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Il linguaggio è sempre stato soggetto, come ogni altro strumento d'uso comune, a sollecitazioni, mobilità, incrementi e consumi. Ludwig Wittgenstein si domandava se il linguaggio fosse completo prima che in esso venissero incorporati il simbolismo della chimica e la notazione del calcolo infinitesimale: "questi infatti - diceva - sono i sobborghi del nostro linguaggio (quante case o strade ci vogliono perché una città cominci ad essere una città?)".
A cavallo tra Ottocento e Novecento, però, si assiste ad una notevole accelerazione di questo processo evolutivo del linguaggio che, ad un'analisi più profonda, si rivela essere una vera e propria rivoluzione.
Ma cosa scatenò questo repentino processo evolutivo dei linguaggi?
In Italia, il primo artista a motivare la necessità di un rinnovamento nell'ambito comunicativo è il poeta Giovanni Pascoli. La poesia italiana, a suo giudizio, era eccessivamente legata ad un linguaggio che si basava "convenzionalmente su un tipo fatto", aggiungendo che per "troppo tempo gli uccelli sono stati sempre rondini e usignoli, e per troppo tempo i fiori dei mazzolini sono stati rose e viole" e che "un po' di botanica e di zoologia non farebbero male" al nostro lessico. È evidente che la lingua convenzionale non descrive più in modo soddisfacente la realtà circostante, che nel frattempo è mutata. Le cose hanno la necessità d'esser chiamate con il loro nome esatto. E quando nemmeno la precisione nomenclatoria non è più sufficiente ad identificare gli oggetti, l'artista deve ricorrere ad un linguaggio che superi e allo stesso tempo retroceda l'attuale codice espressivo. Si arriva allora a toccare quelle dimensioni che il filologo Gianfranco Contini ha definito linguaggio pregrammaticale e postgrammaticale. Ecco che non importa quanto una parola abbia efficacia semantica ma piuttosto quanto il linguaggio, apparentemente privo di contenuto nozionale (è il caso del «videvitt» delle rondini), sia portatore di un esatto messaggio referenziale, ossia si riferisca in maniera inequivocabile all'oggetto. Pascoli spiana la strada al nuovo linguaggio della poesia italiana, anticipando il lavoro di destrutturazione tipico della poesia futurista ed ermetica.
Su posizioni simili si schiera, nella letteratura inglese, lo scrittore dublinese James Joyce. Egli è ben consapevole che il linguaggio codificatosi nell'età vittoriana non è più applicabile alla nuova realtà frammentata, in cui ogni certezza è venuta meno.
È pertanto chiaro come il linguaggio della poesia, della prosa e dell'arte in genere sia strettamente legato alla realtà in cui la letteratura e l'arte vivono. Per descrivere una data realtà sono necessari dati strumenti (in questo caso il linguaggio): ne deriva che, al mutare delle condizioni in cui gli uomini si trovano a vivere, i precedenti canali comunicativi diventano obsoleti se non addirittura inutili. Significante e significato sono strettamente correlati e si evolvono di pari passo.
Nelle diverse storie della letteratura questa evoluzione è stata progressiva ma piuttosto sottile, quasi impercettibile. Solo a partire dall'inizio del XX secolo tale processo di sviluppo è cresciuto a ritmi esponenziali, portando sulla scena letteraria e artistica nuovi volti linguistici. È interessante constatare che in questo momento sono gli stessi artisti a rendersi conto dell'importanza del processo di cui essi sono protagonisti e del motivo per cui ciò si verifica. Si accorgono dunque che è ormai terminato il tempo in cui ogni aspetto della realtà aveva un significato chiaro ed univoco, esprimibile con un altrettanto netto codice espressivo. Le rivoluzionarie scoperte della fisica, della psicanalisi e della tecnologia costringono ora l'artista ad abbandonare la tradizione per ricercare linguaggi adatti ad esprimere la mutata realtà. Quello che serve è, in poche parole, un nuovo linguaggio necessario a descrivere nuove cose.
