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La crisi demografica, politica ed economica trecentesca fece sentire i suoi effetti anche Italia, dove la disgregazione degli equilibri precedenti favorì l'emergere e l'affermarsi dei gruppi economico-sociali più forti.
La Signoria che in molte città aveva cominciato a svilupparsi già dalla prima metà del Duecento, subisce un irrigidimento che la porta ad assumere una struttura più stabile, con la trasmissione del titolo all'interno della stessa famiglia.
Le famiglie regnanti si costituiscono in dinastie, senza bisogno dell'originaria investitura delle forze cittadine.
Il signore, dominus, accentra nella sua persona ogni potere politico, diplomatico, fiscale e militare circondandosi di un consiglio ristretto di politici e amministratori di professione (mentre all'epoca dei governi comunali o delle prime Signorie i funzionari e gli amministratori erano volontari che prestavano la loro opera senza lasciare la professione); nello stesso tempo egli promuove un'intensa vita di corte nella propria residenza, la quale viene così configurandosi come una vera e propria capitale di Stato.
La reggia del principe è il luogo del potere. Fin dai caratteri architettonici essa deve rappresentare l'eccellenza di chi la abita, ovvero del Signore, della sua famiglia e dei suoi collaboratori.
Lasciandosi ammirare dai sudditi nei tratti distintivi del suo esterno, il palazzo ribadisce con la sua evidenza monumentale la presenza del Signore; l'interno, invece, così esclusivo e inaccessibile alla maggior parte delle persone comuni, rende tangibili le distanze sociali, sancisce la superiorità del potere.
Attraverso il palazzo, il Signore mette in atto una complessa dinamica di presenza/assenza, indispensabile ai fini della gestione della propria immagine e della legittimazione del proprio ruolo.
Il Signore era solito alzarsi di mattina presto. Dopo essersi lavato e accuratamente vestito, si raccoglieva in breve preghiera sul proprio inginocchiatoio ai pressi del letto o in una cappella, situata di solito vicino alla camera da letto, e scendeva poi ad ascoltare la messa insieme a tutta la famiglia. Successivamente si dedicava al disbrigo degli affari politici, alla cura della propria scuderia e all'esercizio delle armi, mentre la moglie si interessava dei lavori domestici e specialmente della conservazione delle preziose tappezzerie e degli arazzi, che erano o attaccati alle pareti o conservati in apposita stanza all'ultimo piano del palazzo: beninteso, quello meno umido e meno soggetto alla polvere.
Per tempo, attorno alle dieci - undici, era servito il pranzo, sempre lauto e persino nei giorni feriali fornito di carni rosse, carni bianche e di cacciagione varia, accompagnate da salse aromatizzate e piccanti a base di spezie, anice, aglio e cipolla, mentre vini, crudi e cotti, locali e forestieri, rendevano ulteriormente piacevole la mensa.
Terminato il pranzo e lavatesi le mani con acqua di rosa, egli si ritirava per un breve riposo, mentre le donne rientravano nelle loro stanze e i bambini si dedicavano agli studi o agli esercizi fisici.
Nei giorni di visita tutti scendevano verso le due pomeridiane nel giardino o in stanze ariose dove pasticcini, rosoli, marmellate, cacciagione e frutta allietavano i "lievi conversari" al suono di musiche, stornelli e poesie. Il tema di quest'ultime era quello dell'amore cortese basato sul corteggiamento verso la castellana sempre rispettando le regole della corte poi, con il passare del tempo e precisamente intorno al 1400, con l' inizio dell' epoca umanistico - rinascimentale; le poesie cominciavano ad avere caratteri della cultura classica e cavalleresca.
Alla corte del principe vivevano molti intellettuali che, soprattutto a partire dal Cinquecento, svolgevano per lo più funzioni diplomatiche e di segreteria, ma che spesso si dedicavano anche alla letteratura.
La classe sociale di questi intellettuali cortigiani, "è molto spesso, la media e piccola nobiltà, che trova in questa professione una alternativa alla via obbligata del mestiere delle armi, ma non mancano, tra i "cortigiani", i rappresentanti del patriziato "borghese" delle città repubblicane, che, del resto, hanno la stessa preparazione intellettuale, costumi non diversi modi di pensare sempre più simili'".
