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L'interesse per questo tema nasce dalla constatazione di come il tempo e lo spazio abbiano una oggettività inconfutabile e allo stesso tempo siano soggetti a infinite interpretazioni individuali in ogni campo: scientifico, filosofico, letterario ed artistico.
Specialmente nel Novecento si fa vivo il dualismo interpretativo che permette di considerare tempo e spazio in modo univoco, oggettivo, o del tutto personale, contingente.
Rispetto alla speculazione filosofica dei secoli passati, la reazione antipositivistica bergsoniana presenta il tempo sotto l'aspetto della durata e della dimensione coscienziale, in una rilettura soggettiva dell'agostiniano "modo di durare della cosa creata".
La nuova concezione della fisica moderna, con la teoria della relatività formulata da Einstein e dai suoi epigoni, considera il tempo come variabile connessa allo spazio. Sia che si presenti come dimensione della coscienza, sia come variabile relativa allo spazio, il tempo acquista una indeterminatezza che lo scrittore o l'artista colgono in chiave soggettiva, mostrando il fluire del tempo come "vissuto" psicologico dei propri personaggi, come sequenza non cronologica, ma associativa, in chiave psicanalitica, come punto di domanda a cui cercare un significato.
Su tale complessa problematica si basa la tecnica narrativa dello Stream of Consciousness . Realizzata in alcune opere di Joyce, come Ulysses o Finnegan's wake, e di Virginia Woolf, come To the lighthouse, essa consiste nel libero accostamento di parole e di immagini, di impressioni e di ricordi, così come essi emergono dal nostro inconscio, senza successione cronologica né tantomeno logica: è una traduzione immediata in parole del nostro pensiero non razionalizzato. Tradizionale nella critica letteraria è l'accostamento fatto con Proust, che si ispira dichiaratamente ad una matrice bergsoniana più che freudiana, e con Italo Svevo della Coscienza di Zeno, che tuttavia non usa la tecnica come tale, perché utilizza una scrittura sintatticamente logica e razionalizzata, per esprimere però lo stesso flusso acronico di memorie, concentrate su un tema centrale che le suscita. Nell'Ulisse Joyce si muove da una prospettiva eminentemente soggettiva che sostanzialmente tende ad abbattere le distinzioni tra mondo interno e mondo esterno e ambisce ad una scrittura capace di una rappresentazione integrale dei diversi strati della coscienza. E qui, come nelle opere di Virginia Woolf, la narrazione è chiusa dentro la prospettiva del monologo interiore, ultima tappa del processo di soggettivizzazione del romanzo e quasi approdo alla dissoluzione della sua struttura tradizionale, in quanto vicende e personaggi sono del tutto secondari al fluire vario della voce del soggetto. L'eminenza di questa prospettiva porta ad una concezione del tutto soggettiva del tempo e della dinamica delle vicende: questi sono rappresentati a seconda del ritmo di percezione e interesse interno, per cui procedono in apparente disordine e fuori da una successione cronologica. Per meglio comprendere lo stretto rapporto spazio-tempo è necessario analizzare la nuova concezione di Bergson: egli, nel suo Essai sur les données immédiates de la conscience, muove dalla scoperta della consapevolezza di un'irriducibilità tra qualità e quantità e, conseguentemente, tra vita esteriore ed interiore. Ciò che è esterno - ed è questo che costituisce l'oggetto proprio della scienza - si distingue per differenze quantitative. Lo spazio esprime bene questa esternità di un oggetto rispetto ad un altro. Ciò che invece fa parte della coscienza, pur essendo molteplice e diverso, non è esterno in questo stesso senso. Ciò che rispetta questa molteplicità senza ridurla a esternità spaziale è il tempo. Non tuttavia quale lo presenta la scienza (misura della concomitanza di due mobili in due spazi), ma un tempo che sia durata reale, che consenta d'intendere istanti successivi come qualitativamente diversi, pur mantenendone la reciproca compenetrazione e la perenne capacità creativa. Molteplicità qualitativa, compenetrazione reciproca, perenne creatività sono perciò le caratteristiche del tempo come durata reale. Esse si oppongono alla concezione spazializzatrice del tempo, in cui ci troviamo di fronte a esternità quantitativa, reciproca indifferenza, ripetizione dell'identico e reversibilità del fenomeno. Proust si riferisce esplicitamente al concetto di durata e di dimensione coscienziale bergsoniano: egli si rifà al recupero della memoria del passato, suscitato da associazione di idee in non-successione cronologica., mentre Svevo si attiene ad un linguaggio narrativo più tradizionale, recuperando, però, le memorie di Zeno in ordine non cronologico ma tematico (il che per altro è già una razionalizzazione), con riferimento alla tecnica psicanalitica associazionistica freudiana. L'eliminazione dal dominio della fisica e, per riflesso, da quello più generale della filosofia , dei concetti di uno spazio e di un tempo assoluti conseguente la teoria della relatività ha costituito una vera rivoluzione. Secondo Newton i fatti si svolgono in un quadro immutabile costituito da uno spazio e un tempo assoluti. Einstein capovolge letteralmente questo punto di vista: secondo la sua teoria non ha senso parlare di spazio e di tempo se non in relazione ai fenomeni che vi si svolgono. È il principio di invarianza della velocità della luce, che insieme al principio della relatività è il postulato fondamentale della teoria della relatività ristretta. In arte, i temi fondamentali di Magritte sono la sua ossessiva ricerca delle radici nel passato (simbologia dell'albero e della casa: L'impero della luce, La voce del sangue) e la negazione della normale successione cronologica del tempo (compresenza del giorno e della notte nella stessa scena). Invece per De Chirico il tempo resta un enigma insoluto: partendo dalla concezione psicanalitica di un tempo che affiora dall'inconscio senza successione, ma in base al principio di associazione, egli coglie passato, presente e futuro come compresenti alla coscienza e razionalmente non distinguibili.
Italo Svevo
Svevo si accinse nel 1919 alla stesura del suo capolavoro, La coscienza di Zeno, che portò a termine nel 1922 e pubblicò l'anno successivo. Il romanzo è l'autobiografia di un ricco commerciante triestino, Zeno Cosini, che, condannato dal testamento paterno a vivere di rendita sotto la tutela di un amministratore, trascorre la vita in uno stato di perenne irresponsabilità, unicamente impegnato ad analizzare la sua malattia e a studiarne i sintomi, giudicando retrospettivamente, in termini negativi, la cura psicanalitica che gli era stata proposta da un medico. Più che la storia di una malattia, La coscienza di Zeno è pertanto la storia del rifiuto della guarigione: il nesso salute-malattia è svolto in modo da affermare l'ambivalenza perfetta dei due termini, per cui non è possibile al protagonista raccontare la propria malattia senza, nel contempo, raccontare l' "atroce salute" degli altri, ossia il conformismo sociale. In altri termini, non solo il singolo individuo è malato, ma la stessa vita è una "malattia della materia", un mondo caotico, in preda alla follia autodistruttiva della guerra, preludio a una "catastrofe inaudita", prodotta dagli "ordigni" costruiti dall'uomo. E' dunque vano qualsiasi sforzo di guarigione, perché nessuno può sottrarsi alla nevrosi prodotta dalla civiltà del denaro e del possesso. Solo un' "esplosione enorme" potrà salvarci definitivamente dalla paura della malattia: sarà forse la morte cosmica, intravista dallo scrittore, nel suo radicale pessimismo, come lo sbocco inevitabile di una civiltà tecnologica che costruisce macchine sempre più perfette; ma potrà essere anche la nascita di un mondo nuovo, prefigurato dagli "inetti" che, a differenza dei "santi", irrimediabilmente contagiati da uno squallido presente, si sono mantenuti disponibili per progettare l'uomo del futuro. La tecnica narrativa, fondata sul "monologo interiore", non ha nulla da spartire con il naturalismo: il romanzo oggettivo è aggredito da una disposizione analitica che rallenta il flusso del tempo, sottoponendo il protagonista ad un minuzioso scandaglio che ne mette a nudo la nevrosi, la tendenza all'autoinganno. Svevo abbandona il modulo ottocentesco, ancora di matrice naturalistica, del romanzo narrato da una voce anonima ed esterna al piano della vicenda, con ampie focalizzazioni interne ai personaggi, e adotta soluzioni più nuove. Per gran parte, La coscienza di Zeno è costituita da un memoriale, o confessione autobiografica, che il protagonista Zeno Cosini scrive su invito del suo psicanalista, il dottor S., a scopo terapeutico, come preludio che dovrebbe agevolare la cura vera e propria. E lo scrittore finge che il manoscritto di Zeno venga pubblicato dal dottor S. stesso, per vendicarsi del paziente, che si è sottratto alla cura frodando al medico il frutto dell'analisi (tutto ciò viene spiegato dal dottore in una prefazione, con cui si apre il libro). Al testo del memoriale si aggiunge infine una sorta di diario di Zeno, in cui questi spiega il suo abbandono della terapia e si dichiara sicuro della propria guarigione in coincidenza con i successi commerciali ottenuti durante la guerra con fortunate speculazioni. Il romanzo è dunque narrato dal protagonista stesso, dietro la finzione narrativa dell'autobiografia e del diario, pertanto ha un impianto autodiegetico. Nuovo e originale, nell'impianto narrativo, è anche il particolare trattamento del tempo, quello che Svevo chiama "tempo misto". Il racconto, nonostante l'impostazione autobiografica, non presenta gli eventi nella loro successione cronologica lineare, inseriti in un tempo oggettivo, come nei romanzi ottocenteschi in cui il protagonista racconta la propria vita (si pensi al David Copperfield di Dickens o alle Confessioni di un Italiano di Nievo), ma in un tempo tutto soggettivo, che mescola piani e distanze, in cui il passato (il tempo del vissuto) riaffiora continuamente e si intreccia con infiniti fili al presente (il tempo del racconto), in un movimento incessante, in quanto resta presente nella coscienza del personaggio narrante. Di qui la struttura particolare del racconto, che non è lineare, progressiva, ma si spezza i tanti momenti distinti. La ricostruzione del proprio passato operata da Zeno si raggruppa intorno ad alcuni temi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo, talora assai ampio. Eventi contemporanei possono così essere distribuiti in più capitoli successivi, poiché si riferiscono a nuclei tematici diversi, e, inversamente, singoli capitoli, dedicati ad un particolare tema, possono abbracciare ampi segmenti della vita di Zeno. La narrazione va continuamente aventi e indietro nel tempo, seguendo la memoria del protagonista, che si sforza, per obbedire allo psicanalista, di ricostruire il proprio passato. Dopo la prefazione del dottor S. ed un preambolo in cui Zeno racconta i propri tentativi di risalire alla prima infanzia, gli argomenti dei vari capitoli sono: il vizio del fumo e i vani sforzi per liberarsene, la morte del padre, la storia del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie e la giovane amante, la storia dell'associazione commerciale con il cognato Guido Speier; alla fine si colloca il capitolo Psico-analisi, in cui Zeno sfoga il proprio livore contro lo psicanalista e racconta la propria presunta guarigione. Il narratore della Coscienza, l'"inetto", nevrotico, malato immaginario Zeno, è chiaramente un narratore inattendibile, di cui non ci si può fidare. Lo denuncia subito, sulla soglia stessa del libro, la prefazione del dottor S., che insiste sulle "tante verità e bugie" accumulate nel memoriale. L'autobiografia in esso contenuta è tutta un gigantesco tentativo di autogiustificazione di Zeno, che vuole dimostrarsi innocente da ogni colpa nei rapporti col padre, con la moglie, con l'amante, con il rivale Guido: in realtà traspaiono ad ogni pagina i suoi impulsi reali, che sono regolarmente ostili ed aggressivi, addirittura omicidi. Ma non si tratta di menzogne intenzionali: sono autoinganni determinati da processi profondi ed inconsapevoli, con i quali Zeno cerca di tacitare i sensi di colpa che tormentano il suo inconscio. L'agire di Zeno è sempre manifestatamente il prodotto di impulsi inconsci. Si pensi solo alla precipitosa domanda di matrimonio rivolta alla brutta Augusta dopo il rifiuto della bella Ada e di Alberta: essa non è certo un fatto accidentale, in realtà inconsciamente Zeno desiderava proprio la donna "materna", e l'amore impossibile per Ada era un ostacolo che egli senza saperlo frapponeva al proprio desiderio. Per tutto il romanzo ogni gesto, ogni affermazione di Zeno, sia dello Zeno personaggio che agisce nel racconto, sia dello Zeno che narra a distanza di anni, rivela in trasparenza un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse o addirittura opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. Percui la "coscienza" di Zeno appare in primo luogo come una "cattiva coscienza", una coscienza falsa, come quella degli eroi dei romanzi precedenti. La realtà oggettiva del fatti, che si intravede dietro le mistificazioni dello Zeno narratore e personaggio, si incarica spesso di farci dubitare delle motivazioni da lui adottate, per cui Zeno appare avvolto da un alone di ironia "oggettiva" al pari del protagonista di Senilità. Però la Coscienza di Zeno non è soltanto un'implacabile operazione di smascheramento di una falsa coscienza e dei suoi autoinganni come era Senilità. Nei venticinque anni che separano i due romanzi si è verificato in Svevo un profondo mutamento di prospettive, o, se si preferisce, un sostanziale arricchimento. A differenza di Emilio Brentani, protagonista di Senilità, Zeno non è solo oggetto di critica, ma anche soggetto. Non vi è solo l'ironia oggettiva che pesa su Zeno: il romanzo è anche percorso dal distacco ironico con cui Zeno guarda il mondo che lo circonda. La diversità di Zeno, la sua malattia, funziona da strumento straniante nei confronti dei cosiddetti sani e normali, il padre, il suocero, la moglie, Ada, Guido e tutto gli altri borghesi che si affollano sullo sfondo della vicenda. La malattia che impedisce a Zeno di coincidere interamente con la sua parte di borghese, porta alla luce l'inconsistenza della pretesa sanità degli altri, che in quella parte vivono perfettamente soddisfatti, incrollabili nelle loro certezze. Zeno, nella sua imperfezione di inetto, è inquieto e disponibile alle trasformazioni, a sperimentare le più varie forme dell'esistenza, ad esplorarne l'affascinante originalità ("la vita non è né brutta né bella, ma è originale"), mentre i sani sono cristallizzati in una forma rigida immutabile. In Zeno non vi è un deliberato, consapevole atteggiamento critico verso il mondo che lo circonda, una coscienza più lucida. In lui, anzi, vi è un disperato bisogno di salute, cioè di normalità, di integrazione nel contesto borghese: vorrebbe essere buon padre di famiglia, attivo ed abile uomo d'affari. Però, contro ogni sua intenzione, non riesce mai a coincidere veramente con quella forma compiuta e definitiva di uomo (neanche nel finale, nonostante il successo negli affari e le sue pretese di essere guarito, che non sono che un'ennesima mistificazione). Perciò il suo sguardo di irriducibile estraneo corrode quel mondo, ne mina alle basi le certezze indiscusse, mai sottoposte dai suoi rappresentanti al dubbio critico. Zeno finisce in tal modo per scoprire che la salute atroce degli altri è anch'essa malattia, la vera malattia. La visione dell'inetto mette in crisi, scovolge le nozioni contrapposte e gerarchicamente ordinate di salute e malattia, di forza e debolezza. Ma lo sguardo di Zeno distrugge le gerarchie, fa divenire tutto incerto e ambiguo, converte la salute in malattia. Il mutamento di impianto narrativo della Coscienza, il fatto che sia il protagonista stesso a narrare e non un'impersonale voce fuori campo, non può apparire una soluzione puramente tecnica e accidentale, ma anzi risulta una scelta in certo modo obbligata e densa di significato. Poiché Zeno non è più un eroe del tutto negativo, ma possiede una fisionomia più aperta e problematica, anzi detiene persino una forma di privilegio, in quanto è un essere mobile e disponibile in opposizione ad un mondo immobile ed irrigidito, e perciò è portatore oggettivo di una visione straniante, non avrebbe più ragione d'essere, nella Coscienza, la presenza di un narratore esterno al narrato, implacabile bel giudicare ogni gesto e ogni parola del personaggio. Ma neppure, nel romanzo, sarebbe pensabile un giudizio in relazione ad un punto di riferimento fisso, come è quello del narratore eterodiegetico, dinanzi ad un'entità mobile, in divenire, contradditoria e inafferrabile come è l'inetto-abbozzo. Dinanzi ad una realtà totalmente aperta e ambigua, in cui forza e debolezza, salute e malattia, verità e menzogna, chiaroveggenza e cecità sono sconvolte nelle loro gerarchie abituali, non si possono più dare punti di riferimento stabiliti, non è possibile l'intervento di un voce che giudichi in nome di valori certi e determinati. Per questo, abbandonato in narratore fuori campo, la narrazione viene affidata alla voce del personaggio. Filtrato attraverso la sua voce ambigua, tutto il testo diviene ambiguo, aperto, passibile di varie interpretazioni. Ciò che dice Zeno può essere verità o bugia, o tutt'e due le cose insieme, e nessun punto di riferimento permette di distinguerlo con definitiva certezza.
