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Experiencing Fictional Worlds | Naturalizzare l'esperienza estetica




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Experiencing Fictional Worlds | Naturalizzare l'esperienza estetica


Insofar as we account for our own actions and for the human events that occur around us principally in terms of narrative, story, drama, it is conceivable that our sensitivity to narrative provides the major link between our own sense of self and our sense of others in the social world around us. The common coin may be provided by the forms of narrative that the culture offers us. Again, life could be said to imitate art.


Jerome Bruner, Actual Minds, Possible Worlds






NATURALITÀ I| IL MONDO COME TESTO



La domanda principale che Culler si pone è la seguente. Se la scrittura, scrive con esplicito riferimento a Derrida, ha un'autonomia non riducibile ai referenti reali e implica una différance rispetto al linguaggio parlato e se, seguendo Barthes, la lettura è costretta a funzionare in assenza di un locutore e di un autore in carne ed ossa implicato in un atto comunicativo, quale processo rende possibile al lettore la partecipazione al testo? Come può il lettore forzare i simboli alla significazione? La risposta di Culler è che il lettore naturalizzi le informazioni finzionali attraverso un proprio bagaglio di conoscenze sul mondo reale, assimilando quanto legge a quanto conosce, e il processo della scrittura a un atto comunicativo:



Thus, the distinction between speech and writing becomes the source of the fundamental paradox of literature: we are attracted to literature because it is obviously something other than ordinary communication; its formal and fictional qualities bespeak a strangeness, a power, an organization, a permanence which is foreign to ordinary speech. Yet the urge to assimilate that power and permanence or let that formal organization work upon us requires us to make literature into a communication, to reduce its strangeness, and to draw upon supplementary conventions which enable it, as we say, to speak to us. The difference which seemed the source of value becomes a distance to be bridged by the activity of reading and interpretation. The strange, the formal, the fictional, must be recuperated or naturalized, brought within our ken, if we do not want to remain gaping before monumental inscription.[.] Whatever one call the process, it is one of the basic activities of the mind. (134-138, mio il corsivo).

Naturalizzare, per Culler così come per ogni dizionario di lingua, significa prima di tutto10 rendere familiare ciò che ha una differente natura, significa colmare una distanza. Nel caso specifico di un testo narrativo, Culler equipara l'atto di lettura a un atto interpretativo con il quale l'estraneità della scrittura, la sua arbitrarietà nel presentare le informazioni narrative, che non si pone altro limite naturale se non i limiti stessi del linguaggio (149), sarebbe naturalizzata e, quindi, contestualizzata grazie a informazioni pregresse che il lettore ha maturato nel mondo reale. Nel linguaggio, ancora strutturalista, di Culler, si tratta di mettere in relazione il testo narrativo con altre testualità, da intendere in senso lato, per

creare un rapporto di verosimiglianza o, ancora con lo strutturalismo, di vraisemblance11.


In sostanza quest'ipotesi può essere così riformulata. Ogni volta che un lettore è posto davanti a un testo narrativo (per quanto Culler estenda il discorso anche alla poesia, genere che però esula dal nostro campo d'indagine) deve compiere un'operazione di decodifica, se non vuole restare inebetito e inerte come un turista non alfabetizzato davanti alle iscrizioni monumentali, ai geroglifici egiziani o a ideogrammi giapponesi. Quest'operazione richiede altri "testi" da mettere a sistema con il testo primario e, per rompere un circolo vizioso dell'interpretazione, devono essere ontologicamente esterni ad esso. Queste testualità, che il lettore mette in rapporto dinamico con il testo con cui si confronta, vengono da Culler suddivise su cinque livelli:


One might distinguish five levels of vraisemblance, five ways in which a text may be brought unto contact with and defined in relation to another text which helps to make it intelligible. First, there is the socially given text, that which is taken as the 'real world'. Second, but in some cases difficult to distinguish from the first, is a general cultural text: shared knowledge which would be recognized by participants as part of culture and hence subject to correction or modification but which non the less serves as a kind of 'nature'. Third, there are texts or conventions of a genre, a specifically literary and artificial vraisemblance. Fourth, come what might be called the natural attitude to the artificial, where the text explicitly cites and expose vraisemblance of the third kind so as to reinforce its own authority. And finally, there is the complex vraisemblance of specific intertextualities, where one work takes another as its basis or point of departure and must be assimilated in relation to it. At each level there are ways in which the artifice of forms is motivated or justified by being given a meaning. (140)



