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Eutanasia. I termini della questione




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Eutanasia. I termini della questione



Di eutanasia si torna a parlare ciclicamente, quando giornali e Tv rilanciano gli echi di un  dibattito etico e giuridico che ogni tanto emerge prepotentemente. Il termine stesso, eutanasia, ha un significato tutto sommato ambiguo, generico, intorno al quale non esiste unanimità di interpretazioni. E' certo, però, che quando si parla di eutanasia si intende svolgere una riflessione intorno ad alcune domande cruciali. Ne ricordiamo alcune, senza la pretesa di un'elencazione esaustiva: vivere è solo un diritto o anche un dovere? Se l'uomo può disporre liberamente della propria vita, perché allora non potrebbe decidere in maniera autonoma anche il momento della propria morte? Che cosa significa morire con dignità? Qual è il dovere di un medico di fronte a una richiesta di morte? E il legislatore, quali decisioni deve assumere rispetto a questi interrogativi?

Domande impegnative, che ovviamente sollecitano competenze ed esperienze articolate, di tipo medico-sanitario, ma anche etiche, giuridiche, psicologiche, antropologiche. Insomma: un classico quesito del panorama contemporaneo che occupa un posto di assoluto rilievo tra le questioni che interrogano la bioetica.

L'eutanasia non è un fenomeno nuovo della nostra società, dal momento che questa pratica è conosciuta anche da alcune fra le più significative civiltà del passato; d'altra parte, l'idea di ammettere moralmente e giuridicamente che un uomo possa chiedere ad un altro uomo di essere soppresso non è mai stata accettata acriticamente, ma ha sempre suscitato obiezioni, critiche, condanne, reazioni. Oggi, il tema si riveste di sfumature e implicazioni nuove, legate da un lato al verificarsi nella nostra cultura di un cambiamento radicale nel rapporto con la morte, e dall'altro connesse agli sviluppi delle tecniche di rianimazione e di assistenza artificiale dei malati gravi. Fattori nuovi che indubbiamente esaltano anche le componenti esistenziali ed emotive del fenomeno, rendendo più difficile il ruolo degli esperti di bioetica, chiamati a fornire una giustificazione razionale delle proprie conclusioni in materia di eutanasia.





Un parere:


Una premessa


Prima di accostarsi al tema dell'eutanasia e dell'etica di fine vita credo sia necessario un doveroso atto d'umiltà: la sofferenza è sofferenza, e come ha detto Giovanni Paolo II essa rimane un "mistero intangibile"[1], un carico così pesante di dolore e di prostrazione che talvolta può addirittura spingere ad invocare su di sé la morte. Mi piace introdurre questo tema pensando all'umile gesto di Mosé, che davanti al roveto ardente si toglie i sandali e si vela il viso al cospetto della santità divina (Es, 3, 5-6). Accostarsi al capezzale di un morente significa davvero entrare in un "luogo santo", dove il turbine emotivamente scosso dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti esige innanzitutto di farsi ascolto e preghiera.

D'altra parte, nell'affrontare una qualsiasi tematica eticamente sensibile, non bisogna esagerare nel "problematicismo" fine a se stesso, come se il carico emotivo preponderante ci rendesse d'improvviso muti e privi di qualsiasi argine razionale.

In realtà, anche nell'affrontare il delicato tema dell'etica di fine vita, pur facendoci accompagnare dal "basso continuo" delle nostre emozioni, che non smettono di dichiararci rispetto e delicatezza, non ci si può esimere da un esercizio critico della nostra ragione, da un vaglio lucido degli argomenti che ci permettono di non dimenticare l'arte di discernere il bene dal male.

Convinti come siamo che nell'esercizio della ragione risplenda l'aspetto più nobile dell'essere umano, non rinunciamo ad intraprendere il faticoso cammino del concetto, e a fissare qualche appunto che ci auguriamo possa aprire uno spiraglio di luce sulla via della riflessione.


Alcune distinzioni concettuali


Nell'affrontare un qualsiasi tema di carattere filosofico e bioetico è buona norma partire da una chiarificazione linguistica e concettuale dei termini in questione, per cercare di evitare fraintendimenti ed incomprensioni preliminari; lo stesso metodo sembra imporsi nel campo dell'etica di fine vita, dove una certa confusione linguistica, dovuta anche a ragioni di incrostazioni ideologiche,  regna sovrana.

Sarà pertanto utile partire da una chiara definizione di eutanasia[2]: "Per eutanasia s'intende un'azione o un'omissione che di sua natura, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore" .

La distinzione tra "eutanasia attiva" e "eutanasia passiva" risulta pertanto inutile e fuorviante; ogniqualvolta ci sia l'intenzione diretta di uccidere una malato, mediante un'azione o un'omissione (per es. sottrazione di cibo o una volontaria mancata rianimazione) si profila un gesto eutanasico.

Il giudizio morale su questo atto è chiaro: è sempre gravemente illecito uccidere una persona innocente, anche se lo desidera.

Si parla a questo proposito di "indisponibilità'", "intangibilità" della vita umana: la vita umana è il bene fondamentale, quello che sorregge tutti gli altri diritti, e per questo non può essere "messa a disposizione", non può essere violata a piacimento né da se stessi né da altri.

Dall'eutanasia va invece distinto il concetto di morte con dignità: se con tale espressione si intende il desiderio di essere accompagnati nel momento finale della vita con serenità e affetto, senza dolori insopportabili, grazie anche ai relativi analgesici,  il diritto ad una morte degna è non solo lecito ma anche da tutelare.


Altra cosa è l'accanimento terapeutico: con tale espressione si intende l'uso sproporzionato dei mezzi terapeutici rispetto alle condizioni e alle aspettative di guarigione del paziente. E' questa una valutazione che deve essere fatta su un piano prettamente medico-scientifico, qualora si profilasse un tipo di terapia eccessivamente gravosa e costosa, inutile rispetto alle aspettative di vita del paziente (es. la rianimazione di pazienti agonizzanti o in morte encefalica): in questi casi più che un beneficio le terapie sortirebbero l'effetto di un peggioramento delle condizioni del paziente[4].

Il giudizio morale sull' accanimento terapeutico è ugualmente chiaro: non solo è da evitare, ma è gravemente illecito, perché non conforme con la dignità dell'essere umano giunto alla sera della vita.