Fin dalle sue origini la poesia italiana è stata frutto di una produzione lirica raffinata, equilibrata e ponderata. Tale poesia deriva da un elaboratissimo procedimento di "limatura" e di "cesello"- è il famoso labor limae degli antichi - che ha permesso ai poeti di filtrare le loro sensazioni ed emozioni per presentarle in una forma superiore all'interno del verso. Col passare dei secoli si è così andato codificando un vocabolario lirico ben determinato, al quale gli artisti hanno attinto per edificare il loro monumentum aere perennius - secondo l'ottica oraziana. Si parla allora di tradizione lirica italiana, per la quale a ben determinati termini corrispondono precisi significati e a ben determinate esigenze corrispondono esatte strutture metriche all'interno delle quali si può imprigionare l'emozione o l'impressione di un dato momento.
I rigidi codici della giurisdizione metrica e il lessico della lirica italiana si sono così imposti nei secoli, costituendo un elemento invalicabile: l'endecasillabo è infatti stato eletto a metro principe e vocaboli dal registro elevato sono altrettanto peculiari nella nostra poesia.
Così è stato almeno fino a Carducci, il "grande artiere" che si contrappose all'eversione della protesta scapigliata. Tuttavia la rivoluzione che gli «elementi geniali, artistici e poetici» di Cletto Arrighi attuarono in campo letterario coinvolse solamente i temi e non le forme: endecasillabi, settenari e quinari assieme ad un registro ancora aulico rientrano a pieno titolo nella produzione di Praga, Boito e Tarchetti. La loro rivoluzione, verificatasi solamente nei temi, con la scelta di un'estetica macabra, è volta a destare stupore, come nel caso della letteratura barocca.
Dal punto di vista prettamente strutturale fu Giacomo Leopardi, con la sua canzone libera, ad essere l'iniziatore della rivoluzione delle forme. Egli tuttavia rinunziò solamente al vincolo della rima, attenendosi strettamente ad una rigorosa versificazione metrica e al tradizionale bagaglio retorico.
Fu invece Giovanni Pascoli a dare inizio ad una poesia anticlassica. Infatti egli, disilluso e deluso dalla promessa del Positivismo di un'imminente rivelazione del mistero della realtà mediante il metodo scientifico, adottò una nuova ottica con cui percepire il reale. Agli occhi di Pascoli il mondo appare frantumato e disgregato e le cose non hanno più una gerarchia d'ordine: è il poeta - fanciullo - che adesso ricrea le correlazioni tra gli oggetti più comuni, avvalendosi di corrispondenze allusive e simboliche. Tutto ciò ha riflessi di grande portata sulla costruzione formale dei testi, sulle strutture logico - sintattiche e ritmiche, sulle parole scelte per designare gli oggetti.
L'aspetto che forse colpisce più immediatamente è quello sintattico: la sintassi di Pascoli è ben diversa da quella della tradizione poetica italiana, fondata su elaborate e complesse gerarchie di proposizioni principali, coordinate e subordinate. In Pascoli invece la coordinazione prevale sulla subordinazione, di modo che la struttura sintattica si frantumi in serie paratattiche di brevi frasi allineate senza rapporti gerarchici tra loro. Le frasi sono inoltre ellittiche, mancano del soggetto o del verbo o assumono la forma dello stile nominale. L'architettura della frase pascoliana rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell'esperienza, il prevalere della sensazione immediata, dell'intuizione, dei rapporti analogici che indicano una trama di segrete corrispondenze tra le cose. Tale sintassi traduce perfettamente la visione "fanciullesca" del mondo che mira a rendere l'alone di mistero che circonda le cose. Non essendovi più gerarchie, nel mondo pascoliano si introduce un relativismo "che non ha più punti di riferimento esterni, oggettivi" (Bàrberi Squarotti).
Pascoli non usa un lessico fissato entro un unico codice, come era caratteristico nella poesia italiana a partire da Petrarca: egli mescola invece codici linguistici diversi e allinea termini tratti dai settori più disparati. Come le cose convivono senza gerarchie, così avviene delle parole che le designano. Grande rilievo hanno poi gli aspetti fonici, ossia i suoni che compongono le parole. Quelle che più colpiscono sono le forme definite da Contini "pregrammaticali", ovvero quelle espressioni che si situano al di sotto del livello strutturato della lingua e non hanno un valore semantico, non rimandano ad un significato concettuale, ma imitano direttamente l'oggetto. Anche il verso, come la struttura sintattica, è di regola frantumato al suo interno, interrotto da numerose pause segnate dall'interpunzione, da incisi, parentesi, puntini di sospensione. Queste soluzioni formali che introducono cospicue innovazioni nel linguaggio poetico italiano aprono la strada alla poesia del Novecento.
