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La vulcanologia è quella branca della geologia che studia l'attività vulcanica o vulcanismo, analizzando le cause e le modalità delle eruzioni vulcaniche, le strutture da esse prodotte e la loro distribuzione geografica. L'attività vulcanica può essere definita come la fuoriuscita, con modalità differenti, di quella complessa miscela di minerali e gas allo stato fuso, chiamata magma.
Il magma fuoriesce sia perché risulta meno denso delle rocce circostanti, ma soprattutto perché alle temperature che lo caratterizzano i composti volatili in esso presenti producono enormi pressioni.
Quando il magma trabocca in superficie la sua composizione chimica risulta differente, soprattutto per l'intenso degassamento cui è sottoposto. Alla nuova miscela che si forma viene dato il nome di lava. Normalmente la lava non è l'unico prodotto dell'attività vulcanica, ad essa si accompagnano spesso prodotti piroclastici e gas.
Tra i fattori che determinano le caratteristiche di un'eruzione vi sono: la composizione chimica del magma, la temperatura del magma e la quantità di gas disciolti.
Per quanto riguarda la composizione chimica del magma si è già visto come sia soprattutto la percentuale di silice che determina la viscosità del magma. I magmi basici, poveri in silice, sono più fluidi dei magmi acidi, ricchi in silice. Si ritiene che ciò sia legato al fatto che durante il processo di raffreddamento i tetraedri di SiO formano lunghe catene che ostacolano lo scorrimento del magma. Per quel che riguarda la temperatura del magma, è evidente che un suo aumento non fa che elevare l'energia cinetica media delle particelle, le quali vincono così più facilmente le forze di attrazione reciproca rendendo il magma più fluido. Infine i gas disciolti aumentano la fluidità del magma (abbiamo già visto che in questo modo facilitano anche il processo di cristallizzazione nelle rocce ignee intrusive). Ma la loro presenza condiziona la modalità dell'eruzione principalmente per altri motivi. Quando infatti il magma raggiunge una zona prossima alla superficie terrestre passa rapidamente da condizioni di elevata pressione a condizioni di pressione molto prossime a quella atmosferica. Ciò provoca, come si è già detto un rapido degassamento, in quanto i gas non riescono più a rimanere disciolti nel magma (legge di Henry) a pressioni esterne così basse. Inoltre, non appena liberatisi, si espandono notevolmente. Ora, i magmi basaltici, molto fluidi, permettono ai gas in espansione di risalire e di liberarsi con relativa facilità, mentre i magmi acidi, piuttosto viscosi, ostacolano la fuoriuscita dei gas. Così i gas, imprigionati nella massa magmatica, aumentano rapidamente la loro pressione fino a produrre dei fenomeni esplosivi che frantumano le rocce superficiali ed eiettano frammenti lavici di diverse dimensioni, detti piroclasti. Il materiale piroclastico viene classificato in base alle sue dimensioni in ceneri (< 2 mm), lapilli (2 - 6 mm) e bombe vulcaniche (> 6 mm).
In definitiva dunque, mentre il magma basico tende a produrre tranquille colate che possono correre per chilometri prima di fermarsi (vulcanesimo effusivo), il magma acido produce eruzioni più o meno violente di tipo esplosivo (vulcanesimo esplosivo). Esistono comunque situazioni intermedie in cui fenomeni effusivi si alternano ad eventi esplosivi.
1) Vulcanesimo effusivo
La lava è il tipico prodotto dei fenomeni effusivi. Quando le fluide colate basaltiche iniziano a raffreddare, sulla loro superficie si forma una crosta sottile e liscia che viene trascinata dalla massa fusa sottostante. Tale lava è detta con termine hawaiano 'pahoehoe' (pronuncia pa-oi-oi), letteralmente 'sulla quale si può camminare scalzi' (ovviamente dopo che si è raffreddata completamente). Un tipo particolare di lava pahoehoe è la lava a corda, che si forma quando il flusso della colata basaltica rallenta e la superficie liscia superficiale, ancora plastica, si corruga come una tenda raccolta sul lato di una finestra. Quando lava basaltica fuoriesce dai fondali oceanici, l'enorme pressione esercitata dai 2/3000 m d'acqua sovrastanti, impedisce un degassamento rapido e l'eruzione avviene molto tranquillamente. A contatto con l'acqua la lava si raffredda bruscamente formando una tipica crosta vetrosa continuamente rotta da nuove bolle di lava che fuoriescono. La colata appare infine come un ammasso di sfere schiacciate e saldate tra loro, denominate pillow lava (lava a cuscini). Le eruzioni sottomarine si rendono evidenti in superficie solo quando la colonna d'acqua sovrastante non supera i 200 m. In tal caso, l'interazione tra acqua e magma, non più frenata dalla pressione idrostatica, provoca violente esplosioni che si manifestano in superficie come gigantesche nubi di vapori bianchissimi.
Se la lava è invece più viscosa, la superficie solidificatasi della colata si rompe in frammenti taglienti, assumendo un aspetto scabroso e accidentato, che gli hawaiani indicano come lava 'aa', letteralmente sulla quale non si può camminare a piedi scalzi. Un tipo particolare di lava 'aa' è la lava a blocchi che si produce quando il magma è particolarmente viscoso e la crosta superficiale della lava si frantuma in grossi blocchi spigolosi. Le lave dell'Etna sono spesso di questo tipo con il fronte delle colate che prende l'aspetto di una massa di macerie in lenta avanzata.
