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MODA E COMUNICAZIONE: L'ABBIGLIAMENTO COME LINGUAGGIO
Di moda tutti hanno detto o scritto, sulla sua natura effimera in molti si sono interrogati: sociologi, psicologi, letterati, semiologi, economisti, cronisti, poeti di ogni tempo ed epoca. Eppure, come per ogni argomento sfuggente e tuttavia pervasivo, sembra che anche per la moda si possa ancora dire tutto ed il contrario di tutto.
Ma cosa s'intende veramente per "moda" ?
In senso lato la parola moda indica una concezione del costume generalmente accettata e ritenuta valida in un determinato momento storico. Spesso noi siamo abituati ad identificarla con l'abbigliamento, col modo di vestirsi di ogni persona, ma non è solo questo. Si tratta di tutto lo stile di vita, di tutti i mezzi di espressione - come l'architettura o l'arredamento - di cui l'uomo dispone, dei modi di comportarsi in società e degli oggetti di uso più comune[2].
La moda è dunque un aspetto del comportamento del singolo individuo che diventa comportamento di una comunità sociale, la quale si esprime a seconda del gusto del momento. E' un fenomeno che con velocità variabile, a seconda del tempo e delle situazioni, si diffonde nella società partendo da gruppi ristretti per poi arrivare a coinvolgere la massa della popolazione, acquisendo via via un carattere sempre più vincolante sull'individuo.
Secondo una classica definizione la moda è la regola del cambiamento, un certo regime del gusto: qualcosa che ieri non piaceva, che domani non ci sarà più, oggi riscuote l'approvazione generale[3]. All'improvviso la moda diventa regola e tutti, senza nemmeno averlo deciso in maniera consapevole, si trovano a seguire il nuovo costume, o almeno a condividerlo: non più gonne corte ma lunghe; no alla cravatta larga e sì a quella stretta; no alla carne meglio essere vegetariani; perfino in politica ed in religione un principio finisce per prevalere sull'altro.
A questo punto un concetto sembra chiaro: «La Moda cambia»[4]. Essere alla moda significa vivere nell'effimero, aggiornarsi continuamente, inseguire un flusso di regole infinito.
Ma anche un'altra cosa è fuori dubbio: «La Moda comunica»[5]. Basta pensare alla moda vestimentaria: nell'indossare un abito ciascuno di noi scrive la propria identità sul suo corpo; attraverso l'abito "comunichiamo" quel che siamo (o mentiamo circa il nostro essere) e gli altri ci capiscono e si fanno una certa idea di noi. Gli abiti possono rivelare le nostre priorità, le nostre aspirazioni, il nostro progressismo o conservatorismo; possono anche essere utilizzati per trasmettere in modo conscio o inconscio, aperto o nascosto messaggi di carattere sessuale; sono capaci di dare tono e colore a ciò che ci circonda e che dà forma ai nostri sentimenti .
Che gli abiti possano significare (o anche mentire) è d'altronde un concetto così comune da essere finito nella saggezza dei proverbi; non manchiamo del resto di recitare spesso il detto "l'abito non fa il monaco": non lo fa, è vero, ma lo significa e lo comunica[7].
Da questa breve analisi del significato della parola «moda» possiamo leggerne due aspetti: il primo è quello della moda intesa come comportamento sociale mutevole, a cui si sono dedicati molti sociologi a partire da George Simmel fino ad arrivare per esempio al contemporaneo Ugo Volli; il secondo è quello della moda intesa come un linguaggio capace di comunicare qualcosa di non verbale, a cui si sono interessati numerosi semiologi, tra i quali spicca indubbiamente il nome di Ronald Barthes.
Nelle prossime pagine questa tesi prenderà in considerazione soprattutto la moda vestimentaria analizzandone la sua capacità comunicativa senza, ovviamente, tralasciare le sue implicazioni da
un punto di vista sociale.
e comunicazione
Il fenomeno «moda», inteso come scelta mutevole di oggetti di abbigliamento, ha conosciuto nel corso dei secoli diversi percorsi che oggi sono esemplificativi di tre precisi periodi storici.
Nell'antichità (1° periodo) la moda funge da strumento di differenziazione individuale e collettiva. Essa trova la sua autonomia strutturale ed una funzione sociale precisa solo con la formazione dei grandi stati nazionali, agli inizi dell'età moderna, ed in particolare in Francia alla corte di Luigi XIV (2° periodo).
La funzione sociale della moda come espressione di determinati ceti e classi sociali è rimasta sostanzialmente stabile fino al 1960 circa. A partire da quella data, a seguito della contestazione giovanile, si è verificata una svolta rivoluzionaria nel campo della moda: la rottura dell'assoluto dominio della «haute couture» ha fatto emergere un nuovo modello sociale rispetto al quale è profondamente mutata la natura e la funzione stessa della moda. Sul piano dei rapporti interpersonali, adesso della moda viene esaltata soprattutto la sua funzione comunicativa e sul piano sociale diviene fattore di differenziazione non solo tra classi sociali, ma anche tra gruppi, a volte effimeri (3° periodo).
Parallelamente al percorso storico che ha visto l'affermazione del fenomeno moda nella società civile, si sono anche susseguite nel tempo diverse modalità di studio e di ricerca del fenomeno. Talora si sono colti gli aspetti più propriamente sociali, legati alla nascita e alla diffusione di una nuova moda in una determinata classe sociale. Altre volte sono stati studiati gli aspetti psicologico-sociali legati alla comunicazione, tra i membri di uno stesso gruppo o di gruppi diversi, dei messaggi e dei segni veicolati dal fenomeno moda. O ancora, si sono evidenziati i contenuti antropologici presenti nel modo di vestirsi e di decorare il proprio corpo in specifici gruppi e comunità etniche. Talora, ancora, ci si è concentrati sui bisogni e le motivazioni individuali che sono alla base della scelta di adottare una certa moda. Infine, si sono anche sottolineati i contenuti economici presenti nel mondo della moda e
al marketing e alla pubblicità di determinati prodotti[8].