I maggiori letterati del Cinquecento come Ariosto, Guicciardini, Bembo, Della Casa, Castiglione ebbero tutti, per periodi più o meno lunghi, incarichi diplomatici.
L'attività letteraria veniva loro richiesta in quanto contribuiva a dare lustro al principe, ma rappresentava in definitiva un impegno aggiuntivo rispetto agli obblighi della professione per la quale essi percepivano un regolare stipendio a corte.
Infine, verso le quattro o le cinque, un segnale di corno annunciava la cena, che costituiva il principale pasto della giornata; dopo che, a ore diverse secondo le stagioni, si spegneva la vita nel palazzo e tutti si ritiravano nelle proprie stanze, accompagnati immancabilmente il Signore dal consigliere personale, la moglie da una dama di corte o da un'anziana domestica: era uso che entrambi durante la notte riposassero su un giaciglio nella stanza dei padroni.
Né, d'altra parte, a completamento della propria giornata il Signore tralasciava di prendersi alcune ore di divertimento e di svago.
Il divertimento più gradito era costituito dalla caccia soprattutto per l'atmosfera di festa provocata dalla partecipazione di gran parte della corte,d ei servi e delle mute di cani: si cacciavano preferibilmente cinghiali, cervi, daini, lepri oppure uccelli pregiati, quali le starne. Molti erano anche i giochi da tavola, quasi tutti di derivazione medievale come quello degli scacchi e dei dadi. Piuttosto diffuso anche il gioco delle carte che, molte volte, faceva perdere notevolissime somme di denaro ai giocatori. Tra tutte queste diverse forme di svago non erano trascurati né il gioco del pallone e delle bocce, né gli spettacoli dei buffoni, dei musici e persino dei contorsionisti, che frequentavano numerosi la corte, né quelli più casuali offerti dalla vita di ogni giorno.
Naturalmente una situazione del tutto diversa si determinava, quando il Signore era costretto a scendere in guerra e a misurarsi in campo aperto con un avversario, non meno deciso di lui a raggiungere il successo. Con tutto ciò il Signore non rinuncia alle comodità riservate alle persone del suo rango.
Il palazzo e la villa del principe si completano nello spazio del giardino, luogo privilegiato per le feste e le piacevolezze della vita di corte. Nel Quattrocento la pratica di allestire giardini intorno ai palazzi cittadini e alle ville extraurbane si è ormai affermata tra l'aristocrazia come segno distintivo, ma i giardini principeschi sono quelli che ovviamente superano gli altri per l'ampiezza, l'elaborazione e la varietà di specie vegetali ospitate.
Il giardino rinascimentale si presenta come una sintesi del rapporto tra uomo e natura, tra città e campagna, diventando così uno spazio simbolico nel quale si fondono l'artificio e la libertà della natura.
La presenza di piante sempre fiorite e colorate suggerisce una creazione di spazi nei quali sembra concretizzarsi un'eterna primavera, quasi e ricordare il giardino dell'Eden. A partire dal tardo Cinquecento vengono inseriti sempre più frequentemente i labirinti, il più delle volte realizzati con arbusti sagomati; si tratta di elementi di antichissima tradizione che rimandano al mito della morte, della rinascita e della purificazione.
Si può dire che in tutti i giardini rinascimentali si potranno distinguere, con molte varianti, tre aree:
il giardino segreto, addossato al principale edificio di rappresentanza e di residenza dove si conservavano le piante più belle e le opere d'arte più rare;
il prato, variamente sistemato attorno alla fontana intesa come fonte della vita;
il selvatico, ovvero il bosco che spesso circondava il tutto.
Vi erano anche altri elementi presenti nei giardini, come vasche, fontane, pescherie, grotte, statue e labirinti che regalavano un qualcosa di misterioso e di magico a tutto l'ambiente.
Ogni giardino raccontava al proprio signore e ai suoi ospiti una propria storia.
Le feste private si svolgevano nel palazzo, anche se potevano essere precedute da un corteo o da manifestazioni pubbliche.