In realtà, a ben vedere, eutanasia e accanimento terapeutico rispondono ad una stessa logica: l'idea cioè dell' "onnipotenza" dell'uomo, il quale, con l'aiuto della scienza e della tecnica, si sente padrone della vita umana, anticipando il tempo della morte o ritardandola a suo piacimento.


Tra eutanasia e accanimento terapeutico si profila una "terza via", sempre lecita e auspicabile, che può essere definita accompagnamento al morente. Con tale espressione si intende l'assistenze al paziente terminale tramite le cure ordinarie, che sono sempre doverose (per es. alimentazione, idratazione, detersione delle ferite.), tramite eventuale terapia del dolore e tramite quell'assistenza familiare, psicologica e spirituale di cui necessita il malato per accettare serenamente gli ultimi momenti della sua vita. E' statisticamente provato che quando il paziente si sente inserito in una trama di relazioni significative e umanizzanti col medico e coi familiari, la domanda eutanasica tende pressoché allo zero[5].

Va ricordato a questo proposito che la medicina non sempre può guarire ma sempre può curare (cioè "prendersi cura" del paziente). In questo senso anche l'alimentazione e l'idratazione artificiali sono da intendere come mezzi ordinari e pertanto sempre doverosi: non si tratta infatti di "terapie" in senso proprio ma di semplici aiuti al sostentamento vitale, simili in questo al gesto di allattare un bimbo al seno o di imboccarlo col cucchiaio (non si può certo parlare di "accanimento" in questi casi).


In tale ottica dell'accompagnamento al morente, qualora non vi siano altri mezzi per alleviare il dolore, è sempre lecito l'uso degli analgesici, anche di quelli che, come la morfina, possono abbreviare la vita del paziente[6].

In questo caso infatti non si tratta di eutanasia, perché l'intenzione non è quella di uccidere l'ammalato ma quella di lenire il suo dolore.

Tecnicamente questo atto si giustifica tramite il principio del duplice effetto[7]: quando non ci siano vie alternative e l'intenzione sia buona, è lecito compiere un atto che porta ad un effetto buono (sedare il dolore) anche se inestricabilmente legato ad un effetto negativo (accorciare la vita del paziente), il quale non viene inteso, ma semplicemente "permesso", "tollerato".

Allo stesso modo, in mancanza di vie alternative, è lecito ricorrere ad analgesici che tolgono al paziente l'uso della coscienza, purché gli sia stato dato il tempo di adempiere i suoi obblighi civili e religiosi.


Ragioni a difesa dell'eutanasia: esposizione e critiche


In ambito utilitarista, i difensori dell'eutanasia si appellano al cosiddetto principio della qualità della vita (PQV): in base a questo principio sovente si fa una distinzione tra "vita umana", in senso puramente biologico, e "vita personale", intesa come vita di relazione. In questo modo si opera un'indebita distinzione tra essere umano e persona, sostenendo che non tutti gli esseri umani sono persone: chi non è in possesso di determinati requisiti (autonomia, autocoscienza, razionalità, capacità di relazione.) sarebbe un essere umano in senso biologico ma non una persona.

Ben nota è a questo riguardo la posizione di Engelhardt: "Non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. [] Tali entità sono membri della specie umana ma non hanno status , in sé e per sé, nella comunità morale"[8].

Tornando al nostro argomento, in tale prospettiva un paziente in stato vegetativo persistente, un malato terminale privo di coscienza non sarebbero persone in senso pieno, e quindi praticare un gesto eutanasico su di loro non significherebbe praticare un omicidio ma compiere un gesto di pietà.

Di fronte a queste aberranti teorie - purtroppo non così infrequenti anche nel sentire comune - bisogna ribadire che "unico è l'atto esistenziale e personale che sostiene nell'uomo la vita vegetativa, sensitiva e relazionale".[9]

Ogni essere umano è persona - con tutto il carico di rispetto e di dignità che questo termine comporta - per il semplice fatto che c'è, che esiste, non perché manifesti determinati funzioni o qualità. La mia vita ha un valore intangibile non in quanto sono bello, intelligente, razionale e accettato dagli altri, ma è esattamente il contrario: la mia vita personale, con l'eventuale carico di bellezza, intelligenza, razionalità  ha valore semplicemente perché sono un essere umano[10].


Sempre in ambito utilitarista, appellandosi al PQV, alcuni autori sostengono che di fronte a certi malati terminali privi di coscienza si possa pronunciare un giudizio oggettivo, su basi medico - scientifiche,  sulla mancanza di "qualità di vita" dei pazienti, i quali non raggiungerebbero gli standard necessari per raggiungere la qualifica di "vita personale": in tali casi sarebbe lecito anche il ricorso all' eutanasia non volontaria[11], perché si ritiene che gli stessi pazienti, se fossero coscienti, non riterrebbero "degna di essere vissuta" una vita nelle loro condizioni.

A questo proposito bisogna ricordare che la prima formulazione del concetto di "vita indegna" la si deve ad un'opera scritta nel 1920 da due eminenti professori tedeschi, il giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche, intitolata proprio Il permesso di annientare vita indegna di vita, dove tra gli altri vengono identificati come indegni di vivere i malati incurabili, i malati di mente, i bambini ritardati o deformi. Circa vent'anni dopo la Germania di Hitler, guidata dall'ideologia nazista, mise in pratica queste idee con due sistematici programmi di uccisioni, una rivolta ai bambini e una agli adulti. Quest'ultimo programma, denominato T4, portò all'uccisione diretta di circa 70000 tra il dicembre 1939 e l'agosto 1941[12].

Questo accostamento tra i moderni sostenitori dell'eutanasia e l'ideologia nazista non scandalizzi[13] e non sembri così ingiustificato e irrispettoso. Le uccisioni mediche pianificate vennero giustificate dal nazismo con due argomenti: il primo faceva riferimento all'idea di "razza pura", verso il quale giustamente tutta la sensibilità moderna inorridisce, ma il secondo si basava sul quel concetto di Lebensunwertes Leben ("vita indegna di vita"), che continua a sopravvivere anche oggi nei fautori dell'EQV.