2) Vulcanesimo esplosivo
In genere qualsiasi colata lavica è preceduta da fenomeni esplosivi più o meno intensi, che segnano il momento in cui inizia un'eruzione. Nel caso di magmi acidi molto viscosi tali fenomeni possono essere prevalenti ed estremamente intensi.
Uno dei fenomeni esplosivi più violenti si produce quando l'enorme pressione prodotta dalle bolle di gas imprigionate nei magmi acidi in vicinanza della superficie terrestre, supera la resistenza del materiale sovrastante. I gas surriscaldati, in rapidissima espansione trascinano via brandelli di roccia e lava polverizzata in minutissime goccioline. Si forma una gigantesca nube incandescente, detta nube ardente, in grado di muoversi a velocità superiori ai 100 km/h e con un potere distruttivo incredibile. Nel 1902 una nube ardente prodotta dal vulcano Pelée, un piccolo vulcano della Martinica (Piccole Antille) raggiunse in pochi minuti la cittadina di St Pierre, a 9 km di distanza, radendola al suolo ed uccidendo tutti i suoi 28.000 abitanti.
Altri fenomeni esplosivi sono quelli che si producono quando l'acqua di falda entra in contatto con il magma o con le rocce fortemente surriscaldate da questo. Il passaggio istantaneo dell'acqua allo stato di vapore può produrre un'eruzione idromagmatica o freatomagmatica di grande violenza.
A fenomeni esplosivi particolari possono essere ricondotte caratteristiche strutture vulcaniche note come diatremi o neck. Si tratta di antichi condotti vulcanici riempiti di breccia, materiale frantumato e strappato alle pareti del condotto durante una fuga esplosiva di gas da una camera magmatica molto profonda. Il materiale portato in superficie proviene dalla base della crosta o addirittura dalla superficie del mantello. I diatremi sono luoghi privilegiati per studiare la composizione chimica delle rocce ultrafemiche (kimberliti) che si trovano a gran profondità. I più famosi diatremi sono quelli di Kimberly, in Sud Africa. Oltre alle kimberliti essi sono ricchi di diamanti che si originano ad almeno 100 - 120 chilometri sotto la superficie terrestre. Solo a queste profondità infatti si raggiungono le pressioni necessarie per cristallizzare il carbonio sotto forma di diamante.
Le eruzioni possono avvenire da una fessura estesa della crosta terrestre e vengono perciò dette eruzioni lineari o fissurali, oppure da un condotto sfociante in un punto e vengono in questo caso dette eruzioni centrali.
3) Le eruzioni centrali: gli edifici vulcanici e la classificazione di Lacroix
3.1 Gli edifici vulcanici
Quando il magma giunge in superficie in un punto preciso, i prodotti vulcanici (lava e materiale piroclastico) tendono a raccogliersi intorno allo sbocco del condotto, formando edifici di forma in genere conica detti vulcani (dall'isola Vulcano, nelle Eolie, mitica sede della fucina del dio omonimo). Tipicamente in un vulcano è possibile riconoscere un condotto di alimentazione (camino vulcanico) che mette in comunicazione un serbatoio di magma (bacino o camera magmatica) con una o più aperture esterne (bocche magmatiche o crateri). La fuoriuscita e l'accumulo dei prodotti vulcanici intorno al cratere producono edifici vulcanici, la cui forma e struttura dipende in gran parte dal tipo di magma che li alimenta.
Gli edifici vulcanici possono esseri ricondotti a tre strutture fondamentali:
3.1.a I coni di piroclasti formati di soli materiali piroclastici e quindi in seguito ad una attività prevalentemente esplosiva. Presentano generalmente una forma conica piuttosto regolare. Dato che il materiale piroclastico incoerente ha un angolo di riposo piuttosto elevato, (tra i 30° ed i 40°) sono tra gli edifici vulcanici più ripidi. I coni di cenere in genere presentano pendii più dolci rispetto ai coni in cui prevalgono lapilli e scorie più grossolane.
Si tratta generalmente di edifici vulcanici di modeste dimensioni, spesso inferiori ai 300 m.
3.1.b Gli strato-vulcani sono edifici vulcanici costituiti da un'alternanza di piroclastiti e colate laviche. La loro formazione è legata ad un succedersi di fasi effusive ed esplosive. Molti tra i più suggestivi edifici vulcanici della terra sono di questo tipo, come il Fujiyama, il Vesuvio, l'Etna, lo Stromboli e Vulcano. In genere quando prevale l'attività effusiva i fianchi risultano meno ripidi (come avviene nell'Etna), mentre quando prevale l'attività esplosiva i fianchi risultano più ripidi ( come nel Vesuvio). Spesso in questi vulcani si aprono bocche laterali avventizie, a causa dell'ostruzione della bocca principale, per cui si originano in alcuni casi veri e propri vulcani multipli, in cui si affiancano diversi edifici vulcanici. Un'altra caratteristica comune a molti strato-vulcani è la presenza alla loro sommità di una cavità particolarmente ampia detta caldera (in spagnolo, 'pentolone'). La maggior parte delle caldere si forma quando il soffitto della camera magmatica, parzialmente svuotata, cede. In altri casi viene prodotta da esplosioni che aprono grandi voragini alla sommità dell'edificio vulcanico. All'interno della caldera si possono riformare uno o più edifici vulcanici. In tal caso si forma un tipo particolare di strato-vulcani, i cosiddetti vulcani a recinto, di cui il Vesuvio è un tipico esempio, in cui un avvallamento separa il cratere più interno di nuova formazione dal bordo più esterno della caldera.