Nonostante l'interesse per il fenomeno moda abbia coinvolto diverse direttrici di studio, è solo però a partire dagli ultimi anni dell' '800 che la sua analisi è divenuta sistematica. Prima infatti, anche se presente già da due secoli in maniera autonoma ed organizzata nei principali paesi europei, nei confronti di tale fenomeno viveva una sorta di «pregiudizio scientifico» : per il suo carattere mutevole, instabile, a volte superficiale e frivolo, la moda era stata sempre guardata con sospetto, come un fenomeno di minore importanza rispetto alle norme e regole costanti che caratterizzavano il comportamento collettivo .
Oggi invece la Moda è finalmente considerata come uno degli elementi fondamentali che caratterizzano la civiltà, come qualcosa che non interessa solo il corpo, la sua estetica o l'abbigliamento, ma anche tutti gli altri mezzi attraverso cui l'uomo si esprime. La Moda è un tratto saliente della cultura e della società di massa e addirittura permette di individuare ed analizzare il rapporto esistente tra individuo e società[11].
Si può dire che tra i diversi campi di applicazione in cui si è indagato il fenomeno moda, in un primo tempo l'interesse della ricerca si è soffermato sui suoi aspetti prevalentemente sociali ed economici.
Con Simmel (1904), Trade (1903) e Veblen (1899) la moda viene analizzata per la prima volta in maniera sistematica e viene letta per la prima volta come «bisogno sociale» anziché come esigenza morale o estetica[12].
Parimenti precoce si può considerare l'interesse antropologico; quello psicologico arriva invece, per la moda, più tardi con Flügel (1930), il quale, fortemente influenzato dal
pensiero psicoanalitico, propone da un lato una serie di soggetti psicologici (come "il sublimato", l' "austero", il "ribelle", ecc.) e dall'altro assegna agli abiti la funzione di estensione dell' «Io corporeo».
E' sempre con Flügel, inoltre, che per la prima volta si accenna alla funzione comunicativa, non verbale, degli abiti: "Nel caso di un individuo che incontriamo per la prima volta, gli abiti che indossa ci dicono qualcosa del suo sesso, della sua professione, della sua nazionalità, del suo livello sociale e siamo così in grado di adattare il nostro comportamento nei suoi confronti, molto prima di quanto non potrebbe consentircelo un'approfondita analisi dei suoi lineamenti e del suo modo di parlare"[13]. L'interesse vero e proprio per tale funzione comunicativa si sviluppa agli inizi del secondo dopoguerra, quando la psicologia sociale riconosce l'immediatezza della comunicazione non verbale, basata sui contenuti emotivi. Il carattere effimero della moda crea nell'individuo incertezza ed instabilità: ciò scatena un bisogno di comunicazione tra gli individui ed i loro gruppi di riferimento sempre maggiore e la necessità di trovare nell'abbigliamento un elemento di forte aggregazione.
Attraverso lo studio della moda è possibile pertanto rintracciare quei comportamenti non verbali, intermedi tra semplici segni e comunicazioni intenzionali, - di cui fanno parte anche gli «abiti»- la cui funzione comunicativa può essere orientata tanto verso se stessi, quanto verso gli altri ed essere il frutto sia di una scelta consapevole ed intenzionale sia di bisogni che di motivazioni di cui non si è consapevoli .
Dunque gli abiti sono un po' come una seconda pelle e possono essere scelti per comunicare agli altri in modo volontario aspetti della propria immagine personale e sociale e rafforzare la comunicazione proveniente dai gesti, dalla postura, dalla mimica facciale. Ma questa comunicazione può anche essere discrepante: ciò che corpo ed abiti insieme comunicano non trova conferma
nel linguaggio della persona stessa[15].
Da ciò possiamo affermare che, analogamente al corpo, i vestiti «parlano», ma la natura della loro comunicazione può essere differenziata a seconda che il messaggio da essi espresso sia più di ordine sociale o personale.
Argyle sostiene proprio la facoltà di un abito di denotare differenti situazioni sociali. Incontri di tipo formale (come l'essere ospiti ad un matrimonio o colloqui di lavoro) richiedono un abbigliamento diverso da quello che si sceglie per partecipare a manifestazioni sportive, riunioni informali tra amici, ecc. Questo dimostra che gli abiti rispecchiano una precisa identità sociale e che l'appropriatezza dell'abbigliamento di fatto coincide con quella del ruolo . Attraverso i vestiti si possono esprimere anche altre importanti dimensioni della personalità: si può essere meno attraenti, ad esempio, se si indossano capi non alla moda, oppure più attraenti se si scoprono determinate parti del corpo (pensiamo al
decoltè femminile); si può comunicare benessere o malessere a seconda dell'accuratezza o trasandatezza del vestire; attraverso la scelta dei colori si possono esprimere emozioni positive o negative, lo stile comportamentale di chi indossa quell'abito così colorato.
Insomma gli abiti rendono possibile la strutturazione del sé.
