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L'AUTONOMIA E
"Dentro a me c'è un essere che mi comanda, dinanzi al quale io tremo.
E la mia anima si dilegua dinanzi al padrone che comanda."
F. Tozzi
Agli albori del '900, emerge con forza il tema del conflitto padre-figlio. In un contesto storico che vedeva la diffusione del mito giovanilistico, i giovani apparivano agli occhi del pater familias, depositario della morale e dalla virtù, come elementi pericolosi da "tenere in soggezione" (come ricorda l'austriaco Stefan Zweig). Tale soggezione si attua sul piano educativo conferendo "un'aurea sacrale" all'autorità paterna: egli rappresenta la perfezione, la compiuta realizzazione dell'uomo borghese, pienamente inserito nel mondo degli affari; l'opinione del padre è infallibile ed il figlio non può fare altro che adeguarsi al suo sistema di valori.
La philanthropia nel rapporto padre-figlio
I segni di una conflittualità latente e spesso drammatica tra padri e figli animarono anche le scene della palliata latina di Plauto e Terenzio. Dall'età arcaica fino alla tarda età imperiale, a Roma la giovinezza era intesa come soggezione al padre: il padre romano aveva diritto di vita e di morte sul figlio, soprintendeva a tutte le fasi della sua esistenza e, solo quando moriva, il figlio poteva diventare a sua volta pater familias. Quella romana si configura dunque come una società rigidamente autoritaria che predilige la sottomissione dei giovani ai vecchi.
La trascrizione in chiave comica dello scontro generazionale si risolve per lo più nella contrapposizione tra due caratteri fortemente tipizzati: da una parte il vecchio austero conservatore che basa la sua azione educativa sui severi principi della tradizione dei padri, dall'altra il figlio scapestrato e scialacquatore che agisce seguendo la voce delle passioni giovanili, che lo portano inevitabilmente al conflitto con il padre.
Se in Plauto da questa situazione di crisi nei rapporti familiari scaturisce una serie di inesauribili situazioni comiche, in Terenzio, capace di un maggior approfondimento psicologico dei singoli caratteri, la comprensione delle ragioni dei giovani e la conseguente sensibilità per i problemi della loro educazione diventano centrali. Terenzio, infatti, riflette l'insofferenza e la crisi del modello educativo patriarcale e repressivo tipico del mos maiorum, indicando la meta a cui tendere nella solidarietà tra le generazioni e in una nuova legittimazione morale dell'autorità paterna, fondata non più sulla paura ma sull'amore.
Ciò è quanto traspare con evidenza all'interno degli Adelphoe ("I fratelli"): i fratelli indicati nel titolo sono due senes, Demea e Micione, che hanno allevato secondo sistemi educativi opposti i due figli; Demea è un padre burbero e autoritario, odiato e temuto dal figlio Ctesifone, mentre Micione è affettuoso e comprensivo. In un suo lungo monologo Micione sottolinea che la sua linea di condotta si rifà al principio che educare significa guidare un giovane a scegliere ciò che è giusto non per paura di un castigo ma per intima convinzione, e che per sviluppare una solida coscienza morale non servono minacce e punizioni. Il rapporto padre-figlio, di conseguenza, deve basarsi non sull'autorità prevista dalle leggi e consacrata dalla tradizione, ma sull'affetto, sulla fiducia e sulla sincerità. Con queste parole d'altronde Micione conclude il suo discorso:
Hoc patrium est, potius consuefacere filium
sua sponterecte facere, quam alienu metu:
hoc pater ac dominus interest. Hoc qui nequit
fereatur nescire imperare liberis.
"Questo è il compito di un padre: abituare il figlio
a comportarsi bene spontaneamente piuttosto che per paura di altri:
questa è la differenza tra un padre e un padrone. Chi non è capace di fare ciò,
ammetta di non sapere esercitare la sua autorità sui figli."
Ai padri compete quindi la fondamentale responsabilità di educare ai valori condivisi, sociali e morali, non con l'imposizione, bensì attraverso il dialogo e la persuasione:
"Sbaglia di grosso secondo me chi crede che
l'autorità paterna sostenuta dalla forza
sia più efficace e duratura di quella fondata sull'amicizia."
Il messaggio centrale nell'opera terenziana, dunque, si può riassumere nell'esortazione alla philanthropia, già presente nella commedia menandrea, che costituirà il fondamento di uno dei valori morali che il mondo latino ci ha lascito in eredità: l'humanitas.
Confessioni di autori all'inizio del XX secolo
proprio nell'immaginario del '900 che il tema del conflitto padre-figlio acquista un particolare rilievo. Se nell'analisi della letteratura latina, prendono forma figure di giovani comicamente stilizzati e ribelli, l'aggressione ai padri produce ora inetti, personaggi che nascono da una complessa condizione psicologica ed esistenziale di inadeguatezza rispetto ai valori di una società materialista qual è quella borghese.