In ambito filosofico liberale, invece, i sostenitori dell'eutanasia si basano esclusivamente sul principio di autonomia o autodeterminazione: ciascuno sarebbe padrone del proprio corpo e libero di seguire le proprie autonome decisioni senza nessuna interferenza da parte degli altri individui e dello Stato, riconoscendo come unico limite la possibilità per ciascun altro di esercitare lo stesso diritto.[14]

Su questa base alcuni non accettano l'eutanasia non volontaria ma approvano l'eutanasia volontaria, sostenendo che ciò che conta è il libero consenso da parte del paziente, la cui volontà non può essere ostacolata[15].

Questa soluzione porta però con sé almeno due gravi problemi: in primo luogo ci si può chiedere quanto una tale decisione debba essere vincolante per il medico. Quest'ultimo dovrà essere ridotto ad essere un mero esecutore delle volontà eutanasiche del paziente o può avere un margine di scelta nel valutare, discutere, sconsigliare la volontà del suo paziente?

In secondo luogo: può essere davvero sempre giudicata attendibile la richiesta di morte da parte di un ammalato grave, o questa non risulterà piuttosto condizionata da una condizione di disagio psicologico e relazionale?

Mi spiego con un esempio[16]. Un nostro amico, in un momento particolarmente doloroso della sua vita, in cui crede di non avere possibilità di uscita, esce con una frase di questo tipo: "Non ce la faccio proprio più: meglio farla finita una volta per tutte!". Difficilmente la nostra risposta potrà essere del tipo: "Hai ragione, meglio per te farla finita. Se vuoi ti do una mano". Piuttosto è presumibile - e auspicabile - che la nostra reazione sarà quella di comprendere la ragione di un tale stato d'animo, di entrare con discrezione nella vita dell'amico:  "Perché mi chiedi questo? Che cosa ti rende veramente così disperato?".

Come già detto, la domanda di eutanasia il più delle volte non proviene da chi prova dolori fisici insopportabili[17] (oggi in gran parte controllabili grazie alle cure palliative) ma da situazioni di disagio psicologico ed esistenziale, talvolta causati anche dall'abbandono di chi sarebbe disponibile ad assecondare un'intempestiva richiesta eutanasica.


Legalizzare l'eutanasia?


Si potrebbe obiettare che il rifiuto dell'eutanasia è un semplice fatto di coscienza, ma lo Stato avrebbe comunque il dovere di legalizzare la "dolce morte" per chi eventualmente la volesse praticare.

In realtà la legalizzazione dell'eutanasia non può essere ridotta ad una questione di coscienza privata, ma ha una rilevanza eminentemente pubblica e sociale.

La legalizzazione permette infatti di dare la possibilità ad una persona diversa dal sofferente - un medico, un infermiere, un funzionario dello Stato. - di provocare la morte di un altro.

L'arte medica, il tacito rapporto medico - paziente ne uscirebbe così profondamente sconvolto: l'uomo in camice bianco che ho davanti non è più colui che, nei limiti umani, cura il paziente, ma diventa uno che, a certe condizioni, dà volontariamente e consapevolmente la morte.

Inoltre, gli esperti di bioetica parlano del pericolo del "pendio scivoloso" (slippery slope): una volta superato un principio etico assoluto ("non uccidere") anche se solo per poco ("col consenso del paziente adulto", ecc.) si rischia di imboccare un pendio scivoloso che spinge sempre più in basso. E' esattamente quel che è successo in Olanda dove, una volta legalizzata l'eutanasia su richiesta, dopo qualche anno si è giunti a permettere, nella clinica universitaria della città di Groningen, l'eutanasia per i bambini al di sotto dei 12 anni, compresa l'eutanasia neonatale (evidentemente senza il consenso dei pazienti).


Il contesto culturale: la rimozione della morte e del dolore


Mentre ci avviamo verso la conclusione, è doveroso ricollocare il problema dell'eutanasia nell'attuale contesto culturale, profondamente segnato dalla rimozione della morte dell'essere umano e dal rifiuto di dare ad essa un possibile significato: "La morte è diventata un tabù, una cosa innominabile [.]. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente [.]. Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell'amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori"[18]

Probabilmente il rifiuto di guardare con serenità alla morte dell'essere umano deriva dal rifiuto di dare un qualsivoglia significato all'esperienza del dolore; la cultura contemporanea, in effetti, sembra aver fatto proprio il dogma laico secondo cui la sofferenza "toglie ogni possibile dignità"[19].

Ma chiediamoci: è proprio vero che la sofferenza ha il potere di disintegrare, di annullare la dignità della vita di una persona? Certo la sofferenza è sofferenza, in sé è un male da debellare o lenire, ma questo non significa che il dolore annulli o diminuisca la dignità della vita della persona.

Anzi, alla "scuola della sofferenza" c'è chi ha appreso tanto, a rivedere ciò che davvero conta nella vita e a riscoprire il senso del limite che caratterizza l'essere umano. Imponendoci di vivere un rapporto di dipendenza radicale, di bisogno vitale dell'altro, la sofferenza ci costringe a riscoprire in qualche modo l'umiltà dei bambini, a non vergognarci dell'aiuto degli altri: "In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Matteo 18, 3).


La prospettiva cristiana


Il senso del dolore, pur rimanendo in se stesso un mistero, è stato enormemente illuminato ed elevato all'interno dell'orizzonte cristiano[20]. In questa prospettiva, infatti, il Figlio di Dio non solo si è mostrato instancabile consolatore e guaritore verso tutti i malati e i sofferenti, ma ha voluto Egli stesso condividere fino in fondo l'umana sofferenza, offrendo liberamente, con la Sua dolorosa passione e morte, la salvezza per ogni uomo. In questo "folle" gesto d'amore, Cristo ha liberato l'uomo dal male ultimo e dalla sofferenza definitiva, ossia la perdita della vita eterna, la separazione da Dio, effetto del peccato delle origini. In questo modo nella Divina Persona di Cristo la sofferenza assume un inedito significato redentivo e salvifico, che si è pienamente dispiegato con la Sua Risurrezione, segno definitivo della vittoria sulla morte e sul male.

All'interno di questo Mistero di salvezza, il cristiano è chiamato a compartecipare alla Passione di Cristo, il suo dolore è trasfigurato e nobilitato se offerto e unito alla sua Croce; in questo senso vanno intese le celebri parole di S. Paolo: "completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Col. 1, 24).