Proust
Eco della filosofia di Bergson, il tema del tempo e della memoria è centrale nell'opera proustiana. La memoria consente di recuperare il passato, altrimenti condannato a una inesorabile consumazione, e contribuisce a strutturare l'identità dell'io e della coscienza, in un tempo in cui cadono i valori della tradizione e della società. Oltre alla memoria volontaria Proust sottolinea l'importanza della memoria involontaria, che appare improvvisamente, con le "intermittenze del cuore", come un'illuminazione, e colpisce la sfera inconscia e le sue profonde pulsioni, rendendo vivo il passato. La restituzione del passato raggiunge la perfezione attraverso la parola e l'arte, capace di fissare fuori dal tempo le diverse sensazioni. L'arte, in assenza di altri valori, è l'unica possibilità di salvezza per l'uomo, condannato alla solitudine e alla perdita. Nella Recherche Proust dipinge crudamente una vasta gamma di ambienti sociali e di personaggi, indugiando su aspetti sgradevoli, secondo il taglio snobistico e maniacale della prospettiva del narratore. Nella filosofia di Proust anche l'amore, nonostante un'ampia gamma di manifestazioni, non riesce a vincere la spinta verso la prevaricazione egoistica, che lo degrada a una forma di possesso. La sottigliezza dell'analisi non indebolisce l'ordine e la coesione dell'insieme, che l'autore stesso paragona ad una cattedrale "meravigliosamente disposta a più livelli fino all'apoteosi finale". La Recherche è stata paragonata a una sinfonia dominata da grandi temi (l'amore, la gelosia, la morte, la memoria, il tempo) che si intrecciano, si allontanano e si fondono in una magistrale orchestrazione. Per la visione problematica e relativistica della realtà che ne scaturisce, l'opera di Proust è stata recentemente accostata alla teoria einsteniana della relatività. Piano della Recherche è la trasformazione dei ricordi e la loro utilizzazione. Proust ha capito che la vita non la si comprende nel momento in cui la si vive, mentre il ricordo, filtrato dalla meditazione, fors'anche dalla contemplazione, diventa la ricreazione di un passato ancora tutto da vivere. Il tempo perduto rimane in noi con un senso di sofferenza. Ma l'opera di recupero sfocia nel trionfo per il tempo riconquistato e la vita che pareva sfuggire col tempo e nel tempo trova concretezza vera nel profondo. Secondo Proust, l'universo tutto aspira a entrare in contatto con noi e la realtà sua va penetrata. Proust non si chiede, come i simbolisti, che cosa vogliano significare le cose, ma che cosa c'è dentro di esse. La cosa non si nasconde, ma si offre, come tutto ciò che è del creato. Sta all'uomo recuperare nel tempo ciò che l'inesperienza e la rapidità dell'ora fuggente non gli lasciano capire. Proust non procede mai in linea retta nella narrazione. La sua pagina è come un vortice in cui è facile smarrirsi, giacché quando si crede di essere arrivati al fondo ci si ritrova alla superficie, in cerchi più ampi, con orizzonti aperti, da dove si è poi costretti a guardare il nucleo della cosa, ove si è fatalmente destinati a rientrare. L'io del creato si impadronisce degli eventi, li filtra nella memoria ove si incontrano col "flusso di coscienza" che unisce alla realtà delle cose quella delle sensazioni, in un'apertura interpretativa multipla che ricrea personaggi e cose affidandoli e riaffidandoli alla vita interiore sia dell'autore sia del lettore. Per questo personaggi come Swann, Odette, Robert de Saint-Loup, Albertine, Bergotte, la duchessa di Guermantes diventano i compagni di strada di chi nella Recherche riscopre la vita. L'importanza dell'opera di Proust non va cercata tanto nella descrizione dei mutamenti della società francese, quanto nello sviluppo psicologico dei personaggi e nella filosofia che sottende il rivoluzionario impiego delle categorie temporali. Tracciando il percorso del protagonista dalla felicità dell'infanzia alla presa di coscienza sulla sua vocazione letteraria, Proust è alla ricerca di verità eterne, dei ricordi sepolti che possono essere riportati alla luce dalle esperienze quotidiane, della bellezza della vita cui si può talvolta accedere attraverso l'arte, che è in grado di riaprirci gli occhi accecati dalla consuetudine. La dimensione temporale è interpretata da Proust alla luce delle teorie bergsoniane come flusso costante, come coesistenza, con pari grado di realtà, di passato e di presente. Audace risulta inoltre l'esplorazione degli abissi della psiche umana, delle motivazioni del subconscio e dell'irrazionalità dei comportamenti individuali. A' la recherche du temps perdu Pubblicata tra il 1913 e il 1927 in sette parti: ? Du cotè de chez Swann (1913) ? A' l'ombre des jeunes filles en fleurs (1919) ? Le cotè de Guermantes (1920-1921) ? Sodome et Gomorrhe (1922) ? La prisonnière (1923 postumo) ? Albertine disparue (1925 postumo) ? Le temps retrouvé (1927 postumo) Nella "Commemorazione di Proust" dei Saggi critici Giacomo Debenedetti afferma che lo scrittore non ha fatto altro che confessare nel suo capolavoro il decorso della sua vita: infatti egli è un uomo che prima ha perduto il suo tempo, poi si è applicato a recuperare quel tempo perduto "col tesserne la rapsodia struggente, coll'estrarne la veritiera e sensitiva poesia, coll'interrogare la propria musa, che, come le Muse sorelle, è, dicono, figlia della memoria". Certo è che la vita di Proust è nettamente divisa in due distinte epoche. Fin verso i trentacinque anni, cioè fin verso il 1907, egli si dedicò alla "più voluttuosa e dilettosa, alla più conversevole e scapricciata vita dei salotti e del bel mondo". Le sue prove di scrittore erano quantomai saltuarie e discontinue e così quando , ventiquattrenne, nel 1896, raccolse in un volume i suoi sparsi tentativi di scrittore, descrizioni di ambienti mondani, frammenti di racconti, liriche di argomento pittorico e musicale, il suo libretto, che delicatamente si intitolava Les plaisirs et les jours, non ebbe che una vaga risonanza tra i conoscenti e gli amici. Questa fu l'epoca del tempo perduto.Ed ecco che, ad un certo momento, egli si rinchiude, parte alla ricerca di quel tempo perduto. Diventa quale Paul Morand l'ha celebrato in un'ode: "l'ombra nata dal fumo delle sue fumigazioni, con il volto e la voce divorati dalla corrosione notturna". La vita, questa dolce e peregrina assente che ha chiusa fuori dalla sua stanza, gli rifluisce, vestita di musica e di miracolo, sulla pagina. Egli non si mostra più nel mondo: dorme di giorno, perché crede che la notte sia più benigna al suo male. Pare che, nei primi tempi, il suo lavoro non sia stato altro che una sorta di compilazione ispirata, lo strumento di cui si è valso per riconquistare il tempo perduto. C'è, dunque, nel titolo del romanzo proustiano, una sottile insidia che lo fa scambiare per un'autobiografia più o meno larvata; mentre esso è, al contrario, un vero e proprio romanzo, un'opera di fantasia. Proust rivive e interpreta tutta una serie di vicende e di momenti, in parte autobiografici e in parte relativi all'aristocrazia e all'alta borghesia parigine tra l'ultimo ventennio dell'Ottocento e il primo del Novecento, al fine di ritrovare, o meglio "recuperare", il tempo perduto, di cogliere il senso assoluto dell'esistenza, inafferrabile nell'immediatezza dell'avvenimento. Ciò è reso possibile da una minuziosa ricostruzione dei fatti, illuminata (e perciò solo resa significante) dagli improvvisi interventi della "memoria involontaria". Ne deriva un continuo alternarsi di realismo meticoloso e di divagazioni liriche, uno sconvolgimento incessante dell'ordine cronologico. Il narratore vi descrive la propria infanzia, la scoperta della società attraverso la mondanità di Swann e l'altera nobiltà dei Guermantes e del Fauburg Saint-Honoré; l'incontro con l'arte, con l'amore, prima giovanile, poi passionale e tormentato dalla gelosia; la rivelazione del pervertimento sessuale; infine la guerra, che viene a mescolare i vari mondi, quasi degradandoli, come tutti i personaggi ormai deformati dal tempo. Di qui il proposito dell'autore di scrivere un'opera che racchiudesse il mistero di quella trasformazione. Da Du coté de chez Swann a Le temps retrouvé il percorso è lungo e per esprimere adeguatamente le sue concezioni filosofiche ed estetiche Proust deve creare un modo nuovo di scrivere, deve cercare di superare i moduli obiettivi dei realisti e dei naturalisti imprimendo alla pagina una forte dinamicità soggettiva, all'interno della quale i personaggi, gli ambienti, le cose diventano simboli di eventi puramente interiori. E per far questo, rende il suo stile insieme analitico ed essenziale. Pur con le sue volute e le sue ampie dilatazioni concentriche, i suoi incisi e le sue subordinate, che bene esprimono il flusso serrato, circolare e continuo del ricordo, Proust tende infatti sempre alla semplicità, alla precisione, ad un'estrema chiarezza. La Recherche è quindi un'opera radicalmente innovatrice per lo stile, per la particolare umportanza che in essa assume il tema del tempo, per la grandiosità dell'affresco storico-sociale, per la molteplicità dei temi trattati, fra Decadentismo e modernità, per la sua eccezionale forza di introspezione che va al di là dell'episodio di società per restituirci la vita di un essere mondano e spirituale al tempo stesso. Ma bisogna ancora ricordare le numerosissime illuminanti indicazioni che riguardano la letteratura e l'arte in generale; tanto che la Recherche sembra divenire talvolta il taccuino di un critico dotato di un intuito, di una finezza e di una capacità di sintesi sorprendenti. Queste qualità, che Proust insegue e affina con impegno costsnte nel corso degli anni (più di trecento sono gli autori, fra scrittori, filosofi, compositori e pittori citati e studiati), rivelano un confronto continuo, sempre vissuto problematicamente, con la tradizione e la contemporaneità.
Henri Bergson
L'acqua che tocchi dei fiumi
È l'ultima di quella che andò
E la prima di quella che viene.
Così il tempo presente.