I. 3. 1 George Simmel. La teoria del trickle-down
Simmel riconosce nella moda l'elemento capace di appagare il bisogno del singolo di un appoggio sociale ed allo stesso tempo l'elemento che soddisfa la sua esigenza di diversità, cambiamento, differenziazione. Dunque la moda è una forma di vita in cui la tendenza all'eguale sociale e quella alla differenziazione si congiungono in un fare unitario[17].
La moda - dice Simmel - si caratterizza per un duplice aspetto: il «conformismo», cioè la tendenza ad imitare e il «separatismo». Da un lato produce coesione attraverso l'imitazione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, dall'altro muove l'esclusione e la differenziazione di un gruppo nei confronti degli altri.
Il processo di diffusione della moda nella società per Simmel avviene dall'alto verso il basso, dalle classi dominanti a quelle inferiori, per «gocciolamento»[18]. Una volta che una moda si è imposta fino ad essere accettata dalla maggior parte delle persone appartenenti a ceti sociali tra loro diversi, finisce di essere tale e deve essere sostituita da qualcosa di nuovo, da una nuova moda che, come quella appena precedente, a poco a poco si imponga e si diffonda. A questo meccanismo Simmel dà il nome di trickle-down. Nel corso della discesa dall'alto verso le classi medio-basse e quelle lavoratrici superiori la moda non è già più moda: le classi ai vertici della gerarchia sociale si sono ormai concentrate su una nuova tendenza. E questo a sua volta fa si che ricominci il ciclo daccapo .
Accanto alla figura di Simmel ricordiamo anche quella di Gabriel Tarde, che guarda al fenomeno moda in maniera altrettanto sistematica.
"Tutte le similitudini di origine sociale che si notano nel mondo sociale, sono il frutto diretto o indiretto dell'imitazione in tutte le sue forme: imitazione-obbedienza, imitazione-istruzione, imitazione-educazione, imitazione-ingenua, imitazione-ponderata, ecc."[20]. Con questa "Teoria dell'imitazione" Tarde vuole mettere in luce come la vita sociale sia governata da due processi fondamentali: l'«innovazione» e l'«imitazione», entrambe peculiarità del fenomeno modale che si estende non solo alle forme, ma anche ai contenuti.
I. 4 L'analisi macrosociologica del fenomeno moda:
Francesco Alberoni
In epoca contemporanea, in seguito allo sviluppo della
società dei consumi che ha dato luogo al moltiplicarsi dei diversi canali di informazione, il fenomeno moda ha trovato un fertile terreno di diffusione. Tra i diversi esponenti che oggi si occupano di moda dobbiamo certamente ricordare il sociologo Francesco Alberoni.
Alberoni chiama «moda» ciò che è valido ora e per un certo periodo di tempo, ma che si sa che avrà una vita limitata destinata all'estinzione. La moda appartiene a quella serie di movimenti transitori che coinvolgono sì l'uomo ed il suo comportamento, ed il comportamento collettivo in genere, ma che non lo coinvolgono fino in fondo nella personalità. Questo significa che la moda non conduce chi l'adotta a mettere in discussione il proprio entroterra culturale e strutturale; se ciò accadesse si trasformerebbe in costume e non sarebbe più un qualcosa di transitorio, ma di permanente. Invece scompare perché non è interiorizzazione né dei valori né dei modelli[21].
La moda inoltre - dice Alberoni - tende a tradursi in un segno
Di successo, e quindi di prestigio. Essa, infatti, è conservativa, servile; per ritrovare una direzione deve sapere con chi si deve identificare, cioè deve sapere che cosa vuole chi ha successo, quali forze esprime ed afferma. Solo così può avvenire il superamento del vecchio
Laddove c'è scarso livello di interiorizzazione dei valori - continua Alberoni - non può esserci reale mutamento; quindi le mode servirebbero a facilitare il cambiamento dei valori in una società. Ma poiché questo cambiamento è sempre traumatico per una società - e talvolta può anche rivelarsi sbagliato - la moda non sarebbe altro che un meccanismo in grado di sperimentarlo, di produrlo cioè lentamente, piano piano, in modo non solo da consentirne l'introduzione non immediata e destabilizzante, ma da offrire anche la possibilità di un ripensamento, di un ritorno indietro, qualora questo cambiamento si rivelasse inutile o dannoso per la società
Ma come fanno - ci domandiamo noi - le mode ad agire in questa
maniera «soft» nei confronti del cambiamento dei valori? Alberoni ci risponde ricordandoci che esistono forme di socialità particolari, che lui definisce «statu nascenti», che hanno proprio la caratteristica di essere molto leggere, superficiali, epidermiche; nel senso che avvicinano gli individui ma soltanto un poco e soltanto in relazione ad un interesse collettivo particolare. E' quanto ad esempio avviene nel caso del tifo sportivo o del divismo, dove appunto le persone per un breve momento ed in relazione ad un oggetto di interesse particolare si avvicinano e, in qualche modo, solidarizzano. Scatta quindi sì un fenomeno di socialità, ma non così consistente da intaccare altri piani del vivere sociale . Il fatto però di essere fenomeni leggeri, statu nascenti appunto, rappresenta anche il limite oggettivo di queste mode, nel senso che una volta raggiunta la massima diffusione, una volta ottenuta la massima accettazione, il processo è costretto ad estinguersi, proprio perché se proseguisse esso inciderebbe necessariamente su quelle cose che ha inizialmente scavalcato. Se cioè non si esaurisse automaticamente, una moda diventerebbe un fatto di costume, con tutte le conseguenze politiche ed etiche che questo comporta. Lo scomparire della moda proprio nel momento della sua massima diffusione è il motivo del suo carattere ludico, di gioco, di «bel gioco che dura poco» . Ogni moda è quindi condannata in partenza; si sa già che morirà, che finirà. Anzi è proprio questa la condizione della sua nascita: le persone aderiscono solo perché sanno di giocare e perché sanno che il gioco, prima o poi, cesserà. E di qui evidentemente la sua natura ciclica: finita una moda ne nasce un'altra, destinata a fare la stessa fine, e poi un'altra e così via.