Pascoli è il primo ad avvertire l'esigenza di usare nuove parole per descrivere nuove cose. La sintassi spezzata ed ellittica, la sperimentazione di ritmi inediti, con la frantumazione del verso, la ricerca di un valore musicale della parola attraverso la riscoperta della sua sostanza fonica, l'uso di un linguaggio analogico ed evocativo sono l'equivalente di una crisi delle strutture logiche e gerarchiche del mondo.
A titolo d'esempio si analizzino i seguenti sonetti:
- Giosuè Carducci, da Rime nuove, Il bove T'amo, o pio bove; e mite
un sentimento o che al giogo inchinandoti
contento Da la larga narice umida e nera e del grave occhio glauco entro l'austera |
- Giovanni Pascoli, da Myricae, Il bove Al rio sottile, di tra vaghe brume, guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano che fugge, a un mare sempre più lontano migrano l'acque d'un ceruleo fiume; ingigantisce agli occhi suoi, nel lume pulverulento, il salice e l'ontano; svaria su l'erbe un gregge a mano a mano, e par la mandra dell'antico nume: ampie ali aprono imagini grifagne nell'aria; vanno tacite chimere, simili a nubi, per il ciel profondo; il sole immenso, dietro le montagne cala, altissime: crescono già, nere, 'ombre più grandi d'un più grande mondo. |
La visione carducciana della natura è strettamente naturalistica ed alunna del Positivismo: la natura è concepita come forza primordiale e vigorosa e il paesaggio è teso a rivelare un intimo rapporto tra uomo e natura. Una tale visione non lascia spazio al senso del mistero, a dubbi, angosce, paure, inquietudini, che invece costituiscono la nota dominante dell'omonima poesia pascoliana. Con Pascoli viene meno la fiducia positivistica nella scienza e nella ragione. Pascoli avverte infatti l'insidiosa e ossessiva presenza della morte e di un insondabile mistero al fondo dell'esistenza umana e del cosmo; la natura non è più in comunione con l'uomo, si fa inquietante, popolata da presenze misteriose e angoscianti. La lirica di Carducci offre un'immagine serena, di robustezza, forza e sanità: l'animale ispira dunque un «sentimento di vigore e di pace». Nel sonetto di Pascoli, invece, tutti gli elementi evocati concorrono a creare un'atmosfera visionaria percorsa da apparizioni fantasmatiche, presenze misteriose tutt'altro che rassicuranti. Tutti gli elementi grammaticali, dall'indicatore spaziale vago «al», in apertura, all'aggettivazione («vaghe», «lontano» «profondo»), alle stesse voci verbali («fuggire», «crescere») indicano il progressivo dilatarsi del paesaggio che, persi i confini consueti e normali, sembra sottrarsi a ogni delimitazione spaziale. Inoltre nel Bove di Carducci ogni elemento del paesaggio ha valore di per sé e non rinvia ad ulteriori significati; in quello del poeta romagnolo, invece, quel "nero" che prima qualificava semplicemente la narice del bue, adesso suscita un inquietante senso di mistero che conduce alle conclusive «ombre più grandi d'un più grande mondo». Lo stesso lessico adottato da Pascoli è indice della volontà del poeta di superare i limiti del realismo e di alterare la prospettiva naturalistica carducciana.
Quindi, dai versi di Carducci emerge una visione univoca, ordinata e rassicurante della realtà, che appare ancora fondata su valori saldi come il lavoro, l'autenticità e la laboriosità della vita dei campi. Pascoli, al contrario, ci presenta un mondo privo di sicuri punti di riferimento, contraddittorio, inquietante, un mondo davvero, per usare le parole del poeta, odorato di mistero. E per fare questo egli ricorre ad un linguaggio nuovo, saturo di tensione e ben lontano dall'equilibrio lirico di Carducci. Il poeta ha perso la sua aureola, non può più servirsi di una tradizione linguistica ormai vetusta per descrivere le mutate condizioni della realtà. È attraverso un linguaggio frammentario che possiamo ben comprendere le angosce e le paure di una nuova epoca. Proprio questo aveva ben capito Gianfranco Contini dicendo: «quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell'universo si ha un'idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo, ontologicamente molto ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l'io e il non-io, tra l'uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti, delle frontiere precognite. Le eccezioni alla norma significherebbero allora che il rapporto tra l'io e il mondo di Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. È caduta quella certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo Romanticismo».