Leonardo da Vinci
"Nessuna questione è stata più trascurata dai filosofi di quella del tempo: eppure tutti concordano nel ritenerle fondamentale, la chiave del più grande problema filosofico è là". ("Durée et simultanéité (A propos de la theorie d'Einstein)" in Henri Bergson, "Melanges", Presses Universitaires de France, Paris 1972). Così nel 1922 Henri Bergson definiva il senso della sua ricerca filosofica: fin dai tempi del "Saggio sui dati immediati della coscienza" (1889), egli aveva tentato di riformulare la questione della temporalità, vista come via di accesso privilegiata ai temi metafisici fondamentali. La frase appena citata, per cui quello del tempo sarebbe stato il problema "più trascurato", non va intesa nel senso che la filosofia tradizionale si sarebbe rifiutata a priori di prendere in esame questo argomento: è ben noto come da Platone ad Aristotele, da Agostino a Kant, il pensiero occidentale abbia indagato la natura della temporalità come "successione del prima e del poi" e abbia in generale affermato la centralità del fenomeno-tempo rispetto alla domanda sul senso dell'essere e della vita; tutti concordano, dunque, sul carattere fondamentale della questione. Può darsi, tuttavia, che questa sia stata posta male: il problema del tempo, secondo Bergson, è stato per lo più frainteso in partenza, sia che la temporalità sia stata concepita come un "nostro modo di percepire le cose" (Kant), sia che essa sia stata intesa come una realtà "oggettiva", una specie di contenitore cosmico in cui si svolgerebbe la successione degli eventi (Newton). D'altra parte, per tutto l'arco dell'evoluzione del suo pensiero Bergson avrà modo di ribadire che la cifra essenziale della sua filosofia doveva essere vista proprio nella "durée", nel concetto di tempo inteso come durata, come un "filo che si va avvolgendo su un gomitolo" ("Introduction à la métaphisique" in H.Bergson "Oeuvres" Paris 1959). Gli altri grandi temi del bergsonismo, quelli dell'intuizione, del rapporto tra l'intelligenza e l'istinto, dello "slancio vitale", ruotano attorno a questo punto centrale: "A parer mio, qualunque riassunto delle mie idee le distorcerà nel loro insieme e le esporrà, con ciò stesso, a numerose obiezioni, se esso non si colloca di primo acchito e se non ritorna senza posa a ciò che considero come il centro stesso della dottrina: l'intuizione della durata" ( Lettera ad H.Hoffding del 15 marzo 1915 ). In effetti, l'idea della durata è già presente nelle prime opere di Bergson, e anche in quella forse più compromessa con le categorie del positivismo allora dominante, il Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889: i testi successivi, da Materia e memoria (1896) fino alla celebre Evoluzione creatrice (1907) e oltre, riprendono e ampliano l'intuizione originaria per cui il "tempo della coscienza" sarebbe la forma autentica della temporalità, nonché il fondamento della creatività-libertà dello spirito rispetto alla materia. Sulla scia di Agostino e Rousseau, anche Bergson andò incontro ad un' "illuminazione", come ebbe modo di raccontare, il 9 maggio 1908, in una lettera a William James: "Per quanto riguarda gli avvenimenti ragguardevoli, non ce ne sono mai stati nel corso della mia carriera, almeno niente di oggettivamente ragguardevole. Ma , dal punto di vista soggettivo, non posso fare a meno di attribuire una grande importanza al cambiamento sopravvenuto nel mio modo di pensare durante i due anni successivi alla mia uscita dalla Scuola Normale, dal 1881 al 1883 (.) Sino ad allora, ero rimasto completamente imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero stato condotto dalla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo praticamente senza riserve. Era mia intenzione di consacrarmi a ciò che allora si chiamava 'la filosofia delle scienze' ed a questo scopo, dopo l'Ecole normale, intrapresi lo studio di alcune nozioni scientifiche fondamentali. Ebbene, fu l'analisi della nazione di tempo, così come compare in meccanica o in fisica, che sconvolse tutte le mie idee. Con mio grande stupore, mi accorsi che il tempo scientifico non dura, che nella nostra conoscenza scientifica delle cose non ci sarebbe niente da cambiare se la totalità del reale si svolgesse in un sol colpo, istantaneamente, e che la scienza positiva consiste essenzialmente nella eliminazione della durata. Fu questo il punto di partenza di una serie di riflessioni che, progressivamente, mi inducevano a rifiutare quasi tutto quello che avevo accettato fino ad allora e a cambiare completamente il mio punto di vista". Nella tesi in latino sull'idea di luogo in Aristotele ("Quid Aristoteles de loco senserit") del 1889, Bergson commenta il libro della Fisica, in cui lo Stagirita contrappone all'idea astratta dello "spazio" quella concreta del "luogo": Aristotele ritiene che gli oggetti fisici non siano disposti nel nulla (che non esiste), ma in una realtà che li contiene pur non coincidendo con essi. Quando da un certo recipiente viene tolta l'acqua, lo stesso luogo viene occupato dall'aria: in base a questo esempio "è chiaro che il luogo è pur qualcosa". Esso può essere definito come "il primo limite immobile del continente", ossia come ciò che contiene esattamente un oggetto, pur non seguendo gli eventuali movimenti del contenuto. Secondo Bergson, il concetto di "luogo" come spazio qualificato, diverso da quello omogeneo e "assoluto" della fisica moderna, sarebbe stato introdotto da Aristotele per superare i paradossi di Zenone di Elea, basati sulla divisibilità dello spazio all'infinito: gli argomenti zenoniani (il più famoso dei quali è forse quello di Achille e la tartaruga) intendono negare la possibilità del movimento, concepito come un contraddittorio passaggio attraverso infiniti punti inestesi. Per superare questi paradossi Aristotele avrebbe distinto uno spazio "reale" (il luogo) dallo spazio "ideale" della geometria, il solo che - proprio perché astratto - risulterebbe davvero divisibile all'infinito. Secondo Bergson, tuttavia, la soluzione aristotelica è insufficiente: il "luogo" resta una realtà statica, e perciò incapace di spiegare la realtà del movimento, per il quale nessun ente, in alcun momento, "giace" perfettamente in un "luogo". In ogni caso la risposta agli enigmi dello spazio e del movimento deve essere raggiunta mettendo tra parentesi i pregiudizi della fisica classica (aristotelica) o moderna (newtoniana), per tornare ad indagare l'essenza dell'elemento dinamico per antonomasia, la "vita": proprio a questo mira la seconda tesi di dottorato di Bergson., il "Saggio sui dati immediati della coscienza". L'idea del "tempo-durata" costituisce il punto di partenza dell'intera filosofia di Bergson: in primo luogo, la durata è una "specie di successione" che riguarda il presente, il passato e il futuro, e questa successione ha il carattere di un flusso. La durata è continua creazione, irruzione di novità, il vissuto coscienziale è irripetibile. Perfino nel caso del più stabile degli stati psichici, come la percezione visiva di un oggetto immobile nello spazio (immaginando che esso sia scorto, a più riprese, con le stesse condizioni di luce e dalla stessa angolatura), "l'immagine che ne ho in questo momento differisce da quella che ne ho avuto poco fa, se non altro perché è più vecchia di un istante" ("L'evoluzione creatrice", 1907) Bergson ed Einstein Nel 1922, parlando della teoria della relatività di Einstein, Bergson sembra recuperare l'ipotesi di un tempo materiale uno ed universale. Contro il principio einsteniano di un'infinità virtuale dei tempi in rapporto alla velocità dei diversi sistemi d'osservazione, in 'Durée et simultaneité" egli sostiene che la stessa teoria della relatività finirebbe per conformare la credenza tradizionale in un solo tempo, comune alle cose e alle diverse coscienze. Egli prende in esame, però, solo le teoria della relatività ristretta, presentata da Einstein nel 1905, la quale nasce dall'esigenza di conciliare l'apparente contraddizione tra il principio galileiano della relatività del movimento (per cui le leggi che regolano i mutamenti interni ad un sistema fisico non sono condizionate dallo stato di moto o di quiete del sistema stesso) e il valore assoluto della velocità della luce, indipendente rispetto al moto o alla quiete della sorgente luminosa. La teoria di Einstein afferma che lo spazio e il tempo, nel caso di due sistemi di cui uno si muova uniformemente rispetto all'altro, non avrebbero un valore assoluto, ma relativo al sistema assunto come punto di riferimento. La teoria della relatività generale estende poi questa relatività del tempo e dello spazio a tutte le altre grandezze fisiche (come la massa, l'energia, ecc.) e interpreta l'attrazione gravitazionale come una curvatura operata dalla massa nella struttura dello spazio. I presupposti teorici che portarono Einstein alla formulazione della teoria della relatività ristretta si basano sulle considerazioni di Galileo. Questi, nel suo "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", aveva notato l'impossibilità, stando all'interno di un sistema chiuso, di decidere se il sistema stesso fosse in moto rettilineo uniforme o in quiete: su una nave che si muove, un oggetto pesante lasciato cadere dalla cima dell'albero precipiterà alla base dello stesso, proprio come se lo scafo fosse fermo. D'altra parte, le esperienze compiute da Albert Michelson ed Edward Morley tra il 1881 ed il 1905 portavano a concludere che la velocità di un raggio luminoso resta invariata, indipendentemente dal fatto che esso sia indirizzato dallo sperimentatore nella direzione del moto della Terra o in quella opposta: emerge così un chiaro contrasto con la logica della fisica tradizionale, per la quale la velocità del raggio indirizzato nel senso del movimento dovrebbe risultare evidentemente maggiore, addizionandosi a quella della rotazione terrestre. Einstein pensò che questo paradosso potesse essere risolto ipotizzando che non la velocità della luce, ma gli strumenti usati per calcolarla (e cioè i valori del tempo e dello spazio) potessero mutare in rapporto alla velocità del sistema di riferimento. Da questa ipotesi si potevano ricavare alcuni corollari di portata sconvolgente rispetto al modello della fisica classica: secondo la teoria einsteniana le dimensioni di un regolo (di una qualsiasi unità di misurazione della lunghezza) sarebbero destinate a diminuire nella direzione del movimento; la durata di un certo evento sarebbe maggiore in un sistema in movimento rispetto ad un sistema in quiete; infine due eventi simultanei rispetto ad un certo sistema di riferimento potrebbero essere in successione rispetto ad un altro. Eintein cercò di dimostrare il significato relativo del concetto di simultaneità attraverso il celebre esempio dei due osservatori, uno situato su un treno in corsa e l'altro a terra, lungo la ferrovia: seguendo lo schema Diremo che il treno si muove con velocità v e che il passeggero usa il treno stesso come sistema di riferimento, mentre l'osservatore a terra si riferisce, com'è naturale, ai binari della ferrovia. Ora, due eventi in A e in B (ad esempio due segnali luminosi) simultanei rispetto all'osservatore a terra, lo sono anche necessariamente in rapporto a quello sul treno? Che i due raggi di luce siano simultanei, significa che sono destinati ad incontrarsi nel punto centrale M della distanza AB; supponiamo quindi che M, al momento della partenza dei raggi dalle rispettive sorgenti, coincida col punto medio M' del vettore AB, rappresentante lo spostamento del treno. Partecipando al movimento di questo, tuttavia, anche M' si sposta verso destra: il viaggiatore sul treno percepirà così il raggio di luce proveniente da B in anticipo rispetto a quello scaturito da A. Sarebbe così dimostrato il carattere relativo della simultaneità, destinata a tradursi in successione con il cambiamento del sistema in cui si colloca l'osservatore. Bergson critica su questo punto la teoria della relatività e distingue due livelli di discorso: - da un punto di vista scientifico, matematico, la teoria di Einstein può essere pienamente accettabile; in ogni caso non spetta al filosofo come tale il compito di confermarla o confutarla mediante prove sperimentali; - dal punto di vista della sua "metafisica implicita", della tendenza, cioè, propria di ogni teoria scientifica a presupporre inconsapevolmente una certa visione del mondo, la teoria della relatività porterebbe non solo a degli apparenti paradossi, ma a delle evidenti assurdità. Per Einstein la struttura di un sistema in movimento cambierebbe rispetto a quella di un sistema in quiete: o almeno questa è l'interpretazione della teoria della relatività che sembra presentare Bergson. Su questo punto si concentra la critica: il tempo cambia con il movimento, afferma Einstein, ma non dice quale dei due sistemi dovrebbe muoversi rispetto all'altro, quale dei due tempi sarebbe destinato a modificarsi.
Panorama storico
La morte della regina Vittoria nel 1901 coincide con uno straordinario fermento culturale: l'anno prima erano state poste le basi per la fisica quantistica, grazie al lavoro di Planck e Einstein (sviluppate in seguito anche dall'inglese Rutherford); nel 1905 lo stesso Einstein presenta il suo saggio sulla relatività ristretta; Freud pubblica i suoi primi lavori, "L'interpretazione dei sogni" (1900) e la "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901); l'inglese Bertrand Russel (1872-1970) teorizza la filosofia analitica. Gli sviluppi artistici sono molteplici: due esempi per tutti, la rivoluzione pittorica delle Demoiselles d'Avignon di Picasso (1905), che segnano la nascita del cubismo, e la diffusione del cinema, che passa da semplice registrazione della realtà, a spettacolarità, a ri-costruzione di essa, proprio come quella che Georges Méliès opera nel 1902, ricostruendo l'incoronazione di Edoardo VII nell'Abbazia di Westminster con attori e comparse, prima che questa abbia luogo. La società inglese vede inoltre la diffusione del socialismo, seppure in correnti diverse, tra cui la Fabian Society, appoggiata da Shaw, e i movimenti per il suffragio femminile, di cui il più noto è la Woman's Social and Political Union di Emmeline Pankhurst. Nel quadro convulso e drammatico dell'Europa tra le due guerre, la letteratura testimonia quasi sempre una situazione di crisi, ossia esprime un disagio nei confronti dell'esistenza, spesso spingendosi nell'analisi delle contraddittorietà della società e dell'individuo. Da ciò derivano alcuni caratteri dominanti: la tendenza alla sperimentazione di nuove forme espressive (le diverse avanguardie), il recupero nostalgico e utopico della tradizione, anche remota (la diffusa passione per Dante), la ricerca di rapporti con altre forme del sapere ( la filosofia e soprattutto la psicoanalisi). Da un punto di vista cronologico, i primi scrittori che testimoniano, con i loro romanzi psicologici, il passaggio dall'età vittoriana a quella edoardiana (1901-1910) sono molteplici, da May Sinclair (1863-1949), a Joseph Conrad (1857-1924), Edward M.Foster (1879-1970), David H. Lawrence (1885-1930): la prosperità e la stabilità raggiunte in pochi anni rendono le persone più consapevoli, e quindi più sicure nella vita; allo stesso modo, gli autori ampliano i propri orizzonti, e diventano più critici, più penetranti nell'osservazione dei comportamenti umani. La denuncia contro i falsi principi del periodo vittoriano si fa più forte, anche se la tendenza narrativa dei primi anni del Novecento è di tipo naturalistico, come dimostra il grande successo di autori come Herbert G. Welles (1186-1946), Arnold Bennet (1867-1931) e John Galsworthy (1867-1933). La poesia è invece ancora legata alla tradizione, cui fanno capo i "poeti georgiani": l'unica presenza veramente innovativa è quella di William B. Yeats (1865-1939), il quale si fa portavoce del rinnovamento culturale irlandese. Da ricordare, inoltre, Robert Seymour Bridges (1844-1930), celebratore della bellezza come ragione primaria nella vita dell'uomo, Alfred Edward Housman (1859-1936), che adotta toni pessimistici e malinconici, disillusi, e Wilfred Owen (1893-1918), testimone dei sentimenti di angoscia e di pietà suscitati dalla guerra, che Owen vive in prima persona, descrivendola con uno stile moderno, immediato e sobrio. Nel primo dopoguerra, lo shock dell' "inutile strage" e le conseguenti angosce sul destino dell'uomo e della società producono due diverse linee: da un lato il recupero della tradizione, dall'altro la nascita di una letteratura esistenziale. Per il primo aspetto si fa riferimento alle differenti forme di neoclassicismo che si diffondono dall'arte alla musica, alla letteratura, in modi assai diversi, ma legati al progetto di recuperare un'idea di forma organica e compiuta (neoclassica appunto), che possa costituire un elemento sicuro e indiscusso, nella sua perfetta autonomia, contro il crescente senso di crisi della civiltà. La letteratura esistenziale prospetta invece un'analisi impietosa e continua del malessere individuale e sociale, spesso sottolineando il naufragio della ragione e l'affermazione dell'assurdità e del caos dell'esistenza, con esiti o nichilistici o di utopico riscatto in base a prospettive di tipo religioso. La crisi investe invece radicalmente i modo della narrativa nei grandi maestri del romanzo contemporaneo: Marcel Proust, James Joyce (1882-1941) e Virginia Woolf (1882-1941) e in modo più moderato Svevo si muovono da una prospettiva eminentemente soggettiva che sostanzialmente tende ad abbattere le distinzioni tra mondo interno e mondo esterno e ambisce ad una scrittura capace di una rappresentazione integrale dei diversi strati della coscienza. In Joyce e Woolf domina soprattutto la prospettiva dello "stream of consciousness", il flusso della coscienza, saggiato ora in chiave puramente fenomenologica e con ampia sperimentazione linguistica (Joyce), ora con taglio memoriale (Woolf). Ne consegue una narrazione chiusa dentro la prospettiva del monologo interiore, ultima tappa del processo di soggettivizzazione del romanzo e quasi approdo alla dissoluzione della sua struttura tradizionale, in quanto vicende e personaggi sono del tutto secondari al fluire vano della voce del soggetto. L'eminenza di questa prospettiva porta infine ad una concezione del tutto soggettiva del tempo e della dinamica delle vicende: questi sono rappresentati a seconda del ritmo di percezione e interesse interno, per cui procedono in apparente disordine e fuori da una successione cronologica. In poesia, questa poetica ha il suo massimo rappresentante nell'americano, naturalizzato inglese, Thomas S. Eliot (1888-1965) che, con The Waste Land (La terra desolata, 1920), dà inizio a un nuovo modo di poetare. Sia Eliot che Yeats si staccano una volta per tutte dall'influenza romantica, evitando lo sfogo di sentimenti personali e soggettivi, piuttosto evadendo da essi attraverso la combinazione di esperienze e impressioni in sequenze e stili liberi, secondo lo stile della poesia "imaginista" teorizzata da un altro americano, Ezra Pound (1885-1972). Il movimento che più di tutti caratterizza la prosa di questo periodo è il cosiddetto "modernismo", una reazione, o una sfida, al dominio del realismo, sviluppatasi parallelamente alla psicanalisi freudiana e la sua teorizzazione dell'inconscio, alla teoria della temporalità di Bergson, e all'analisi del bagaglio culturale associato all'antropologia e alla mitologia. La tecnica dell'interior monologue (che si esplica nel flusso della coscienza), derivata da una teoria filosofica di William James ne è un esempio, e non a caso diventa il leitmotiv della letteratura dei primi anni del Novecento: la tendenza anti-realista e il privilegiare la realtà soggettiva, trovano nel flusso di coscienza una rappresentazione più vicina a quell'insieme di emozioni, pensieri, associazioni di idee formulate dall'individuo. In questo modo si giunge a prendere in considerazione il singolo, e per questo il modernismo include molte scrittrici, perché l'attenzione all' "io" è un metodo particolarmente adatto a formulare un'estetica femminile. Dorothy Richardson (1873-1957), Virginia Woolf (1882-1941), May Sinclair (1863-1956), Ivy Compton-Burnett (1884-1969), Katherine Mansfield (1888-1962), Elizabeth Bowen (1899-1973). Rebecca West (1892-1983), Vita Sackville West (1892-1962): tante sono le donne che vedono in questo abbattimento tra arte e vita un modo per costituire un metodo espressivo femminile, sia che privilegino l'analisi psicologica, sia che si occupino di biografie.
