spaziali stimolati dal linguaggio si polverizzano, in seguito alle continue negazioni.

E nella sintassi le possibilità di questo maccanismo conflittuale non possono che essere accresciute. L'utilizzo che Beckett ne L'Innommable fa della contraddizione sintattica, di una sintassi che smaglia la sua stessa tenuta e che Ann Banfield ha definita come una «tattered syntax» (2003), mentre lo stesso Beckett descriveva come una «syntax of weakness» (Harvey 1970), è l'ennesimo ampliamento frattale del problema di fondo, già riscontrato a livello grammaticale. Per tentare uno sguardo oltre la maschera grammaticale dell'io, la sintassi fornisce segmenti testuali ancora più illusoriamente dotati di senso e per questo più efficaci e dinamici nel potenziare lo scontro attraverso cui mostrare il vuoto che, ancora una volta, non può che prodursi nel lettore. Tornando a un esempio già visto:



Peut importe comment cela c'est produit. Cela, dire cela, sans savoir quoi. Peut-être n'ai fait qu'entériner un vieil état de fait. Mais je n'ai rien fait. J'ai l'air de parler, ce n'est pas moi, de moi, ce n'est pas de moi.



Ogni proposizione, qui, è collegata in forma paratattica alla precedente, unicamente per negarne la validità. L'immaginazione del lettore così non può che procede per lampi costruttivi che non riescono mai a dare forma solida a una rappresentazione, poiché è interdetta qualunque formazione di un periodo, continuamente abortito insieme alle immagini e alle aspettative suscitate nel lettore. Questa la strategia di Beckett per farci entrare in intimità con la discontinuità dell'io narrativo e narrante, confidando nella parte assegnata al lettore per completare l'opera. Il lettore, per quanto (dis) orientato non può infatti impedire alla propria immaginazione di costruire frames a cui sono legate delle aspettative e delle conferme di continuità, e da questa impossibilità di arresto dei meccanismi cognitivi vincolati alla risposta estetica nasce il disagio che è il senso del romanzo stesso, ossia l'esperienza diretta del suo tema; come scrive Porter Abbott, infatti,

«There is no avoiding of intimation of chaos whe cued syntactical expectations are redirected, and, even more, the discomfort whe, in the end, eh syntactical uncertainties fail to resolve. In short, our cognitive grooves are too deep. (2010: 210).

Queste aspettative frustrate, tuttavia, nell'essere abortite non scompaiono, ogni volta che subentra una nuova proposizione affermativa e un relativo frames rappresentazionale, ma restano nel lettore come immagini soppresse, residui cognitivi che Iser definisce come «canceled gestalt»:




Every cancellation involves a negation, but negations take longer to work out than affirmations,[.] the negations cancel out previous fictional "gestalts", but these are not removed from the scene altogether; they remain as canceled "gestals", as so inevitably give rise to conjectures as to the cause and motivation of the cancellation. (1989: 149)



Per quanto sia arduo sostenere che, data la frequenza continuata con cui questo movimento di cancellazione è impiegato nel testo, il lettore per ogni singola frustrazione si interroghi sulla causa che l'ha generata, è vero che alla fine de L'Innommable si ha la sensazione che i frames di volta in volta dismessi abbiano formato una sorta di catasta di costruzioni negate. Rilevare questo è importante proprio perché, rispetto al problema cognitivo affrontato nel testo, questo mucchio di residui rappresentazionali è esattamente ciò che è successo, è l'evento e l'intreccio stesso del romanzo. Se la storia che è raccontata, o meglio la storia che non si può raccontare, è quella dell'io come costruttore e costrutto di una attività narrativa, la sua inesistenza può essere testimoniata però dal frutto della sua attività, da ciò che rimane come tracciatura del suo movimento linguistico. Ma su questo torneremo tra poco per concludere.