A questi livelli Culler non assegna un valore gerarchico, che tuttavia può essere supposto se si prende seriamente la natura del primo livello. Se, infatti, esiste un testo che può essere definito come «the 'real' world'», è difficile immaginare che qualunque livello ulteriore non venga in esso riassorbito. In breve, tanto il secondo livello (il testo culturale, vale a dire la conoscenza condivisa, che varierà secondo parametri geografici e temporali) quanto il terzo, il quarto e il quinto (più specificatamente legati alla pratica testuale del lettore, vale a dire l'abitudine ai generi narrativi, all'artificio letterario e a riconoscere nel testo il rapporto intertestuale con testi precedenti), sono espansioni differenziate che scaturiscono da distinte competenze che il lettore ha maturato nel primo livello: in breve, sono parte della sua esperienza del mondo. L'idea di una lettura vincolata all'esperienza del mondo reale, come vedremo tra poco, è il 'main claim' che aprirà, a partire dagli anni novanta, la riflessione narratologica a dialogare con le scienze cognitive. Per quanto, nell'analisi di Culler, definire il mondo reale come un "testo" possa essere terminologicamente imputabile a un retaggio strutturalista, il teorico americano così facendo riduce le corrispondenze tra testo narrativo e lettore a un fattore unicamente interpretativo, e limita il portato dell'esperienza a un discorso di competenza sul testo. In qualche modo, insomma, il lettore ha esperienza, ma non fa esperienza.

Se da un lato, infatti, la definizione di naturalizzazione in Culler ha il pregio di convocare il mondo del lettore come corredo interpretativo al testo, dall'altro non porta fino in fondo l'operazione opposta, vale a dire definire il testo come un mondo12. Il problema per Culler è piuttosto dare ragione di come il testo si schiuda alla comunicazione, liberi il suo contenuto. In realtà quest'ultimo, morto l'autore, non deve essere inteso come il

messaggio che, secondo il noto modello comunicativo formalista, da un emittente passa, attraverso il mezzo narrativo, a un ricevente, quanto il risultato di un'attività che il lettore compie con il materiale del testo. Questo lettore, insomma, ricorda da vicino l'«homme structural» di Barthes, che produce senso ristrutturando l'oggetto con cui si confronta (in senso esteso, che sia il reale stesso o un oggetto estetico) attraverso l'immaginazione, forte

di un suo immaginario (Barthes 1966)13. Per quanto l'idea di Barthes di una strutturazione

come attività ed esercizio della mente possa essere letta come un'anticipazione dei futuri sviluppi della narratologia cognitiva, tanto lui come Culler non sembrano disposti ad avvicinare ulteriormente il mondo del lettore al mondo del testo, o meglio le modalità che permettono di muoversi nel primo alle modalità di accesso del secondo. Quando Culler scrive che il processo di naturalizzazione, comunque lo si voglia chiamare, «is one of the basic activities of the mind», tuttavia, segna il punto di raccordo e di più fertile eredità per uno degli studi che può dirsi fondante per la futura narratologia cognitiva.





NATURALITÀ II | IL TESTO COME MONDO E LA SVOLTA COGNITIVA



Per quanto ci siano alcune tracce in articoli precedenti (Margolin 1990; Rigney


1992), infatti, il testo che primo cerca di sistematizzare le implicazioni cognitive nell'atto di lettura è lo studio di Monika Fludernik, che già dal titolo di Towards a 'Natural' Narratology (1996) esibisce un debito concettuale nei confronti di Johnatan Culler. Come anticipato in nota, però, l'accezione con cui Fludernik intende il termine 'natural' si polarizza verso il suo secondo significato. Il suo lavoro si propone, infatti, di rileggere alcuni problemi chiave della narratologia classica attraverso una lettura cognitiva della risposta estetica, e naturalizzare questo fenomeno significa quindi, anche qui non allontanandosi dalla seconda definizione che ne dà il dizionario, spiegare il fenomeno in un senso naturalistico (in questo caso non tanto e non ancora in senso biologico, ma più in generale su analogie tra l'esperienza che il lettore fa del mondo reale e quella di un mondo finzionale). È la stessa Fludernik, consapevole della necessità di prendere distanza dall'accezione operativa di Culler e dalle contemporanee o successive accezioni poststrutturaliste, che si sofferma in apertura sul suo modo di intendere e adottare questo concetto:



My espousal of this controversial label, as the prologue was meant to demonstrate, occurs at some level of sophistication. My own uses of the `natural' do not, however, merely reflect poststructuralist tenets. On the contrary, I attempt to cut through the threads of the deconstructionist and sociological debate and to institute a reconceptualization of the term within a more specifically cognitive perspective. My use of the concept of the `natural' relates to a framework of human embodiedness. It is from this angle that some cognitive parameters can be regarded as `natural' in the sense of `naturally occurring' or `constitutive of prototypical human experience'. The term `natural' is not applied to texts or textual techniques but exclusively to the cognitive frames by means of which texts are interpreted.[.] The general framework for the theory is a constructivist one [.]. Readers actively construct meanings and impose frames on their interpretations of texts just as people have to interpret real-life experience in terms of available schemata. (12)



L'approccio della Fludernik si sostiene così su una premessa piuttosto semplice, ma alquanto radicale, che può essere così riformulata. L'esperienza narrativa stimola, per il tramite della scrittura, meccanismi cognitivi simili a quelli che sono necessari per fare esperienza del mondo reale, e per questo può essere descritta in modo 'naturale', vale a dire come esperienza cognitiva. Il rovescio complementare di quest'affermazione è in linea con altri studi contemporanei al suo che, come vedremo nei prossimi due paragrafi, sostengono che il lettore ricostruisca il mondo finzionale come un mondo ontologicamente consistente, ma non attualizzato, vale a dire un mondo possibile (Ryan 1991; Dolezel 1998).

A un primo sguardo, tuttavia, si potrebbe pensare che l'antico fantasma della mimesi risorga, rivestito di un nuovo e più ammiccante abito14. La Fludernik, però, come si è visto, pone l'accento su come ciò a cui il termine 'natural' si riferisce non vada cercato all'interno del testo, come imitazione tecnica del reale, ma nei frames che il lettore utilizza nell'esperienza estetica, corrispondenti a quelli necessari a interpretare la medesima situazione nel mondo reale. Sul potenziale applicativo della teoria dei frames all'analisi del

racconto ritorneremo nel secondo paragrafo di questo capitolo, ma occorre da subito darne una definizione sommaria, per seguire la completa articolazione della teoria della Fludernik. Seguendo la MIT Encyclopedia of Cognitive Sciences, a cui ricorreremo ogni qualvolta ci sarà bisogna di una veloce base definitoria per procedere, un frame o schema

«is a structure for representing a CONCEPT or situation such as "living room" or "being in a living room." Attached to a frame are several kinds of information, for instance, definitional and descriptive information and how to use the frame» (Nebel 1999: 324). Un frame può essere considerato, quindi, una sorta di molecola concettuale, risultante dall'unione di differenti informazioni accumulate da precedenti esperienze. Fondamentalmente, la natura di un frame è statica, serve a inquadrare cognitivamente una situazione, non ad animarla. A quest'ultima funzione risponde un ulteriore meccanismo cognitivo, una sorta di sottoinsieme dinamico del frame, vale a dire uno script, il cui compito è anticipare una serie di possibili eventi all'interno di un frame così come l'esito di una serie già iniziata (Mercadal 1990: 255).