Joyce
L'opera di Joyce è espressione di una profonda vocazione sperimentale di carattere conoscitivo, alla ricerca di più stretti nessi tra lingua, coscienza e inconscio.
Nei Dubliners (Gente di Dublino) è presente una struttura realistica, continuamente messa in crisi dall'uso di simboli ed archetipi ricorrenti e soprattutto dalla tecnica dell' epiphany (epifania), cioè dell'improvvisa folgorazione in cui, scrive Joyce, "l'anima dell'oggetto più comune ci appare radiante": una sorta di apertura del tessuto compatto dell'essere per captare le zone del profondo sia dentro la coscienza, sia nel circuito rappresentativo della realtà oggettiva.
L'Ulisse porta al culmine questa poetica, provocando una rivoluzione espressiva: ogni distinzione tra interno ed esterno è abolita, la narrazione procede in una continua osmosi, che tende ad agglutinare il dato percepito e la sua elaborazione mentale.
Narratore e lettore si insediano nella coscienza dei personaggi, osservando la varia dinamica del suo flusso tra pensiero, sentimenti e eventi.
Ne consegue la dissoluzione dell'impianto narrativo tradizionale, in quanto è impossibile costituire un ordine ed una trama, nonché una unità psicologica dei personaggi.
La scrittura narrativa dev'essere una sorta di grande registrazione della fenomenologia del vario caos di voci, gesti, oggetti, sensazioni, eventi, che animano continuamente la dimensione quotidiana di chiunque e la sua stessa percezione, in cui si intrecciano momenti consapevoli ed altri inconsci.
Con l'Ulisse Joyce ha scritto una sorta di antiromanzo, che rimane l'archetipo di ogni tipo di sperimentazione nella scrittura, e come tale ha avuto anche il suo influsso in Italia, soprattutto negli anni Sessanta, al tempo della neoavanguardia.
Ulisse
Il romanzo è il racconto di una giornata (il 16 giugno 1904) di Leopold Bloom, ebreo irlandese agente di pubblicità, e di Stephen Dedalus, giovane intellettuale ed artista in formazione. Il loro vagare nelle strade di Dublino riproduce le mitiche tappe dell'Odissea, secondo questo schema di 18 episodi, suddivisi in tre parti : Telemachia, 1-3; Odissea, 4-15; Nostos (ritorno), 16-18.
Telemaco (Stephen nella torre dove abita con due amici); Nestore (Stephen insegnante in una scuola); Proteo (Stephen a passeggio su una spiaggia); Calipso (Bloom prepara la colazione per sé e la moglie Molly); i Lotofagi (Bloom al bagno); Ade (Bloom a un funerale); Eolo (Bloom consegna un annuncio alla redazione di un giornale); i Lestrigoni (Bloom in trattoria); Scilla e Cariddi (Bloom in biblioteca); le Simplegadi (panoramica sulle strade di Dublino); le Sirene (Bloom ascolta musica in un bar); il ciclope (Bloom alle prese con un nazionalista fanatico in osteria), Nausicaa (relazione onirica tra Bloom e una giovane sconosciuta); le mandrie del Sole (Bloom all'ospedale per avere notizie di una gestante); Circe (Bloom al bordello); Eumeo (Bloom e Stephen in un locale); Itaca (Bloom ospita Stephen a casa); Penelope (Mrs Bloom in dormiveglia fila e disfa i suoi più occulti pensieri).
Bloom e Stephen si incontrano casualmente e brevemente al giornale e in biblioteca, infine in un quartiere malfamato dove Stephen ubriaco è aggredito da due soldati inglesi ed è soccorso da Bloom, che considera Stephen come un figlio, al posto del proprio, morto bambino.
Così Bloom porta a casa propria Stephen chiacchierando fino a notte fonda di donne, delitti ed arte, finché Stephen si congeda, mentre Bloom si corica e Molly, già a letto, si abbandona al fluire memoriale.
Quest'opera ha un posto fondamentale nella storia del romanzo: essa segna il punto decisivo di rottura con la tradizione ottocentesca, spezzando le srutture del linguaggio e gli schemi intellettuali che lo limitavano e lasciando irrompere attraverso il flusso di coscienza il caos del subcosciente inesplorato con una libertà e un'audacia per quel tempo assolute. La storia ricalca l'antico mito omerico e trasforma il protagonista in una specie di antieroe moderno, combattuto fra le misere contraddizione della vita quotidiana. Ma qui non ha importanza la trama, come susseguirsi di avvenimenti e d'incontri: ciò che conta è la descrizione minuziosa di Dublino, con le sue strade, bar, ospedali, cimitero, biblioteca, l'accurata orchestrazione dei dialoghi, l'umanità dei personaggi e soprattutto l'uso sottile delle alternanze dei piani stilistici ( dal monologo interiore al flusso di coscienza e alla parodia degli stili più vari).
Alla fine della giornata e del romanzo ci si rende conto che la prospettiva si è allargata e Ulisse arriva ad abbracciare ogni aspetto della totalità dell'esperienza umana: il microcosmo Dublino è allusivo del mondo intero, il dramma dei singoli personaggi diventa il dramma di ognuno, alla ricerca di se stesso e di una definitiva presa di coscienza.
Virginia Woolf
Scrittrice inglese (Londra 1882-1941). Figlia del critico e filosofo sir Leslie Stevens, fu educata privatamente. Sensibile, inquieta, soffrì di gravi crisi depressive: l'ultima di queste la condusse a togliersi la vita annegandosi nell'Ouse. Nel 1912 aveva sposato lo storico e sociologo Leonard Woolf, andando ad abitare nel quartiere di Bloomsbury, dove aveva dato vita a un cenacolo di letterati e artisti (ne fecero parte E. M. Forster, i Sitwell, G. L. Lytton Strachey, Vita Sackville-West, J. K. Keynes, ecc.), il cosiddetto Bloomsbury Group. Nel 1917 i Woolf avevano inoltre fondato la casa editrice The Hogarth Press, presso la quale uscirono, tra le altre, opere giovanili di T. S. Eliot e di Katherine Mansfield.
I primi romanzi della Woolf - The Voyage Out, pubblicato nel 1915 ma
scritto intorno al 1906, e Night and Day (1919; Giorno e notte) - sono di stampo tradizionale, ma già i racconti di Monday or Tuesday (1921; Lunedì o martedì) preannunciano l'originalità tecnica e stilistica destinata a prorompere in Jacob's Room (1922; La stanza di Giacobbe) e a costituire la caratteristica principale dei suoi romanzi maggiori, svolti tutti in chiave più o meno autobiografica: Mrs. Dalloway (1925), in cui è avvertibile l'influsso della struttura dell'Ulisse di Joyce, To the Lighthouse (1927, Gita al faro), Orlando (1928), The Waves (1931; Le onde), The Years (1937; Gli anni) e Between the Acts (1941; Intervalli). Tra i numerosi e pregevoli volumi di saggi e scritti vari si ricordano inoltre The Common Reader (1925 e 1932), l'appassionata perorazione femminista di A Room of One's Own (1927; Una stanza propria) e A Writer's Diary (postumo, 1951; Diario di una scrittrice). Romanziera in possesso di grandi doti di penetrazione psicologica, la Woolf occupa un posto assai importante nella narrativa contemporanea, soprattutto per il suo impiego della tecnica del 'flusso di coscienza (stream of consciousness)', o monologo interiore, da lei sviluppata e affinata fino a raggiungere livelli di straordinaria sottigliezza e complessità. Motivo centrale della narrativa di Virginia Woolf è il rapporto fra il tempo, avvertito come inarrestabile flusso divoratore, e l'esistenza umana, che cerca di costruirsi una identità, nel continuo tritarsi di eventi e sensazioni. Vicina per questo a Proust, se ne differenzia per un procedere oggettivo della narrazione (pure in casi autobiografici) ed anche per un tratto decisamente più elegiaco e malinconico, quando non tragico, nel sondare il vortice del vuoto che sottostà alla vita. L'autrice, influenzata dalla scrittura di Dorothy Richardson, impiega una sofisticata tecnica narrativa che, oltre a contemplare lo stream of consciousness (flusso di coscienza) richarsoniano, comprende altre diverse tecniche, come il moltiplicarsi dei punti di vista e l'uso fittissimo dei flashback, in modo da costituire un racconto polifonico, capace di esprimere il continuo misurarsi di traccia e perdita della memoria nel fluire implacabile del tempo. Ne scaturisce una narrativa assai innovativa, che rompe l'unità delle psicologie e polverizza la trama per rappresentare in modo fenomenologico sia gli eventi psichici, sia i fatti, sia gli oggetti. Virginia Woolf riscosse rapidamente largo successo nell'Italia degli anni Trenta, ma la complessità della sua opera è stata recepita solo in tempi più recenti: dagli anni Sessanta diventa il modello da seguire per molta della scrittura femminile italiana, impegnata sul fronte di una nuova e frantumata memorialistica. 'To Tho Lighthouse' ('Gita al faro') Pubblicato nel 1927, il romanzo si incentra sulla famiglia Ramsay (che rappresenta quella della scrittrice) e si compone di tre parti: in The Window (la finestra), Mr. Ramsay, filosofo insigne, la moglie (il personaggio centrale, osservato nella sua e nell'altrui prospettiva) e i vari figli sono in vacanza, nel settembre 1914, nella loro casa alle isole Ebridi; si progetta una gita al faro, particolarmente cara al piccolo James, ma viene rinviata per il maltempo. Dopo un decennio 'raccontato' solo nella prospettiva della casa in sfacelo (Time Passes, Il tempo passa), in The Lighthouse (Il faro) la famiglia, decimata dai lutti, ovvero dalla morte della madre e di due figli, ritorna alla casa e compie l'antica gita, mentre la pittrice ospite Lily Briscoe (in cui si immedesima l'autrice) riesce a completare un dipinto che aveva cominciato dieci anni prima proprio in quel luogo. La seconda parte (Il tempo passa) è breve e si concentra sulla singolare prospettiva della casa a lungo abbandonata ed in rovina: non ci sono personaggi, ma sono gli stessi oggetti ad essere protagonisti della lotta nei confronti del tempo. La parola della Woolf ha una sua fluidità, che a volte si condensa in dettagli oggettivi e nitidi, altre si dirama in modo lirico e poetico, con improvvisi e laceranti interrogativi di fondo. Singolare è il taglio della prospettiva degli oggetti e delle cose mute, anch'esse, non meno delle persone, qui catturate nel fluire dell'inesorabile distruzione. Gli avvenimenti esteriori ridotti al minimo vengono trascritti solo per la vibrazione interiore che i personaggi scoprono nel caos delle loro esperienze. L'assenza quasi totale del dialogo, il vanificarsi della normale dimensione temporale nel corso del racconto, la compenetrazione continua tra il mondo esterno e quello intimo, secondo la tecnica narrativa del 'flusso di coscienza', danno allo stile del romanzo le caratteristiche di una prosa lirica, fluida e musicale, impregnata di una grazia evanescente.