La vera radicale eversione del sistema linguistico tradizionale giunse a totale compimento con il movimento futurista. Quello che Marinetti espresse nel suo Manifesto tecnico fu una vera e propria rivoluzione. Soprattutto tra i futuristi aleggiava una forte consapevolezza che la realtà contemporanea era profondamente mutata: grazie alle nuove scoperte nel campo delle comunicazioni e dei trasporti, infatti, la velocità sembrava essere la caratteristica discriminate dei nuovi tempi. E, allora, alla stregua dell'atteggiamento che caratterizzava molti scrittori di inizio Novecento, si avvertì l'esigenza di far riflettere all'espressione poetica l'accelerazione dei ritmi di vita. Il rinnovamento tecnico fu richiesto perché la letteratura potesse consuonare con la nuova città industriale. I futuristi, così, rifiutarono in blocco la tradizione e la liquidarono come «passatismo»: "Vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologhi, di ciceroni e d'antiquari".
Marinetti stesso si fa promotore attivo dei canoni che illustrano la nuova tecnica, quella delle parole in libertà:
Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l'uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l'oggetto coll' immagine che esso evoca, dando l'immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.
Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno i segni della matematica: +--x: = > <, e i segni musicali.
Come si può dedurre dagli estratti appena riportati, il presupposto essenziale della nuova tecnica non consiste nel fissare la rappresentazione degli oggetti, ma al contrario si tratta di cogliere il ritmo dinamico del loro divenire, il loro moto, il loro succedersi immediato e simultaneo. Questo è un obbiettivo che si può raggiungere mutando il tipo di linguaggio poetico: ogni elemento grammaticale deve essere teso a rendere l'immediatezza, il turbinio del reale. Possiamo ben comprendere ciò dalla poesia La passeggiata di Aldo Palazzeschi:
- Andiamo? All'arte del ricamo, |
Lastrucci e Garfagnoni, - Torniamo indietro? |
La poesia si risolve nell'accumulo di tutti gli oggetti che cadono sotto gli occhi di chi passeggia distrattamente per il centro cittadino. Sono oggetti impoetici, presentati con tono festevole e scanzonato, di segno futurista: quelli che cioè la tradizione considerava indegni di fare parte della lirica. Anche in Pascoli si verifica la medesima cosa. L'introduzione in poesia di oggetti che non appartengono al bagaglio poetico tradizionale segna l'apertura della poesia alla descrizione delle nuove realtà. Realtà che ormai non sono più caratterizzate dai miti dell'epos, ma che costituiscono invece un mondo di cose piccole, non rilevanti, umili e quotidiane.
Nella poesia di Palazzeschi il gioco frastornante di immagini, di parole, di suoni, si risolve allora nella parodia del linguaggio meccanico e standardizzato della società borghese e nella condizione alienata che esso riflette. Pur trattandosi di versi liberi, sono assai frequenti le rime: il libero gioco di suoni rientra in quella ricerca di una poesia orale e cantabile, quasi da filastrocca, che è tipica dell'autore. Sono rime talvolta assai significative e originali: qui Palazzeschi si rivela autore di alcune "rime-choc", ovvero rime che creano accostamenti assai audaci e impertinenti, con effetto parodico: si vedano, per esempio, le rime "Crocifisso - prezzo fisso" o "Risorgimento - riscaldamento".
I toni con cui Palazzeschi descrive la città vista durante una passeggiata sono del tutto inediti nella poesia italiana. Il verso ormai altro compito non ha se non quello di essere un semplice contenitore di uno sguardo sterile. Nemmeno gli artifizi retorici hanno più una qualche utilità, dal momento che il poeta ha la chiara consapevolezza di trovarsi al cospetto di una realtà velata, della quale si può percepire unicamente l'apparenza. La poesia non è più chiamata a descrivere una Zacinto che si "specchia nell'onde del greco mar da cui vergine nacque Venere con le sue isole feconde"; la realtà non è una "materna [] terra" ma semplicemente uno sfondo. E il lettore si troverà pertanto innanzi a "scatole per tutti gli usi di cartone", "utensili per cucina" e "tessuti di seta e cotone" giustapposti non più secondo le codificazioni metriche ma secondo la più diretta percezione dell'artista, divenuto adesso profeta del quotidiano.