Ma se la singola moda, proprio per il suo carattere di ludica successione con quella seguente, non si trasforma in costume, lo stesso - sostiene Alberoni - non si può dire per la successione di molte mode in un certo lasso di tempo. La moda, cioè, non cambierebbe il costume in una sola azione ma «per sedimentazioni
successive»[26].
Una prima conclusione che dunque possiamo trarre è che le mode hanno una funzione di tipo integrativo ed adattivo, nel senso che aiutano il sistema sociale a tenersi in piedi e nel miglior equilibrio possibile, facendogli evitare, grazie al loro meccanismo, cambiamenti troppo bruschi. Tutto ciò però risulta quando ci chiediamo il significato che certi fenomeni, in questo caso le mode, hanno per la società nel suo insieme. Cosa succede infatti se ci spostiamo da questo livello d'analisi macrosociologico a quello microsociologico?
I. 5 L'analisi microsociologica del fenomeno Moda: da Veblen ad oggi
Quando l'analisi del fenomeno moda lascia il livello macroscociologico e si concentra su quello microsociologico si vanno ad esplorare i comportamenti e le motivazioni dei singoli individui, e quindi l'oggetto dell'indagine cambia. I fenomeni di moda adesso trovano la loro ragion d'essere nella prospettiva del
conflitto e della ineguaglianza sociale . Perché?
Innanzi tutto dobbiamo sottolineare che nei processi di moda esistono due gruppi distinti di soggetti, i leaders - quelli che anticipano, introducono la moda - ed i followers - quelli che seguono, che adottano cioè l'iniziativa dopo un certo tempo. Ora, quale tipo di relazione unisce queste due categorie di soggetti?
Una delle tesi più diffuse - che si riallaccia ai classici del pensiero sociologico, come Spencer, Simmel, Veblen, ecc. - è che tra questi due gruppi esisterebbe un "conflitto", o meglio una competizione, per appropriarsi dei simboli di prestigio. Da una parte esisterebbero persone di élite, i leaders, che cercherebbero a tutti i costi di distinguersi dalla maggioranza modificando continuamente le proprie preferenze; e dall'altra persone, i followers, che cercherebbero di appropriarsi di questi simboli, segni
di distinzione. Secondo questa interpretazione, quindi, le mode, per
la loro ciclicità e per il modo in cui si rincorrono leaders e followers, costituiscono un sistema che ha lo scopo di regolare l'entità e la natura della diseguaglianza sociale[28].
Questa interpretazione dei fenomeni di moda, prima accuratamente teorizzata, agli inizi del '900 dall'economista americano Veblen, e poi ripresa negli anni '50 da un altro economista, Duesenberry, in tempi più recenti è stata respinta da alcuni sociologi.
Nel dibattito attuale sulle mode e sulla diffusione dei nuovi prodotti e stili di vita, molti studiosi ritengono che questa ipotesi, nella nostra società di benessere, abbia perso ogni valore; le motivazioni di prestigio sociale sarebbero cioè estranee al consumatore moderno o, tutt'al più, limitate ad una ristretta fascia di consumi, quelli appunto detti di status. Ha commentato in merito un grande studioso dei nostri tempi, Gerardo Ragone[29].
Ragone sostiene la tesi delle mode quali strumenti di produzione di
differenze sociali, osservando che se oggi noi non vediamo più nel
comportamento degli individui e dei consumatori quel tipo di confronti invidiosi che caratterizzavano in passato le loro scelte di consumo e quelle delle famiglie, questo non vuol dire necessariamente che tali confronti non esistano più, che siano definitivamente scomparsi o tramontati. Potrebbe semplicemente anche darsi che non appaiano più, non siano cioè così evidenti, manifeste, plateali quasi, come lo furono in passato, ma siano in qualche modo celate.
In altri termini, in società come le nostre, caratterizzate da alti livelli di benessere, da gradi molto elevati di mobilità sociale e da altissimi ritmi di innovazione nella produzione dei beni di consumo, i meccanismi di competizione antagonistica nella domanda di beni e nella diffusione delle mode potrebbero essere divenuti estremamente sottili ed impalpabili, e quindi difficilmente percepibili ad occhio «nudo». Quindi, all'apparenza, oggi le mode si presenterebbero come processi democratizzati e democratizzanti, mentre nella sostanza, esse riproporrebbero la logica tradizionale della differenziazione e del conflitto simbolico.
Ragone, di fronte a queste due interpretazioni molto diverse conclude che bisogna ritenerle valide entrambe dal momento che tutte le società hanno sempre, contemporaneamente, un bisogno di stabilità, di equilibrio ed un bisogno di mutamento, trasformazione. Molti fenomeni sociali hanno questa doppia valenza ed è un problema del singolo ricercatore accogliere l'una o l'altra prospettiva a seconda che i suoi interessi siano rivolti al conflitto o all'integrazione sociale. E le mode non fanno eccezione; servono per facilitare cambiamenti equilibrati nel costume e nella sfera dei valori, ma non per questo sono estranee alla riproduzione delle differenze sociali
Abbiamo detto che di moda si sono occupate diverse discipline; tra queste un posto particolare è riservato alla semiotica.