La relatività
Teoria della relatività
Generalità
Alla fine del secolo scorso l'interpretazione teorica dei fenomeni fisici del mondo macroscopico era compendiata nelle classiche equazioni di Newton per i fenomeni meccanici e in quelle di Maxwell per i fenomeni elettromagnetici e ottici. I due gruppi di equazioni erano basati su ipotesi fondamentalmente diverse e contrastanti: nelle equazioni di Newton si suppone che ogni azione tra i corpi si manifesti istantaneamente, qualunque sia la distanza che li separa (teoria dell'azione a distanza), mentre in quelle di Maxwell le forze si propagano con una velocità finita, che è quella della luce. All'inizio del sec. XX i fisici teorici si impegnarono nel tentativo di superare il dualismo tra i principi meccanici e quelli elettromagnetici e di inquadrarli tutti entro un unico schema. Nel tentativo di raggiungere questa unificazione fu proposta da A. Einstein la teoria della relatività applicata ai sistemi muoventisi di moto rettilineo uniforme (teoria della relatività ristretta, 1905), estesa in seguito ai sistemi muoventisi di moto qualunque (teoria della relatività generale, 1915).
Teoria della relatività ristretta o speciale
I sistemi inerziali
Le leggi della dinamica newtoniana si esprimono in sistemi di riferimento detti inerziali (o galileiani), cioè non accelerati, in cui vale la legge d'inerzia. Un sistema può essere considerato inerziale in varie approssimazioni. Per esempio un sistema solidale con la superficie terrestre è considerabile in molte circostanze come un sistema inerziale. In esperimenti particolari si può tuttavia rivelare la accelerazione dovuta alla rotazione della terra su se stessa (pendolo di Foucault) o alla rotazione attorno al Sole. In linea di principio, il sistema di riferimento inerziale più preciso che si riesca a definire, è uno solidale con gli oggetti celesti più lontani (stelle fisse). In un sistema di riferimento inerziale la nota formula F=ma lega la forza che agisce su un corpo al moto che produce. Tale formula rimane invariata anche se il moto è descritto in un sistema di riferimento che si muove di moto rettilineo uniforme rispetto al precedente. Infatti consideriamo il moto di un punto materiale in un sistema di riferimento inerziale; le sue coordinate saranno descritte dalle funzioni X (t), Y (t), Z (t).
Consideriamo ora un sistema di riferimento che si muove con velocità costante w rispetto al precedente lungo l'asse X. Le coordinate del medesimo punto materiale espresse nel nuovo sistema di riferimento saranno: x(t)=X(t)-wt, y(t)=Y(t), z(t)=Z(t). Queste sono dette trasformazioni di Galileo. Si osservi che non coinvolgono la variabile temporale, che rimane la stessa in ogni sistema di riferimento. Dalle precedenti trasformazioni si ricava immediatamente la legge di composizione della velocità vx=Vx-w, vy=Vy, vz=Vz e anche a=A cioè l'accelerazione è la stessa nei due sistemi di riferimento. Essendo anche la forza F la medesima nei due sistemi di riferimento, ne segue che la legge della dinamica è la stessa nei due sistemi. Riassumendo si può dire, in termini moderni, che le equazioni della meccanica sono invarianti per trasformazioni galileiane delle coordinate. Galileo formulò l'idea che questo fatto fosse del tutto generale, e che non fosse possibile con alcun esperimento stabilire se un sistema di riferimento sia o meno in moto rettilineo uniforme rispetto a un sistema di riferimento inerziale. Questo è il contenuto del cosiddetto principio di relatività galileiano.
Teoria della relatività ristretta o speciale
Dalle equazioni di Maxwell a Einstein
Il problema che si poneva nella seconda metà del secolo XIX, era che le equazioni di Maxwell, che governano tutti i fenomeni di natura elettromagnetica, non sono invarianti per trasformazioni di Galileo. Quindi il principio di relatività non era valido, oppure qualcosa andava modificato nel cambiamento di coordinate tra sistemi di riferimento in moto uniforme. Inizialmente solo la prima ipotesi venne presa in considerazione. Fu introdotto il concetto di etere, come un mezzo nel quale hanno luogo i fenomeni elettromagnetici, e quindi un sistema di riferimento inerziale privilegiato, nel quale cioè l'etere è a riposo. L'etere sarebbe stato il supporto delle onde elettromagnetiche così come l'aria è il supporto delle onde acustiche. Furono concepiti numerosi esperimenti per rivelare il moto della terra rispetto all'etere. La più celebre esperienza a questo riguardo fu quella eseguita per la prima volta da Michelson nel 1879 e poi ripetuta da lui e da vari sperimentatori con sempre maggior precisione e in diverse condizioni: le più accurate misure stabilirono che entro un errore di 300 m/s la velocità della luce era costante qualsiasi fosse la direzione di propagazione ed era indipendente dal moto della Terra, in netto contrasto con la legge di composizione delle velocità di Galileo. Altri esperimenti dovuti a Fizeau, l'osservazione del fenomeno dell'aberrazione astronomica annua, lo studio delle stelle doppie, ecc., fornirono un complesso di dati sperimentali in contraddizione tra di loro quando si tentò di interpretarli alla luce della concezione fisica, basata sull'idea dell'esistenza di un riferimento, l'etere, sede dei fenomeni elettromagnetici, e sull'accettazione del principio di relatività galileiana. D'altra parte, il concetto stesso di etere appariva fisicamente infondato, dovendo l'etere costituire un gas estremamente rarefatto per riempire di sé tutto lo spazio e non impedire il moto dei corpi, e nello stesso tempo possedere una fantastica solidità per sostenere le vibrazioni trasversali delle onde luminose. Parallelamente nel 1904 Lorentz osservò che benché le equazioni di Maxwell non siano invarianti per trasformazioni galileiane, lo sono per altre trasformazioni, dette oggi di Lorentz, che sono delle modifiche a quelle di Galileo. Se la velocità relativa è molto piccola rispetto alla velocità della luce, si riottengono le trasformazioni di Galileo.
Teoria della relatività ristretta o speciale
Le equazioni di Lorentz
Dalla non rivelabilità sperimentale dell'etere, e dalla precedente osservazione di Lorentz, Einstein dedusse che non dovesse essere abbandonato il principio di relatività, invece dovessero essere modificate le trasformazioni di coordinate in quelle di Lorentz. Il punto più difficile da comprendere era il significato della differenza della variabile temporale tra i vari sistemi di riferimento, che appare nelle trasformazioni di Lorentz. Partendo dalla critica del concetto di contemporaneità Einstein arrivò alla necessità di tempi diversi in sistemi di riferimento in moto relativo. Secondo le ordinarie concezioni intuitive si ammette in generale di poter considerare due fenomeni come verificantisi nello stesso istante in assoluto, cioè prescindendo dal sistema di riferimento; si può attribuire un significato preciso alla contemporaneità di due fenomeni che avvengono nello stesso luogo, ma bisogna essere più prudenti quando si tratta di confrontare due fenomeni che si verificano in località differenti. Per stabilire se un evento che ha luogo in un punto A sia o no contemporaneo di un evento che ha luogo in un punto B, ci si dovrà servire di due orologi. Per accordare questi ci si servirà di segnali luminosi, per cui bisogna conoscere la legge di propagazione di tali segnali. La velocità della luce rispetto a due osservatori fissi o in moto è molto grande ma finita, dell'ordine di circa m/s. In tutti i problemi in cui sono considerati moti che avvengono con velocità molto più piccole di questa e che sono praticamente tutti i problemi studiati dalla meccanica classica, questa velocità di propagazione può essere considerata infinita e quindi il tempo di propagazione della luce trascurabile, per cui gli osservatori considerano un tempo comune; se si tiene conto che qualsiasi segnale si può trasmettere solo con velocità finita, il concetto di simultaneità può essere riferito solo a un determinato osservatore per cui, se per quell'osservatore due fenomeni sono simultanei, non lo sono per un altro osservatore in moto rispetto al primo. Einstein estese il principio di relatività galileiano a tutti i fenomeni, non solo meccanici, ma anche elettromagnetici e di qualsiasi altra natura e introdusse il principio della relatività ristretta: le leggi di tutti i fenomeni fisici devono avere la stessa forma rispetto a tutti gli osservatori animati l'uno rispetto all'altro di moto traslatorio rettilineo uniforme. Questo significa che con nessuna esperienza di fisica non si è mai in grado di accertare se il sistema di riferimento con cui si è solidali stia fermo o si muova di moto traslatorio rettilineo uniforme. Il vecchio concetto newtoniano di tempo assoluto viene sostituito dal principio della costanza della velocità della luce: la luce si propaga nel vuoto, in tutte le direzioni, con una velocità m/s che ha sempre lo stesso valore qualunque sia lo stato di moto dell'osservatore e della sorgente. Ammettendo come postulati i due principi di Einstein è possibile dedurre delle nuove leggi di trasformazione delle coordinate da sostituire alle leggi galileiane; esse coincidono con la trasformazione di Lorentz e sono in grado di eliminare le contraddizioni che nello schema teorico prerelativistico sorgevano nel tentativo di interpretare i diversi fenomeni fisici. Mentre nella meccanica prerelativistica, in base alla concezione di tempo assoluto, due eventi simultanei in un sistema di riferimento lo sono anche per qualunque altro sistema in quiete o in moto rispetto al primo, per la teoria della relatività due eventi simultanei verificantisi in due punti diversi di un sistema non appariranno tali se osservati da un altro sistema in moto rispetto a esso. Quando w è molto minore di c le equazioni di Lorentz si riducono alla trasformazione galileiana, che è valida con ottima approssimazione nella maggior parte dei problemi pratici relativi allo studio delle proprietà dei sistemi macroscopici; tale condizione equivale ad ammettere che i segnali luminosi si propaghino istantaneamente, cioè t=T. La trasformazione data sopra è una trasformazione speciale di Lorentz; la trasformazione più generale è più complicata e si ottiene componendo la traslazione rappresentata dalle suddette equazioni con un numero opportuno di rotazioni spaziali. Sulla base dei due postulati della relatività ristretta e delle trasformazioni di Lorentz è fondata la meccanica relativistica.
Teoria della relatività ristretta o speciale
Il paradosso dei gemelli e l'equivalenza tra massa ed energia
Con l'aiuto delle equazioni di Lorentz si possono dedurre immediate conclusioni sul modo di confrontare misure di lunghezze e di intervalli di tempo eseguite da due osservatori in moto rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro: la lunghezza di un segmento in movimento è minore della sua lunghezza in quiete. La durata di un fenomenoin un corpo in movimento è maggiore di quella dello stesso fenomeno in un corpo fermo. È questo il cosiddetto paradosso dei gemelli (o degli orologi): se uno di due gemelli fa un viaggio spaziale a velocità prossima a quella della luce troverà l'altro al suo ritorno assai invecchiato rispetto a lui, se non addirittura morto da secoli o da più tempo ancora. Tale enunciato è equivalente a quello per cui un orologio in moto rispetto a un altro assolutamente identico marca il tempo con un ritmo assai più lento di esso. L'esempio più evidente della dilatazione dei tempi per sistemi in moto, si ha nel decadimento delle particelle elementari. Sperimentalmente si osserva con estrema chiarezza l'allungarsi della vita media delle particelle instabili che si muovono con velocità comparabili con quella della luce, secondo le formule della relatività. La velocità della luce nel vuoto può essere considerata il valore limite superiore di ogni possibile velocità che può essere impressa a un corpo o a un segnale fisico qualsiasi. L'aumento della massa all'aumentare della velocità del corpo assume proporzioni sempre maggiori mano a mano che ci si avvicina alla velocità della luce, per raggiungere la quale sarebbe necessario fornire al corpo una energia infinita. Uno dei risultati più importanti della teoria è l'aver scoperto l'equivalenza tra massa ed energia: a ogni massa a riposo si accompagna un'energia di riposo e a ogni energia E, inversamente, può attribuirsi una massa ; in questa formula, che estende il principio di conservazione dell'energia, è contenuto tutto quanto occorre per valutare l'energia ottenibile sotto qualsiasi forma, dalla disintegrazione di un nucleo o di una particella elementare, o da reazioni nucleari.
Teoria della relatività ristretta o speciale
Minkowski
Una brillante e semplice descrizione di tipo geometrico delle trasformazioni di Lorentz e in generale di tutti i risultati della cinematica relativistica è dovuta a Minkowski. In questa rappresentazione, la quaterna di valori per le variabili x, y, z, t viene assunta come insieme delle quattro coordinate di un punto cronotopico, o evento elementare, in uno spazio a quattro dimensioni detto spazio-tempo o cronotopo. L'ordinario spazio geometrico è l'insieme dei punti cronotopici simultanei. La storia di un punto materiale è rappresentata dalla successione delle sue posizioni e dei valori del tempo, il cui insieme forma una linea universale o linea oraria o linea cronotopica. Nella situazione reale le misure effettuate e il corrispondente modello di spazio che ne deriva non seguono più la geometria euclidea, ma una nuova geometria, la geometria non euclidea, nella quale gli assi coordinati non sono più rette euclidee ma linee curve, e le coordinate sono misurate su queste curve. Lo spazio-tempo apparirà quindi incurvato. Pioché esiste una velocità limite, quella della luce nel vuoto, esiste anche una inclinazione limite, quella appunto che rappresenta il moto di un raggio di luce, corrispondente, ad u n angolo di 45°. I raggi di luce delimitano delle regioni dello spazio di Minkowski (che sono a quattro dimensioni). Una di queste regioni è il cosiddetto cono del futuro, che è l'insieme degli eventi che un osservatore, situato nell'origine può in qualche modo influenzare e raggiungere. Il suo futuro sarà quindi limitato al cono del futuro. In modo equivalente, ma simmetrico, il cono del passato è l'insieme di tutti gli eventi che lo possono influenzare, che sono cioè accaduti. Tutti gli eventi al di fuori di questi due coni sono per l'osservatore assolutamente irraggiungibili. Se un evento è nella regione irraggiungibile all'esterno dei coni, continua a rimanervi ed un raggio di luce continuerà a viaggiare alla stessa velocità qualunque sia l'osservatore. Questo risultato è di grande importanza per la risoluzione del problema della causalità. Infatti una delle critiche sollevate ad Einstein dopo la pubblocazione della teoria della relatività ristretta fu che, eliminando il concetto di tempo assoluto, non si ha più alcuna garanzia che in un opportuno sistema di riferimento la causa non venga dopo l'effetto. Ma ciò no può succedere: un evento che appartiene al cono del futuro continua a rimanere in esso, qualunque sia il sistema di riferimento dell'osservatore.