Molte caldere ormai inattive sono state in seguito riempite d'acqua con formazione di laghi vulcanici, riconoscibili dalla caratteristica forma circolare (Bolsena, Vico, Nemi, Bracciano e il Crater Lake nell'Oregon).
3.1.c I vulcani a scudo sono edifici vulcanici prodotti quasi esclusivamente da processi effusivi, di lava basaltica molto calda (1200 °C) e fluida, con esplosioni molto rare. Il magma molto fluido scorre velocemente formando edifici vulcanici dalla forma larga e piatta. Presentano fianchi con piccole pendenze, mai superiori ai 15°. Tra di essi troviamo i più grandi vulcani del mondo, come il Mauna Loa ed il Mauna Kea nelle isole Hawaii.
3.2 La classificazione di Lacroix
In base alle modalità con cui si manifestano i processi eruttivi le eruzioni vengono suddivise in 4 tipi fondamentali, classificati in ordine di acidità crescente del magma, secondo l'ormai classico schema proposto dal geologo francese A. Lacroix, all'inizio del secolo.
3.2.a Eruzioni di tipo hawaiano
Caratterizzati da effusioni di lava basaltica fluida. Sono praticamente assenti i fenomeni esplosivi. Formano edifici vulcanici a scudo. A volte i gas raggiungono pressioni sufficienti a formare fontane di lava alte fino a 300 m. Nei crateri la lava fluida può ristagnare formando veri e propri laghi di lava.
3.2.b Eruzioni di tipo stromboliano
Il prototipo di tali vulcani è lo Stromboli, nell'omonima isola siciliana delle Eolie. I vulcani caratterizzati da attività stromboliana presentano una lava solo leggermente viscosa che ristagna nel cratere, ricoprendosi di una crosta solida. I gas si liberano al di sotto della crosta con relativa facilità e la mandano in frantumi con esplosioni di lieve entità ad intervalli di tempo piuttosto brevi (da pochi minuti a poco più di un'ora), con formazione di fontane di lava spettacolari. Esaurita la spinta dei gas la lava torna a ristagnare.
3.2.c Eruzioni di tipo vulcaniano
Prendono il nome dall'isola di Vulcano nelle Eolie. Sono caratterizzate da una lava più acida e quindi più viscosa, di tipo andesitico. I gas si liberano con maggior difficoltà e la lava all'interno del cratere fa in tempo a formare un tappo solido di notevole spessore. I gas impiegano molto tempo prima di raggiungere la pressione necessaria per far saltare il tappo e quando ciò avviene l'esplosione è violentissima, tanto da distruggere a volte l'estremità superiore dell'edificio vulcanico. Dal cratere si alza una grande nube dalla caratteristica forma di fungo, di colore scuro per la grande quantità di materiale piroclastico in sospensione. Casi particolari, particolarmente violenti, di eruzioni vulcaniane vengono considerate le eruzioni di tipo vesuviano e quelle di tipo pliniano, che alcuni autori classificano però in modo autonomo.
Le eruzioni di tipo vesuviano sono caratterizzate da un'esplosione talmente violenta che il camino magmatico superiore viene rapidamente svuotato. Altra lava risale velocemente dalle zone profonde espandendosi violentemente in superficie in un'enorme nube 'a cavolfiore' di goccioline minutissime.
Secondo la ricostruzione fattane, l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. si concluse dapprima con la deposizione su di una vasta area delle pomici e delle ceneri. In seguito, quando l'acqua di falda raggiunse la camera magmatica, si ebbe una seconda violentissima esplosione freatomagmatica che lanciò nuovo materiale piroclastico su tutto il golfo, provocando la distruzione di Pompei. La città di Ercolano venne invece distrutta qualche giorno dopo da un fenomeno diverso: venne infatti sepolta da una colata di fango o lahar, termine con cui viene indicato lo scivolamento lungo le pendici di un vulcano di ceneri impregnate di acqua. |
Le eruzioni di tipo pliniano (descritte per la prima volta da Plinio il Giovane, che ebbe occasione di assistervi in occasione dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.) sono ancora più violente. Il materiale vulcanico (lava polverizzata, gas e piroclasti) viene letteralmente sparato attraverso il condotto con una velocità iniziale superiore a quella del suono. La colonna sale verticalmente per qualche decina di chilometri prima di perdere energia ed espandersi in una grande nuvola a forma di pino marittimo.
3.2.d Eruzioni di tipo peléeano
Prendono il nome dal vulcano Pelée nell'isola di Martinica, nelle Indie Occidentali, la cui eruzione del 1902 distrusse la città di St Pierre. L'attività eruttiva di tipo peleeano è sostenuta da una lava particolarmente acida e viscosa che arriva in superficie già praticamente solidificata e viene spinta fuori dal cratere sotto forma di vere e proprie torri di roccia alte qualche centinaio di metri. Nell'eruzione del Pelée si era formata in una decina di giorni una colonna rocciosa che ostruiva il cratere alta 250 m. Dalla base delle 'torre' si liberano periodicamente nubi ardenti che rotolano per le pendici dell'edificio vulcanico.