James Joyce and the revolution of words
The linguistic creativity of James Joyce has solid basis in the history of Ireland, that has been deprived of its own identity, culture and language because of English domination in this territory. The English rule had imposed on Ireland a new way to communicate, that sounded foreign and unnatural. The English language was, in Joyce's opinion, familiar and foreign in the same moment as it was the unique language he could use to communicate (familiar) even if it didn't belong to his atavist tradition (foreign). During his adolescence he refused to learn Gaelic and decided to become completely familiar with English and to appropriate it.
In The Portrait of the Artist as a Young Man we can find the spark that starts off the process of appropriation and linguistic revolution:
The language in which we are speaking is his before it is mine. How different are the words home, Christ, ale, master on his lips and on mine! I cannot speak or write these words without unrest of spirit. His language, so familiar and so foreign, will always be for me an acquired speech. I have not made or accepted its words. My voice holds them at bay. My soul frets in the shadow of his language.
In this short passage we can understand how the artist realizes that linguistic signs are never neutral and objective. Words are covered with a history and a culture that for Joyce belong to an enemy invader. The opposition to a language that is perceived more as imposed rather than as chosen happens by a process of re-invention, manipulation and re-writing.
This process is set up trough two strategies:
a) the assumption of new meanings: words that in the past had a precise signification now cover new correspondences
b) the introduction in the English vocabulary of the same foreign words that from an "acquired speech" now enrich a language which has no more limitations imposed by other Nations' idioms.
During this process, James Joyce realizes that the very problematic issue about the language isn't merely the fact that the language he spokes is that of an invader, but he perceives that it's no more adapt to describe and express the reality around him. In fact, he is aware that the inadequacy of language prevents the writer from expressing what really matters.
During the Victorian Age there was a precise idea of what reality was about: it's testified by words such as "good", "wealth", "commitment", "sin", "progress", "religion" and so on. These nouns furnished a precise lexicon according to which the elements belonging to the external environment were identified. But at the turn of the XX century, all the certainties collapsed and with them, the exact semantic areas which identified people's attitudes and essences. James Joyce understood exactly this issue and decided to react by developing a new way of expressing. The new language has to be flexible and must describe perfectly the reality which surrounds us in its complexities and contradictions. In the same moment, through this linguistic device, the speaker must have the possibility of being part the new cosmopolite reality thanks to foreign contaminations.
But the most important element, is the fact that for the first time the language is made adapt to describe psychological processes which were recently discovered by the formulation of the theory of the unconscious by Sigmund Freud. Previously in fact, characters' thoughts were introduced by an objective narrator who gave order to the narration. Thanks Joyce's new way of expressing, literature can examine to the root inner processes which before were impossible to depict because of the lack of a proper language.
This is the case of Molly Bloom's famous monologue which ends the Ulysses: Molly is at home in bed. After her husband Leopold Bloom has returned from a brothel her mind wanders freely from her present to her past life.