Teoria della relatività generale
Einstein
La teoria della relatività ristretta permette la descrizione dei fenomeni meccanici ed elettromagnetici mediante leggi valide per tutti gli osservatori dotati di moto relativo rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro. Per togliere questa limitazione, nel 1915, Einstein generalizzò la sua teoria in modo da renderla adatta a formulare leggi valide qualunque sia il moto degli osservatori. Il punto di partenza di Einstein fu il fenomeno della gravitazione; egli immaginò il seguente esperimento ideale: si consideri una zona di spazio priva di qualunque forza gravitazionale e in essa un laboratorio con un osservatore. Se il laboratorio inizia a muoversi verso l'alto con moto uniformemente accelerato e l'osservatore lascia cadere una sfera, questa rimane immobile nel punto in cui è stata lasciata, ma a causa del moto accelerato il pavimento finirà con il raggiungerla; da questo istante la sfera rimarrà schiacciata sul pavimento e sarà accelerata con tutto il sistema. L'osservatore vedrà cadere sul pavimento la sfera e in base alle sue conoscenze sul campo gravitazionale può giungere alla conclusione di trovarsi insieme al laboratorio in un campo gravitazionale costante rispetto al tempo. Si può affermare che in base ai fenomeni meccanici il campo gravitazionale apparente prodotto da un moto accelerato non è distinguibile da un vero campo dovuto all'attrazione di una massa. In questa conclusione risiede il principio di equivalenza tra gravità e accelerazione. Il principio generale della relatività permette di derivare teoricamente le proprietà del campo gravitazionale e la sua influenza sui fenomeni naturali e di formulare le leggi a cui obbedisce il campo gravitazionale stesso. Il procedimento che porta alla formulazione di queste leggi impone però di abbandonare la concezione euclidea dello spazio, simboleggiato dalle coordinate cartesiane rispetto a una terna di assi fissi; lo spazio diviene uno spazio curvo per la cui rappresentazione viene impiegato un sistema generalizzato di coordinate, dette coordinate gaussiane. La descrizione del continuo spazio temporale per mezzo di queste coordinate elimina in modo completo l'introduzione di un sistema di riferimento e non è vincolata al carattere euclideo del continuo che viene rappresentato. In questo modo il principio generale di relatività diviene: tutti i sistemi di coordinate gaussiane sono per principio equivalenti per formulare le leggi generali della natura. Procedendo alla formulazione della legge generale del campo gravitazionale, bisogna tener presente che essa deve sempre soddisfare il postulato generale della relatività, non deve violare il principio di conservazione dell'energia e della quantità di moto e deve contenere in sé come caso limite le leggi newtoniane della gravitazione.
Teoria della relatività generale
Le tre verifiche della teoria della relatività
La soluzione delle equazioni gravitazionali di Einstein permette la previsione dei seguenti fenomeni: la deflessione della luce stellare in prossimità di grandi masse, per esempio il Sole, lo spostamento verso il rosso della luce emessa da sorgenti luminose gravitanti, per esempio la luce solare (effetto Einstein), e il moto del perielio delle orbite planetarie. Queste possibili verifiche della teoria della relatività generale furono proposte dallo stesso Einstein. La verifica della deflessione dei raggi luminosi provenienti dalle stelle in prossimità del Sole fu effettuata poco tempo dopo la pubblicazione della teoria, durante l'eclissi totale del 29 maggio 1919. Lo spostamento verso il rosso della lunghezza d'onda delle radiazioni emesse da atomi in intensi campi gravitazionali corrisponde a un rallentamento di questi orologi atomici (il tempo in un intenso campo gravitazionale scorre più lentamente che per noi, la frequenza dell'atomo è minore e quindi la lunghezza d'onda è maggiore). Il fenomeno è detto red shift gravitazionale; esso fu osservato per la prima volta da W. Adams nella stella Sirio B nel 1926, ma la sua misura con l'alta precisione richiesta dalla teoria fu possibile solo nel 1960 sfruttando l'effetto Mössbauer. Il terzo fenomeno indicato da Einstein per verificare la teoria era già noto da molto tempo nel caso del pianeta Mercurio, il più vicino al Sole. L'orbita di Mercurio, come quella di tutti i pianeti, è in prima approssimazione un'ellisse con orientamento fisso nello spazio. Tuttavia, a causa delle perturbazioni indotte dagli altri pianeti, l'asse maggiore dell'ellisse non è perfettamente immobile ma ruota nello stesso verso del pianeta (questo fenomeno è chiamato precessione del perielio). I calcoli basati sulla teoria newtoniana della gravitazione, prevedevano per questo fenomeno un valore di 523''(secondi d'arco) al secolo. Il valore misurato era invece 575''. Nel 1915 Einstein mostrò che la relatività generale spiegava perfettamente la differenza tra la misura sperimentale e la teoria newtoniana. I valori ottenuti nella prima metà del secolo per la deflessione dei raggi e per il red shift gravitazionale erano però affetti da notevoli margini di errore e le concordanze con i valori previsti dalla teoria erano considerate prove deboli di quest'ultima.
Teoria della relatività generale
L'evoluzione della teoria della relatività di Einstein
Così, mentre la teoria della relatività ristretta costituì subito, insieme alla meccanica quantistica, uno dei due pilastri della fisica contemporanea, fu solo con le grandi scoperte dell'astrofisica che la relatività generale acquistò, nel panorama della fisica dei nostri giorni, quel ruolo preminente che le compete attualmente. Anche le conquiste dell'astronautica non furono estranee al successo della relatività generale. Nel 1968 I. I. Shapiro propose un'altra verifica estremamente precisa, questa volta con onde radio, della deflessione della radiazione elettromagnetica in vicinanza del campo gravitazionale del Sole. In una serie di esperienze sempre più precise, effettuate con i veicoli spaziali Mariner e Viking alla fine degli anni Settanta, furono ottenuti risultati che si accordavano perfettamente con la teoria. Il campo, però, in cui la relatività generale si è dimostrata di importanza capitale è quello della cosmologia: la previsione di un Universo in espansione, già esplicita nei primi lavori di K. Schwarzschild e di A. A. Friedman è alla base dei modelli cosmologici in accordo con i recentissimi dati sperimentali. La relatività generale si è dimostrata uno strumento insostituibile per lo studio di oggetti celesti di altissima massa e densità quali le stelle a neutroni identificate nelle pulsar, la prima delle quali fu osservata nel 1968 nella Nebulosa del Granchio. La relatività generale prevede l'esistenza di oggetti ancora più densi, i buchi neri, che costituirebbero singolarità nel continuo spazio-temporale. Una tale singolarità è lo stesso Universo all'atto della creazione, cioè del big bang. Un'ulteriore conferma della teoria della relatività generale potrebbe essere fornita dalla rivelazione delle cosiddette onde gravitazionali. Secondo la teoria della relatività generale, infatti, le masse accelerate (o altre distribuzioni di energia) dovrebbero emettere delle onde gravitazionali, in modo del tutto simile a come le cariche elettriche accelerate emettono onde elettromagnetiche. Una delle più brillanti conferme della teoria della relatività generale è la scoperta di una lente gravitazionale: due quasar perfettamente identici, 0957+561 A, B, si sono rivelate le immagini di un unico quasar le cui radiazioni elettromagnetiche vengono deviate da una debole galassia tra il quasar e la Terra. Un effetto relativistico di questo tipo era stato previsto nel 1937 da Einstein; la galassia che funge da lente gravitazionale è stata fotografata da A. Stockton nel 1980.
Sul 'Corriere della Sera' del 31 Maggio 2000 è comparso il seguente articolo:
'Abbiamo superato la velocità della luce. Uno degli esperimenti condotti da un'équipe italiana: gli impulsi luminosi hanno viaggiato oltre la barriera dei 300 mila chilometri al secondo. Due studi aprono scenari da fantascienza: oltrepassato il limite ipotizzato da Einstein.
La macchina del tempo
676 L'astronomo olandese Olaf Roemer studiando l'eclisse di Ganimede, luna di Giove, misura per la prima volta la velocità della luce.
1905 Albert Einstein con la teoria della relatività speciale stabilisce che la velocità della luce nel vuoto è costante ed è la più alta raggiungibile. Il paradosso dei gemelli, suggerito da Einstein, spiega che, viaggiando vicino alla velochità della luce, il tempo rallenta. Quindi se prendiamo due gemeli, quello che viaggia nello spazio quasi alla velocità della luce invecchierà più lentemente di quello rimasto sulla Terra.
2000 A Firenze e a Princeton viene misurato con precisione il fatto che alcuni aspetti della velocità della luce possono superare il limite di 300 mila chilometri al secondo.
Il sogno di avvicinarci alla velocità della luce, anzi di superarla, oggi sembra meno remoto dopo che un altro muro è stato abbattuto a Firenze e a Princeton, negli Stati Uniti.
Qui, due esperimenti condotti con tecniche diverse ma uguali nella sostanza, hanno dimostrato che due aspetti caratterizzanti la velocità della luce possono andare oltre la mitica barriera dei 300 mila chilometri al secondo giudicata invalicabile dal grande Einstein nella sua altrettanto mitica teoria della relatività. Molti lo vedono come un passo verso la fantascienza ma gli scienziati ci tengono a contenere il senso delle cose, pur non nascondendo l'importanza del lavoro compiuto.
I raggi luminosi viaggiano sotto forma di gruppi di onde elettromagnetiche, le stese che ci fanno ascoltare la radio o vedere la tv. 'Il segnale con il quale si trasporta l'informazione continua a rispettare Einstein e il suo limite' spiega Daniela Mugnai che con Anedio Ranfagni e Rocco Ruggieri ha ottenuto l'importante risultato all'Istituto di ricerca sulle onde elettromagnetiche del Cnr.
'Però - aggiunge - al loro interno le onde manifestano anche una loro specifica velocità di gruppo capace invece di valicare, come abbiamo visto, i 300 mila chilometri al secondo'.
Il risultato è stato pubblicato sul Physical Review Letters mentre alla rivista britannica Nature ne è arrivato un altro ottenuto da Lijun Wang del Nec Research Institute di Princeton. Wang per le sue misure ha sparato un raggio laser in una camera trasparente contenente gas di cesio, mentre i ricercatori italiani hanno lanciato un segnale a microonde.
'A questo modo - prosegue Daniela Mugnai - sulla distanza di poco più di un metro, per la prima volta, abbiamo misurato con precisione che la velocità di gruppo delle onde riusciva a superare del 25 per cento la barriera della luce'. A Princeton con il laser l'hanno addirittura scavalcato di 300 volte.
Altri scienziati, compreso il gruppo fiorentino, avevano condotto test simili negli ultimi anni constatando però soltanto l'interessante possibilità, ora quantificata con esattezza. 'Per riuscirci - spiega la scienziata - si è calcolato il ritardo con il quale le onde sono arrivate all'antenna ricevente rispetto al momento in cui era partito il segnale. Si tratta naturalmente di frazioni infinitesimali di secondo e lo strumento che controllava la prova li ha rilevati senza incertezza dimostrando anche che dopo la breve corsa il treno d'onde si dissolveva nel nulla'.
La sfida alla velocità della luce apre panorami affascinanti in una fantascienza dove il tempo perde la quotidiana cognizione e il passato e il futuro si confondono.
'La teoria di Einstein resta totalmente valida ed è essenzialmente intoccabile da questo tipo di esperimenti - ha dichiarato il Nobel Carlo Rubbia - rovesciare il passato con il futoro non è possibile ed è contrario alle leggi della fisica'.
Insomma, i parametri di Einstein restano sempre validi con la conseguenza di rendere impossibile un superamento della dimensione temporale. Superamento che quindi rimarrebbe un sogno da fantascienza, perché anche l'apparente aumento di velocità della luce non potrebbe mai consentire di risalire nel tempo o di cambiare il corso degli eventi'.
(Corriere della Sera, Mercoledì 31 Maggio 2000 Giovanni Caprara)
Filosofia
Considerata sotto l'aspetto filosofico, la relatività è variamente spiegata dai filosofi appartenenti alle varie scuole: alcuni negano alla relatività ogni significato filosofico, sostenendo che una 'teoria fisica' è in ultima analisi una 'teoria matematica' e quindi non ha nessuna relazione con la filosofia; essi negano alla teoria della relatività anche il diritto a disquisire sul tempo e sullo spazio; altri filosofi, la maggioranza, vedono la relatività in un'angolazione positivistica, per cui solleverebbe solo problemi matematici. Eppure proprio questa posizione ha permesso di meglio delimitare sotto l'aspetto epistemologico il campo della fisica, dandole più ampia libertà nella formulazione delle proprie teorie e nell'esperimentarle senza preoccupazioni metafisiche. Nel campo della conoscenza, la teoria della relatività, se da un lato può talvolta essere sconfinata nel soggettivismo, dall'altro ha portato alla definizione della relatività come ricerca di espressioni indipendenti da ogni elemento soggettivo e dalle stesse leggi di natura (per esempio un dato assoluto sarebbe la velocità della luce), aderente sempre all'esperienza e libera da abitudini mentali. Si è così giunti a una specie di realismo critico, che ha rivisto in merito al tempo e allo spazio le nozioni di Newton e di Kant. Anche sulla 'fusione tra spazio e tempo' operata dalla relatività generale i filosofi riconoscono la distinzione esistente fra i due concetti di spazio e di tempo e sostengono che lo spazio quadridimensionale è un modello utile alla ricerca, ma rimane sempre e solo un modello.
Il lavoro del pittore si basa sulla visione come strumento primo della conoscenza e sulla durata estrema di questa visione.
Poiché nella durata si fondono l'istante e l'eterno, l'ambizione del pittore è di sottrarre al corrompimento l'immagine che la pittura consegna nella sua non peribilità.
Ha dichiarato Cézanne: 'Tutto quello che vediamo si dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della durata, deve farcela gustare eterna'.
C'è un passaggio molto intenso di Bergson, che tocca un punto fondamentale per il pittore che si disponga a dipingere, negli oggetti, nella natura, la durata: 'Nessuna immagine sostituirà l'intuizione della durata, eppure molte immagini diverse prese dagli ordini di cose molto differenti potrebbero, agendo insieme nel loro movimento, far volgere la coscienza proprio verso il punto in cui una certa intuizione diventa concepibile'.
In una delle prime pagine del suo Canto alla durata, Peter Handke scrive cose bellissime:
E mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco, in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono assieme.