Un'altra importante caratteristica tanto di un frame, quanto di uno script è la sua natura metonimica o, filosoficamente parlando, olistica, ossia il modo in cui da una parte o da un'idea generale il quadro si dettagli di altri elementi in modo autonomo, componendo un'unità concettuale non riducibile alla somma delle sue parti. Il più classico esempio, che anche Fludernik riprende, è quello legato al frame di un ristorante (Shanck e Abelson

1977), dalla cui idea scaturiscono: un insieme di elementi culturalmente determinati (tavoli, sedie, tovaglie, fiori, candele, se un ristorante occidentale); una serie di azioni (entrare, sedersi, mangiare, pagare); un serie di obiettivi dei partecipanti (combattere la fame; combattere la noia); percorsi di causa-effetto derivati dall'esperienza fisica (se i piatti sono vuoti, la fame sarà stata sedata) (18). In breve un frame così come i sui relativi scripts, derivano dall'esperienza e allo stesso tempo la anticipano. Per questo, come vedremo più avanti, possono essere disattesi, modificati o ampliati.

Ora, chiamando in causa il dispositivo cognitivo dei frames, la Fludernik ha inteso ridefinire lo stesso concetto di narratività, vincolando all'idea di esperienza. In un certo senso, per quanto apparentemente semplificante, la sua premessa è che ciò che accomuna un mondo narrativo al mondo del lettore, e che permette a quest'ultimo di ricostruire il primo, è un fattore esperienziale su base cognitivamente umana. La narrativa parla di ed è parlata da esseri umani, attraverso i loro racconti, percezioni e azioni. E se nel mondo reale i racconti, le percezioni e le azioni proprie o altrui generano, rigenerano e disattendono frames e scripts differenti, in bilico tra un principio di economia e un principio di sorpresa della mente umana, lo stesso accade in un mondo finzionale, se l'idea di mondo narrativo è portata oltre il suo significato metaforico.

Ispirata, oltre che da Culler, dalle riflessioni della linguistica discorsiva (Labov 1972), in particolare dalle analisi sociolinguistiche sulla narrativa spontanea (escludendo, quindi, la poesia orale e le tradizioni folkloriche) e dalla linguistica cognitiva (Lakoff 1987), la Fludernik arriva così a equiparare la narratività di un testo a quella che definisce come experientiality, ossia «the quasi-mimetic evocation of 'real life experience'» (12). La prima domanda che una simile definizione solleva è che cosa aggiunga al tradizionale concetto di mimesi come imitazione del reale, e che cosa si debba intendere per «quasi- mimetic evocation». La scelta del termine 'evocazione' resta probabilmente una scelta infelice, ma nel dettaglio l'idea della Fludernik è meno ambigua. Il suo assunto può essere disteso su due piani complementari. Da un lato il lettore ha dalla sua un'esperienza della realtà strutturata attraverso frames e scripts con cui interpreta il proprio mondo, così nell'accedere a un mondo finzionale, nel ricostruirlo come mondo, attinge a questi stessi parametri cognitivi per farne esperienza. Questo primo punto potrebbe essere facilmente indebolito dall'obiezione secondo cui il testo non può stimolare fisicamente la percezione, e per quanto la Fludernik insista sull'importanza di ricevere un corpo narrativo, un embodiment finzionale, un sole accecante in una descrizione narrativa non colpirà mai il lettore, la sua retina continuerà a funzionare illesa per le pagine che seguono.

A questo punto di criticità, la Fludernik cerca di opporre l'idea, maturata appunto dalla sociolinguistica e dalle linguistica cognitiva, che di certo il lettore ha però maturato un'esperienza narrativa del mondo. Questi, infatti, ha raccontato e si è fatto raccontare storie, ha sperimentato il potere di spazializzazione dei deittici15 , la necessità del linguaggio di localizzarsi nel contesto spaziale in cui ha luogo attraverso una metaforizzazione del corpo di un experiencer (17), e così ha già provato come la narrazione

orale e i meccanismi cognitivi legati al linguaggio siano supportati da parametri cognitivi che si attivano attraverso al mediazione del racconto. L'esperienza narrativa, quindi, stimola allo stesso tempo dispositivi legati a un'esperienza del mondo non mediata, e parametri legati all'esperienza della stessa mediazione narrativa. La Fludernik sistematizza questa doppia stimolazione su quattro livelli, ciascuno corrispondente a una differente categoria di frames:





The model operates on four levels. The axiomatic natural parameters of real-life experience form the most basic experiential and cognitive level. On this level are situated the core schemata

from frame theory, which accommodate presupposed understandings of agency, goals, intellection, emotions, motivation, and so on. [.] On level II I locate four basic viewpoints which are available as explanatory schemas of access to the story. All four relate to narrative mediation, to narrativity. I distinguish between the real-world `script' of TELLING; the real- world schema of perception (VIEWING); and the access to one's own narrativizable experience (EXPERIENCING). [.] A fourth schema that I will be using a great deal is that of ACTION or ACTING. Properly speaking, this fourth frame really belongs with level I since it refers to the what and not to the how of narrative experience. [.] My level III of cognitive parameters comprises well-known naturally recurring story-telling situations. Since storytelling is a general and spontaneous human activity observable in all cultures, it provides individuals with culturally discrete patterns of storytelling. These patterns include not only a knowledge about storytelling situations and the structure of that situation (who is telling what to whom, interaction or non-interaction with listeners, etc.), but also an understanding of performed narrative and particularly an ability to distinguish between different kinds or types of stories. [.]On level IV readers utilize conceptual categories from levels I to III in order to grasp, and usually transform, textual irregularities and oddities. (43-45)



Al primo livello, in quello che potremmo chiamare il what-level del modello, troviamo quindi i frames che cognitivamente vengono in soccorso nel mondo reale per l'interpretazione, in prima o terza persona - vale dire tanto come experiencers che come perceivers - di azioni, obiettivi, motivazioni. Ritornando all'esempio del ristorante, questi frames verranno impiegati per comprendere le motivazioni della concitazione di un cameriere, o della rabbia di un cliente che con in mano il conto discute alla cassa. Questo livello, come sottolinea la stessa Fludernik, può essere avvicinato a quella che Paul Ricoeur ha definito come Mimesi I16.

Con il secondo livello, invece, entriamo nel campo della percezione e, narratologicamente parlando, nel campo della mediazione. La narrazione, infatti, nella più classica distinzione formalista tra fabula e sjuzet, successivamente riformulata come storia e discorso (Chatman 1980), è stata classicamente intesa come la rielaborazione, più o meno cronologicamente variata, di una catena di eventi che la precede. Tra poco vedremo come la stessa Fludernik rifiuti questa rigida dicotomia, riducendo l'importanza della serie causale di eventi, a favore del discorso, o meglio, del coefficiente di esperienzialità che costituisce nel suo modello ciò che aumenta o decresce la narratività di un testo. Pur riconfigurandone il valore, il fatto che la narrativa sia un medium e che questa mediazione possa essere gestita in differenti modalità o distanze, resta un punto fermo. I quattro sottolivelli che la Fludenik evidenzia hanno così a che fare con l'accesso al mondo narrativo, che può avvenire stimolando nel lettore l'esperienza, anche qui in prima o terza persona, di una situazione enunciativa (telling), di una situazione di percezione visuale (viewing), o di un'esperienza fisica sensorialmente più estesa (experiencing). Infine, per quanto riguarda il frame riguardante l'agire, la sua collocazione al secondo livello pur riguardando il 'cosa' più del 'come', forse può essere meglio giustificato se si pensa che questi quattro sottolivelli, così come i quattro livelli principali, non si autoescludono, ma possono essere impiegati sincronicamente e che, quindi, anche un'azione presentata senza corredo percettivo può implicare altri frame di questo stesso livello per essere decodificata e naturalizzata.

Il terzo livello è generato dall'esperienza che il lettore ha della stessa pratica narrativa, orale prima ancora che scritta, che tramite l'esperienza naturale del raccontare o dell'ascoltare storie lo dotano di competenze narratologiche in grado di identificare "chi sta dicendo cosa a chi", vale a dire ad avere una predisposizione naturale al comportamento narrativo - e avere così una nozione, più pragmatica che teorica, di cosa sia un narratore, una storia, un narratario. Il quarto livello, infine, riguarda il modo in cui il lettore sfrutta i dispositivi dei livelli sottostanti per trasformare il testo in una narrazione, vale a dire come il lettore narrativizza gli stimoli testuali sotto forma di esperienza, riducendone l'estraneità.