La geminazione frattale del problema non si arresta alla sintassi, ma informa di sé anche altri livelli più complessi come la negazione dello spazio, e dello stesso mondo finzionale. Per il primo si va da lapidarie sentenze che in un istante costruiscono degli impossibilia geografici (come nell'esempio già visto: «Il n'y a que moi, moi qui ne suis pas, là où je suis») a immagini più ricche, ma che nondimeno limano e minano la profondità del luogo da cui l'innominabile parla, fino a renderlo privo di spessore come un diaframma («la cloison»), o un timpano ; questi i termini con cui l'innominabile cerca di definire la propria assenza in questo passaggio, fondamentale all'ultimo scatto che dovremmo fare verso il suo mondo e verso la nostra conclusione :



Dites-moi ce que je sens, je vous dirai qui je suis, ils me diront qui je suis, je ne comprendrai pas, mais ce sera dit, ils auront dit qui je suis, et moi je l'aurai entendu, sans oreille je l'aurai entendu, et je l'aurai dit, sans buche je l'aurai dit, je l'aurait entendu hors de moi, puis aussitôt dans moi, c'est peut-être ça que je sens, qu'il y a un dehors et un dedans et mois au milieu, c'est


peut-être ça que je suis, la chose qui devise le monde en deux, d'une part le dehors, de l'autre le dedans, ça peut-être mince comme une lame, je ne suis ni d'un coté ni de l'autre, je suis au milieu, je suis la cloison, j'ai deux faces et pas d'épaisseur, c'est peut-être ça que je sens, je me sens qui vibre, je suis le tympan, d'un coté c'est le crane, de l'autre le monde, je ne suis pas ni de l'un ni de l'autre [.] (I 160)



Qui l'innominabile prima nega la condizione necessaria ad essere situati in uno spazio, ossia l'avere un corpo. Già con questa privazione, attraverso una menomazione continua che prosegue per tutto il romanzo, il lettore è sprovvisto di un elemento di base per l'accesso a un mondo finzionale (Cf. § 1.3). Quanto segue non fa che complicare quanto il lettore cerca di interpretare e immaginare, poiché l'innominabile si definisce come una lamina, un diaframma o un timpano che non ha sede nel mondo, ma al contrario divide due mondi, quell'esterno e quello interiore della mente. Ecco ritornare la distinzione di partenza che abbiamo visto in Murphy, e su questa l'innominabile sembra comprendere l'ultima verità su se stesso. Verso la fine di questo paradossale processo di autocoscienza, se così si può definire, siamo finalmente arrivati all'estrema negazione, che non invalida semplicemente il mondo dell'innominabile voce, ma ha conseguenze decisamente più estese. Come anticipato, la recessione dal mondo esterno verso il mondo interiore cominciata con Murphy tocca con L'Innommable il suo punto estremo, ma proprio mentre ci si approssima al presunto centro del mondo interiore, attraverso la consapevolezza di un io in scomparsa, le conseguenze di quanto l'innominabile scopre su di sé si riverberano retroattivamente su tutte le finzioni romanzesche di Beckett.

Poco prima di definirsi un timpano o un diaframma, l'innominabile s'interroga sul proprio mondo che, neanche a dirlo, immagina grigio, e con ironia ne apprezza la vestibilità cromatica («Le gris. Quoi encore. Du calme, du calme, il doit y avoir autre choise, pour aller avec ce gris, qui va avec tout» I 125); in seguito ragiona su come costruirsene uno, le cui caratteristiche ricordano molto quelle di una monade leibniziana: «un petit monde, faire un petit monde, il sera rond, cette fois il sera rond, [.] ce sera peut-être moi, ce sera peut- être mon monde, coïncidence possible, il n'y aura pas de fenêtres, finies les fenêtres, la mer m'a refuse, le ciel ne m'a pas vu[.]». (I 197-198). Ma questa possibilità che ci sia per lui un luogo, una sede e un'estensione nello spazio è a più riprese negata lungo tutto il romanzo e, in particolare, vi è un punto in cui l'innominabile descrive uno schermo sopra di lui, un recinto, avente una densità di grafite che, a mio parere, è una piuttosto evidente metafora della sua esistenza puramente scritta, narrata con la mina di un creatore:




Mais au fait, cet écran où mon regard se bute, tout en persistant à y voir de l'air, ne serait plutot l'enceinte, d'une densité de plombagine? Pur tirer cette question au clair j'aurais besoin d'un baton ainsi que des moyens de m'en servir, celui-là étant peu de chose en l'absence de ceux-ci, e t inversement. J'aurais besoin aussi, je le note en passant, de participes futurs et conditionnels. Alors je le lancerais, tel un javelot, droit devant moi [.] (I 23)