he said I was a flower of the mountain yes so we are flowers all a woman's body yes that was one true thing he said in his life and the sun shines for you today yes that was why I liked him because I saw he understood or felt what a woman is and I knew I could always get round him and I gave him all the pleasure I could leading him on till he asked me to say yes and I wouldn't answer first only looked out over the sea and the sky I was thinking of so many things he didn't know of Mulvey and Mr Stanhope and Hester and father and old captain Groves and the sailors playing all birds fly and I say stoop and washing up the dishes they called it on the pier and the sentry in front of the governors house with the thing round his white helmet poor devil half roasted and the Spanish girls laughing in their shawls and their tall combs and the auctions in the morning the Greeks and the Jews and the Arabs and the devil knows who else from all the ends of Europe and Duke street and the fowl market all clucking outside Larby Sharons and the poor donkeys slipping half asleep in the shade on the steps and the big wheels of the carts of the bulls and the old castle thousands of years old yes and those handsome Moors all in white and turbens like kings asking you to sit down in their little bit of a shop and Ronda with the old windows or the posadas glancing eyes a lattice hid for her lover to kiss the iron and the wineshops half open at night and the castanets and the night we missed the boat at Algeciras the watchman going about serene with his lamp and O that awful deepdown torrent O and the sea the sea crimson sometimes like fire and the glorious sunsets and the figtrees in the Alameda gardens yes and all the queer little street and pink and blue and yellow houses and the rosegardens and the jessamine and geraniums and cactuses and Gibraltar as a girl where I was a flower of the mountains yes when I put the rose in my hair like the Andalusian girls used or shall I wear a red yes and how he kissed me under the Moorish wall and I thought well as well him as another and then I asked him with my eyes to ask again yes and then he asked me would I yes to say yes my mountain flower and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my breast all perfume yes and his heart was going like mad yes I said yes I will Yes. (James Joyce, Episode 18, in Ulysses, 1922)
In this passage the first remarkable thing is the reiterated use of the word "yes". We can say that Joyce, in his attempt to reproduce Molly's flow of thoughts, has replaced the use of the punctuation with this word. So "yes" has now a new meaning, a new semantic function: it stands for a probable full stop or dash. The motivation of this device is strictly linked to the new literary matter proposed. Language, in this case, doesn't describe a concrete reality in which words exist in order to depict precise issues. Now we are following the psychological processes and, so, the traditional use of language becomes improper. So it is totally explained and justified the use of alternative linguistic elements to share this kind of matter. Remarkable too is the use of the syntax. The single phrases are not ordered by a regular scheme winch follow the traditional subordination. Phrasal fragments are simply juxtaposed as if they form a collage. This device demonstrates that the new perception of the word has been shattered and consequently, also the way used to represent it.
Inadequacy of language in Virginia Woolf's Orlando
Virginia Woolf's Orlando is a biographical novel which deals with the question of freedom from the restrictions of both gender a genre, since it escapes the conventions of the novel and ridicules the biographical genre, with its narrative presentation of the subject from birth to death . Orlando is a character described during a period which covers five centuries, from the year 1500 to the 20th century. Although she takes 300 years to reach the age of thirty-six, Orlando does not change. Her essential qualities are already formed when she is an Elizabethan boy of sixteen. At this point Woolf underlines Orlando's androgyny: she is not altered by the sex change, but by her perception and her social behavior. Orlando is an aristocrat who struggles to find a way of expressing life in art. Her attempts to write evolve according to the historical period trough which she lives. When an Elizabethan, she writes tragedies; as a 17th century ambassador, she meditates upon tombstones; during the 18th century she becomes a lover of the picturesque and in the 19th century she has to react against the spirit of the age which demands "the most insipid verse she had ever read in her life". So the book itself is a framework for Orlando's poem and her difficulty in writing it. The narrative style echoes Lawrence Sterne's Tristram Shandy with silences, pauses, digressions, and parentheses which totally disrupt the narrative. Woolf also incorporated photographs of Vita Sackville and of her ancestors to represent Orlando in the different moments of her life and career.
Thanks to the language of simile and metaphor it's allowed the exploration of appearance and reality and of the character's transformation. It alludes to the oscillations of sex and gender and hints to the crisis of categories. The concept of androgyny implies that the sexual ideal is a combination of male and female attributes which are known and given from the start. So it's distorted the Victorian conception of precise gender categories, which forces men and women into unnatural rigid marital roles.
Woolf felt she had to find new forms of expression to convey this new sense of reality, so different from the orderly structured world presented in the traditional realist novel of the 19th century. For Woolf, of course, problems of writing are linked to problems of gender.
This is clearly evident in these lines taken from Orlando:
How explain to him that she, who had been lapped like a lily in folds of paduasoy, had hacked heads off, and lain with loose women among treasure sacks in the holds of pirate ships on summer nights when the tulips were abloom and the bees buzzing off Wapping Old Stairs? Not even to herself could she explain
The major issue that comes up from this passage, and from all the novel, is the inadequacy of the actual way of expressing to describe the situation in which Orlando finds herself. This fact is due to the new subject matter which emerges in the age of avant-gardes. In the past, till to the Victorian period, androgyny didn't exist: an individual was male or female. But, with the fall of certainties and the discovery of a reality that goes beyond the appearances, new literary themes emerge. The problem is the previous language that is no more adapt, because of its clear distinction of semantic areas. It's at this point that the real problem is shown: inadequacy of languages prevents people from expressing their fellings, emotions and difficulties. If language doesn't evolve, incommunicability dominates, and single human beings get trapped in the limitations of language. This is the gap in which Orlando falls. Probably, if Virginia Woolf were alive nowadays, she would find the correct words to overcome Orlando's difficulty of expressing her inner world.