Naturalmente non tutte le eruzioni avvengono esattamente con le modalità sopra descritte, nella maggior parte dei casi ogni eruzione presenta sia una iniziale fase esplosiva che una successiva fase effusiva. L'intensità e la durata delle due fasi è però diversa in relazione al tipo di eruzione e spesso ciascun evento eruttivo di uno stesso vulcano può presentarsi con caratteristiche differenti. La classificazione appena proposta ha dunque solamente un valore indicativo.
4) Le eruzioni lineari o fissurali
Le eruzioni vulcaniche da un camino centrale sono certamente le più familiari, ma la maggior parte del materiale magmatico fuoriesce da fratture lineari della crosta terrestre. Invece di portare alla formazione del tipico cono vulcanico, il materiale emesso si distribuisce ai due lati della fessura formando ampie colate che ricoprono migliaia di km , dette plateaux. La maggior parte di queste eruzioni produce lave basaltiche molto fluide provenienti direttamente dal mantello. Attualmente non vi sono fessure attive sui continenti, ma solo sui fondali oceanici.
Si tratta di enormi fratture, in rilievo rispetto ai fondali tanto da formare vere e proprie catene montuose, note come dorsali oceaniche (la più importante è quella medio-atlantica). Dalla sommità delle dorsali sgorga continuamente lava basaltica.
Ma in passato tali fessure hanno formato enormi plateaux, tuttora riconoscibili all'interno delle aree continentali, come il Plateau del fiume Columbia (1/2 milione di Km per uno spessore di 1200 m) o il Plateau del fiume Paranà, tra Brasile ed Uruguay ( 1 milione di km per uno spessore di 500 m).
Anche i vulcani islandesi sono di questo tipo. D'altra parte l'Islanda è un affioramento della dorsale medio atlantica.
Eruzioni fissurali di tipo acido non sono mai state osservate in epoca storica, ma è certo che esse sono avvenute in passato. Quando l'eruzione fissurale è alimentata da un magma particolarmente sialico si forma un particolare tipo di nube ardente in cui i lapilli e le ceneri tenute in sospensione dai gas sono costituiti in gran parte da minuscoli frammenti di vetro fuso. Quando queste nubi si depositano formano particolari piroclastiti, dette ignimbriti (o tufi saldati). Esempi ne sono la piattaforma porfirica atesina, il vasto tavolato di porfido che fa da basamento ai massicci dolomitici, prodottosi da grandi fessure circa 250 milioni di anni fa e la più recente ignimbrite campana, che ricopre l'intera pianura campana, tra Napoli e Caserta, prodottasi circa 35.000 anni fa, in seguito ad una nube ardente fuoriuscita da alcune fessure apertesi nell'area dei Campi Flegrei.
5) Formazione del magma
Oltre all'aumento di temperatura vi sono altri due fattori che possono concorrere a determinare la fusione di una roccia con formazione di un magma: la pressione e la presenza di acqua.
Poichè infatti una roccia fondendo si dilata, un aumento di pressione esercitato dall'esterno agisce in senso contrario (principio di Le Chatelier), inibendo il processo di fusione. Per questo motivo rocce profonde, sottoposte ad enormi pressioni risultano solide pur possedendo temperature che ne consentirebbero la fusione a pressione atmosferica. Tale comportamento consente ad esempio di spiegare il motivo per il quale il mantello peridotitico che si trova allo stato solido può iniziare a fondere quando viene riportato in superficie a causa della distensione crostale che si produce a livello delle dorsali medio- oceaniche. L'acqua può infine facilitare la fusione, diminuendo il punto di fusione. Vedremo che si ritiene che ciò accada proprio a livello delle dorsali e nei cosiddetti punti di subduzione, dove due frammenti crostali si scontrano ai margini tra continente ed oceano.
6) Vulcanesimo secondario
Quando la solidificazione del magma nella camera magmatica si sta per concludere ed il processo si avvia verso la fase idrotermale, possono emergere in superficie soltanto soluzioni idrotermali e vapori caldi. La molecola d'acqua come tale, può esistere solo fino ad una temperatura di circa 370°C. oltre la quale si scinde in ioni ed entra nella composizione degli anfiboli e dei fillosilicati come ossidrili. Oltre i 700°C diventa impossibile la stessa presenza dell'ossidrile e nessuno dei silicati che cristallizzano a temperature elevate possiede l'ossidrile nella sua struttura.
Quando dunque viene raggiunta una temperatura di 200-300°C, viene espulsa dal sottosuolo tutta l'acqua che, assieme ad elementi come il boro e lo zolfo, non hanno trovato posto nei reticoli cristallini dei silicati. Spesso l'acqua di origine magmatica si unisce con l'acqua di origine freatica (acqua di falda). Tali manifestazioni sono dette fumarole. Si distinguono le fumarole calde (da 90° a 300°C) dalle fumarole fredde (sotto i 90°C).
