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Un viaggiatore per eccellenza:il mito di ulisse




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UN VIAGGIATORE PER ECCELLENZA:IL MITO DI ULISSE


IL MITO IN OMERO,DANTE,PASCOLI,DANNUNZIO E JOYCE.


Esiste un'opera nella letteratura di tutti tempi che riassume - forse integralmente - i significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio: l'Odissea di Omero. Il viaggio di Ulisse è un viaggio di ritorno dalla guerra  di Troia alla sua nativa Itaca, la patria abbandonata e ritrovata insieme alla moglie Penelope ed al figlio Telemaco. Quindi il viaggio può essere considerato inizialmente nella sua circolarità (partenza, percorso, arrivo e recupero) ove emerge soprattutto la finalità ultima della meta, del raggiungimento di uno scopo (la ricongiunzione, la riconquista definitiva della stabilità attorno ai valori originari). Ma immediatamente, rileggendo attentamente la vicenda di Ulisse, si nota che il viaggio non può consistere solo nell'approdo al porto finale, ma piuttosto nel superamento di mille pericoli, ostacoli, prove e nella verifica di mille esperienze. Il viaggio diventa prova di conoscenza, nel senso più ampio del termine.

Esso è lo stimolo naturale alla ricerca del nuovo, l'istintiva attrazione/repulsione per ciò che ci è estraneo, la misura della distanza che ci separa dalle realtà sconosciute, la sfida al confronto, l'abilità di relazionarsi con il diverso da noi, la capacità di adattamento a situazioni imprevedibili.
Narrativamente l'Odissea propone queste articolazioni tematiche attraverso le avventure che toccano Ulisse: il mondo meraviglioso di mostri (Polifemo), maghe (Circe), sortilegi (le Sirene) e tentazioni minacciose (Calipso). Ma l'Odissea rivela anche  un'interessante varietà di atteggiamenti nel carattere del navigatore-viaggiatore Ulisse: la tenacia nel sopportare le avversità naturali (tempeste), l'astuzia nell'aggirare pericolosi imprevisti (Polifemo), la temerarietà nel varcare la sfera del conoscibile (viaggio agli Inferi), l'abilità retorica nel narrare le varie tappe della sua peregrinazione (il racconto ad Alcinoo), l'eroismo ed il coraggio fisico, il gusto del rischio e dell'avventura.
Dunque il significato del viaggio è soprattutto nel suo percorso: la meta può materializzarsi in modo imprevedibile e talvolta può addirittura sfuggire, può essere perennemente e vanamente  inseguita.

Nell'elaborazione del mito di Ulisse che Dante propone nel canto XXVI dell'Inferno emerge una nuova interpretazione del mito di Ulisse, contrassegnato da una sete conoscitiva sfrenata (si notino i versi citati) e colpevole per Dante che lo porta alla morte, legata al suo peccato di superbia nei confronti dei decreti divini.




 Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quela cui vento affattica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: 'Quando' »

Inferno XXVI, versi 85-90)


« Non vogliate negar l'esperienza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

(Inferno XXVI, 116-120)

« Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto dalla luna,

poi che 'ntrati eravam nell'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non ne avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché della nova terra un turbo nacque,

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe' girar con tutte l'acque:

alla quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com'altrui piacque,

infin che 'l mar fu sopra noi richiuso. »

(Inferno XXVI, versi 130-142)


"La violazione del sacro è un' altra delle minacce oscure che attendono chi si inoltra nei territori sconosciuti ma eccitanti della scoperta. La rivelazione di ciò che non appartiene alla nostra cultura spesso è misteriosa e rischiosa, risulta l'imperfetta interpretazione dei segni proposti a chi perlustra l'ignoto da parte del divino." (Coleridge)


Il viaggio in mare è del resto metafora della vita.

L'esistenza (la nave) è destinata a perdere la sua guida (la ragione) ed il poeta, che rappresenta il dramma umano, si sente in balia di se stesso.

L'interpretazione dantesca del viaggio di Ulisse nell'emisfero delle acque come folle volo indirettamente anticipa una valenza importante del tema nella letteratura ottocentesca e novecentesca. Il viaggio diventa sempre più metafora dell'abbandono, il navigante si fa naufrago nei gorghi dell'esistenza, la meta si annulla nella ricerca dell'illimitato, dell'informe, dell'infinito.