Le esperienze artistiche dei primi anni del Novecento maturano in un contesto generale più che mai ricco di incertezze e contraddizioni. Gli studi che stava conducendo in quel periodo Sigmund Freud sulla psicoanalisi scoperchiando per la prima volta il mondo che ciascuno di noi ha nel proprio inconscio e che, a volte, riesce a manifestarsi solo attraverso i nostri sogni o i nostri desideri repressi, contribuiscono ad aprire ulteriori orizzonti di ricerca. L'arte, in altre parole, non deve trovare più le proprie motivazioni nella realtà visibile, quella fenomenica, ma può aprire la propria indagine anche al campo sconfinato della realtà interiore. Sul piano della ricerca scientifica, le elaborazioni teoriche di Albert Einstein dimostravano che spazio e tempo non sono entità assolute, tra loro distinte e indipendenti. Contemporaneamente stavano destando scalpore a livello europeo le riflessioni del filosofo francese Henri Bergson, secondo il quale il tempo non esiste più come successione di singoli attimi, ma come durata complessiva, percepibile più a livello di intuizione che con gli strumenti razionali. Poiché i nuovi orizzonti della medicina, della scienza e del pensiero filosofico fanno intravedere infinite realtà parallele a quella che, fino ad allora, si presumeva essere unica e assoluta, anche il settore dell'arte si apre a un universo di ricerche e di sperimentazioni mai prima tentate. È in questo contesto che maturano le cosiddette Avanguardie storiche.
I pittori cubisti non cercano di compiacere il nostro occhio imitando la realtà, né, come facevano gli Impressionisti, tentano di interpretarne le suggestioni. Essi, infatti si sforzano di costruire una realtà nuova e diversa non necessariamente simile a quella che tutti conosciamo, anche se spesso ad essa parallela. Se la riproduzione prospettica di un qualsiasi oggetto può apparirci senz'altro verosimile, la verità di quell'oggetto è quanto mai lontana e diversa. Immaginando un cubo, in una qualsiasi veduta prospettica esso ci mostrerà al massimo solo tre delle sue facce che, pur essendo quadrate, ci appariranno a forma di parallelogrammi irregolari. Gli spigoli non verticali, infine, che nella realtà sappiamo essere sempre uguali e paralleli, risulteranno invece disuguali e convergenti. Nonostante tutto la visione di questo cubo è perfettamente verosimile. Se si osserva lo sviluppo in piano del solido, esso ha tutte e sei le facce perfettamente quadrate e uguali, con spigoli tra loro sempre perpendicolari: se si ritagliasse il cubo in sviluppo e se si piegassero le facce lungo gli spigoli contigui incollandole lungo quelli restanti s'otterrebbe la costruzione tridimensionale del cubo. Tale cubo in sviluppo, dunque, è molto più vero del precedente.
La realtà che percepiamo attraverso il senso della vista è in realtà diversissima dalla realtà effettiva. La realtà cubista comprende anche il fattore tempo, una variabile che non era mai stata prima considerata da alcun artista. Il pittore cubista, infatti, si figura di ruotare fra le mani l'oggetto da rappresentare o, se si tratta di una persona, di girarle addirittura attorno. Il nome del movimento deriva dall'uso cubista di scomporre la realtà i piani e volumi elementari. Per importanza e conseguenze il Cubismo rappresenta, insieme al Rinascimento, uno dei momenti di svolta storica di tutta l'arte occidentale. Dopo il Cubismo nessuno ha più potuto dipingere o scolpire come prima. Una volta rotto l'incanto illusorio della prospettiva rinascimentale, infatti, non è stato più possibile fare arte senza tener conto della frantumazione delle forme o della molteplicità dei punti di vista.