La sofferenza umana, se vissuta in comunione con la Croce di Cristo, può davvero trasfigurarsi in esperienza arricchente e colma di significato, come quella vissuta dal grande poeta francese Paul Clodel, che ormai vecchio e malandato, incontrando gli universitari parigini diceva: "Io sono un rudere d'uomo, non so parlare più, non ci vedo più, non ci sento più, non cammino più. Però, nonostante la paralisi, riesco ancora a fare una cosa che mi dà l'idea di essere uomo: riesco ancora a mettermi in ginocchio".






Altro parere:




Premessa


Il dibattito sull'eutanasia e il suicidio assistito si è notevolmente ampliato negli ultimi anni interessando sempre più da vicino tanto il grande pubblico quanto le categorie coinvolte nella cura dei malati inguaribili.

Il presente documento intende approfondire questa delicata materia. Il primo capitolo contiene la spiegazione dei termini impiegati nel dibattito e precisa il loro significato. Successivamente il documento espone lo stato del dibattito. In terzo luogo esso passa in rassegna le situazioni cliniche nelle quali il problema si pone. Il quarto capitolo discute alcuni orientamenti e proposte e l'ultimo capitolo infine esamina più da vicino gli aspetti di ordine etico e pastorale emersi nei punti precedenti.

Due sono le argomentazioni di maggior rilievo: la prima si appella al rispetto per l'autonomia del paziente (numeri 2.8 e 5.6); la seconda estende il concetto di cura fino a includervi l'aiuto offerto a chi intende morire dignitosamente (numeri 4.3 e 5.4).


1 - Definizioni


1.1 L'eutanasia può essere definita in senso lato come qualsiasi atto compiuto da medici o da altri, avente come fine quello di accelerare o di causare la morte di una persona. Questo atto si propone di porre termine a una situazione di sofferenza tanto fisica quanto psichica che il malato, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli interessi, ritengono non più tollerabile, senza possibilità che un atto medico possa, anche temporaneamente, offrire sollievo.

1.2 L'eutanasia attiva consiste nel determinare o nell'accelerare la morte mediante il diretto intervento del medico, utilizzando farmaci letali (ad esempio un barbiturico ad azione rapida che induce il coma e una dose elevata di cloruro di potassio, che determina l'arresto cardiaco). Questo è il significato che attribuiremo al termine eutanasia nel proseguimento della discussione.

1.3 Il suicidio assistito indica invece l'atto mediante il quale un malato si procura una rapida morte grazie all'assistenza del medico: questi prescrive i farmaci necessari al suicidio (si tratta in genere di barbiturici o di altri forti sedativi o ipnotici) su esplicita richiesta del suo paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso viene a mancare l'atto diretto del medico che somministra in vena i farmaci al malato.

1.4 Il termine eutanasia passiva viene invece utilizzato per indicare la morte del malato determinata, o meglio accelerata, dall'astensione del medico dal compiere degli interventi che potrebbero prolungare la vita stessa: un esempio potrebbe essere rappresentato dall'astensione dal trattare con terapia antibiotica un malato di demenza di Alzheimer, oppure un neonato gravemente deforme, con breve aspettativa di vita, colpito da polmonite. In realtà, sarebbe opportuno non utilizzare il termine eutanasia in tal senso; è invece preferibile in questo caso parlare di astensione terapeutica.

1.5 In altri casi i medici devono ricorrere, per mantenere in vita una persona, all'impiego di apparecchi meccanici oppure alla nutrizione totale mediante sonda o fleboclisi o ad entrambi i mezzi. Si definisce allora come sospensione delle cure la decisione di fermare questi interventi, con il risultato della morte dell'individuo, peraltro in tempi non sempre rapidi.

1.6 La morte può anche essere causata o accelerata dall'impiego in dosi massicce di farmaci, come ad esempio la morfina o i suoi derivati, somministrati allo scopo di alleviare sintomi quali il dolore o la dispnea. In questi casi la morte non è la conseguenza di un atto volontario del medico, ma piuttosto un effetto collaterale del trattamento.


2 - Stato del dibattito


2.1 In oncologia, l'argomento trova sempre più spesso spazio nelle riviste specializzate e nei congressi medici. Fra il 1991 e il 1996 è possibile identificare 296 citazioni sul suicidio assistito in riviste oncologiche, mentre nel decennio 1981-1990 le citazioni erano solo 21. Nel numero di febbraio 1997 del Journal of Clinical Oncology, organo ufficiale dell'American Society of Clinical Oncology, troviamo un editoriale e due articoli sul suicidio assistito. Questo dato è particolarmente interessante, specie se si aggiunge alla crescente frequenza con cui è possibile trovare tale argomento nei programmi dei più importanti congressi di oncologia, in quanto fino a pochi anni fa esso non trovava posto in sedi dove la discussione riguardava esclusivamente le procedure diagnostiche e i protocolli terapeutici delle malattie neoplastiche.

2.2 A questi dati occorre poi aggiungere quelli riguardanti altre malattie croniche, specialmente le patologie neurologiche come il morbo di Alzheimer e le gravi lesioni permanenti del sistema nervoso.

2.3 Si può in generale rilevare quindi un crescente interesse verso il termine della vita, focalizzato soprattutto sulla qualità del periodo terminale della vita e del morire.

2.4 Non c'è alcun dubbio sul fatto che si vada intensificando la percezione che le tecnologie mediche sempre più complicate e costose siano in grado di allungare la vita, ma non necessariamente di migliorarne la qualità.

2.5 È interessante rilevare come la discussione porti sempre in primo piano il ruolo del medico nel porre termine anticipatamente alla vita. Il problema quindi non è tanto se sia lecito o no troncare volontariamente la vita, ma se sia lecito che il medico assista il malato nel suicidio o procuri la morte con un atto deliberato. Ciò comporta un profondo mutamento nel ruolo del medico stesso, che si trasforma da chi agisce esclusivamente per tenere in vita il suo paziente il più a lungo possibile in chi svolge un ruolo attivo nel procurare la morte, quando non vi siano più possibilità di conservare al paziente una dignitosa qualità di vita. È questo aspetto del problema che sembra incontrare la più fiera opposizione negli ambienti medici.

2.6 D'altro canto, si rilevano prese di posizione contrarie all'eutanasia e al suicidio assistito fondate su argomenti giuridici, poiché la giurisprudenza in vigore nella maggior parte dei paesi considera tali atti come veri e propri omicidi; nella particolare situazione del suicidio assistito, mentre l'atto del suicidarsi non è mai considerato un reato, lo è invece il prestare aiuto, il facilitare il suicidio stesso.