La forza repressiva e annientante della volontà paterna nei confronti della libera affermazione del figlio emerge con forza all'interno delle opere di due autori emblematici del primo '900: Franz Kafka e Federigo Tozzi.
Lettera al padre di Kafka è una lunga, intensa e drammatica confessione in cui l'uomo e lo scrittore si trovano indissolubilmente uniti di fronte alla figura del padre.
Il rapporto conflittuale che molti personaggi kafkiani vivono nei confronti del padre, infatti, trova una motivazione nell'esperienza autobiografica dello scrittore, che ha sempre avuto con la famiglia in generale, e con il padre in particolare, un rapporto freddo e distaccato. Sia la sua attività scolastica che il lavoro furono dominati dalla figura paterna autoritaria di Hermann Kafka , che voleva per il figlio il massimo possibile di integrazione nelle attività economiche del paese. Tuttavia egli riuscì a condurre la sua doppia vita di impiegato e scrittore, immettendosi a pieno nel clima di solitudine e di contraddittorietà che investì le dimensioni della coscienza dell'uomo nel '900: Kafka si dimostra capace di mettere a fuoco impietosamente le lacerazioni e la tragica condizione di instabilità dell'uomo che si apprestava a cavalcare il XX secolo.
Nella sua narrativa egli si fa interprete del senso di sradicamento e di estraneità che caratterizza il precario modo di vivere dell'uomo moderno. Egli propone degli eroi che, all'interno della società borghese capitalistica che rende l'uomo impotente e alienato tentando di schiacciarne l'umanità stessa, si scontrano disperatamente con l'incubo di colpe mai commesse, con l'incomprensione e l'assurdità delle leggi e dell'autorità.
È proprio
"Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te." Sono queste le parole che aprono la lettera e che ci catapultano immediatamente nella dimensione in cui lo scrittore scrive, quella della paura. Come egli stesso ammette, tale paura è difficile da esprimersi seppur tanto palesemente avvertita nell'animo dello scrittore da divenire chiave di lettura dell'intera confessione.
Il modo del padre di accostarsi alla vita e agli affari, pieno di energia, così in sintonia con la sua epoca, si traduceva in forza e ira nei confronti dei figli, privati quindi della loro possibilità di esprimere se stessi: quello che il padre era ("forte, alto e massiccio") voleva che fossero i figli. Egli derideva il figlio e idolatrava se stesso come l'emblema della soddisfazione a cui qualsiasi uomo dovrebbe anelare; voleva aver ragione anche di fronte al torto palese, non riconosceva al figlio alcun merito, si mostrava indifferente verso di lui, e ciò causò a Kafka ferite psichiche irreversibili. La sua volontà era appiattire la natura dei figli sulla propria, mettendone a tacere le loro peculiari inclinazioni, ma, ammette Kafka con lieve commozione, "questa azione è stata troppo forte per me, io sono stato troppo docile e sono ammutolito completamente, mi sono nascosto davanti a te e ho osato muovermi soltanto quando sono stato così lontano da te che il tuo potere, almeno direttamente, non poteva raggiungermi. Tu però eri là, e tutto ti sembrava ostile, mentre era soltanto la naturale conseguenza della tua forza e della mia debolezza.".
Con la tirannia del suo essere, il padre ha provocato nel figlio un sentimento profondo di disistima e impotenza. La figura prepotente, aggressiva e sicura di sé del padre, ha una funzione inibitoria per il figlio: l'inettitudine di quest'ultimo scaturisce dalla violenza del padre e dall'impossibilità di assumerne a modello la figura. Lo scrittore si sente dominato da una sensazione di nullità e oppresso dalla debolezza e dal disprezzo per sé stesso. La diffidenza tipica dell'uomo borghese, sempre teso al guadagno personale, verso gli altri, si traduce in Kakfa in sfiducia verso di sé.
La figura del padre lo ha represso ed ora egli è incapace di costruirsi una vita propria. In ogni campo non può non essere schiacciato dalla personalità paterna, la cui influenza psicologica negativa è evidente là dove lo scrittore spiega le ragioni del ripetuto fallimento del proprio matrimonio, simbolo per eccellenza della famiglia borghese. Egli mette in discussione non tanto il matrimonio in sé, l'avere una famiglia, considerata "la cosa più alta", quanto il modo di realizzarla così come viene concepita e vissuta comunemente dai padri. In questo senso, il più grave impedimento alle nozze è la convinzione, non più sradicabile da parte del figlio, che per mantenere e guidare una famiglia sia necessario possedere tutto ciò che il figlio ha riconosciuto organicamente riunito nel carattere paterno, ossia la forza, il disprezzo del prossimo, eloquenza, sicurezza di sé, senso di superiorità e diffidenza verso la maggior parte degli uomini, operosità e intrepidezza. Tutte virtù del padre borghese che il figlio ammette, consumato da una sorta di senso di colpa, di non possedere.
