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AIDS

L'AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita) rappresenta lo stadio clinico terminale dell'infezione da parte del virus dell'immunodeficienza umana (HIV). L'HIV è un virus che appartiene a una particolare famiglia virale, quella dei retrovirus, dotata di un meccanismo replicativo assolutamente unico. Grazie a uno specifico enzima, la trascrittàsi inversa, i retrovirus sono in grado di trasformare il proprio patrimonio genetico a RNA in un doppio filamento di Dna. Questo va inserirsi nel Dna della cellula infettata (detta 'cellula ospite') e da lì dirige, di fatto, la produzione di nuove particelle virali. Nel caso specifico dell'HIV, le cellule bersaglio sono particolari cellule del sistema immunitario, i linfociti T di tipo CD4, fondamentali nella risposta adattativa contro svariati tipi di agenti patogeni. L'infezione da HIV provoca quindi un indebolimento progressivo del sistema immunitario (immunodepressione), aumentando il rischio di infezioni e malattie - più o meno gravi - da parte di virus, batteri, protozoi e funghi, potenzialmente letali alla lunga distanza, e che in condizioni normali potrebbero essere curate più facilmente. Attualmente, si conoscono due ceppi di HIV: il virus HIV-1 e il virus HIV-2. Il sierotipo 1 è il principale responsabile dell'epidemia a livello mondiale, mentre il sierotipo 2 ha una diffusione più circoscritta e limitata all'Africa Centro-Occidentale. Si ritiene che l'infezione nell'uomo abbia avuto origine in Africa centrale (tra il 1955 e il 1965) da un adattamento di un virus animale che colpisce gli scimpanzé. La trasmissione animale-uomo sarebbe avvenuta per via parenterale (contatto di sangue) attraverso la caccia o durante riti tribali.
L'infezione è rimasta a lungo confinata nella regione geografica d'origine fino a quando alla fine degli anni settanta, si è diffusa nelle isole dei Caraibi, in alcune città degli stati Uniti e dell'Europa settentrionale, favorita dall'incremento degli scambi commerciali e turistici tra i vari paesi.

La diagnosi di infezione da HIV nei soggetti giovani-adulti si basa principalmente sulla ricerca degli anticorpi specifici nel sangue (cioè diretti contro il virus HIV). Esistono, inoltre, test più complicati che vengono utilizzati per confermare o per porre la diagnosi in casi particolari (esempio infezione nei nati da madre HIV positiva).
Le persone che contraggono il virus HIV (sieropositive) non sono malate di AIDS, anche se sono destinate a diventarlo, salvo casi rarissimi. La sieropositività implica che l'infezione è in atto e che è dunque possibile trasmettere il virus ad altre persone. La comparsa degli anticorpi, però, non è immediata. Il tempo che intercorre tra il momento del contagio e la comparsa nel sangue degli anticorpi contro l'HIV è detto "periodo finestra" e dura mediamente 4-6 settimane, ma può estendersi anche fino a 6 mesi. Durante questo periodo, anche se la persona risulta sieronegativa è comunque in grado di trasmettere l'infezione.

Opportunamente curato con appositi farmaci, un soggetto sieropositivo può vivere anche molto a lungo (10-20 anni) in discreta salute, ma continuerà ad essere portatore del virus e dunque potrà trasmetterlo ad altre persone. Soltanto quando il livello di infezione da HIV supera una determinata soglia, il soggetto è considerato malato di AIDS.

Esistono tre diverse modalità di trasmissione dell'HIV: per via ematica, per via sessuale e per via materno - fetale.                                                            La trasmissione per via ematica avviene con stretto e diretto contatto fra ferite aperte e sanguinanti e scambio di siringhe con un sieropositivo. Durante le prime fasi dell'epidemia, quando erano minori anche le conoscenze sui sistemi di diffusione del virus, diverse persone sono state contagiate dall'HIV in seguito a trasfusioni di sangue o alla somministrazione di suoi derivati. La trasmissione attraverso il sangue rappresenta, invece, la principale modalità di contagio responsabile della diffusione dell'infezione nella popolazione dedita all'uso di droga per via endovenosa. L'infezione avviene a causa della pratica, diffusa tra i tossicodipendenti, di scambio della siringa contenente sangue infetto. Con la stessa modalità è possibile la trasmissione sia dell'HIV che di altri virus tra i quali quelli responsabili dell'epatite B e C, infezioni anch'esse molto diffuse tra i tossicodipendenti.

La modalità più diffusa al mondo di trasmissione dell'HIV è per via sessuale, perché durante un rapporto sessuale non protetto vi è il massimo scambio possibile di fluidi corporei. Le ragazze più giovani sono particolarmente esposte al contagio perché un apparato genitale immaturo è fisiologicamente più soggetto a ferite e infezioni.

La trasmissione da madre a figlio, o verticale, può avvenire durante la gravidanza, durante il parto, o con l'allattamento. Il rischio per una donna sieropositiva di trasmettere l'infezione al feto è circa il 20%. Oggi è possibile ridurlo al di sotto del 4% somministrando zidovudina (che è stato il primo farmaco antivirale impiegato nella terapia dei pazienti affetti da malattia da HIV) alla madre durante la gravidanza e al neonato per le prime sei settimane di vita. Per stabilire se è avvenuto il contagio, il bambino deve essere sottoposto a controlli in strutture specializzate per almeno i primi due anni di vita. Tutti i bambini nascono con gli anticorpi materni. Per questa ragione, il test HIV effettuato sul sangue di un bambino nato da una donna sieropositiva risulta sempre positivo. Anche se il bambino non ha contratto l'HIV, gli anticorpi materni possono rimanere nel sangue fino al diciottesimo mese di vita, al più tardi entro i due anni. Il bambino viene sottoposto a test supplementari per verificare se è veramente portatore del virus o se ha ricevuto solo gli anticorpi materni.

A causa della forte tendenza dell'HIV a mutare, è necessario non soltanto trovare farmaci sempre nuovi, ma anche adottare delle terapie combinate. In questo modo si cerca di ridurre al minimo o quantomeno di ritardare l'insorgenza di ceppi virali multiresistenti. Occorre tuttavia tenere ben presente che le attuali strategie terapeutiche non consentono la guarigione dall'infezione ma permettono di tenerla sotto controllo. È quindi essenziale individuare nuove strategie terapeutiche con meccanismi di azione diversi da quelli di cui oggi disponiamo.

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