Tanto lo schermo di grafite che lo rinchiude, quanto l'idea di poter esplorare lo spazio intorno a sé lanciando come dei giavellotti dei modi verbali alternativi al presente indicativo, a cui invece è costretto, mettono in luce il potere costruttivo del linguaggio stesso, la sua capacità di creare un'illusione di spazio, tempo ed esistenza per un io che non ha altra natura che quella verbale, con cui non può esprimersi. Ma alla negazione di un proprio mondo, di un propria sede, l'innominabile svela la natura finzionale anche di quelle che scopriamo essere delle sue creazioni, vale a dire i precedenti antieroi beckettiani, che dichiara di aver creato al solo scopo di allontanarsi da sé, di sfuggire il proprio dolore:



«Ces Murphy, Molloy et autres Malone, je ne suis pas dupe. Ils m'ont fait perdre mon temps, rater ma peine, en permettant de parler d'eux, quand il fallait parler seulement de moi, afin de pouvoir me taire» (I 28)



Si tratta di un ennesimo collasso dei mondi precedenti nel mondo dell'innominabile, a sua volta dichiarato impossibile, finzionale. Alla fine della ritirata cognitiva dall'esterno all'interno, l'innominabile, con un ultimo gesto trascina nella sua inesistenza quanto il lettore di Beckett ha letto nei romanzi precedenti, in un domino distruttivo che lo porta, come l'innominabile, alla sensazione di non essersi mai mosso in altri mondi, con la spiacevole sensazione di comprendere come l'immaginazione narrativa possa dare l'illusione di una profondità. Il lettore è stato guidato per tutti i primi due volumi della trilogia attraverso luoghi e persone per scoprire ora quello che già sapeva, ossia che altro non erano che storie, finzioni affidate al linguaggio, pretese di esistenza. Tuttavia, proprio come l'innominabile, potrebbe probabilmente avere la sensazione di essere stato in quei luoghi («Pourtant il m'a semble quelquefois être là, moi, aux endroits incriminés» I 48) e messo così frontalmente davanti allo smascheramento dell'illusione narrativa potrebbe, come l'innominabile, iniziare a dubitare della propria stessa storia. Se così fosse, lo scopo di Beckett sarebbe probabilmente raggiunto.

Nella sua monografia su Samuel Beckett, Carla Locatelli completa la programmatica frase dell'autore di una «literature of the unword», in una diade che dà il titolo al volume, e in cui l'idea di un depotenziamento della parola corrisponde al depotenziamento della stessa concezione del mondo, e definisce perciò l'operazione di Beckett come un Unwording the World (1990). In particolare, Locatelli spiega come il contenuto delle opere narrative di Beckett sia subordinato alla demistificazione della stessa pratica narrativa: «Beckett is seeking a way that could demystufy the telling of stories, independently from their more or less surprising "content"» (56).

Nell'analisi appena fatta ho tentato di mostrare proprio come il problema cognitivo che fa da tema al romanzo non sia espresso come un contenuto narrativo, ma sia reso percettibile lavorando plasticamente la forma e la scrittura per costringerle a mostrare il proprio dorso. L'uso che Beckett fa del linguaggio è, così, un uso epistemico, un percorso d'indagine che coinvolge il lettore nella sua realizzazione. Per mostrare, infatti, come la nostra identità e, più in generale, il mondo siano rappresentazioni affidate al linguaggio, e come siano le storie che raccontiamo a darci forma, Beckett porta il lettore nel centro di questo self spinning, operando nella continuità di questo processo verbale in corso delle ripetute fratture, negazioni o inversioni prospettiche, e lasciando l'immaginazione del lettore carica di detriti finzionali. Mai come in problemi cognitivi legati al linguaggio il linguaggio può essere usato per manifestare se stesso come problema, ma in questo tipo di letteratura di ricerca al lettore è affidata una parte fondamentale per la realizzazione del contenuto: the reader: his or her awarness is called upon to witness a production of meaning, the process of its being produced. The understanding of the text is no longer separable from the process of reading, as much as concepts are not separated from the process in which they ar produced. (Locatelli 1990: 70)



E questa sincronicità tra forma, contenuto e atto di lettura è fondamentale ne L'Innommable proprio perché da una parte sono necessarie le tensioni cognitive generate nel lettore perché le strategie del testo producano quella smagliatura necessaria a mostrare il vuoto che il linguaggio nasconde, dall'altra perché il tempo della narrazione e il tempo della lettura coincidono fino alla minima unità, ed è attraverso questa coincidenza che il lettore avvicina il seme del movimento, quell'invisibile centro di gravità narrativo da cui la propulsione di storie e di parole viene emessa.