Innanzi tutto, allora, chiediamoci: "E' possibile una semiotica della moda?". Sì, è possibile, ma solo se per moda
intendiamo il vestire, l'«abbigliamento».
L'abbigliamento, a sua volta, dobbiamo considerarlo un linguaggio non-verbale, ovvero quello il cui scopo non è rendere possibile l'esplicitazione in parole delle idee, ma è quello di suscitare del sentimento, di incitare a qualche atto o di distogliere da esso. In tal senso, il linguaggio non-verbale dell'abbigliamento è quello che consente a ciascun individuo di modellare la propria posizione e relazione con e nel mondo [31].
Come linguaggio così inteso, il vestire funziona secondo una sorta di sintassi, cioè secondo un sistema di regole, più o meno costanti a seconda che si tratti, ad esempio, di abbigliamento tradizionale o di abito alla moda. Queste regole permettono all'abito di assumere un senso; sia questo esprimibile come un vero e proprio significato sociale codificato nel tempo dal costume, sia come il puro e semplice esibirsi di segni sul corpo, in connessione tra loro secondo criteri di associazione stabiliti dal sistema della moda stessa .
Il compito dell'analisi semiologica del fenomeno moda quindi, date queste premesse, deve essere quello di cogliere i caratteri dei sintagmi, dei sistemi significanti della moda a livello di immagine. Solo così sarà possibile comprendere il senso dell'opera di tutti coloro che di questa moda fruiscono. Di qui l'analisi delle diverse «scritture» della moda
La prima scrittura è quella della «moda disegnata», che è il livello progettuale della moda. E' importante, ai fini di una corretta interpretazione, sapere che genere di costruzione progettuale caratterizza i singoli abiti: potrebbe avvenire tanto attraverso un disegno, quanto senza di esso, operando immediatamente col taglio dei materiali e il loro montaggio, oppure attraverso una serie di disegni che, progressivamente, individuano il problema progettuale. Si dovrebbe, inoltre, tener presente che a volte il singolo stilista non disegna direttamente ma fa degli schizzi, dei cenni progettuali che poi altri disegnatori eseguono.
Un'altra scrittura della moda è la «fotografia». Ma qui
dobbiamo fare subito una precisazione: la fotografia non è restituzione esatta della moda com'è realizzata. Il sistema della moda fotografata è sì un universo di segni vario e disponibile, ma è altrettanto mutevole nei significati dell'insieme dei possibili segni che sono a disposizione dell'autore dell'abito. La fotografia di moda è, quindi, un'operazione molto complessa che permette di costruire il senso di una certa sequenza di abiti, di modelli; senso che varia al variare dei parametri con cui si opera. Per esempio, infatti, l'impianto di fotografie di modelli indossati, ripresi in studio e "scontornati" per poi essere pubblicati come manichini al vivo su riviste, non può essere considerato equivalente all'antica maniera di presentare i modelli, con gruppi di mannequins spedite ai capi del mondo ad indossare certi abiti.
All'interno della scrittura fotografica, inoltre, sorge il problema del colore e della scelta della struttura e grafia dell'immagine. Non è infatti assolutamente la stessa cosa parlare di fotografie e parlare di stampa. La grafica ed i caratteri della pagina sono determinanti per comprendere le variazioni del senso, per inserire entro un certo contesto anziché un altro il prodotto moda. Basta pensare, ad esempio, alla differenza di senso che uno stesso modello assume se presentato su una rivista stampata su carta spessa patinata oppure sulle semipatinate del rotocalco.
Esiste anche il «discorso letterario» sulla moda. Basta pensare al sistema delle didascalie, ad esempio, a piè di immagini che troviamo nelle riviste di moda. Proprio alle didascalie e alla loro funzione di commento all'immagine rappresentata Ronald Barthes ha dedicato il sottotitolo del suo più grande volume Il Sistema della moda, in cui recita: "La moda nei giornali femminili - un'analisi strutturale"[34].
Nonostante il riconoscimento di una così importante funzione, quella della lingua letteraria che tratta dell'icona rappresenta soltanto una parte minima del fatto moda. Infatti ben più essenziale ed importante della parola è l'immagine della moda, della quale la parola è solo didascalia. E mentre quest'ultima, pur venendo a mancare, lascerebbe inalterato il messaggio iconico, al contrario, venendo a mancare l'immagine la letteratura iconica perderebbe di senso.
Infine bisogna considerare anche la scrittura della «moda portata». Quest'ultima non può essere semplicemente analizzata all'interno del discorso della progettazione, oppure della fotografia o della stampa dell'immagine. La moda portata è qualcosa che esula completamente dalla progettazione iniziale dello stilista ed anche dalla realizzazione del suo progetto come viene presentato nelle sfilate o sulle riviste di moda. La moda portata è il momento delle proiezioni dei miti dei singoli, è il momento in cui i singoli fanno le loro scelte in relazione all'immaginario collettivo. Il singolo si veste infatti secondo l'immagine che ha di sé, o meglio, secondo l'immagine che vuole che gli altri abbiano di lui, e quindi si veste come la cultura antropologica del suo gruppo vuole che egli vada vestito, oppure secondo i modelli che il gruppo di riferimento suggerisce, magari, a volte, in contrapposizione al gruppo di originaria appartenenza.
In tal senso la funzione della moda sembra essere, nella nostra società, quella di rappresentare l'adesione e l'inserimento, oppure il rifiuto o l'evasione di/da una certa classe sociale, e questo è valido sia per l'uomo che per la donna.