2.7 Sul piano più strettamente etico, uno degli argomenti che ricorrono più spesso nelle argomentazioni contrarie all'eutanasia è certamente quello che si richiama alla 'sacralità' della vita: per un'etica religiosa essa è data all'uomo da un Creatore che è il solo a poterne disporre e non è lecito alla creatura intervenire attivamente per abbreviare anche di poco la sua durata. Solo Dio è padrone della vita e della morte. Ma anche un'etica non esplicitamente radicata nella religione fa talvolta riferimento all'intoccabilità della vita, implicitamente riconoscendole un valore sacro e in qualche modo 'soprannaturale'.

2.8 Contro queste argomentazioni si situa il diritto del malato di poter decidere di porre termine a un'esistenza divenuta intollerabile. Egli chiede perciò al medico di esercitare le sue conoscenze non più per mantenerlo in vita, ma per condurlo rapidamente e in maniera indolore alla morte.

2.9 In realtà, poiché molteplici e complesse sono le situazioni di fronte alle quali ci si trova, è necessario esaminare le condizioni nelle quali può sorgere la richiesta di eutanasia o di suicidio assistito.


3 - Situazioni cliniche


3.1 I malati di cancro sono le persone dalle quali più spesso può venire la richiesta di eutanasia o di assistenza al suicidio. Molti tumori maligni sono oggi suscettibili di essere trattati con diverse modalità terapeutiche: la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia, da sole o in combinazione, oppure in sequenza, sono in grado di prolungare notevolmente la vita dei malati di tumore, anche se il numero di quelli guaribili è ancora decisamente basso. Come conseguenza, nella maggior parte dei casi, questi malati vivono con la loro malattia per diversi anni, sottoponendosi a trattamenti rilevanti, che causano a loro volta disturbi (si pensi alle menomazioni prodotte da alcune chirurgie demolitive, oppure agli effetti collaterali della radioterapia e della chemioterapia). Nel momento in cui il tumore si diffonde progressivamente nell'organismo, esso determina l'insorgere di sintomi molto gravi: dolori spesso intensissimi, estrema debolezza, vomito, dispnea, paralisi e perdita di controllo degli sfinteri. Anche se le cure palliative correttamente impiegate sono in grado di controllare in parte questi sintomi, qualche volta il dolore o la dispnea sono tali che i farmaci a disposizione hanno solo degli effetti parziali. In questo stadio il paziente può considerare il suo stato intollerabile e richiedere al medico di intervenire per accelerare la morte.

3.2 La condizione dei malati di Aids è esemplificativa degli atteggiamenti possibili di fronte alla certezza della morte e alla previsione abbastanza precisa di quanto ci si può attendere nel resto della vita. Si tratta di persone consapevoli del fatto che la loro malattia può in certi casi essere prolungata per alcuni anni. Dopo un periodo anche abbastanza lungo di sieropositività, esse andranno soggette ad infezioni opportunistiche e a diverse forme di tumore maligno con effetti devastanti sulle condizioni di vita, fino alla fine.

3.3 La malattia di Alzheimer ha in genere un decorso di molti anni dal momento dell'esordio, caratterizzato da una perdita della memoria specie per i fatti recenti. Nell'evoluzione della malattia, le facoltà intellettuali si deteriorano progressivamente. Tuttavia, le persone colpite sono in grado di condurre, per tre o più anni, una vita relativamente piena. Solo negli stadi terminali si assiste a una totale incapacità di svolgere le funzioni vitali più elementari. È importante rilevare come in questo caso, come nelle forme più rare di demenza senile e presenile, non ci si trovi in pratica mai di fronte a un'esplicita richiesta di affrettare la morte. Piuttosto, è possibile che il medico debba decidere se ottemperare o meno ad un testamento biologico (living will) nel quale l'individuo abbia espresso in anticipo il desiderio di non essere curato per prolungare l'esistenza in una simile situazione.

3.4 In altre malattie neurologiche a decorso ingravescente, come la sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica, si assiste a una progressiva perdita delle capacità motorie dell'organismo. Eventi improvvisi, in genere dovuti a disturbi circolatori, possono analogamente rendere impossibile qualsiasi movimento tranne quello degli occhi. La persona colpita diventa quindi incapace di svolgere anche le più elementari funzioni della vita, come spostarsi, mangiare, provvedere all'igiene e ai bisogni corporali, mentre le facoltà intellettuali restano perfettamente integre. Di qui può scaturire la decisione consapevole del malato di richiedere al medico di porre termine alla sua esistenza.

3.5 Situazioni abbastanza simili si possono osservare anche nel corso di altre gravi malattie croniche, come l'artrite reumatoide. In tutti questi casi si assiste a quello che viene in genere indicato come un 'grave impedimento cronico'. La gravità dell'impedimento è naturalmente un dato difficilmente quantificabile: una persona affetta da una devastante forma di artrite deformante, che le impedisca di svolgere un'attività professionale sulla quale si concentri tutto l'interesse dell'esistenza, può ritenere il suo stato più intollerabile di quanto non lo avverta invece un individuo che svolga un'attività prevalentemente intellettuale e che si trovi immobilizzato in un letto.

3.6 I rapidi progressi delle tecniche di rianimazione e delle terapie intensive consentono di mantenere in vita anche per lunghi periodi di tempo individui che hanno subito gravi lesioni cerebrali. Essi dipendono totalmente dalle macchine per la respirazione e da sonde gastriche per la nutrizione. Molto spesso le funzioni cerebrali sono in queste persone totalmente e irreversibilmente distrutte e non esiste alcuna prospettiva di un seppur minimo recupero. Si parla allora di 'stato vegetativo persistente'. Le decisioni richieste ai medici curanti riguardano in questi casi la sospensione delle tecniche rianimatorie: in pratica, il paziente è 'lasciato morire'.

3.7 Esistono poi molte situazioni nelle quali il medico non si trova di fronte a vere e proprie malattie gravemente invalidanti o a sintomi fisici intollerabili, ma che ugualmente possono determinare in una persona il nascere e il consolidarsi della convinzione che la sua vita si sia esaurita e non vi sia alcuna ragione di prolungarla ulteriormente. Si pensi in particolare alla situazione degli anziani, i quali spesso presentano gravi e multiple limitazioni delle capacità fisiche e psichiche, accompagnate dalla sensazione di essere 'di peso' ai familiari. In queste circostanze un'eventuale richiesta di eutanasia ha da essere valutata con estrema cautela, anche perché spesso nasconde sintomi di depressione, curabili sia farmacologicamente, sia con un supporto psicologico.