6.1 Fumarole calde Sono esempi di fumarole calde le solfatare, getti di vapore surriscaldato (130-165°C) contenente acido solfidrico. L'acido solfidrico viene ossidato dall'ossigeno atmosferico ad acido solforico e zolfo elementare che cristallizza incrostando le superfici circostanti. Famosa è la solfatara di Pozzuoli (nel complesso dei Campi Flegrei, in Campania). Ad attività fumarolica vanno associati anche i soffioni boraciferi di Larderello in Toscana. Si tratta di getti di vapore con acido borico ad alta temperatura (120° - 210°C) che, sospinti da pressioni elevate (1 - 6 atm), possono innalzarsi fino a 15-20 metri dal suolo.
6.2 Fumarole fredde Producono solo vapor d'acqua e anidride carbonica, la cui temperatura raramente si avvicina ai 100°C. Fumarole fredde particolarmente ricche di anidride carbonica sono le mofete, di cui si hanno esempi nei Campi Flegrei.
Altri due fenomeni associati in prevalenza alle manifestazioni del vulcanismo secondario sono le sorgenti termali ed i geyser.
6.3 Le sorgenti termali possono prodursi semplicemente per contatto dell'acqua con rocce profonde, più calde di quelle superficiali per il normale gradiente geotermico. Il fenomeno è però particolarmente accentuato in aree vulcaniche. Si tratta di acque particolarmente ricche di minerali in soluzione e con temperature che possono andare dai 20° ai 70°C.
6.4 I Geyser sono getti intermittenti di acqua calda che possono innalzarsi per decine di metri. Provengono da cavità sotterranee, poste a qualche centinaio di metri di profondità, in cui l'acqua profonda, sottoposta al peso della colonna d'acqua sovrastante, raggiunge temperature di ebollizione molto superiori ai 100°. Quando viene raggiunta una temperatura sufficientemente elevata da vincere la pressione idrostatica il geyser entra in attività. Il più famoso è l'Old Faithful nel parco nazionale di Yellowstone in U.S.A. Ma se ne trovano altri in Islanda, nella Nuova Zelanda, nelle isole Azzorre.
7) Distribuzione geografica dei fenomeni vulcanici e sismici
Non tutte le regioni della terra sono interessate in egual misura dai fenomeni vulcanici e sismici. Tuttavia la loro distribuzione non è casuale. Inoltre molto spesso le aree interessate da fenomeni sismici sono anche sede di attività vulcanica. Il motivo di tale coincidenza e della loro particolare distribuzione va ricercato nella dinamica crostale, descritta dalla teoria della tettonica a placche, di cui avremo in seguito modo di parlare. Per ora ci limiteremo ad indicare le zone in cui si trovano concentrati la maggior parte dei fenomeni vulcanici e sismici, le quali coincidono con i confini dei frammenti crostali.
7.1 Dorsali medio-oceaniche Si tratta di quelle aree rilevate presenti sui fondali oceanici caratterizzate da attività basaltica effusiva
7.2 Cintura di fuoco circumpacifica
con tale nome si fa riferimento alla fascia che borda le coste orientali e occidentali dell'oceano pacifico, dove sono concentrati il 60% dei vulcani attivi ed il 70% dei terremoti verificatisi nel nostro secolo.
/.3 Sistema alpino-himalaiano
Nella figura la linea più scura individua i principali confini tra i frammenti crostali, i quali coincidono con le regioni a più elevata attività sismica e vulcanica.
1) Metodi di indagine
Lo studio della struttura interna della terra è complicato dal fatto che ci è possibile avere una conoscenza diretta solo dei suoi strati più superficiali, mentre dobbiamo accontentarci di dedurre la natura degli strati più profondi tramite una serie di conoscenze indirette.
Le conoscenze dirette si avvalgono di alcune trivellazioni di pozzi, scavati sia per l'estrazione del petrolio che per scopi scientifici. In tal modo si è arrivati comunque ad una profondità massima di una quindicina di chilometri. Altre conoscenze dirette derivano dal materiale che viene effuso dalle dorsali oceaniche, dallo studio delle rocce che sono state sollevate durante i movimenti orogenetici che hanno portato alla formazione delle montagne. Le rocce più profonde oggi note si ritiene siano le kimberliti, che si trovano nei diatremi diamantiferi, arrivate in passato in superficie da profondità di 100 - 200 km, grazie a violente eruzioni di tipo esplosivo.
1.1 I dati sismici e le superfici di discontinuità
La via principale attraverso la quale si ottengono informazioni indirette sulla struttura profonda della terra è l'analisi dei tracciati delle onde sismiche prodotte artificialmente o provocate naturalmente dai terremoti. Muovendosi all'interno della terra le onde sismiche (P ed S) possono subire una serie di riflessioni, rifrazioni e variazioni di velocità in funzione della diversa densità, temperatura e dello stato fisico (liquido o solido) che caratterizza i diversi strati profondi. In generale le onde sismiche accelerano mentre si propagano in profondità. Inoltre mentre le onde P si propagano attraverso una roccia qualunque sia il suo stato fisico, le onde S si bloccano in presenza di strati allo stato liquido. I geologi hanno così osservato che le onde sismiche subiscono fenomeni di riflessione e rifrazione particolarmente evidenti in corrispondenza di alcune superfici concentriche che si trovano a profondità diverse. Inoltre in corrispondenza di tali superfici le onde sismiche subiscono delle brusche variazioni di velocità che testimoniano il passaggio repentino da uno strato ad uno con diverse caratteristiche fisiche. A tali superfici che separano la terra in strati concentrici caratterizzati da un diverso stato chimico fisico è stato dato il nome di superfici di discontinuità.