'Ci vogliono giorni, passano anni':
Goethe, mio eroe
e maestro del dire essenziale,
anche questa volta hai colto nel segno:
la durata ha a che fare con gli anni,
con i decenni, con il tempo della nostra vita:
ecco, la durata è la sensazione di vivere.
Senza il senso della durata non esiste pittura, soprattutto non avrebbe raggiunto quei livelli di spazio e nitidezza quella di Cézanne.
Ad esempio, ne I pioppi (1879-1882 circa, olio su tela, 65 x 81 cm, Musée d'Orsay), Cézanne si basò più sulla forza evocativa della linea e della pennellata che sul colore. Nel suo inventario il mercante di Cézanne, Ambroise Vollard, registrò questa semplice descrizione del dipinto: 'Paesaggio completamente verde, sipario d'alberi che occupa circa i tre quarti del quadro; in primo piano una struttura di mattoni, dalla parte opposta una strada serpeggiante.'. Il quadro è questo, niente di più. La dominante sensazione di armonia strutturale è dovuta all'uso della linea. Innanzitutto c'è una rigorosa differenziazione della composizione che l'artista ottiene variando i gradi di densità della struttura lineare. I pioppi sulla destra sono concepiti come una parete chiusa, la loro funzione è compendiata dall'ostruente muro di mattoni che preclude qualsiasi idea di profondità, mentre, a sinistra, il filare d'alberi gradualmente si allenta in una curva lasciando spazio all'aria, al cielo, allo spazio. Qui la minuscola spirale dei meandri della strada riprende l'elegante allentamento della coerenza. All'interno di questo schema compositivo globale, il parallelismo dei tronchi degli alberi conferisce alla superficie una struttura lineare ritmica, che si ritrova nelle uniformi pennellate direzionali del fogliame. La direzione di queste pennellate, in quanto esito del gesto pittorico, determina uno schema di deliberata stilizzazione che trascende ogni divisione del colore. Soltanto al di sopra del muricciolo, là dove la cima degli alti pioppi è tagliata fuori dalla cornice, le pennellate seguono l'andamento degli esili tronchi creando uno schermo denso che, al pari del muro bianco, assorbe il movimento interno della strada sabbiosa. Mediante quest'uso differenziante della linea il pittore sembra aver voluto creare il massimo contrasto tra la profondità e la piattezza.
La montagna Sainte - Victoire (olio su tela, 54 x 65 cm, Stedelijk Museum, Amsterdam) è del 1888. Per la resa dello spazio questo dipinto, diversamente da I pioppi, sembra affidarsi al colore. In questo paesaggio i colori sono disposti nello stesso ordine in cui si susseguono sulla tavolozza, a cominciare dalle ocre e dai bruni in primo piano, ravvivati dai verdi, per concludere con gli azzurri trasparenti del cielo. Nel passaggio dal basso verso l'alto, i verdi e i rossi forniscono indizi visivi minimi ma determinanti per la strutturazione del paesaggio, mentre agli azzurri è concessa una sporadica presenza nella valle e la cima del monte ha un'atmosfera color ocra. La profondità è suggerita non tanto da una dimensione decrescente del dettaglio quanto dalla reiterazione di forme sovrapposte e contrasti di colore. Il primo piano, rossiccio e verde, è possentemente presente in contrasto con gli azzurri degradanti della parte alta.
Le pennellate non sono rigorosamente sistematiche come lo erano ne I pioppi, appaiono invece esitanti e irregolari, a volte giocose e decorative. Le linee blu che strutturano il dipinto non sono mai veramente linee, anch'esse sono esitanti, sempre rotte e riprese, al pari dei tocchi di colore che in nessun punto formano una superficie chiusa. Spesso traspaiono bagliori del suolo e molte zone non sono neppure dipinte, come avviene in un acquerello. In una lettera, Cézanne si lamentava che a causa del suo metodo operativo i piani 'cadevano gli uni sugli altri'', impedendogli di attuare una corretta rappresentazione dello spazio (lettera a Bernard, Aix-en-Provence, 23 ottobre 1905). Non la piattezza della superficie pittorica, ma la realizzazione di una prospettiva corretta era la costante preoccupazione del pittore. Egli voleva realizzare l'idea di spazio tracciando 'linee perpendicolari all'orizzonte' - quelle degli alberi, dobbiamo supporre - e rendendo palpabile la presenza della luce suggerita da 'les rouges et les jaunes', i rossi e i gialli. Soltanto in questo modo sarebbe stato possibile ottenere una convincente rappresentazione della natura poiché 'per noi esseri umani, la natura è più nella profondità che nella superficie'. Dipinti quali I pioppi o La montagna Sainte-Victoire vanno analizzati non come composizioni su un piano, ma soltanto come scrupolosissimi tentativi di creare lo spazio mediante la linea o il mezzo cromatico. Il tema spazio/tempo viene ripreso dai cubisti. Nella rivoluzione cubista Picasso rappresenta la forza di rottura, Braque il rigore del metodo.
Confrontando la Natura morta spagnola (1912, olio su tela, ovale di 46 x 33 cm, collezione privata) di Picasso e la Natura morta con l'asso di fiori (1911, olio e papier collé su tela, 81 x 60 cm, Parigi, Musée National d'Art Moderne) di Braque emergono le analogie generali e le differenze specifiche tra i due artisti.
E' analoga la scelta tematica, il dato oggettivo del problema: una natura morta, pochi oggetti sulla tavola. E' analogo il processo di assimilazione strutturale di cose e spazio: se lo spazio dev'essere una forma omogenea e unitaria non può essere interrotto dalla consitenza materiale, impenetrabile delle cose. Lo spazio non è nulla di esistente in sé, è la realtà ordinata e configurata nella coscienza: dunque nella forma dello spazio non può esservi nulla di incerto, di illusorio, di allusivo. Le sole dimensioni certe, nella realtà, sono l'altezza e la larghezza, che si traducono rispettivamente nella verticale e nell'orizzontale; la terza dimensione è illusiva.
Nei due quadri la struttura è formata dalle coordinate cartesiane, che risolvono in verticale tutto ciò che è altezza, nell'orizzontale tutto ciò che è larghezza.
Al di là dell'analogia strutturale, nel quadro di Picasso la scomposizione appare, nello stesso tempo, meno e più spinta. Meno, perché c'è ancora una separazione tra un agglomerato di volumi (gli oggetti) ed un fondo; più, perché questa separazione è poi annullata, di colpo, dall'inserto, in primissimo piano, di due riquadri rossi in evidente rapporto col fondo rosa, sicché risulta chiaramente misurata la distanza tra i due piani, cioè la profondità entro cui si sviluppano i volumi. Lo schermo pittorico diventa così uno schermo plastico, come la lastra di un bassorilievo.
Braque elimina la distinzione tra volumi solidi e fondo. Smonta pazientemente la volumetria degli oggetti, riduce tutto a forme piane giustapposte. La sua scomposizione è più spinta perché non discrimina tra spazio e oggetti; meno, perché non può arrivare ad assorbire totalmente le forme delle cose, che infatti, in quello spazio non più capiente, sopravvivono come puro residuo grafico (grappolo d'uva, mela, carte da gioco).
A questo punto si pone il problema della terza dimensione, di tutto ciò che, sviluppandosi in profondità ci dà alla visione in termini di illusione ottica e che, per conseguenza, apre la via alle reazioni emotive, all'intervento dell'immaginazione, della memoria, del sentimento. La via, dunque, che il Cubismo, come nuova e più rigorosa oggettività, vuole bloccata.
Tanto Picasso che Braque risolvono il problema della terza dimensione mediante linee oblique (già indicative della profondità) e curve (già indicative del volume), e cioè riportando sul piano ciò che si dà come profondità o risalto. Qui intervengono i contenuti della coscienza, le nozioni che si hanno degli oggetti (ed è questo l'aspetto tipicamente cartesiano del Cubismo, quello che lo inquadra nel razionalismo di fondo della tradizione culturale francese). Si opera su oggetti assolutamente noti: frutta, piatti, bicchieri, bottiglie, strumenti musicali, ecc. Ora un piatto posato su una tavola si vede come una forma ellittica, ma si sa che invece è rotonda: poiché, nell'ordine mentale, tra ciò che si vede e ciò che si sa non v'è differenza di valore, si sviluppa nel quadro anche la rotondità del piatto, cioè si dà a ciò che sta nella terza dimensione la stessa certezza che hanno i valori misurabili sulle coordinate verticali e orizzontali. Con la nozione dell'oggetto (che si ha da prima), entra in gioco il fattore tempo: è come se prima si vedesse il piatto come forma ellittica e poi, mutando la posizione nello spazio, come forma tonda, o come se, muovendosi intorno all'oggetto e mutando il punto di vista, prima lo si vedesse ellittico e poi rotondo.
Se ne deduce che, se nella veduta empirica lo stesso oggetto non può trovarsi nel medesimo tempo in luoghi diversi, in quella realtà tutta mentale che è lo spazio (come realtà ordinata e configurata nella coscienza) lo stesso oggetto può esistere con più forme diverse che, naturalmente hanno situazioni diverse. Muovendo da questa premessa comune, Picasso e Braque operano in modo diverso. Picasso, a cui degli oggetti interessa soprattutto la plastica volumetrica, conserva il chiaroscuro che plasma i volumi: ricostruisce le cose nella continuità dello spazio mediante forme geometriche, che considera fondamento unitario così delle cose come dello spazio. È infatti costretto a ribaltare più volte la prospettiva tradizionale (come si vede nel bicchiere, in alto, che è veduto simultaneamente da punti di vista diversi); il funzionamento interno del suo quadro consiste appunto in questi movimenti prospettici coordinati. Braque, non scomponendo per volumi ma per piani, elimina il chiaroscuro, trasformandolo in variazioni cromatiche di grigi. Va addirittura oltre Picasso: nel medesimo oggetto, la tavola, disgiunge la forma, che ribalta sul piano come una sagoma nera, dalla materia, il legno, che raffigura come componente ambientale diffondendolo on tutto lo spazio con il procedimento del trompe-l'oeil (passaggio necessario al collage) la sensazione non solo visiva, ma tattile, della superficie ruvida, venata. Nell'uno e nell'altro dipinto vi sono lettere alfabetiche che apparentemente non hanno alcun rapporto con gli altri oggetti. Sono tipi formali, moduli: stanno ad indicare che gli oggetti della realtà sono come le lettere dell'alfabeto, segni che in sé non significano nulla, ma che vengono combinati in vari modi per significare qualcosa (nel caso degli oggetti, lo spazio). Per Picasso le lettere sono fatte di rette e di curva, cioè degli stessi segni con cui rende le tre dimensioni: essendo lo stesso il principio della significazione verbale e visiva, egli inserisce le lettere alfabetiche, che tutti conoscono, come chiave o codice di lettura del quadro. Per Braque, che scompone per piani, le lettere sono figure piane che hanno, rispetto alle cose concrete, una funzione emblematica: come le carte da gioco indicano il piano limite su cui gli oggetti (uva, mela) si riducono a simboli grafici. Sono chiavi di lettura, ma di una lettura tutta diversa, per piani cromatici invece che per volumi. È chiaro che la visione secondo il volume proposta da Picasso e quella secondo il colore proposta da Braque sono integrative, tuttavia il quadro di Braque, in cui il rapporto coloristico più forte è tra il giallo ocra del legno e il nero della tavola, sembra coloristicamente meno intenso di quello di Picasso, in cui il rapporto più forte è tra un rosa e un rosso. Braque opera sul colore come Picasso sui volumi: non lo considera più come sensazione visiva, ma come elemento essenziale della costruzione mentale dello spazio. È un fatto intellettuale e non più sensorio, infatti riesce a rendere come colore e perfino come luce le variazioni di grigi (spesso ottenuti soltanto con un tratteggio a matita).
In quegli stessi anni, la 'sintesi dinamica' teorizzata da Boccioni come una delle grandi scoperte del Futurismo, è in contrasto con l'analisi cubista: questa implica un approfondimento del dato ed un processo logico, mentre per Boccioni l'emotività immediata e traumatica rimane la condizione prima dell'arte. Il movimento è velocità, la velocità è una forza che interessa due entità: l'oggetto che si muove e lo spazio in cui si muove. La sensazione che si riceve da un corpo in moto e da quella delle cose che stanno ferme nello spazio circostante ma sembrano muoversi con la stessa velocità, del corpo in direzione opposta. Forma unica significa forma unitaria del corpo che si muove e dello spazio in cui si muove. Lo spazio è atmosfera, l'atmosfera è messa in movimento dal corpo che la fende ed esercita su di esso una spinta proporzionale alla velocità. Il corpo, sotto questa spinta, si deforma fino ai limiti dell'elasticità.
Nell'opera Forme uniche nella continuità dello spazio (1913, bronzo, altezza 110 cm, Milano, raccolta privata d'Arte Moderna) Boccioni studia il movimento di una figura nuda che cammina rapidamente.
Fa una statua, perché alla statua à connessa l'idea dell'immobilità, non vuole dare la sensazione che si muova, vuole raffigurare la forma permanente che la figura umana assumerà assuefacendosi alle grandi velocità e studiare gli effetti fisici della velocità sulla forma del corpo umano. Con questa statua, Boccioni ha inventato la forma aerodinamica che diverrà una delle forme tipiche della morfologia e dell'iconografia del nostro tempo.
Egli sintetizza l'anatomia del corpo e l'anatomia dello spazio mediante diversi elementi: il gioco delle ossa e dei muscoli (il nodo plastico dell'anca), la deformazione elastica delle masse sotto la spinta delle correnti atmosferiche (muscoli pettorali, le gambe), il materializzarsi di masse atmosferiche in moto (le alette che si formano dietro i polpacci) e lo sdoppiamento dell'immagine per effetto della permanenza delle immagini nella rétina.
A proposito di questa opera Boccioni stesso scrisse proprio nel 1913: 'dinamismo è la concezione lirica delle forme interpretate nell'infinito manifestarsi della relatività tra moto assoluto e moto relativo, tra ambiente ed oggetto, fino a formare l'apparizione di un tutto: ambiente + oggetto. È la creazione di una nuova forma, insomma è la vita stessa afferata nella forma che la vita crea nel suo infinito succedersi. Questo succedersi non lo afferriamo con la ripetizione di gambe, di braccia , di figure, ma vi giungiamo attraverso la ricerca intuitiva della forma unica che dia la continuità dello spazio. Essa è la forma-tipo che fa vivere l'oggetto nell'universale. Noi possiamo affermare e creare plasticamente le vibrazioni, le emanazioni, le densità, i moti, l'lone invisibile tra l'oggetto e la sua azione. Le ultime ipotesi scientifiche, le incommensurabili possibilità offerteci dalla chimica, dalla fisica, dalla biologia e da tutte le scoperte della scienza, la vita dell'infinitamente piccolo, l'unità fondamentale dell'energia che ci dà la vita, tutto ci spinge a creare delle analogie nella sensibilità plastica con queste nuove e meravigliose concezioni naturali' (U.Boccioni, Gli scritti editi ed inediti, a cura di Z. Birolli, Milano,1971).