Il senso di esclusione che Kafka esamina sul piano biografico, è alla base di tutta la sua opera e si traduce nell'allucinata allegoria della Metamorfosi, dove l'inaccettabilità della propria immagine da parte del protagonista si materializza nella sua trasformazione in un insetto mostruoso e quindi tale da giustificare la sua eliminazione.
Anche nella letteratura italiana è presente la figura del padre dominatore e, come già accennato, Tozzi, con il suo romanzo Con gli occhi chiusi, ne è un esempio.
La chiave per penetrare quest'opera tozziana è l'autobiografia dello scrittore. L'elemento macroscopico che colpisce lo studioso di Tozzi è indubbiamente il rapporto conflittuale con il padre, Ghigo (soprannome di Federigo) che gli impose il suo nome, quasi a voler sottolineare fin dalla nascita il proprio dominio su di lui.
Collerico, sanguigno, forte come un toro, Ghigo era un tenace lavoratore, attaccato al denaro, era dispotico e autoritario ed esercitava un potere incontrastato sulla moglie. Egli, decisamente avverso alle inclinazioni culturali e letterarie del figlio, vedeva in lui solo l'erede, e non riusciva ad ammettere che le cose da lui amate (la roba, il denaro, il successo) fossero considerate con indifferenza e persino con disprezzo da Federigo junior.
I caratteri autobiografici si riflettono in Con gli occhi chiusi, la storia dell'amore di Pietro Rosi figlio unico di Domenico, per Ghisola, una contadina. Domenico, uomo esuberante e aggressivo, contribuisce in modo determinante a sminuire il figlio agli occhi della ragazza, mettendone in rilievo le caratteristiche di debolezza e inettitudine.
L'avversione che il padre prova nei confronti del figlio è da lui motivata col fatto che questi non risponde minimamente alle sue attese: infatti Pietro non intende proseguire l'attività economica di Domenico, che ha costruito dal nulla la sua fortuna e ne è orgoglioso, preferendo piuttosto frequentare la scuola, con risultati tuttavia disastrosi. Pietro cerca di costruirsi un sistema di certezze che tuttavia si dimostra inadeguato a reggere l'urto della realtà, perché il principale fondamento su cui esso si regge è l'esigenza di Pietro di dimostrare la sua autonomia, naturalmente fallendo sempre in questo suo tentativo.
Egocentrico e dispotico, violento e lussurioso, verghianamente attaccato alla roba, dunque, Domenico Rosi è il tipico padre-padrone che pretende di sapere tutto solo perché è il padre ("Io me ne intendo più di tutti gli scienziati perchè sono tuo padre. Nessuno meglio di me sa quello che ci vuole per te.").
La sua prorompente vitalità spicca nella scena della prova del cavallo, una prova di forza e virilità cui egli sottopone il figlio davanti agli occhi di Ghisola, comandandogli di sciogliere e di far voltare il cavallo. Ostentando il proprio potere sociale, Domenico non esita a mettere in imbarazzo Pietro, esercitando su di lui una funzione castrante. Si ripete simbolicamente in Pietro il gesto di Edipo, l'autoaccecamento; la sua mutilazione è, però, l'inettitudine, esibita in ogni manifestazione della vita pratica come negazione dei valori paterni e che in questa situazione si rivela nell'incapacità di controllare il cavallo.
Egli subisce tutto "con gli occhi chiusi", metafora dell'incomunicabilità tra l'inetto, che si rifugia nella realtà interiore del desiderio e dell'immaginazione, e gli altri (a cominciare dal padre) che stabiliscono con il mondo un rapporto di possesso e di violenza. Incapaci di essere come i padri e alieni dall'intendere i rapporti umani nei termini della sopraffazione, i figli diventano socialmente inquietanti e scomodi, e sono emarginati perché "diversi", "inutili agli interessi", secondo una definizione sprezzante che Domenico dà del figlio.
Ciò che è presente, dunque, sono forme psicologiche di vita "altrove", di un desiderio di esistenza che tradotta in immagini visive può essere letta anche in La maison aux volete verts (1924) di De Chirico, in cui è rappresentata una casa dentro la casa, come per cercare uno spazio proprio, chiuso e distante dall'ambiente familiare, come segno di chiusura interna e simultaneamente di apertura verso l'esterno espressa dalla finestra spalancata, un chiaro segno di apertura all'esistenza altrove.
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