Oggi non è più possibile, come invece si faceva in passato, parlare di moda senza analizzarne il suo aspetto di "Sistema di Produzione". Infatti ogni azienda, come un tempo qualsiasi atelier, è costituita da diverse categorie di addetti con diverse competenze e diversi poteri, i quali, coordinandosi tra loro danno luogo ad una vera e propria «produzione culturale», cioè ad un sistema in cui si fabbricano oggetti materiali - gli abiti - che hanno un significato culturalmente rilevante[35].
Ma come si giunge alla fase di Produzione?
Innanzitutto è fondamentale distinguere i due modi principali di fare moda che si sono alternati nella storia.
Da una parte abbiamo la storia dell'Alta Moda, fondata sul disegno per il singolo modello e rivolta alla classe alto-borghese; dall'altra troviamo il Prêt-à-porter, che produce per pezzi, rivolti ad una più larga massa, alla classe borghese. La prima fa perno sugli anni '50 e '60, mentre il Prêt-à-porter emerge alla fine degli anni '60 e si sviluppa soprattutto nel ventennio successivo. La prima è produzione piccola; la seconda di grande serie. La prima deve servirsi della selezione e della comunicazione alta; la seconda dell'integrazione dei diversi procedimenti della comunicazione e della comunicazione di massa
La storia dell'Alta Moda e del Prêt-à-porter è molto diversa in
tutte e tre le fasi in cui si articola la produzione della moda: la
progettazione dei materiali, cioè la scelta delle stoffe; il disegno del modello; la realizzazione del prodotto.
Pensiamo alle scelte delle stoffe per l'alta moda. Dovendo indirizzare il prodotto ad una clientela ristretta, élitaria, la quantità del materiale non sarà mai molta e quindi tale scelta non sarà urgente e potrà avvenire poco prima della costruzione del progetto vero e proprio. Diverso è il caso dell'organizzazione produttiva di massa, dove la ricerca dei materiali e la loro messa in produzione dev'essere organizzata con molti mesi d'anticipo perché deve tenere conto di una serie di importanti parametri: il trend medio della cultura, la ricerca di un'identità o di luoghi di identificazione del pubblico, la considerazione dei rapporti tra le varie classi sociali
Per quanto riguarda il disegno progettuale abbiamo un modo di lavorare strutturalmente differente a seconda del disegnatore. Qui infatti entrano in gioco le diverse culture dei progettisti; perciò, ad esempio, Lancetti opererà con una sottile mina nera, ammonticchiando sul tavolo più schizzi, che poi altri provvederanno a mettere in colore, ma con i colori già scelti e indicati dallo stilista stesso; mentre la progettazione delle Sorelle Fontana viene costruita giungendo a bozzetti completamente finiti, che sono veri e propri quadretti di raffinatissima «scrittura» e che nella loro storia di immagini fanno riferimento ad una precisa iconologia, quella ottocentesca dell'immagine
Dal disegno si passa, infine, alla realizzazione del modello vero e proprio. Nella cosiddetta alta moda il modello, prodotto in singola copia o in piccolissima serie, viene realizzato all'interno della medesima area della progettazione, per cui mantiene un nesso diretto con la fase di articolazione del progetto addosso alla modella. Ben diverso è il lavoro di programmazione nel contesto del prêt-à-porter, dove l'elaborazione del modello è studiata a lungo. Prima si stabiliscono le tecniche per realizzare l'insieme del progetto in modo organico, poi si passa alle prove definitive con le stoffe e si realizza un modello-base sul quale la fabbrica interviene realizzando un gruppo di modelli di riferimento che, presentati al pubblico, acquisiscono le ordinazioni. Infine si arriva alla
produzione di serie, piccola, media o grande[39].
Il solo momento comune che l'alta moda ed il prêt-à-porter hanno è quello del disegno, seppur legato alle convinzioni dei singoli progettisti e alle loro culture.
Ma l'analisi del sistema della moda necessita, per essere completa, dello studio dell'organizzazione che si sviluppa a valle dei differenti modelli, dove le strade del prêt-à-porter e dell'alta moda si dividono di nuovo e nettamente.
Il prêt-à-porter deve tener conto in modo strutturale della costruzione di un'immagine di massa del prodotto, mentre l'alta moda può limitare il proprio intervento a livello di organizzazione del consenso direttamente al momento della sfilata o della presentazione dei pezzi sulle riviste di «moda alta» essendo, il suo, un pubblico élitario. Il vestito di alta moda è costruito per distinguere una persona che è già, per censo, per classe, «diversa» e quindi deve staccare nettamente dal contesto. Il prêt-à-porter deve considerare invece la commercializzazione del prodotto. I vestiti devono essere certamente diversi dagli altri delle precedenti stagioni e dal contesto, ma non devono subire delle variazioni nette e troppo evidenti e soprattutto devono fornire un'identità ad una classe sociale che non ne ha una particolarmente evidente
Ronald Barthes nel suo saggio sulla moda, "Il sistema della moda", aveva considerato solo il sistema della moda scritta, letteraria, cioè quello proveniente dalle immagini della stampa femminile élitaria francese, oggi invece gli studiosi sono tutti d'accordo nell'affermare che esistono altri sistemi, i «sistemi della moda», che si organizzano all'interno del Grande Sistema della Moda e si correlano l'uno all'altro. Questo significa che il codice del disegno è solo una parte del progetto della moda vestimentaria.