4 - La ricerca di orientamenti


4.1 Da un lato, la sospensione delle cure alle persone che si trovano in uno stato vegetativo persistente, è stata ritenuta eticamente accettabile in molte sentenze emesse da diverse corti di giustizia, specie nei paesi anglosassoni. Non sempre, tuttavia, la morte in questi casi segue immediatamente la sospensione delle terapie, specie quando questa riguarda l'eliminazione della nutrizione e della somministrazione di liquidi: l'ammalato può morire per il digiuno e la disidratazione, fra sofferenze facilmente immaginabili. È quindi giustificato chiedersi in quale misura sia più accettabile lasciar morire una persona, piuttosto che accelerarne la morte con un'iniezione di farmaci letali.

4.2 Le maggiori controversie riguardano naturalmente l'eutanasia (attiva) e l'assistenza al suicidio. Di solito ci troviamo di fronte a persone che la medicina ha tenuto in vita per lunghi periodi, grazie a tecnologie sempre più complesse. Queste persone hanno consapevolmente accettato i trattamenti che il medico ha loro proposto: è comprensibile che gli possano chiedere, quando egli abbia chiaramente spiegato che la medicina non è più in grado di controllare i sintomi, non solo di sospendere ogni altra inutile cura, ma di intervenire attivamente per accelerare la morte, in modo indolore e rapido. Quando siano rispettate le condizioni di libera scelta, non esiste alcun valido motivo per costringere una persona a prolungare una sofferenza che egli reputa inutile e disumana.

4.3 L'opposizione della maggior parte dei medici, sulla base del loro dovere di fare tutto il possibile per mantenere in vita il malato, a praticare l'eutanasia, andrebbe riconsiderata alla luce di un concetto di medicina che comprende anche l'imperativo di evitare inutili sofferenze. Coloro che praticano la medicina hanno il dovere di applicare nel modo più completo ed efficiente le conoscenze e le tecnologie a disposizione. Occorre tenere sempre presente che simili strumenti non sono fini a se stessi, ma sono da utilizzare nell'ottica di una cura globale del paziente inteso come totalità della persona e pertanto essi possono essere impiegati per abbreviare sofferenze non altrimenti eliminabili.

4.4 Come si è accennato in precedenza, uno degli argomenti ricorrenti contro l'eutanasia e il suicidio assistito è quello della sacralità e intangibilità della vita. È certamente vero che la vita rappresenta il valore supremo che va rispettato e salvaguardato come tale. Tuttavia è lecito chiedersi che cosa si intende esattamente e correntemente per vita. Esiste una condizione biologica, rappresentata dall'insieme delle funzioni biochimiche cellulari, dalla riproduzione cellulare, dal funzionamento dei vari organi. Queste funzioni, seppure con complessità crescente dagli organismi unicellulari fino ai primati e al genere umano, sono fondamentalmente simili in tutti gli esseri viventi. Ciò che distingue la vita umana è l'insieme delle esperienze, delle relazioni con le altre persone, delle gioie, dei dolori e delle sofferenze, delle speranze nel futuro, delle attese, degli sforzi per rendere degna e umana la vita. In altri termini, è necessario distinguere la vita biologica dalla vita biografica: quando la vita biografica cessa, come nel caso di uno stato vegetativo persistente, oppure divenga intollerabile, come nelle malattie terminali, deve essere presa in considerazione l'eventualità di porre termine alla vita biologica.

4.5 L'introduzione nella prassi medica e nella legislazione di una qualche forma di liceità dell'eutanasia e del suicidio assistito suscita il timore di uno scivolamento verso altre forme di accelerazione della morte anche in persone inconsapevoli o non consenzienti. La società potrebbe incamminarsi su un pericoloso 'pendio scivoloso' (slippery slope), al termine del quale potremmo accettare di sopprimere legalmente anziani, disabili, disadattati. Poiché la bioetica nasce dopo la seconda guerra mondiale e dopo gli orrori del nazismo, il vivo ricordo delle esperienze della Germania hitleriana esercita senza dubbio una forte influenza nel generare e rendere vivi e presenti questi timori: il periodo nazista viene considerato come la prova dello scivolamento dall'eutanasia volontaria a quella involontaria e alla progressiva erosione di ogni regola etica. In realtà la politica dei nazisti nei confronti dei deboli, dei malati e in genere degli individui ritenuti non adatti alla nuova società ariana fu iniziata e attuata violando il codice penale tedesco e suscitò la reazione, peraltro inutile, del ministero della Giustizia. Questa politica non ha nulla a che vedere con l'idea e la pratica dell'eutanasia com'è oggi intesa. Non si hanno notizie di casi di eutanasia volontaria richiesta da malati di cancro o da persone affette da malattie croniche nella Germania di Hitler. Pertanto, utilizzare questo argomento per opporsi all'eutanasia sembra perlomeno poco fondato storicamente e scorretto sul piano dialettico, poiché tende ad accostare due fenomeni radicalmente diversi.

4.6 La posizione dell'opinione pubblica al riguardo ha subito negli ultimi anni significativi mutamenti. Nell'Oregon (Usa) nacque nel 1987 la Hemlock Society, un'organizzazione non-profit, che sponsorizzò nel 1991 la presentazione di una proposta di legge in favore del suicidio assistito al Senato di quello stato. La proposta non fu mai discussa, ma nel 1994 i cittadini dell'Oregon approvarono, con una maggioranza del 52% di voti favorevoli, la legge oggi nota come 'Death with Dignity Act', che consente ai medici di prescrivere i farmaci necessari al suicidio a favore di un paziente, purché egli sia cittadino dell'Oregon, abbia una previsione di vita non superiore a sei mesi e vi sia il parere favorevole di altri due medici. In un referendum svoltosi nel novembre 1997 i cittadini dell'Oregon, questa volta con una maggioranza del 60% a favore, hanno respinto una proposta d'abrogazione della legge. Molti medici si sono espressi contro tale legge. Una posizione nettamente contraria è stata presa dall'American Medical Association. Non è ancora chiaro come e in che misura essa sarà applicata, anche perché la Drug Enforcement Agency (Agenzia di controllo sui farmaci) ha minacciato di sospensione della licenza i medici che prescriveranno farmaci per aiutare un paziente a commettere suicidio. È in ogni modo interessante rilevare che sulla stampa specializzata degli Usa sono state numerose le prese di posizione sostanzialmente favorevoli alla legge e critiche nei confronti dei medici, accusati di scegliere di prolungare le sofferenze degli ammalati piuttosto che farsi coinvolgere in una scelta indubbiamente difficile.

