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L'ORGANIZZAZIONE TECNICA DELLO SPAZIO: L'UOMO COSTRUISCE IL SUO AMBIENTE
Nel passare ad analizzare il modo in cui la società giapponese crea un suo ordine antropocentrico e lo articola nel territorio, dobbiamo tener presente quella costante tendenza a privilegiare il campo, il contesto, la giustapposizione, rispetto all'articolazione, alla sequenza predicativa.
L'architettura giapponese disdegna gli ordini geometrici e la prospettiva: anzi, addirittura la combatte. Questa tendenza giapponese all'asimmetria si manifesta chiaramente nell'evoluzione della pianta degli edifici religiosi. Quando fu importato dal continente il buddismo in Giappone, le tò o pagode, derivate dagli stupa indiani, venivano costruite su di una pianta perfettamente simmetrica, in larghezza come in profondità. In seguito, questa simmetria cominciò a disfarsi a poco a poco, iniziando dalla profondità: il sito della statua indietreggiò verso il fondo, lasciando una simmetria nel solo senso della larghezza in facciata. Così anche la disposizione degli edifici all'interno dei recinti dei monasteri: l'ordine geometrico dello stile garan, importato dalla Cina, si modificò gradualmente. Questo apparente disordine non vale soltanto per il costruito o per l'aspetto urbanistico, ma anche per la rappresentazione grafica.
Le antiche carte topografiche giapponesi ci sorprendono in effetti per la molteplicità degli orientamenti secondo i quali sono state disegnate. Per leggere queste carte, bisogna girarle più volte, se sono piccole, oppure girare loro intorno se sono grandi poiché sono concepite in modo tale da essere guardate contemporaneamente da più persone, situate in punti diversi. Un'altra caratteristica delle mappe giapponesi è la loro struttura cellulare, che sembra chiaramente illustrare e dimostrare l'importanza accordata alle aree in rapporto alle linee. Allo stesso modo, la cartografia così come l'architettura e l'urbanistica, tende a rifiutare i riferimenti pre-determinati, le articolazioni lineari, le prospettive d'insieme.
Lo spazio viene concepito così come appare nei diversi momenti in cui se ne fa l'esperienza (osservazione fondamentale nella cultura giapponese). Le rare prospettive di Tokyo prendono come riferimento un punto non in un ordine cosmico (come Pechino) o umano (come Versailles) ma nel paesaggio naturale: è il caso di quelle vie orientate verso il monte Fujiyama, dette Fujimi (guardanti il Fuji), o il monte Tsukuba. Caratteristiche analoghe si ritrovano nel sistema degli indirizzi: quello che si indica non è il nome della strada né il numero civico, ma il nome del quartiere (machi), seguito da tre numeri che si riferiscono rispettivamente alla sezione del quartiere, all'isolato ed alla parcella. I due ultimi numeri non corrispondono a un ordine logico ma a un ordine pratico, quello in cui il terreno è stato edificato. Appaiono dunque totalmente senza ordine all'occhio dell'osservatore occidentale, creando in lui un notevole disagio nell'orientamento. Alla base di ciò sta il fatto che la logica non è qui quella dell'osservatore, come nelle nostre città, ma quella dell'abitante: il nome, così come il numero, si rapporta ai luoghi abitati, nell'ordine in cui essi sono stati abitati; la città ricambia l'amore dimostrato dai suoi abitanti.
Le vie di queste città non hanno nome. Certo, c'è un indirizzo scritto, ma non ha che un valore postale, si riferisce ad un catasto (per quartieri e per blocchi, assolutamente non geometrici), la cui conoscenza è accessibile al postino ma non al visitatore: la più grande città del mondo è praticamente inclassificata, gli spazi che la compongono nei dettagli sono innominati. Questo annullamento domiciliare sembra scomodo a chi (come noi) è abituato a stabilire che la cosa più pratica è sempre la più razionale. Tokyo ci ripete invece che il razionale non è che un sistema tra altri. Perché ci sia padronanza del reale è sufficiente che ci sia un sistema, anche se questo sistema è apparentemente illogico, inutilmente complicato. Si può indicare l'indirizzo con uno schema di orientamento (disegnato o stampato), sorta di rilevamento geografico che situa il domicilio a partire da un punto di riferimento conosciuto, una stazione, per esempio: gli abitanti eccellono in questi disegni improvvisati, in cui si vede prendere forma, su un foglietto di carta, una strada, un edificio, un canale, una ferrovia, un'insegna, disegni che rendono lo scambio di indirizzi una comunicazione gentile, in cui riprende spazio la vita del corpo, l'arte del gesto grafico. Tokyo, come le altre città giapponesi, non può essere conosciuta che grazie ad un'attività di tipo etnografico: bisogna orientarsi non con il libro, l'indirizzo, ma con lo stesso camminare dei piedi, con la vista, l'abitudine, l'esperienza: ogni scoperta è insieme intensa e fragile, non potrà essere ritrovata che grazie al ricordo di quella traccia che ha lasciato in noi: visitare un posto per la prima volta è, in questo modo, cominciare a scriverlo.