Le insistenze da parte di Boccioni sui miracoli della scienza, sulla matematica, sulla materialità dei corpi, sul dinamismo universale presuppongono, oltre le discussioni al caffè con altri amici artisti, alcuni studi scientifici sulle fonti: Einstein elabora nel 1905 la Teoria della relatività ristretta, che certamente Boccioni non lesse ma di cui sentì parlare; Minkowski, nel 1908, in Space and Time affermava: 'D'ora in poi lo spazio in se stesso e il tempo in se stesso sono destinati a svanire trasformandosi in pure ombre; e soltanto una specie di unione delle due entità conserverà una realtà autonoma'.
La Metafisica mette in discussione il tradizionale concetto di spazio/tempo.
Il termine 'metafisica' ha origine dal titolo greco assegnato, nel I secolo a. C., dal filosofo Andronico da Rodi a quelle opere di Aristotele in cui si tratta delle 'cause prime' della realtà da lui collocate 'dopo' (metà) quelle che trattano le 'cose naturali' (physycà). Oggi, dimenticato il signifigato originario, lo si usa per esprimere ciò che è oltre l'apparenza fisica, ossia l'essenza intima della realtà al di là dell'esperienza sensibile.
Metafisico è ciò che è avulso dalla logica ambientale in cui siamo abituati a vederlo: un oggetto qualsiasi isolato dal contesto in cui vive e inserito in un altro (per esempio, un guanto di gomma appeso accanto a una testa di gesso e sopra una palla verde), o più semplicemente, guardato da noi intensamente e prolungatamente e quindi staccato da quelli vicini; una piazza, solitamente animata, completamente vuota; la superficie dell'oceano 'non tanto per l'idea della distanza chilometrica che sta fra noi e il suo fondo, quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo'; l'arco di cerchio perché ha 'qualcosa di incompiuto che ha bisogno ed è capace di compimento'; 'il triangolo come simbolo mistico e magico'; i mobili, quando, invece che collocati nelle stanze ad adempiere la loro funzione, sono su un marciapiede o 'in un paesaggio deserto, in una piana della Grecia ricoperta di rovine, oppure nelle praterie anonime della lontana America' (G. De Chirico Sull'arte metafisica, 1919). Insomma, tutto il repertorio di De Chirico, enigmatici oggetti e visioni, dai manichini alle 'piazze d'Italia', si colloca in uno spazio impossibile, perché aprospettico e indefinito (anche se talvolta si riecheggia la spazialità rinascimentale) e illuminato da una luce senza vibrazione atmosferica, che solidifica i colori come in tarsie.
La creazione di suggestioni fantastiche avviene con l'accostamento di oggetti disparati e specialmente di statue antiche in uno spazio costruito secondo le regole della prospettiva quattrocentesca, ma acceso da colori di timbro decisamente moderno, con associazioni stupefacenti non soltanto di sensi e di idee, ma anche di storia e di tempo.
Le forme, spesso assimilate a volumi geometrici a cui non è estraneo l'influsso cubista, si pongono come simboli arcani e contraddittori, frutto d'una attività speculativa cui è consentita solo l'esperienza dell'enigma. André Breton, nel suo libro Le surréalisme et la peinture, ha messo De Chirico in testa agli artisti di questo movimento. In questo saggio Breton ricorda anche uno scritto di De Chirico del 1914 in cui sono espresse una serie di idee che col surrealismo hanno più di un'affinità. 'Perché un'opera d'arte' vi si legge fra l'altro 'sia veramente immortale è necessario che esca completamente dai confini dell'umano: il buon senso e la logica la danneggiano. In questo modo essa si avvicinerà al sogno e alla mentalità infantile. L'opera profonda sarà spinta dall'artista nelle profondità più recondite del suo essere: là non giunge il sussurrare dei ruscelli, il canto degli uccelli, il fruscio delle foglie. Ciò che io ascolto non vale nulla, ci sono solo i miei occhi che vedono, aperti, e più ancora chiusi.
Quello che importa è soprattutto sbarazzare l'arte di ciò che essa contiene di conosciuto sino ad oggi: ogni idea, ogni simbolo deve essere messo da parte.
Bisogna avere una grande certezza in se stessi: è necessario che la rivelazione che noi abbiamo di un'opera d'arte, che la concezione di un quadro riproducente la tal cosa senza senso alcuno per se stessa, senza soggetto, senza significato dal punto di vista della logica umana; è necessario, dico, che una simile rivelazione o concezione sia talmente forte in noi, ci procuri una così grande gioia o un così grande dolore da sentirci costretti a dipingere spinti da una forza più grande di quella che spinge un affamato a mordere come una bestia il pezzo di pane che gli capita tra le mani'.
Le Piazze d'Italia dipinte a Parigi da De Chirico hanno dunque avuto una precisa influenza sui surrealisti, in Max Ernst pressoché decisiva.
Il fascino di queste piazze ha agito però non solo sugli artisti ma anche sui poeti: Eluard dedicò a De Chirico una sua poesia sin dal 1923. E ancora nel 1933 tutto il gruppo surrealista esercitava le possibilità irrazionali di penetrazione e d'orientamento in un quadro scegliendo per i propri esperimenti un vecchio quadro di De Chirico.
Infatti la sua pittura presenta proprio quegli aspetti onirici che i surrealisti cercheranno poi di sviluppare. È una pittura che nasce dalla memoria di architetture italiane classiche e ottocentesche in una atmosfera di lucidissima e statica assurdità.
Solitudine, silenzio, fughe prospettiche, illusioni spaziali, ombre nitide stampate sui lisci selciati, portici d'ombra, cieli antichi, volumi netti, statue solitarie e talvolta una forma di vita, una bambina che corre spingendo il cerchio, due uomini che passano, un treno in lontananza; ma anche ogni forma di vita, o che ricordi la vita, è come sospesa, avvolta in un velo impalpabile che la separa dal resto del mondo.
Tale è il clima delle immagini dechirichiane, dei suoi 'enigmi', delle sue 'malinconie', delle sue 'torri'. Gli echi cubisti e persino futuristi che qualche critico ha rilevato in De Chirico se esistono da un punto di vista strettamente filologico, non hanno viceversa alcuna importanza nella determinazione fisionomica della sua opera, tutta intagliata com'è nella dimensione allucinata del sogno e del gioco intellettuale.
Nelle sue opere appaiono personaggi ed oggetti la cui coesistenza in uno stesso contesto è apparentemente inspiegabile: architetture monumentali e fumaioli di fabbriche; squadre, regoli, telai geometrici; manichini e statue di gesso; tavole anatomiche e guanti da chirurgo; biscotti, trottole, scatole di fiammiferi; quadri sul cavalletto, lavagne con grafici e formule.
Analizzando, ad esempio, l'opera Le Muse inquietanti (1916, olio su tela, 97 x 66 cm, Milano, raccolta privata di Arte Moderna), si può osservare come le figure centrali abbiano una natura ambigua di colonna, di statua, di manichino. Le forme geometriche sono, all'origine, simboli spaziali, la prospettiva è il sistema con cui si coordinano geometricamente figure ed oggetti in uno spazio unitario, ma qui quei simboli si materializzano e lo spazio si confonde con le cose. Al di lààdelle figure-spazio e degli oggetti-spazio, lo spazio è pura figura prospettica, profondità senza capienza, impraticabile e inabitabile. I colori sono caldi e profondi, ma duri e come solidificati negli oggetti; la luce à intensa ed immobile, senza vibrazione né raggio.
Quando, tra il 1916 e il 1920, Giorgio Morandi affronta il dilemma di metafisica o storia, ha già individuato ed approfondito la sostanza dell'insegnamento di Cézanne, l'identità di pittura e di coscienza. Anche della metafisica di De Chirico e di Carrà coglie il nucleo concreto, ricusando l'ambigua tematica delle piazze italiane, delle muse inquietanti, delle Penelopi manichine, delle prospettive deludenti, dei ruderi minacciosi. Quello che per De Chirico è uno spazio 'altro' e per Carrà una metamorfosi geometrica, per Morandi è uno spazio concreto, saturo addirittura, risultante da una parità di livello e di tensione, di profondità e densità, tra coscienza del proprio essere e dell'essere del mondo, ugualmente ed integralmente vissute e comunicanti tra loro, come per un'osmosi continua. Per tutta la vita dipinge le stesse cose: bottiglie e recipienti vuoti, pochi fiori, pochi paesaggi. Sono il diaframma, il filtro dell'osmosi: in esse, intorno ad esse si rapprende e si colma, saturandosi di luce, quello spazio che è insieme della natura e della coscienza, e che non si dà come costruzione ipotetica di una spazialità universale, ma come spazio vissuto, amalgamato al tempo dell'esistenza. Gli dà corpo un colore senza riflessi e fulgori, inerte ed opaco: quasi sostanza essudata o secreta dal profondo dell'essere, come la cera dell'ape. A questa identità sostanziale tra sé e il mondo, a questa elezione dell'oggetto a termine di mediazione e di ragguaglio giunge attraverso un lento processo di selezione e riduzione di valori: e lo si vede nelle acque-forti, dove i calcolati reticoli grafici generano con varia frequenza una luce che poi trattengono, decantandola, nel loro tessuto. Quello che erroneamente si chiama l'intimismo di Morandi è bensì l'opposto dell'esuberante attivismo futurista, ma anche dell'estraniamento, dell'incongruità spaziale della Metafisica. Morandi costruisce a partire dall'oggetto come Mondrian partendo dal concetto:l'uno definisce lo spazio secondo un esprit de finesse, l'altro secondo un esprit de géométrie. Ma con lo stesso assoluto rigore: Mondrian e Morandi sono i due poli (il terzo vertice del triangolo potrebbe essere Klee, per la dimensione del profondo o dell'inconscio) entro cui si definisce la concezione dello spazio nella pittura della prima metà del secolo.
Lo spazio è la realtà come viene posta ed esperita dalla coscienza, e la coscienza non è totale se non comprende ed unifica l'oggetto e il soggetto dell'esperienza. Da questo, che potremmo chiamare il 'postulato di Cézanne', muovono, per vie parallele e con direzione opposta, Mondrian e Morandi.
Mondrian realizza figurativamente lo spazio partendo dalle cose: solo quando le cose scompaiono risolvendosi nello schema geometrico si può dire che nel quadro c'è lo spazio, cioè la realtà è stata esperita dalla coscienza che la recepisce dall'interno perché anche la coscienza ` realtà.
Morandi realizza figurativamente lo spazio partendo dal concetto di spazio: solo quando il concetto (lo schema geometrico che lo rappresenta) scompare risolvendosi negli oggetti si può dire che nel quadro c'è lo spazio: non più come concetto astratto ma come realtà visuta, esistenza.
Ragionando secondo il principio delle culture nazionali, sembrerebbe che Mondrian e Morandi si siano scambiate le parti.
Morandi conclude la cultura figurativa italiana, che parte dal concetto di spazio o dalla concezione unitaria del reale per dedurne la conoscenza delle cose particolari. Mondrian conclude la cultura figurativa fiammingo-olandese che parte dalle cose particolari e deduce l'insieme dalla loro coesistenza e relazione. Mondrian parte dallo spazio empirico, l'ambiente, ed arriva ad uno spazio teorico; Morandi parte da uno spazio teorico ed arriva allo spazio concreto, all'unità ambientale.
La ricerca di Morandi muove dalla prospettiva cubica e vuota della Metafisica di De Chirico. Obiettivamente la pittura di Morandi è la distruzione metodica della prospettiva fondata sulla geometria euclidea, cioè della concezione dello spazio su cui si fondava, da Giotto in poi, la famosa tradizione italiana, che si voleva universale ed eterna. È vero che la prospettiva classica l'aveva già negata De Chirico ponendola come significante della nullità o del vuoto invece che della realtà, ma il processo distruttivo di Morandi è, al tempo stesso, costruttivo perché non soltanto dimostra la sopravvivenza dello spazio oltre la prospettiva, ma prova come soltanto al di là dell'astrazione prospettica lo spazio della coscienza si dia come realtà concreta, esistente.
Analizzando l'opera Natura morta con fruttiera (1916, olio su tela, 64 x 57 cm, Milano, raccolta privata di Arte Moderna) è evidente la distruzione della prospettiva: la profondità prospettica è prima suggerita (nel diverso livello delle basi degli oggetti sul piano della tavola, nell'angolo della parete nel fondo) e poi è annullata facendo degli oggetti altrettante sagome sospese e livellando i piani colorati della tavola e della parete e quelli degli oggetti (è significativo come, in questo saldare su una stessa superficie piani a profondità diversa Morandi sfiori senza saperlo, per un istante, la ricerca di Modigliani). Ora la profondità non esiste più come vuoto capiente in cui siano situate le forme solide degli oggetti: c'è un tessuto spaziale, continuo, come un velo teso, sul cui piano si profilano, quasi per trasparenza, gli oggetti, la tavola, le pareti. Morandi ha annullato la prospettiva perché essa definiva in termini di valori i principia individuationis con cui l'artista dava ordine e chiarezza alla realtà al fine di rappresentarla, definiva la linea come limite o contorno delle cose, il volume come consistenza fisica degli oggetti, il tono come tinta locale modificata dalla distanza e dalla luce. Morandi non nega e non accetta a priori questi criteri formali, ma ragiona con logica perfetta: se la forma è il risultato a cui si deve giungere al termine del processo, il processo non può partire da una forma data, da un prestabilito significato della linea, del volume, del tono. Nel quadro si ritrovano infatti linee, volumi e toni ma con un significato completamente nuovo e diverso perché non costituiscono più uno spazio teorico, ma uno spazio concreto di cui si vede perfino la sostanza fisica, la maggiore o minore densità della materia. La linea non è in limite delle cose ma il confine e la mediazione tra valori tonali cominicanti; il volume non è rilievo ottenuto con il chiaroscuro ma calibrata distanza tra piani colorati; il tono non è incidenza di luce ma ragguaglio o proporzione di quantità e qualità.
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