Riflettiamo ad esempio sull'insieme dei tessuti, cioè sulla cultura delle stoffe. Quando si parla di stoffe si fa riferimento non solo alla materia - lana, velluto, cotone, ecc. - ma anche alla consistenza, al carattere, al colore. Le stoffe sono caratterizzate da una iconologia specifica di colori che subisce poche varianti e meno marcate nel lungo periodo, ma numerose nel breve. Inoltre consideriamo che anche ogni materiale ha una sua iconologia, e contro o dentro questa iconologia opera la rottura del «codice» da parte del progettista. Quest'ultimo, scegliendo un certo materiale, opera una selezione «stilistica», «di lingua» e in base a questa indirizza il proprio lavoro dentro la cultura di quel materiale; e quindi dentro un ambito fatto a sua volta di colori, grana, materia, cioè dentro i codici storici che variano da paese a paese, da cultura a cultura e sono all'interno della storia delle diverse classi sociali.
Pensiamo ad esempio alle classi subalterne[41]. Queste in genere rappresentano la koinè, ovvero la comunità linguistica, ma quella di un'età trascorsa svolgendo una funzione conservatrice. Invece le classi medie ed alte hanno una funzione più direttamente
innovatrice.
Ma esistono ancora altri codici che definiscono la moda. Innanzi tutto ci sono i discorsi metalinguistici, cioè di una lingua
convenzionale, quella letteraria, su un'altra lingua, la iconica. Basta pensare alle didascalie tecniche degli abiti su una rivista di moda; come già abbiamo detto, sono totalmente dipendenti dall'icona, dall'immagine dell'abito. La scrittura letteraria non è sufficiente a caratterizzare da sola il prodotto
Troviamo ancora almeno altri due codici essenziali della moda vestimentaria, quello del trucco e quello del gesto.
Che cosa vuol dire trucco? Innanzi tutto per trucco si intende non solo quello propriamente del volto, ma anche la pettinatura e quanto altro della segnaletica del corpo. Trucco e abito si legano tra loro in un sistema di rapporti che serve per far comunicare il singolo con la collettività. Prendiamo ad esempio il trucco della donna: capelli e maquillage fanno parte di una sistematica della comunicazione che varia in relazione agli abiti e alle stagioni e, per alcuni particolari casi, anche alle diverse ore della giornata. Vestito e trucco, un tempo come oggi, condizionano chi li porta, sono il luogo - soprattutto il volto per il maquillage - della pubblica rappresentazione: vogliono significare il modo in cui ciascuno di noi desidera presentarsi al suo pubblico.
Per quanto riguarda infine i codici della gestualità, possiamo dire che i gesti sono una parte determinante del vestire e dell'atteggiarsi espressivo e che il progettista, nell'ideare l'abito, deve tener conto anche dei movimenti che il singolo compierà indossandolo[43].
Possiamo concludere questo lungo excursus del processo di produzione della moda sottolineando che chi opera nella moda progetta modi di vita e di relazione veri e propri. Basta pensare a come, grazie al semplice uso di un certo abito, si possa rompere un codice comportamentale: basta presentarsi con un paio di jeans ad un ricevimento elegante.
La moda, come fenomeno, ha origine in un mondo circoscritto, ma con la consapevolezza di essere comunque un fatto sociale ed economico, e come tale si trova ad unire due mondi apparentemente distanti l'uno dall'altro: la creatività e il consumo.
Le contrapposizioni tra una realtà e l'altra vanno, nella ciclicità produttiva della moda, appianandosi, in quanto nel mondo del consumo si innesta un processo di intercomunicazione che sottolinea un bisogno di conformità e di integrazione delle diverse classi sociali. Tale atteggiamento origina comportamenti tendenti all'uniformità nei consumi. Dall'altro, nel mondo della creatività e della produzione si assiste, piuttosto, ad un fenomeno che punta alla definizione di forme e linguaggi espressivi che tendono ad una maggior differenziazione.
Dati questi presupposti, se esaminiamo il fenomeno moda dal punto di vista sociologico, emerge come questo sistema, seppur implicitamente, trasformi alcuni comportamenti sociali e conseguentemente produca diversi livelli di comunicazione.
La moda, per sua definizione, si orienta verso un costume considerato emergente e nello stesso tempo lo contraddice non riconoscendogli validità continuativa nel tempo, dal momento che la sua funzione predominante consiste nell'introdurre, a cicli, elementi di differenziazione[44].
La provocata temporaneità della moda è funzione di quello che R. Konig definisce «tempo di segnalazione», ovvero del tempo che i diversi sistemi di comunicazione impiegano a divulgare e far conoscere le novità ai probabili consumatori. A sua volta il «tempo di segnalazione» muta secondo il tipo di palcoscenico utilizzato dalla moda per diffondersi, e proprio questa mutazione induce ad un adattamento, se non ad un cambiamento, dei codici di comunicazione e dei messaggi.
Attualmente «il tempo di segnalazione» dipende dall'uso spesso incondizionato dei mass media, televisione, internet, sistemi pubblicitari, sfilate che consentono di diminuire notevolmente tempi di comunicazione tra l'emittente ed il destinatario.
Quando vi è completa partecipazione dei consumatori, il ciclo temporale della moda riprende la sua più ampia creatività. Da questa uniformità scaturisce una prima fase di «differenziazione» per chi tende all'innovazione, ed una seconda fase di «imitazione» per chi tende a conformarsi agli altri[45].
Nelle società occidentali le differenti tendenze attraverso cui si esprime la moda creano gruppi di persone che si identificano in una tendenza - in una moda appunto - che introduce comuni modelli culturali di riferimento e produce un'apparenza di similarità. Ciò consente ai soggetti con interessi differenti di sentirsi parte integrante di un gruppo che a sua volta è contenuto nello sconfinato mondo della moda. Sconfinato perché anche il particolare più banale e più semplice può diventare di moda se adottato, in una qualsiasi circostanza, da un leader della moda stessa.