Nel cortile venivano allestite recite o tornei; le sale interne invece, ospitavano banchetti , declamazioni di versi e danze , ma anche (prima che le corti si dotassero, verso la fine del Cinquecento, di veri e propri teatri stabili), rappresentazioni di commedie, scritte per l'occasione.
Nei saloni veniva costruito il palcoscenico sul quale lo sfondo prospettico istituiva una linea immaginaria con il palco occupato dal principe, al quale era dedicato lo spettacolo.
I banchetti d'onore erano regolati da un rigido insieme di regole che riproducevano nell'ambito della circostanza conviviale le gerarchie interne della corte.
Spesso veniva costruita una pedana, su cui si poneva la tavola del signore , che serviva a sottolineare esplicitamente tali gerarchie.
I posti a tavola erano assegnati in base all'importanza degli ospiti e al loro legame con il principe. A tavola egli si distingue dagli altri cortigiani e manifesta il proprio potere attraverso l'uso di oggetti fortemente caricati di valori simbolici e riservati a lui solo, nonché attraverso a norme comportamentali che segnalano la sua preminenza gerarchica.
Mediante una serie di "barriere" o "distanze" frapposte fra sé e i suoi sudditi, che il signore si isola in un recinto ideale allusivo al suo rango e alla sacralità della sua persona.
I convitati, da parte loro, verificano il personale prestigio sociale attraverso la collocazione loro assegnata. Infatti se l'isolamento qualifica il principe, il rango sociale degli altri cortigiani è proporzionato al loro grado di "vicinanza" alla sua persona fisica.
La scenografia del banchetto si completava con l'allestimento della tavola, ricoperta di più tovaglie poste l'una sull'altra , da cambiare nel corso del pranzo. Entravano in successione le portate, spesso quindicina più, ognuna delle quali era formata da una decina di piatti diversi. Le vivande, presentate in forma fantasiose, destavano ammirazione e meraviglia dei convitati: il banchetto si trasformava in un vero e proprio spettacolo a cui presiedeva lo scalco (una sorte di direttore di mensa) che ne curava la "regia".
Tra una portata e l'altra, danze e musiche, scene allegoriche e trovate illusionistiche allietavano gli ospiti.
I dolci erano capolavori, frutto dell'abilità straordinaria dei pasticceri che costruivano architetture complesse di zucchero e frutta candita, in un trionfo di bellezza e bontà che le posate preziose, i cristalli e i canditi tovaglioli di lino ripiegati nelle più varie forme contribuivano a esaltare.
Nelle corti comparivano immense biblioteche decorate con immagini ispirate all'allegoria delle arti liberali, spazi adibiti alle collezioni di oggetti rari o di antichità e piccole stanze riservate alla letteratura e allo studio del Signore, i cosiddetti studioli, le cui decorazioni appaiono connesse alla personalità del signore e delle tendenze culturali del tempo.
Un esempio che ancora oggi è possibile visitare, è lo studio di Federigo di Montefeltro a Urbino, allestito nel 1476, dove le pareti interne del piccolo ambiente, rivestite da pannelli lignei intarsiati, simulano un arredamento. Su "finte" scaffalature sono rappresentati, con l'effetto di trompe l'oeil, numerosi oggetti cari al duca: libri soprattutto, ma anche una scatola di dolci, la gabbia con il pappagallo e strumenti musicali, senza dimenticare parti dell'armatura di cui il signore si è idealmente spogliato prima di accedere ai suoi studi.
Al di sopra delle pareti in legno erano ospitati numerosi dipinti di natura fiamminga che raffiguravano i pensatori e i poeti del passato, ad indicare quali fossero le preferenze e la formazione culturale del duca.
Un secolo dopo Francesco I de' Medici fece allestire in Palazzo Vecchio il proprio studiolo, dove gli armadi che contenevano le raccolte di perle, coralli e altri preziosi reperti naturali del granduca erano decorati con figure allegoriche che si ricollegavano alle dottrine alchemiche.
Erano perciò gli studioli i veri e propri centri culturali del tempo, dove i signori preferivano trascorrere le proprie giornate alternando lo studio agli altri svaghi personali.