La prima di queste superfici, oggi nota come 'Moho', venne scoperta nel 1909 dal geofisico iugoslavo Mohorovicic a qualche decina di chilometri di profondità. In corrispondenza della Moho le onde sismiche subiscono una brusca accelerazione nella direzione del centro della terra.
La Moho separa lo strato più superficiale della terra, detto crosta, dallo strato sottostante, più denso, detto mantello. La Moho non si trova a profondità costante. Essa è presente ad una profondità che va da 0 a 10 km sotto i fondali oceanici, mentre si trova a 30 - 40 km sotto i continenti, con l'eccezione delle grandi catene montuose, al di sotto delle quali arriva ad una profondità di 70 - 80 km. Nel 1914 B. Gutenberg scoprì un'altra importante discontinuità a 2900 km di profondità, oggi conosciuta come discontinuità di Gutenberg, che non lasciava passare le onde S. Al di sotto della Gutenberg dunque il materiale deve essere allo stato fluido, perlomeno nelle sue regioni più superficiali. La Gutenberg divide la porzione centrale della terra, detta nucleo, dal mantello. Con riferimento alla probabile composizione chimica dei tre strati principali in cui è suddivisa la terra si usano ancora spesso i termini coniati da Suess nel 1885. SIAL (silicati di alluminio) per la crosta, SIMA (silicati di magnesio) per il mantello e NIFE (leghe di nichel e ferro) per il nucleo. I geologi ritengono che la densità dei materiali di cui sono composti i vari strati cresca a partire da un valore di 2.7 kg/dm per le rocce crostali (valore rilevato direttamente) fino a raggiungere valori di 12 - 13 kg/dm nel nucleo. Tali dati sono naturalmente compatibili con la densità media terrestre, pari a circa 5,5 kg/dm , con le densità calcolate sulla base della velocità di propagazione delle onde sismiche alle diverse profondità e con le densità dei diversi composti chimici, misurate in laboratorio.
2) La struttura interna della Terra
I dati sismici più recenti hanno permesso di giungere ad una conoscenza più dettagliata di crosta, mantello e nucleo, con la scoperta di discontinuità minori e di importanti strutture probabilmente legate alla dinamica crostale superficiale.
2.1 La crosta
La struttura della crosta non è omogenea ed è necessario effettuare una distinzione tra crosta continentale e crosta oceanica.
La crosta continentale è più spessa, ma meno densa di quella oceanica. Al di sotto di un velo di rocce sedimentarie è formata da due strati. Uno più superficiale di tipo granitico (strato del granito) ed uno più profondo, di rocce metamorfiche, detto impropriamente strato del basalto. I due strati sono separati da una discontinuità secondaria detta di Conrad.
La crosta oceanica è più sottile, ma più densa, costituita da basalti ricoperti da un velo di rocce sedimentarie. A differenza della crosta continentale che in alcuni punti risulta vecchia di 3 - 4 miliardi di anni, non esiste crosta oceanica più vecchia di 200 - 250 milioni di anni. La crosta oceanica più recente è quella che si trova in prossimità delle dorsali, mentre la sua età cresce allontanandosi da esse.
2.2 Il Mantello
Una discontinuità minore, posta a circa 700 km di profondità (discontinuità di Repetti) separa il mantello in mantello superiore e mantello inferiore. Mentre il mantello superiore sarebbe costituito da silicati di ferro e magnesio ultrafemici (peridotiti), il mantello inferiore potrebbe essere formato dagli stessi elementi strutturati in minerali più compatti e densi, come ossidi e solfuri di ferro magnesio e silicio (in tal caso alcuni vorrebbero mantenere il termine SIMA per il mantello superiore, introducendo il termine OSOL per il mantello inferiore). Lo strato più superficiale del mantello, subito sotto alla Moho, fino ad una profondità media di circa 100 km, è composto di peridotiti allo stato solido. I geofisici chiamano tale strato 'LID' (coperchio). La crosta ed il LID, benché separati dalla Moho, formano una struttura rigida, solidale, di grande importanza nella dinamica crostale, detta litosfera. Al di sotto della litosfera, tra i 100 ed i 250 km di profondità, si trova uno strato peridotitico in cui la velocità delle onde sismiche decresce e che i geofisici chiamano L.V.L. (low velocity layer) o strato a bassa velocità.
Si ritiene infatti che le particolari condizioni di temperatura e di pressione esistenti a quelle profondità abbiano portato la peridotite molto vicina al punto di fusione. Le rocce si comporterebbero perciò come un fluido molto viscoso o come un solido malleabile, in grado di deformarsi senza spezzarsi e, ciò che più qui interessa, di muoversi per convezione da punti più caldi verso punti più freddi. Tale strato è conosciuto anche come astenosfera (dal greco asthenès = debole, ad indicare la non rigidità delle rocce). Ma sullo spessore da attribuire all'astenosfera non vi è ancora accordo tra i geofisici.
Secondo le ipotesi attuali la litosfera più leggera galleggerebbe letteralmente sulla sottostante astenosfera e verrebbe da questa trascinata grazie ai movimenti convettivi che la caratterizzano.