I. 7. 3 La comunicazione del sistema moda
La moda per essere luogo di riferimento del comportamento e dei rapporti interpersonali deve potersi presentare come un momento dell'identificazione collettiva e, quindi, dev'essere capace di comunicare autorevolmente a diverse masse di pubblico di gusto variabile. In particolare il sistema ideativo e produttivo della moda (stilisti, industria, ecc.) deve riuscire a persuadere il cliente del valore dei diversi gusti e delle diverse tendenze, a conoscere le sue reazioni e le sue scelte nel vasto ventaglio delle offerte. E per poter fare tutto questo ogni industria di moda deve usare strumenti di comunicazione organizzata[46].
Questo tipo di comunicazione è quella cosiddetta «esterna» al sistema, quella rivolta all'universo dei consumatori finali, cioè quella «di massa», e non è sempre diretta. Anzi, spesso funziona secondo una logica a più stadi: mira ad influenzare dei soggetti autorevoli, i quali a loro volta sono destinati a informare o influenzare il pubblico generale. Si tratta quindi di applicare la classica teoria del panorama delle comunicazioni di massa dei «Two Steps of Communication» e degli «Opinion Leaders» formulata dalla sociologia americana ed in particolare da Paul Lazarsfeld negli anni Quaranta[47]. Applicare questa teoria alla moda significa oggi studiare come la stampa e la televisione, o certi personaggi famosi o quelle persone astratte che sono le griffes, sono in grado di condurre gli individui all'imitazione.
Per comprendere i percorsi di questi flussi informativi possiamo riproporre una distinzione tipica nell'orizzonte del marketing; parleremo di «tell-in» quando l'industria dell'abbigliamento comunica con i suoi diversi canali distributivi; e di «tell-out» quando la comunicazione è rivolta al pubblico di massa dei consumatori finali[48].
Il principale strumento nell'arsenale del tell-in della moda è la Sfilata. Invenzione ottocentesca che sostituisce le bambole e le stampe con cui si diffondevano in precedenza le nuove mode, è il luogo canonico di presentazione della moda[49]. Il problema principale della sfilata è di costruire una precisa consapevolezza storica, di saper cioè fare individuare al suo interno le differenti culture e storie. La sfilata altro non è che la prova del comportamento possibile costruito, progettato da quei determinati
abiti. La sfilata di moda non è semplicemente un momento di rappresentazione pubblica del progetto realizzato, ma anche una presentazione del nuovo codice. Indica come con una certa «carrozzeria» si può entrare nella vita di relazione e cosa si può fare[50].
La sfilata è caratterizzata da una propria gestualità, da una meccanica del corpo rigorosamente programmata - passi che le mannequins devono compiere, giravolte, il bloccarsi in alcune posizioni prestabilite - che viene adattata volta per volta al tailleur oppure alla stola, al vestito da sera oppure a quello da giorno. E questi gesti delle indossatrici costruiscono modelli di eventuali comportamenti ed inducono atteggiamenti convergenti o confrontabili da parte del pubblico delle fruitrici e dei fruitori.
Oggi però la sfilata non parla più direttamente ai clienti, ma si rivolge ai media, alla stampa e alle televisioni, allo scopo di creare una comunicazione amplificata che attiri l'attenzione della grande massa su un certo marchio. Questo meccanismo ha spesso portato a modificare profondamente la struttura della sfilata ed in particolare la tipologia dei modelli messi in mostra: non più oggetti in vetrina da acquistare, ma oggetti esasperati, difficilmente o raramente vendibili che hanno il senso di costruire l'exemplum di un gusto, il più estremizzato possibile, a costo di ricorrere all'espediente dello scandalo, magari con il nudo o con l'uso del travestitismo[51].
Dunque la sfilata è diventata un evento comunicativo funzionale e fittizio strutturato in modo tale che i comunicatori possano parlarne alla massa sui loro media.
Per quanto riguarda invece il tell-out, lo strumento tradizionale è quello della Pubblicità, tanto giornalistica quanto di affissione, in casi più rari televisiva. Anche questa, come la sfilata, oggi ha raramente l'interesse di rivolgersi al consumatore finale. Più spesso parla al commercio o serve come leva rispetto alla stampa specializzata. E anche quando l'intenzione comunicativa è diretta al consumo, è più facile che si tratti di una comunicazione che non investe il singolo prodotto, puntando al singolo atto d'acquisto, ma piuttosto lavora sull'immagine complessiva di una griffe o di una impresa[52].
Celefato P., Moda Corpo Mito. Storia mitologica e Ossessione del Corpo vestito, Castelvecchi, Roma, 1990, p. 9
Ricci Bitti P.E. e Caterina R., Moda, Relazioni sociali e comunicazione, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 1
Ricci Bitti P.E. e Caterina R.,Moda, Relazioni sociali e Comunicazione, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 3
Ricci Bitti P.E. e Caterina R. (a cura di ), Moda Relazioni sociali e Comunicazione, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 41
Centro studi di storia del tessuto e del costume, Quaderno 1, Civici Musei Veneziani d'arte e di Storia, Venezia, 1989, p. 20
Celefato P., Moda Corpo Mito. Storia mitologica e Ossessione del Corpo vestito, Castelvecchi, Roma, p. 9-10
Cerani G. & Grandi R., Moda: regole e rappresentazioni. Il cambiamento il sistema la comunicazione, Franco Angeli, Milano, 1995, cfr. p. 125-129
Cella C., Disegno di moda, materiali, tecniche e argomenti, Ulrico Hoepli, Milano, 1993, p. 105 - 106
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