Pascoli  ripropone invece nell'Ultimo viaggio un Ulisse esule, sconfitto, alla vana ricerca di una verità superiore, che incontra la morte nell'isola di Calipso dopo una vana interrogazione sul senso della vita. Giovanni Pascoli dedicò al mito di Ulisse un intero poema, incluso nella raccolta Poemi conviviali (1904).

Nelle note alla prima edizione dei Poemi conviviali, Pascoli scriveva: « mi sono insegnato di mettere d'accordo l'Odissea (XI, 121-137) col mito narrato da Dante e dal Tennyson. Odisseo sarebbe, secondo la mia finzione, partito per l'ultimo viaggio dopo che s'era adempito, salvo che per l'ultimo punto, l'oracolo di Tiresia». L'«oracolo di Tiresia» è la profezia che Ulisse riceve dall'indovino tebano Tiresia, incontrato nel mondo dei morti (il libro XI dell'Odissea narra infatti la discesa dell'eroe agli Inferi): Ulisse tornerà alla sua patria, ma dovrà quindi affrontare un nuovo viaggio: con un remo in spalla, camminerà fintanto che non sarà giunto ad una terra i cui abitanti, ignari del mare, scambino il remo per un ventilabro, strumento che i contadini usavano per separare il grano dalla pula; allora, confitto a terra il remo e fatti sacrifici a Posidone, potrà tornare a casa e riprendere il posto di re: «per te la morte verrà / fuori dal mare, così serenamente da coglierti / consunto da splendente vecchiezza: intorno avrai popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio» ( Odissea - Libro XI, vv. 134-137).

Omero immagina per Ulisse, a conclusione di una vita tormentata ed errabonda, una serena vecchiaia; non così Dante e Tennyson che, come abbiamo visto, presentano un eroe o interamente dominato dal desiderio di conoscere, al punto di rinunciare al ritorno ad Itaca, o disgustato della vita mediocre e priva di attrattive che la sua isola e il suo ruolo di sovrano gli offrono e deciso perciò a riprendere il mare.

L'eroe del Pascoli, invece, dopo aver compiuto il viaggio alla ricerca degli uomini che non conoscono il mare, prescrittogli da Tiresia, per nove anni rimane ad Itaca. La sua non è però la «splendente vecchiezza» di cui parla il testo omerico, perché Ulisse, assorto nella rievocazione del proprio passato, nel rimpianto dei tempi eroici, è nello stesso tempo colto da un dubbio sempre più tormentoso: gli episodi che egli va ricordando appartengono alla realtà o all'immaginazione?

E' questo dubbio che, nel decimo anno, lo spinge a riprendere la navigazione, con quei compagni che fedelmente lo hanno atteso e ai quali, come in Dante e in Tennyson, Ulisse rivolge un'allocuzione. (E' il canto XII de L'ultimo viaggio, diviso, a somiglianza dell'Odissea, in ventiquattro canti, con un'inversione, però i primi dodici canti presentano l'eroe a terra, gli ultimi dodici ne raccontano il viaggio).

Il viaggio è un navigare a ritroso, alla ricerca dei luoghi e delle figure che più fortemente hanno segnato l'esperienza dell'eroe: Circe, il Ciclope, le Sirene, Calipso. Ma nulla di ciò che Ulisse ha conservato nel ricordo corrisponde a verità: Circe non esiste, la sua canzone, che l'eroe si illude di risentire, non è che lo sciacquio del mare mosso dal vento; nella grotta di Polifemo abita un innocuo pastore, che a stento ricorda di aver udito raccontare che da quel monte piovevano pietre in mare « e che appariva un occhio / nella sua cima, un tondo occhio di fuoco » (XX, vv. 40-41).

Il mito si dissolve, l'avventura di Ulisse si rivela sogno, non realtà. Ogni certezza sembra dunque crollare: a chi chiedere il «vero», dove cercare risposta al dubbio sempre più inquietante circa l'illusorietà di ogni esperienza umana? Nell'Odissea, le Sirene avevano invitato Ulisse a fermarsi ad ascoltare il loro canto, giacché gli avrebbero rivelato ogni cosa:


«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,

e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.

Nessuno mai è passato di qui con la nera nave

senza ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele,

ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose.

Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta

soffrirono Argivi e Troiani per volontà degli dei;

conosciamo quello che accade sulla terra ferace»

(X1, vv. 186-191).


Alle Sirene ora si rivolge Ulisse, deciso ad affrontare il rischio di restare ammaliato dal dolce canto e di non far più ritorno in patria; rischio che, nell'Odissea, ammonito da Circe, egli evita turando con la cera le orecchie dei compagni e facendosi legare all'albero della nave. Ora è invece determinato ad ascoltare fino in fondo, a permettere che la corrente spinga la nave agli scogli delle Sirene.