Sarebbe lecito pensare che l'obiettivo di Beckett sia solamente una rivoluzionaria rivolta contro il linguaggio e, più in generale, contro la letteratura come suprema falsificazione. Al contrario, in questa ritirata verso l'interno, o avanzata verso il limite, Beckett porta il lettore a fare esperienza necessità umana di espressione, pur nella falsità dei contenuti, lo porta sempre più vicino al limite del linguaggio per testarne l'irriducibile spinta a creare e a raccontare storie, in un paradosso da lui stesso formulato come la missione più importante della letteratura: «The expression that there is nothing to express, nothing with which to express, nothing from which to express, no power to express, no desire to express, together with the obligation to express» (D 139). E ne L'Innommable scopriamo che se il nostro io potesse parlare di se, della propria storia, non potrebbe che esprimersi con un simile paradosso: «Oui, dans ma vie, puisqu'il faut l'appeler ainsi, il y eut trois choses, l'impossibilité de parler, l'impossibilité de me taire, et la solitude, physique bien sur, avec ça je me suis débrouillé» (I 183).

In conclusione, il problema cognitivo che la fenomenologia e le scienze possono solo descrivere per astrazioni, ossia l'inesistenza e l'invisibilità del self, postulabile solo come un centro di gravità narrativa, Beckett riesce a trasformarlo in un'esperienza di lettura: da una parte creando ad ogni livello del racconto delle disfunzioni che aprono dei vuoti, attraverso cui per un istante il lettore può sentire il linguaggio surriscaldarsi fino a sciogliersi in quelle che Paul Stewart ha definito come delle «zone of evaporation» (2006); dall'altra portando il lettore sulla soglia in cui un'identità si produce, facendo sentire allo stesso tempo, come l'Innommable, al centro e in nessun luogo. Questi reiterati fallimenti, per usare una parola cara a Beckett, tutti affidati alla loro realizzazione nella risposta estetica e cognitiva del lettore, sono i soli strumenti possibili per spingere la parola verso se stessa e, come un oggetto spinto in un liquido riceve a sua volta una pressione di ritorno, sentire una resistenza che è l'inizio del movimento stesso, il suo seme. Data l'importanza del linguaggio e del racconto nella costruzione dell'identità umana, questo significa anche spingere l'uomo ai limiti di se stesso. Come scrive Porter Abbott, l'uso che Beckett fa della narrazione allow him to generate direct experience of news from the interior, our own interior. Put simply, he gives us experiential knowledge of our ignorance about who we are. He has devised textual mechanisms through which we experience individually specific consciousness as a moving point of self presence in a constancy of self absence (2009: 138)



La presenza e l'assenza di un io non possono essere spiegate che in senso metaforico nel dibattito scientifico mentre, come abbiamo visto, la metafora è solo una delle risorse con cui Beckett affronta il problema, e di certo non la più importante. Per quanto affascinante, il concetto di un centro di gravità non è particolarmente espressivo se privato dell'esperienza concreta con cui mostrarne il funzionamento. Ed è questo vantaggio che la scrittura di Beckett sembra avere rispetto alle speculazioni della fenomenologia, o alla metafora di Dennett, ossia quello rendere praticabile la meccanica e l'energetica di questo centro, che mentre si mostra si sottrae. Dopotutto, dal momento che ognuno scrive la propria storia, la scrittura può essere il modo migliore per indagare se stessa come processo. Ne L'Innommable, così, non è trattata la struttura del pensiero che sta dietro alla costruzione del soggetto, ma siamo messi di fronte al suo sviluppo come pensiero narrativo, e in questo senso la scrittura in Beckett «connotes itself as process, showing the presence of thinking, not the structure of thought.» (52).

Il risarcimento per l'indiscutibile fatica del lettore, allora, sarà quello di aver avvicinato il seme del suo stesso movimento, facendo esperienza di ciò che in natura gli si sottrae per abitudine cognitiva, e che la letteratura può invece rendere visibile allo stesso tempo come miracolo e fallacia cognitiva: il suo essere autore, narratore e personaggio, in una costante compulsione al racconto.


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