Dopo aver visto le categorie di frames che la Fludernik sostiene supportino la risposta estetica al racconto, occorre forse ribadire ancora come debba essere intesa la loro applicazione al mondo finzionale. Una domanda, infatti, potrebbe intuitivamente sorgere alla luce della sistematizzazione che la Fludernik compie. Se al terzo livello troviamo i frames attivati dall'esperienza che il lettore ha del narrare come attività umana, perché questo livello non è il solo a essere attivato nell'atto di lettura? Come possono frames relativi ad esperienze fisiche, percettive o situazionali (il frame del ristorante, o di un paesaggio montano, o di una biglietteria di una stazione) maturati nel mondo reale, attivarsi attraverso una mediazione narrativa? La risposta della Fludernik potrebbe essere riassunta nella rapporto stesso tra mondo, frames e narrazione.

Le scienze cognitive hanno negli ultimi anni sottolineato una solidità lungo questa linea, insistendo su come il linguaggio non sia da considerarsi come il versante rappresentativo, temporalmente e ontologicamente svincolato dall'esperienza (a freddo, quindi, in quello che in gergo cognitivo si direbbe una concezione off-line del linguaggio), ma piuttosto come il risultato di ogni evento - in senso lato, dall'esperienza sensoria a quella comunicativa - che si deposita nella memoria in forma concettuale. Nelle parole di Jerome Bruner, lo psicologo cognitivo che ha inaugurato questa linea di ricerca che guarda all'attività narrativa nel suo rapporto esperienziale col mondo, «the world does not present 'events' to be encoded in language. Rather, in the process of speaking or writing, experiences are filtered through language into verbalized events» (2002: 73). L'esperienza del mondo reale, quindi, costruisce e si deposita come serie di informazioni, raggruppate nell'inquadramento cognitivo di un frame o nella sequenza molecolare di eventi di uno script. Il lettore si trova, così, a decodificare dei nuclei di eventi verbalizzati, che contengono in sé le indicazione ricostruttive per recuperare la narrazione come esperienza.

Fatta l'ovvia premessa che l'esperienza fisica e percettiva non ha bisogno necessariamente di una mediazione narrativa, la Fludernik, in senso inverso e in linea, oltre che con Bruner, con la più recente linguistica cognitiva, insiste su come la comprensione linguistica sia costruttivamente vincolata all'esperienza del mondo reale. In breve, quindi, il suo utilizzo della teoria dei frames si colloca nell'ottica di una semantica cognitiva. Alla base di questo transito di dispositivi tra il mondo narrativo e il mondo reale vi è quindi un'idea d'integrazione tra comprensione linguistica ed esperienza. Nell'introduzione a una raccolta di contributi sui più recenti approcci alla linguistica cognitiva firmata da Dirk Geeraerts, si trova una definizione che spiega bene questo rapporto simbiotico tra semantica ed esperienza: The meaning we construct in and through the language is not a separate and independent module of the mind, but it reflects our overall experience as human beings. [.] First, we are embodied beings, not pure minds. Our organic nature influences our experience of the world, and this experience is reflected in the language we use.[.]The experience of language is an experience of actual language use, not of words like you would find them in a dictionary or sentence patterns like you would find them in a grammar. That is why we say that Cognitive Linguistics is a usage-based model of grammar: if we take the experiential nature of grammar seriously, we will have to take the actual experience of language seriously, and that is experience of actual language use. (Geeraerts 2006: 4-6)


Così come per la linguistica cognitiva il linguaggio non può essere visto come un sistema autonomo, ma deve essere studiato nelle implicazioni cognitive della sua codificazione e ricezione, così per Fludernik il testo narrativo è il risultato di una codifica simbolica dell'esperienza. Questa conclusione permette di stabilizzare un'oscillazione tra due competenze del lettore, attraverso un'ipotesi di sinergia. Da un lato il lettore accede al mondo narrativo guidato, orientato, mosso e scosso da frames costituiti su esperienze reali. Dall'altro ha un'esperienza della pratica narrativa, orale e scritta, che gli permette di attivare questi frames pur non essendo fisicamente e percettivamente presente a stimoli reali, in virtù del potenziale cognitivo del linguaggio stesso. Il lettore, insomma, porta nel testo la propria esperienza del mondo, del linguaggio, e del mondo nel linguaggio.



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