Nel Quattrocento, un'epoca in cui la circolazione del denaro e l'ampliamento dei costumi orientavano vasti strati della popolazione verso i beni di lusso, per disciplinare il codice dell'abbigliamento i poteri costituiti emanarono una serie di leggi cosiddette "suntuarie", indirizzate contro gli eccessi vestimentari femminili. La ragione principale di questa scelta, tuttavia, fu il fatto che alle donne era affidato dagli uomini il ruolo di rappresentare nell'abito lo status sociale della famiglia, quelle apparenze troppo esibite che i legislatori si proponevano di colpire.
E' molto probabile che si trattasse di un gioco di vanità al quale le donne partecipavano volentieri, essendo uno dei pochi ambiti in cui era loro consentito farsi notare. Indossare vestiti eleganti era l'unica compensazione concessa alle donne di valore, inesorabilmente escluse dalla vita politica e limitate nelle loro relazioni.
La straordinaria varietà di fogge, di qualità di tessuti, di pelli e pellicce, di colori scelti in rapporto alle motivazioni più diverse non era soltanto il risultato di determinate condizioni tecniche, economiche e commerciali, o il riflesso di preferenze estetiche, ma esprimeva la volontà di evidenziare le differenze di stato sociale, attraverso l'ostentazione della ricchezza. Ad esempio la ragione dell'amplissimo consumo delle pellicce (soprattutto di vaio e di ermellino) non risiedeva esclusivamente nel bisogno di protezione del freddo, come dimostra il fatto che signori e patrizi le indossavano anche in estate o ne sovrapponevano, senza apparente logica, più strati.
In rapporto ai redditi della massa dei contadini o alle retribuzioni dei salariati delle città basso-medievali, il costo di un abito, e in special modo, di un capo pesante era talmente rilevante che il suo acquisto poteva essere ripetuto poche volte nel corso di una vita. Come si può facilmente immaginare, poi, non si trattava certo di indumenti prestigiosi, né per i tessuti da cui erano ricavati, né per il loro taglio.
Per secoli i meno abbienti, in obbedienza a un'esigenza di risparmio che finì con l'essere codificata in uso sociale, hanno lasciato ai più agiati gli abiti lunghi, indossando vesti al ginocchio e senza drappeggi, confezionate con tessuti scadenti e prodotte da un artigianato locale di poche pretese. Tra le fibre più utilizzate dominavano il cotone (anche misto al lino), la canapa e naturalmente la lana, che però era impiegata nelle qualità meno pregiate, e ben lontane da quelle utilizzate dalle industrie di esportazione dei maggiori centri tessili europei.
Invece, in omaggio ai capricci di pochi, a partire dal XIII secolo, gli abiti assunsero una straordinaria varietà di tagli e di colori; almeno fin verso la fine del Trecento la domanda di tessuti "ricchi" fu soddisfatta, in gran parte, dai panni di lana prodotti dall'industria fiamminga e italiana: panni pesanti e molto costosi, normalmente monocromi, che un circuito commerciale, dominato dai mercanti italiani distribuiva ovunque vi fossero consumatori di livello medio-alto.
Quanto al consumo di tessuti di seta, sebbene questo no fosse sconosciuto presso i re e i dignitari delle corti alto-medievali, solo negli ultimi due secoli del Medioevo divenne più alto. L'abito di seta, senza alcun dubbio, guadagnava ambienti sociali in cui non penetrava fino ad allora; i buoni borghesi delle città d'Italia ne indossavano talvolta e il corredo delle loro figlie, sui loro libri di conti, riflette questo nuovo entusiasmo, queste nuove possibilità.
Ai livelli più bassi si trovavano i servitori che svolgevano mansioni in cucina, sala da pranzo, stalle e si occupavano dei lavori domestici, ma non avevano specializzazioni di sorta. Per il resto il personale della corte era impegnato in vari settori, dalla cancelleria alla tesoreria, dall'amministrazione delle derrate alimentari alla preparazione ella tavola, dalla cura del guardaroba e della camera a quella del corpo del principe.
Ogni settore funzionava in modo piramidale e faceva riferimento al suo vertice a un funzionario responsabile che rispondeva direttamente al principe. Le cariche più elevate erano quelle di cancelliere, segretario, tesoriere e mastro di casa. Nel proprio ambito, ciascuno di questi personaggi esercitava il controllo su un ragguardevole numero di subalterni.