Picasso appare subito come un fiume in piena. La sua straordinaria fantasia e l'innata propensione al disegno lo fanno procedere per geniali intuizioni. Nell'autunno 1906 comincia a lavorare a un dipinto di grandi dimensioni che, corretto, cancellato, riaggiustato e ridipinto innumerevoli volte, vedrà alfine la luce solo verso il termine dell'anno successivo: si tratta del celeberrimo Les demoiselles d'Avignon.
Picasso semplifica le geometrie dei corpi e coinvolge in tale semplificazione anche lo spazio. Quest'ultimo, infatti, invece di essere inteso come una serie di rapporti tra le varie figure, viene esso stesso materializzato e dunque diviene un oggetto al pari degli altri. Le figure femminili, dunque, non sono più immerse nello spazio ma da esso compenetrate e, a parte il colore rosato dei nudi, sembrano essere costituite della stessa materia solida. Nella realizzazione dei volti delle figure le apparenti incongruenze sono finalizzate a una nuova e diversa percezione della realtà. Non più visiva, ma mentale: cioè volta a rappresentare tutto quello che c'è e non solo quello che si vede. Non c'è da meravigliarsi se di un personaggio vediamo contemporaneamente due o più lati. È come se vi si girasse attorno e si tentasse poi di ricostruire le varie viste sovrapponendole l'una all'altra. Quello adottato da Picasso, in questo dipinto, è un innovativo modo di rappresentare la nuova concezione bergsoniana del tempo: non è cristallizzato un singolo momento, come è sempre avvenuto nella tradizione pittorica, bensì una durata, non si tratta più di un istante ma di una data scansione temporale.
Dalla frammentazione delle fattezze umane di Picasso, con l'affermarsi del nuovo secolo, s'arriva all'estetica della tecnologia e della macchina. Ciò che stupisce adesso non è più l'Homo faber, bensì la macchina, il prolungamento della forza umana, e, più in generale, come un complesso meccanismo dotato di un'energia propria e capace di movimenti e forze prima sconosciuti. Ciò implica che la realtà non è più fatta di sistemi armonici ed equilibrati come insegnava l'arte precedente, ma ogni forma di rappresentazione che s'attiene ai canoni tradizionali viene condannata duramente come passatismo. La verità è un'altra, ed è quella tecnologica, veloce e meccanica.
La realtà è quindi dominata dal dinamismo e nella sua rappresentazione deve essere privilegiata l'immagine del movimento. Afferma dunque Boccioni nel Manifesto tecnico della pittura futurista: «I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro».
Uno dei lavori più significativi e che segna una tappa fondamentale nello sviluppo artistico di Boccioni è La città che sale. Protagonista del grande dipinto - al quale l'artista lavorò fra il 1910 e il 1911 - è un turbinoso affollarsi di cavalli e di uomini che invade quasi l'intero campo dell'immagine e che lascia emergere sullo sfondo le alte e dritte impalcature di alcuni edifici in costruzione. Lo scenario è quello della periferia urbana. Il tema che emerge è quello del lavoro: una febbrile attività anima le figure degli uomini e dei cavalli in primo piano, deformandone i corpi in esasperate tensioni muscolari. Le loro movenze sono ulteriormente evidenziate dall'impiego della tecnica divisionista. Essa privilegia l'evidenziazione della componente cromatica, costituita da masse di colore che si compenetrano e si scontrano generando un forte effetto dinamico. Con La città che sale Boccioni segna un passo decisivo nell'intraprendere il processo di disgregazione delle leggi della rappresentazione. Il suo obbiettivo è andare oltre la pura raffigurazione degli oggetti, per approdare ad un livello ancora più alto di comunicazione, quello dell'espressione diretta di una sensazione, di un'emozione, di uno stato d'animo. E questo obbiettivo è raggiunto abbandonando i chiari contorni che in passato definivano le immagini: nella realtà nulla è più distinto e discernibile, ma ogni cosa si risolve in una dinamica unità.
Bibliografia
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Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo -La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, Paravia
Thomson Graeme, Maglioni Silvia, New Literary Links. From the Victorian Age to Contemporary Times, Cideb - Black Cat
Giorgio Cricco, Francesco Paolo Di Teodoro, Itinerario nell'arte 3. Dall'Età dei Lumi ai giorni nostri, Zanichelli
Isabella Gherarducci, Il futurismo Italiano, Editori riuniti
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