4.7 Al Parlamento europeo l'on. Léon Schwartzenberg ha presentato, come relatore, un Documento di lavoro nel luglio 1990 e un Progetto di relazione nel febbraio 1991, sull'assistenza ai malati terminali, nei quali l'eutanasia attiva e il suicidio assistito sono visti come possibilità accettabili e rispettose della dignità e dell'autonomia dei pazienti. I due documenti non risultano essere stati ulteriormente discussi.

4.8 Con riferimento all'esperienza dei Paesi Bassi, occorre anzitutto ricordare che per il codice penale olandese l'eutanasia è considerata un crimine, ma è trattata in una sezione separata del codice. La legislazione attuale trae origine da una serie di avvenimenti e processi iniziati nel 1973, anno di fondazione della Società olandese per l'eutanasia volontaria. Nel 1985 la Commissione di stato sull'eutanasia propose di emendare il codice penale in modo tale che la morte provocata a una persona su esplicita e ripetuta richiesta di questa non fosse considerata un crimine a condizione di essere data nel contesto di buona pratica medica e che la condizione del malato fosse senza possibilità di miglioramento. Questa proposta non fu mai accolta come tale e il codice penale non fu mai modificato. Bisogna ricordare che l'Associazione medica olandese ha ripetutamente espresso parere favorevole all'eutanasia e queste prese di posizione hanno influenzato non poco le decisioni del Parlamento.

4.9 Nel 1991 la Commissione Remmelink riportò al Parlamento che i casi d'eutanasia andavano stimati fra 2.000 e 8.000 l'anno e segnalò circa 400 casi di suicidio assistito. Le richieste di eutanasia erano circa tre volte più numerose di quelle praticate: in due terzi dei casi quindi era stata trovata dal paziente e dal medico una scelta alternativa all'eutanasia, oppure il malato era deceduto prima della sua messa in atto. In circa 1.000 casi i medici segnalavano di aver praticato l'eutanasia senza esplicita richiesta del paziente. Fino al 1990 i casi di eutanasia segnalati dai medici olandesi erano relativamente pochi: nel 1990 ne furono segnalati 454, nel 1994, 1.424. Contemporaneamente sono nettamente diminuiti i casi sottoposti a procedimento penale: da due su dieci segnalati nel 1983 a quattro su 1.322 nel 1992.

4.10 Questi mutamenti rilevanti sono senza dubbio conseguenti alla nuova normativa in vigore in Olanda, attuata dal governo olandese a partire dal 1990 e trasformata in legge il 1s giugno 1994. Secondo questa normativa, il medico che opera l'eutanasia deve rispettare precise condizioni: vi deve essere una ripetuta, confermata, volontaria richiesta da parte del malato; lo stato del paziente deve essere così grave da rendere intollerabile la sofferenza e non vi deve essere più alcuna possibilità di intervento medico; prima di praticare l'eutanasia il medico deve consultarsi con un collega esperto, che non abbia prima avuto in cura il paziente. Dopo la morte del paziente, il medico segnala il caso all'autorità giudiziaria: solo il procuratore del distretto può decidere se sono stati rispettati i criteri previsti e di conseguenza autorizzare la sepoltura senza intraprendere un procedimentopenale nei confronti del medico.

4.11 L'evoluzione delle norme sull'eutanasia in Olanda costituisce un esempio di come un contesto culturale particolarmente attento agli interessi di tutte le componenti sociali (la gran maggioranza dei cittadini dei Paesi Bassi da tempo si è dichiarata favorevole alla depenalizzazione dell'eutanasia) e una posizione aperta e non dogmatica della professione medica possono consentire di raggiungere su questioni drammatiche delle soluzioni accettabili. È pur vero che sono segnalati circa 1.000 casi l'anno di eutanasia su pazienti che non avevano espressamente indicato la loro volontà in tal senso; essi devono certamente preoccupare e far riflettere, ma il fatto che si conoscano i termini del problema consente di intervenire per ridurli e se possibile eliminarli. Essi non stanno comunque ad indicare che l'Olanda si sia incamminata su un pendio scivoloso: possiamo, infatti, supporre che casi del genere si verificassero ben prima che la nuova normativa fosse accettata e che una pratica simile esista anche nei paesi nei quali l'eutanasia non è accettata.

4.12 L'eutanasia e il suicidio assistito, praticati in un contesto di precise regole e di controlli validi, ma non vessatori, nei confronti tanto del paziente quanto del medico, costituiscono un'espressione di libertà dell'individuo nel momento in cui egli giudica che la medicina non sia più in grado di migliorare il suo stato e che l'esistenza, ulteriormente prolungata, sarebbe intollerabile. È opportuno sottolineare come, in definitiva, solo l'essere umano pienamente cosciente sia in grado di decidere se la propria vita sia ancora degna di essere vissuta; donne e uomini sono responsabili delle loro vite e delle loro scelte e nessuno, medico, istituzione religiosa o società, può in ultima analisi imporre l'obbedienza a valori non condivisi.

4.13 Tenendo conto di tutto quanto detto in precedenza, una ponderata depenalizzazione dell'eutanasia e del suicidio assistito non implicano necessariamente rischi incontrollabili per la società; conseguentemente dovremmo evitare di esprimere la nostra opinione in conformità a principi astratti e valori nei quali non tutti i cittadini di un paese sono tenuti a riconoscersi.