2.3 Il nucleo
Anche il nucleo presenta al suo interno una superficie di discontinuità a circa 5000 km di profondità (discontinuità di Lehmann) che lo divide in nucleo esterno e nucleo interno.
Il nucleo esterno è come abbiamo già detto allo stato fuso, mentre al di sotto della Lehmann l'enorme pressione riporta il materiale allo stato solido. La densità passa dai 9 -10 kg/dm del nucleo esterno ai 13 kg/dm del nucleo interno. Sulla composizione chimica del nucleo sono state fatte molte ipotesi, da quella classica di una lega di ferro-nichel, in accordo con la composizione delle sideriti, a quella che prevedeva l'esistenza di materia allo stato degenere, simile a quella presente nelle stelle, con i protoni e gli elettroni strettamente impacchettati, senza possibilità di formare atomi di elementi distinti.
Attualmente i geofisici sono d'accordo sulla natura metallica del nucleo, ma gli esperimenti di laboratorio evidenziano che il ferro da solo o una lega di ferro-nichel verrebbero eccessivamente compressi dalle pressioni esistenti al centro della terra, raggiungendo dei valori di densità incompatibili con quelli ottenuti dai dati sismici. Si ritiene perciò probabile l'esistenza , assieme al ferro, di elementi più leggeri. Il Silicio, per la sua abbondanza relativa nell'universo, sembra essere il candidato migliore. Altri elementi possibili potrebbero essere lo zolfo e l'ossigeno.
3) Il calore terrestre
Dalle misure eseguite si è potuto constatare che, a parte gli strati più superficiali della crosta terrestre che risentono della temperatura esterna, la temperatura cresce in media di 3°C ogni 100 m di profondità. Si ritiene comunque che tale gradiente geotermico non possa mantenersi costante fino a grandi profondità, poiché in tal caso al centro della terra verrebbero raggiunte temperature stellari, dell'ordine dei 200.000°C. Secondo la maggior parte dei geofisici invece la temperatura al centro della terra non sarebbe superiore ai 4.000 - 5.000 °C. Per molto tempo si è ritenuto che la fonte principale dell'energia termica irradiata dal nostro pianeta fosse di origine primordiale, derivando dalla conversione di energia cinetica in calore durante il processo di accrescimento meteorico della terra 4,5 miliardi di anni fa. Oggi si ritiene invece che la maggior parte del calore terrestre (circa il 70%) sia prodotto dal decadimento dei materiali radioattivi presenti nella crosta e nel mantello. Dalle analisi di laboratorio risulta che le rocce granitiche sono molto più ricche di elementi radioattivi rispetto alle rocce basaltiche per cui i graniti producono 6 volte più calore dei basalti.
Ciò porterebbe a concludere che il flusso termico (il flusso termico medio della terra è di 0,06 W/m ) dovrebbe essere superiore a livello della crosta continentale granitica rispetto alla crosta oceanica basaltica. In realtà il flusso che si misura nei due casi è simile. Si ritiene che ciò sia dovuto al fatto che il calore prodotto dal mantello sotto la crosta oceanica venga portato in superficie in modo più efficiente di quello prodotto dal mantello sotto la crosta continentale.
I geofisici ritengono che il fenomeno sia da collegarsi all'esistenza di enormi correnti convettive che rimescolano lentamente l'astenosfera all'interno del mantello, facendo risalire materiale più caldo verso la litosfera sovrastante. I motivi per cui tali movimenti convettivi sarebbero più intensi sotto la crosta oceanica, non sono però ancora chiari.
4) Il magnetismo terrestre
Come sappiamo la terra si comporta come se al suo interno esistesse un enorme magnete al suo centro, inclinato di circa 11° rispetto all'asse di rotazione, in modo che i poli geografici non coincidono con i poli magnetici. L'esistenza di questo presunto magnete, per quanto suggestiva è priva di qualsiasi fondamento scientifico, infatti all'interno della terra sussistono temperature ben superiori al cosiddetto punto di Curie delle principali sostanze ferromagnetiche (Ferro 768 °C, Magnetite Fe3O4 525°C, Nichel 358°C), oltre il quale nessun materiale è in grado di rimanere magnetizzato. Il campo geomagnetico fu descritto per la prima volta in termini matematici da Gauss nel 1839. Secondo tale modello il campo viene espresso come somma di una serie di componenti diverse, di cui la componente dipolare è la più intensa. L'asse di tale dipolo, detto asse geomagnetico, è inclinato di 11,5° rispetto all'asse di rotazione ed incontra quindi la superficie terrestre in corrispondenza dei poli geomagnetici N (78,5° N 69° W) e S (78,5° S 111° E).
I poli magnetici reali non corrispondono a quelli teorici (a causa dell'influsso delle componenti non dipolari) e cambiano di posizione nel corso degli anni.
Il campo geomagnetico in ogni punto della superficie terrestre viene descritto tramite tre parametri (elementi magnetici):
la declinazione magnetica, pari all'angolo tra la direzione del nord geografico e la direzione del nord magnetico;
l'inclinazione magnetica, pari all'angolo che un ago magnetico libero di ruotare sul piano verticale forma con la superficie terrestre;
L'intensità del campo misurata in gauss o in Tesla (in effetti ciò che viene misurato non è l'intensità H, ma l'induzione B. L'intensità del campo si misura infatti in oersted o in A m-1)).