Il mito greco aveva dato alle Sirene le sembianze di uccelli con volto di donna. Nei versi del Pascoli, esse hanno inizialmente l'aspetto di enigmatiche sfingi, immobili «alla punta dell'isola fiorita, verso cui la corrente «tacita e soave» spinge inesorabilmente la nave di Ulisse. La ripresa dei due versi che fungono da ritornello («E la corrente tacita e soave /più sempre avanti sospingea la nave») sottolinea in maniera assai evidente (anche la presenza della rima collabora) il mutamento della situazione, rispetto al racconto di Omero: non è tanto l'eroe padrone di sé, artefice del proprio destino, a scegliere di incontrare le Sirene, ma è piuttosto una forza a lui superiore che ad esse lo trascina.

Certo Ulisse non ha perso la sua fisionomia di eroe della conoscenza: 'Son io! Son io, che tomo per sapere! / Ché molto io vidi ' alla ricerca tenace dell'eroe, tuttavia, non ha corrisposto alcuna acquisizione di certezze: 'ma tutto ch'io guardai nel mondo, mi riguardò; mi domandò: Chi sono?"

Davvero più moderno, questo Ulisse del Pascoli, non più segnato da quella determinazione a varcare il «límite», a conoscere terre ignote, che caratterizzava gli eroi di Dante e di Tennyson; o meglio, fornito anch'egli di uguale determinazione, ma diversamente orientata: il suo viaggio non è più volto all'esterno, alla ricerca di nuovi lidi, ma all'interno, alla scoperta dell'ambiguo confine tra sogno e realtà; mentre il «límite» non è costituito dalle mitiche Colonne d'Ercole, bensì connaturato nella condizione umana, irrevocabilmente volta alla morte.

L'unica risposta all'affannoso interrogare di un Ulisse ormai giunto oltre l'illusione, ormai in grado di intravedere l'identità Sirene-scogli, prato fiorito-grande mucchio d'ossa, è il concretizzarsi della sola certezza che l'uomo può avere: la morte. La sostituzione del consueto ritornello di due versi con l'unico verso «E tra i due scogli si spezzò la nave», che funge da chiusa al canto XXIII, sancisce il carattere «ultimo» del naufragio di Ulisse. L'Eroe navigatore (così il Pascoli altrove lo designa) è pervenuto alla meta definitiva.

Nel canto XXIV (Calipso), l'ultimo approdo è immaginato nell'isola della dea, cui l'eroe senza vita sarà trascinato dalle onde; ma fin d'ora siamo in grado di intendere ciò che il Pascoli ha voluto significare. Il suo Ulisse, così «antieroe» nell'assenza di sicurezze, nel dubbio che investe ogni momento della vita passata e presente, è in realtà anch'egli «eroe»: nel voler indagare nel mistero dell'animo umano, nell'affrontare il crollo delle illusioni, nell'accettare la realtà della morte.


Il mito di Ulisse è stato inoltre ripreso da D'Annunzio. I suoi versi sono testimonianza di una fase ideologica della produzione di D'Annunzio, detta del superuomo, tratta dalla lettura di Nietzsche. In essa l'eroe viaggiatore per eccellenza, Ulisse, interpretato variamente dalla tradizione letteraria ora come esule tenace e sventurato (Omero nell'Iliade) ora come temerario scopritore di verità precluse all'uomo ( Dante nel canto XXVI dell'Inferno ), assume le sembianze del superuomo, eroe instancabile, che incarna la volontà di potenza, assimilabile storicamente alla missione bellica e colonizzatrice dell'Italia di inizio secolo. Ulisse navigatore appare in grado di dominare con la sua energia gli avversi elementi della natura, proseguendo vittoriosamente la sua solitaria lotta contro il mare implacabile. Il poeta chiede ad Ulisse di essere messo alla prova, di poter divenire suo coraggioso compagno di viaggio e di conquiste, di partecipare, almeno in piccola parte, alla tensione fortemente tragica che accompagna l'impresa gloriosa dell'eroe.

In questa moderna immagine di Ulisse si perde tutta la problematica e complessa attesa del mistero a cui apre il viaggio verso nuove mete e si recupera invece una grandezza sovrumana, di una mitica incarnazione semidivina a cui l'uomo non deve far altro che adeguarsi, ponendolo ad emblema e a modello della sua stessa esistenza.



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