Nella stragrande maggioranza dei casi è l'ordine dell'abitare, come parte della collettività, che si impone in Giappone. Vi sono, naturalmente, le dovute eccezioni, come ad esempio il tentativo americano, destinato al fallimento, di introdurre un sistema di nominazione delle vie di Tokyo, durante l'occupazione del paese seguita alla disfatta del 1945. È anche, in una certa misura, il caso di Sapporo, città nuova nell'isola di Hokkaido, dove lo Stato Meiji impose il proprio ordine in uno spazio vergine. Qui l'indirizzo è definito fondamentalmente dalle strade ortogonali. L'esempio di Kyoto è ancora più significativo: lo Stato antico, seguendo il modello cinese (Chang-an), aveva pianificato la città secondo un sistema catastrale fondato su una griglia di vie ortogonali e formate da sei livelli. La machi (quartiere) era qui definita dalle quattro strade che la costeggiavano, formando un quadrato di 120 metri di lato. Il pianificatore aveva preceduto l'abitante: questi isolati si popoleranno poi lungo le strade. Lo spazio era, dunque, totalmente determinato dall'ordine lineare e sovra-locale della rete viaria. Più tardi, i toponimi resteranno quelli dei quartieri, le strade, tori, prenderanno il nome del quartiere che attraversano: per esempio tera-machi Dori, strada del quartiere dei monasteri (tera). Il capovolgimento ha dunque finito per annettersi la strada e definirne il ruolo.
Se poi diamo uno sguardo alle altre civiltà, sembra che tutte abbiano fatto ricorso ad una monumentalità che, nella città giapponese, appare invece scarsa. Prendiamo ad esempio le piccole città in Italia o in Spagna, dove ogni chiesa è visibile dappertutto e costituisce anche dai dintorni un riferimento fondamentale per il viandante; oppure le città arabe, come Marrakech, dove la Koutoubia si innalza proprio nel nodo dei percorsi, la piazza Jemaa el Fna; oppure ancora Pechino, con l'enorme piazza Tien an Men, che guarda il margine della Città Proibita. A Tokyo, invece, il palazzo imperiale (Kokyo) si nasconde così bene che è possibile dire che questa città non ha centro. Così anche a Kyoto, dove i palazzi, i monasteri, le ville, sono nascosti da una folta vegetazione e circondati da un recinto. Le opere architettoniche qui non avevano il compito di ricordare alla collettività la propria esistenza, ma, al contrario, la loro funzione era quella di distaccarsene per meglio praticare il culto, nella tranquillità della natura. Ecco perché i principali monumenti di Kyoto non si trovano in città, ma nell'immediata periferia, mentre innumerevoli monasteri sono installati sulle montagne vicine, in piena solitudine.
La festa giapponese, per esempio, non si tiene in una piazza: essa ha luogo sia nel recinto di un tempio buddista (tera) o shintoista (jinja), che nella strada, nel qual caso essa è in movimento: l'immagine della festa in città, infatti, è quasi sempre quella di una processione. La strada, in un certo senso, viene fatta propria dell'abitare, che opera una vera e propria annessione, segnalata da una serie di comportamenti: gli abitanti che vi si affacciano la spazzano, la decorano con vasi di fiori, le bancarelle vi avanzano, i bambini vi giocano, vi si cammina spesso più per il semplice piacere di passeggiare che per viaggiare (l'assenza di marciapiedi è a testimonianza che la strada è il resto dei pedoni), vi si trascorrono le sere d'estate per giocarvi al go bevendo la birra con gli altri vicini, vi si passeggia infine in yukata (il kimono estivo indossato dopo il bagno della sera) per prendere il fresco. Lo spazio domestico sconfina dunque ampiamente nella strada, se ne appropria.
Le relazioni sociali locali, sembrano avere un particolare importanza in Giappone, se paragonati a quei paesi, come la Cina o la Corea, dove pure i legami di sangue giocano un ruolo preponderante, oppure all'Occidente moderno, dove i legami di associazione come le organizzazioni a scopo determinato hanno occupato un posto d'importanza sempre maggiore. L'importanza di questi legami di 'suolo' nella società giapponese contemporanea si traduce in modo evidente nella sorprendente vitalità della comunità di quartiere, le chonaikai. Grosso modo esse corrispondono a livello urbanistico ad un quartiere, raggruppano in media trecento famiglie e posso arrivare a contarne diecimila nei grandi agglomerati urbani. Secondo tratto fondamentale delle chonaikai è che i loro membri non sono degli individui ma dei nuclei famigliari. Da questo ne segue un'altra caratteristica fondamentale: la partecipazione alle chokainai non è volontaria, ma va da sé, è naturale ed attesa. Queste associazioni di quartiere, come potremmo chiamarle noi, sono polifunzionali: esse si occupano più o meno di tutto ciò che ne concerne la vita locale, dalle feste per il kami tutelare alla colletta delle tasse, dall'aiuto alle vedove e agli orfani fino alle petizioni davanti ai sindaci o ai ministri, dalla raccolta delle immondizie alle pressioni elettorali. In quanto istituzioni locale, la chonaikai vigila, quindi, sul buon funzionamento della comunità, proteggendo la vita quotidiana dei suoi abitanti e l'ambiente stesso.
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