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L'ambizione letteraria verso l'immortalità




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L'ambizione letteraria verso l'immortalità

Pietà di sé, infinita pena e angoscia

Di chi adora il quaggiù e spera e dispera

Di un altro. (Chi osa dire un altro mondo?).


"Strana pietà."


Tratto da Satura, Xenia I di Eugenio Montale

 





Parallelamente agli sviluppi più propriamente filosofici e concettuali, il problema dell'immortalità dell'uomo è stato affrontato con altrettanta enfasi e da molteplici prospettive non solo nella letteratura latina con Seneca e Agostino, ma anche in quella italiana e inglese. Diverse sono state le riflessioni sull'argomento; si cercherà qui di esporre le più significative dell'ottocento e novecento.


Dei sepolcri di Ugo Foscolo è forse il testo più rappresentativo di una riflessione teorica e poetica sul concetto di morte e di immortalità. L'opera si configura come un poemetto di 295 endecasillabi sciolti, sotto forma di epistola poetica indirizzata all'amico Ippolito Pindemonte; l'occasione fu la discussione avvenuta con questi a Venezia nell'aprile del 1806, originata dall'editto napoleonico di Saint-Cloud(1804) con cui si imponevano le sepolture fuori dei confini delle città e si regolamentavano le iscrizioni sulle lapidi. Accusato di oscurità dall'abate francese Aimè Guillon sul "Giornale italiano", esso, secondo le indicazioni teoriche di Foscolo, è divisibile in quattro sezioni distinte che mostrano il punto terminale della ricerca di un superamento nel nichilismo a cui avevano portato la delusione storica e il crollo delle speranze rivoluzionarie di fronte alla realtà dell'Italia napoleonica. Le parti su cui verte la nostra indagine sono la prima e l'ultima, poiché esse sviluppano più specificamente la riflessione foscoliana sulla morte e l'immortalità.

Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l'illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l'armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de' suoi? Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l'amico estinto
e l'estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall'insultar de' nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.

 

All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.

 


















Sol chi non lascia eredità d'affetti
poca gioia ha dell'urna; e se pur mira
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
fra 'l compianto de' templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d'lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.


La prima parte del carme mostra come "i monumenti inutili a'morti giovano a'vivi perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene: solo i malvagi, che non si sentono meritevoli di memoria, non la curano; a torto dunque la legge accomuna le sepolture dei tristi e dei buoni, degl'illustri e degl'infami". Foscolo, ribadendo le sue tesi materialistiche, sostiene in primo luogo l'inutilità delle tombe e l'indifferenza rispetto al modo in cui seppellire i defunti, poiché crede che in ogni caso "il sonno della morte" non sarà meno duro. La morte non è che un momento di un ciclo naturale di perpetua trasformazione, in cui la materia di un essere, disgregandosi, va a formare altri esseri; essa quindi è distruzione totale dell'individuo e non lascia possibilità di sopravvivenza. La continua trasformazione della materia impedisce anche la sopravvivenza nel ricordo, perché il corso del tempo cancella ogni traccia dell'esistenza. Queste posizioni, che escludono ogni idea religiosa di una vita dopo la morte, sono ribadite da Foscolo con assoluta convinzione: sono le idee in cui si è formato e costituiscono la base di tutta la sua visione della realtà. Esse però non lo soddisfano più completamente e Foscolo non le sostiene più con lo slancio fiducioso e polemico che aveva nutrito il pensiero settecentesco, ma con l'atteggiamento disilluso di chi deve rassegnarsi ad una verità amara. Il poeta sente che queste idee hanno perso tutto lo slancio polemico e propositivo nei confronti di una cultura autoritaria, fondata sul dogma e la metafisica, ma trova una via di fuga, come nell'Ortis, nelle illusioni. La sopravvivenza dopo la morte, indispensabile come stimolo alla partecipazione attiva ed energica alla storia, se è impossibile ontologicamente e razionalmente, diviene possibile grazie all'illusione. L'illusione della sopravvivenza è affidata alle tombe: l'uomo può illudersi di continuare a vivere anche dopo la morte, poiché la tomba mantiene vivo il ricordo ed istituisce un rapporto affettivo con i familiari e gli amici("corrispondenza d'amorosi sensi"). La possibilità di un rapporto affettivo tra morti e vivi strappa l'uomo alla sua condizione effimera e gli conferisce quasi l'immortalità che è propria degli dei. La prima parte del carme si incentra dunque sull'utilità delle tombe sul piano privato ed affettivo, ma ne scaturiscono già conseguenze filosofiche fondamentali. Inoltre il ricordo che la tomba dovrebbe serbare non è solo limitato alla sfera privata, ma contiene un messaggio civile per la società (si vedano i versi dedicati al Parini).

