Gli studi finora compiuti hanno dimostrato delle variazioni secolari di tutti e tre questi parametri. Ad esempio l'intensità media del campo, che attualmente è di circa 0,5 gauss, sembra diminuire regolarmente del 5% circa al secolo. Oggi non esiste ancora una teoria organica in grado di spiegare in modo completo l'origine e la natura del campo magnetico terrestre. Scartata, per i motivi già visti, l'ipotesi dell'esistenza di una barra magnetica all'interno della terra, i geofisici ritengono che vi siano buone probabilità di costruire una teoria soddisfacente a partire dall'ipotesi della dinamo ad autoeccitazione.
Il principio di funzionamento di una dinamo è basato sul fatto che se un conduttore di corrente viene mosso in un campo magnetico, si produrrà in esso una corrente elettrica per induzione. Ora, se supponiamo che la terra contenga al suo interno del materiale conduttore in movimento (e ciò è perfettamente compatibile con l'esistenza di un nucleo metallico allo stato fuso) e che originariamente si sia trovata immersa in un campo magnetico esterno, ad esempio quello solare, è allora possibile che al suo interno si sia generata una corrente elettrica indotta. Ma una corrente che si muove in un conduttore produce a sua volta un campo magnetico. In tal modo si può pensare che la corrente indotta nel nucleo terrestre in movimento da un campo magnetico esterno abbia poi prodotto il campo magnetico terrestre. A sua volta il campo magnetico terrestre può continuare ad alimentare la corrente indotta all'interno del materiale conduttore che si trova nel nucleo, se questo si mantiene in movimento, finendo in tal modo per mantenere costantemente attivo il campo magnetico stesso.
E' abbastanza semplice immaginare che i movimenti nel materiale del nucleo, necessari per autoalimentare la dinamo interna alla terra, si producano grazie a movimenti convettivi nel nucleo esterno fuso. Più difficile è spiegare come il campo magnetico dipolare abbia potuto nel passato invertire bruscamente la sua polarità.
Molte informazioni sul comportamento del campo magnetico terrestre in epoche geologiche ci provengono dalla scoperta del magnetismo fossile o paleomagnetismo.
5) Paleomagnetismo
Viene definito paleomagnetismo il fenomeno per il quale alcune rocce sono in grado di registrare al loro interno la direzione che aveva il campo magnetico al momento della loro formazione. Ciò dipende dalla presenza in tali rocce di minerali magnetizzabili, come ad esempio la magnetite.
Il fenomeno riveste particolare importanza per le rocce ignee. Quando infatti la temperatura di un magma scende al di sotto del punto di Curie, i minerali magnetizzabili si orientano secondo la direzione delle linee di forza del campo magnetico esistente in quel momento (magnetizzazione termorimanente). E' possibile anche un'altra forma di magnetizzazione residua, che riguarda le rocce clastiche quando al loro interno si depositano particelle di minerali magnetizzati (magnetizzazione detritica rimanente). Lo studio dei dati paleomagnetici effettuati su rocce di tutto il mondo ha permesso di ottenere fondamentali risultati per quel che riguarda il comportamento del campo magnetico nel passato, evidenziando fenomeni di migrazione dei poli e addirittura repentine inversioni del campo magnetico stesso.
I dati sperimentali più spettacolari che dimostrano in modo inequivocabile le ripetute inversioni del campo magnetico terrestre sono stati ottenuti ai lati delle dorsali medio oceaniche. Infatti man mano che le lave basaltiche vengono eruttate dalle dorsali si magnetizzano secondo la direzione del campo magnetico. I geofisici hanno così scoperto che ai lati delle dorsali esistono fasce simmetriche, disposte parallelamente a destra e a sinistra della dorsale, a polarità alterna.
Tali inversioni avvengono all'incirca ogni 500.000 - 600.000 anni, senza che per ora si riesca a trovare una spiegazione soddisfacente del fenomeno.
La scoperta dell'esistenza di bande magnetizzate in senso opposto ai lati delle dorsali ebbe comunque importanti ripercussioni, in quanto costituiva una prova importante a favore della teoria di Hess (1962) dell'espansione dei fondali oceanici. E, come avremo modo di vedere, tale teoria è uno dei pilastri sui quali poggia la moderna teoria globale della tettonica a zolle.
I dati paleomagnetici portarono importanti conferme anche alla teoria della deriva dei continenti, una teoria geodinamica che ha in qualche modo aperto la strada alle ipotesi della tettonica a zolle. Le indagini paleomagnetiche eseguite su rocce coeve (aventi la stessa età) di continenti diversi, hanno infatti evidenziato l'esistenza di registrazioni del paleonord magnetico discordanti, come se per ciascun continente a quel tempo esistesse un nord diverso. Il dato era chiaramente assurdo e l'unico modo per venirne a capo era di ammettere che i continenti nel frattempo si erano mossi rispetto alla posizione che avevano al momento in cui le rocce avevano registrato la direzione del campo magnetico. Analisi di questo tipo hanno addirittura permesso di ricostruire molti dei movimenti compiuti dai continenti, confermando sostanzialmente la teoria della loro deriva.
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