Così, per esempio, per quanto attiene alla stanza del signore i paggi erano sottoposti ai camerieri minori che, a loro volta, dovevano render conto al cameriere maggiore; ciascuno di essi si occupava di compiti precisi come l'accensione delle torce, la guardia al sonno del principe, la cura degli ornamenti e delle suppellettili della camera, il servizio alla vestizione.
Il costo del mantenimento della corte, come è facile immaginare, era molto elevato; al costo degli stipendi dei dipendenti fissi, si dovevano aggiungere le spese per i generi alimentari, per il vestiario, i gioielli, i regali, le scuderie, ecc., naturalmente oltre alle spese di manutenzione e abbellimento degli edifici, a quelle per i banchetti, le feste, i matrimoni, i funerali ed i viaggi. Senza contare che in primo luogo i principi dovevano provvedere al soldo degli eserciti per mantenere la sicurezza.
Queste grandi spese misero spesso in difficoltà le famiglie principesche che non solo dovettero ricorrere frequentemente a prestiti, ma, anche più frequentemente, imposero delle cvorvées (prestazioni d'opera gratuite) o dilazionarono i pagamenti ai fornitori e agli artisti ai quali avevano commissionato opere.
Il denaro per sostenere la corte veniva comunque dalle imposte e anche se, in linea di principio, le entrate dell'erario avrebbero dovuto rimanere distinte da quelle personali del principe, di fatto il signore godeva di un potere illimitato sugli introiti dello Stato e destinava a suo piacimento le risorse.
Il palazzo urbano non costituiva però l'unica dimora del principe: la corte si spostava durante i periodi estivi nelle residenze che sorgevano nel contado.
Tuttavia le corti rinascimentali non sono più propriamente itineranti come quelle medievali; il principe rinascimentale, infatti, mantiene una sede stabile nella sua città che è centro del suo dominio, mentre in passato i sovrani si muovevano continuamente nei loro possedimenti.
Sia nelle ville sia nei palazzi cittadini, comunque, per lungo tempo le
sale interne non ebbero una destinazione d'uso precisa, ma vennero diversamente utilizzate in relazione alle esigenze contingenti.
La sola distinzione che pare certa riguardare gli appartamenti degli uomini e quelli delle donne, in primo luogo, ovviamente, della sposa del signore.
All'interno delle residenze si veniva così a formare un gineceo in cui si riproducevano i medesimi rapporti gerarchici caratteristici delle relazioni tra il signore e i suoi cortigiani.
La distinzione tra gli appartamenti femminili e quelli maschili tendeva, inoltre, a evitare relazioni indesiderate tra i giovani di sesso diverso ammessi a corti che erano in genere figli di famiglie aristocratiche, destinati a matrimoni di convenienza.
Gli arredi delle stanze erano ridotti all'essenziale e i mobili venivano spesso trasportati da un ambiente a un altro insieme agli arazzi, ai quadri e alle sculture.
In occasione degli spostamenti in villa molta parte del mobilio seguiva la corte e, in questo modo, il signore poteva garantirsi la possibilità di restare a contatto con gli oggetti più belli e ricreare altrove l'ambiente di studio e di lavoro della reggia.
La relativa scarsità dell'arredo non è in contrasto con il lusso rinascimentale che si esprime soprattutto nella ricchezza dei singoli oggetti, commissionati agli artisti, nei preziosi dipinti, negli affreschi, nei decori dei camini e dei soffitti, nei cortinaggi, nel gusto del collezionismo.
Questo sfoggio di ricchezza da un lato ribadiva il potere del signore, dall'altro rappresentava una sorta di moltiplicazione della sua immagine, un' auto celebrazione del raffinato stile di vita della corte.
Come in un gioco di specchi tutto, dai ritratti del principe alle ceramiche o alle tappezzerie con scene cavalleresche, dai mazzi di carte dove brillavano miniati re e regine, città e castelli, agli abiti ricamati con motivi araldici, tutto insomma rievocava la corte, la sua interna mitologia e la sua propensione a costruire un ideale di armoniosa e scintillante perfezione.
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