4.14 L'espressione di libertà implicita nella richiesta di eutanasia presuppone una completa e adeguata informazione e discussione fra medico e paziente sullo stato della malattia e sulle prospettive di vita e di morte, sempre che il paziente desideri essere informato fino in fondo sulle proprie condizioni. Non è immaginabile parlare di eutanasia quando, come avviene spesso in un contesto culturale quale quello italiano, si dicono al malato pietose bugie o gli si concedono mezze verità, ergendogli intorno una barriera che vorrebbe essere di protezione e che invece non fa altro che sottrarre al paziente dignità e libertà (quando non ha lo scopo principale di evitare ai familiari e al medico l'imbarazzante compito di affrontare con il malato argomenti sui quali essi non sono assolutamente preparati a discutere).

4.15 Certamente l'esperienza degli altri paesi e in particolare dell'Olanda, che ha depenalizzato l'eutanasia, deve essere studiata e trasferita in altre realtà sociali con estrema cautela. Riteniamo tuttavia che anche per l'Italia sia giunto il momento di affrontare la questione e di iniziare un cammino anche legislativo che stimoli la discussione tanto nell'opinione pubblica quanto nell'ambito dei medici, delle professioni sanitarie e delle chiese.


5 - Considerazioni etiche e pastorali


5.1 Da un punto di vista pastorale la distinzione tra eutanasia attiva e astensione terapeutica è importante e merita di essere sottolineata. L'astensione terapeutica infatti rispetta, pur non completamente, il tempo di attesa della morte, con una sua propria ritualità che l'accompagnamento pastorale conosce dalla tradizione. L'eutanasia attiva invece non rispetta questo tempo di attesa, ma lo anticipa. E questo anticipare implica un'azione diretta, immediata, da parte dell'intervento medico, che deve essere assunta in tutte le sue implicazioni.

5.2 Se l'etica medica può motivare e giustificare la sua azione sulla base di valutazioni antropologiche generali, è possibile motivare e giustificare questa stessa azione da un punto di vista pastorale? Quali argomenti possono essere addotti, in un'ottica etico-pastorale, per confutare o accettare la domanda del malato grave e la disponibilità del medico al suicidio assistito?

5.3 A queste domande non è facile dare risposte esaurienti. Probabilmente non esistono risposte esaurienti, né per chi intende motivare la scelta per l'eutanasia attiva, né per chi intende confutarla. Il conflitto tra principi e norme è sempre largamente soggettivo. Ciò che può permettere di dire di sì alla richiesta di un malato grave di interrompere la sua vita può nascere soltanto da una profonda relazione con il suo stato di sofferenza e di dolore. L'accoglienza di una domanda di suicidio assistito può essere assunta da un accompagnamento pastorale che tiene aperta la dimensione di conflittualità che tale decisione implica, per il malato inguaribile, per il medico, per la figura pastorale, per i familiari. Una conflittualità che tuttavia non può sottrarsi all'insistenza della domanda e alla percezione del dolore e della sofferenza che esigono una risposta nel qui e ora. Non si tratta di cercare giustificazioni o legittimazioni all'azione che si compie per difendere il 'diritto alla vita' di chi vuole poter morire. Si tratta piuttosto di prendere atto che non vi sono giustificazioni etiche e pastorali dirimenti per opporre un rifiuto di principio. Ciò a cui non si può sfuggire è la domanda che l'altro mi rivolge con insistenza e che io percepisco in tutta la sua gravità.

5.4 Fino ad oggi, in ambito cristiano, a parte alcune eccezioni, è prevalso un giudizio negativo nei confronti dell'eutanasia attiva. Esso si fonda sulla Bibbia e soprattutto sulla morale cristiana, e si riassume nell'affermazione che Dio solo è colui che dà la vita e la può togliere, da cui l'affermazione dell'intangibilità o della 'sacralità' della vita. Intervenire in questa relazione di vita e di morte vorrebbe dire'prendere il posto di Dio'. Ma significa veramente sostituirsi a Dio accogliere la domanda di un malato grave che intende porre termine alla sua vita? Si sottrae a Dio una parte della sua signoria sul mondo e sulla vita accogliendo la richiesta di un malato grave di poter morire? O si mette in questione il potere acquisito dalla medicina moderna di mantenere in vita un corpo che produce dolore senza più poter accedere a un senso della vita? E ancora, dietro a questa onnipotenza della medicina non si nasconde una difficoltà ad affrontare la propria morte?

5.5 L'etica cristiana e la pastorale devono fornire delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e al dolore, devono assumerli fino in fondo, senza divagare, senza proiettarli irresponsabilmente in una dimensione di autoredenzione. La sofferenza e il dolore non producono salvezza, sono dimensioni dell'esistenza umana da accettare, ma anche da combattere, in sé non hanno nulla di positivo. Ma ciò non va confuso con il fatto che molte persone si aprono alla fede nel tempo della malattia e della sofferenza e che sia precisamente questo tempo a gettare nuova luce sull'esistenza. Un tempo di malattia e di sofferenza che provoca nuovi interrogativi sulla vita e sulla morte, stimolo di nuova spiritualità, ricerca di fede che può assumere una dimensione terapeutica. La domanda di eutanasia attiva nasce anche su questo terreno, sul terreno di una fede viva e consapevole. E dal momento che la fede personale non è mai disgiunta da una relazione di comunità, il singolo ha bisogno del supporto relazionale delle persone che lo circondano e di quello della comunità cristiana di appartenenza.

5.6 Nell'ambito della pastorale si parla molto del rispetto della spiritualità del malato. Ma questo rispetto sembra arrestarsi improvvisamente di fronte alla richiesta del malato inguaribile che chiede di poter morire. Quasi che questa domanda nascesse da un mondo che non gli appartiene. Che cosa impedisce di leggere anche questa domanda come segno di una spiritualità viva e cosciente, radicata nel Dio della vita e nelle sue promesse? Con quale autorità spirituale posso io contrastare la libertà e responsabilità di un alt ro di decidere il tempo della sua morte quando il vivere è un'umiliazione quotidiana senza speranza? Qual è la fonte dell'autorità che mi impone di costringere una persona inguaribile a continuare a vivere una vita di morte? Chi sono io per sottrarre al malato inguaribile questo diritto di poter morire? Da quale parte sta il Dio della vita e della promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o dalla parte del suo umano desiderio di morire? Per quanto paradossale possa essere, in una tale situazione accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte. Il medico che accoglie questa domanda del malato inguaribile l'accoglie all'interno di un lungo processo di cura e di relazioni. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all'eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni.



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Appunti su: principio dell27 intangibilitC3A0 in eutanasia, eutanasia le vie alternative bioetica,



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