La quarta parte del carme propone un tema nuovo: alla funzione delle tombe, nel serbare la memoria e nel perpetuare i valori della civiltà, si affianca quella della poesia. Se le tombe hanno il compito di vincere l'opera distruttrice della natura e del tempo, che tutto trasforma e cancella, anch'esse, in quanto oggetti materiali, sono sottoposte a quest'opera di distruzione. La loro funzione è quindi limitata nel tempo; ma quando esse saranno scomparse, tale funzione sarà raccolta dalla poesia: la parola poetica non è sottoposta alle leggi materiali, quindi la sua armonia può sfidare i secoli, vincere il silenzio a cui sono destinate le opere umane, conservando in eterno il ricordo. I versi 235-295 che concludono il carme sono un'ampia esemplificazione del motivo della poesia che raccoglie l'eredità delle tombe nel perpetuare la memoria. Vi si delinea l'immagine delle grandi civiltà che cadono in rovina e scompaiono per l'azione del tempo che tutto trasforma. Cassandra, conducendo i giovinetti a venerare i sepolcri degli antenati, profetizza la prossima rovina della città; ma un poeta, Omero, si ispirerà alle tombe dei padri di Troia, tramandando il ricordo di quella civiltà scomparsa. La funzione della poesia così si specifica ulteriormente. Omero canta non solo gli eroi greci vincitori, ma anche i Troiani sconfitti, e perpetua il ricordo di chi è morto per la patria: la poesia non ha solo il compito di conservare la memoria delle azioni gloriose, ma deve serbare anche il ricordo degli sconfitti, delle sofferenze, delle sventure, del sangue versato; non deve stimolare all'azione eroica attraverso l'emulazione, ma anche destare sentimenti più miti, la compassione e la solidarietà per le sventure e le sofferenze. Anche questa è una funzione civile per Foscolo, perché questi valori sono essenziali per la costruzione di una civiltà, in opposizione agli istinti feroci e belluini che sono propri della natura umana. E' un tema molto caro a Foscolo con cui si chiude il carme.


Diverse furono le conclusioni a cui giunse Giacomo Leopardi nelle sue "Operette morali"; riprendendo il tema della gloria letteraria e rovesciando le conclusioni foscoliane, il poeta di Recanati mostra una visione pessimista della poesia che non ha più quella funzione esternatrice che era invece così elogiata nell'ultima sezione dei sepolcri di Foscolo. Questi sono due capitoli tratti da "Il Parini ovvero della gloria".


CAPITOLO DECIMO

Non potendo nella conversazione degli uomini godere

quasi alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai,

sarà di rivolgerla nell'animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio della

tua solitudine, con pigliarne stimolo e conforto a nuove fatiche, e fartene

fondamento a nuove speranze. Perocché la gloria degli scrittori, non solo, come

tutti i beni degli uomini, riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è

mai, si può dire, presente a chi la possiede, e non si ritrova in nessun

luogo. Dunque per ultimo ricorrerai coll'immaginativa a quell'estremo rifugio

e conforto degli animi grandi, che è la posterità. Nel modo che Cicerone, ricco

non di una semplice gloria, né questa volgare e tenue, ma di una moltiplice, e

disusata, e quanta ad un sommo antico e romano, tra uomini romani e antichi, era

conveniente che pervenisse; nondimeno si volge col desiderio alle generazioni

future, dicendo, benché sotto altra persona (n.36): pensi tu che io mi fossi

potuto indurre a prendere e a sostenere tante fatiche il dì e la notte, in città

e nel campo, se avessi creduto che la mia gloria non fosse per passare i termini

della mia vita? Non era molto più da eleggere un vivere ozioso e tranquillo,

senza alcuna fatica o sollecitudine? Ma l'animo mio, non so come, quasi levato

alto il capo, mirava di continuo alla posterità in modo, come se egli, passato

che fosse di vita, allora finalmente fosse per vivere. Il che da Cicerone si

riferisce a un sentimento dell'immortalità degli animi propri, ingenerato da

natura nei petti umani. Ma la cagione vera si è, che tutti i beni del mondo non

prima sono acquistati, che si conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute

in procacciarli; massimamente la gloria, che fra tutti gli altri è di maggior

prezzo a comperare, e di meno uso a possedere. Ma come, secondo il detto di

Simonide,


La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate;
Onde ciascuno indarno si affatica;
Altri l'aurora amica, altri l'etate
O la stagione aspetta:
E nullo in terra il mortal corso affretta,
Cui nell'anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta;


così, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della

vanità della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo,

in ultimo non avendo più dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non

perciò vien meno, ma passata di là dalla stessa morte, si ferma nella posterità.

Perocché l'uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro,

così come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli

che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono

principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso

che niuno è così felice oggi, che disprezzando la vana felicità presente, non si

conforti col pensiero di quella parimente vana, che egli si promette

nell'avvenire.


CAPITOLO DUODECIMO

Forse in ultimo luogo ricercherai d'intendere il mio parere e

consiglio espresso, se a te, per tuo meglio, si convenga più di proseguire o di

omettere il cammino di questa gloria, sì povera di utilità, sì difficile e

incerta non meno a ritenere che a conseguire, simile all'ombra, che quando tu

l'abbi tra le mani, non puoi né sentirla, né fermarla che non si fugga. Dirò

brevemente, senz'alcuna dissimulazione, il mio parere. Io stimo che cotesta tua

maravigliosa acutezza e forza d'intendimento, cotesta nobiltà, caldezza e

fecondità di cuore e d'immaginativa, sieno di tutte le qualità che la sorte

dispensa agli animi umani, le più dannose e lacrimevoli a chi le riceve. Ma

ricevute che sono, con difficoltà si fugge il loro danno: e da altra parte, a

questi tempi, quasi l'unica utilità che elle possono dare, si è questa gloria

che talvolta se ne ritrae con applicarle alle lettere e alle dottrine. Dunque,

come fanno quei poveri, che essendo per alcun accidente manchevoli o mal

disposti di qualche loro membro, s'ingegnano di volgere questo loro infortunio

al maggior profitto che possono, giovandosi di quello a muovere per mezzo della

misericordia la liberalità degli uomini; così la mia sentenza è, che tu debba

industriarti di ricavare a ogni modo da coteste tue qualità quel solo bene,

quantunque piccolo e incerto, che sono atte a produrre. Comunemente elle sono

avute per benefizi e doni della natura, e invidiate spesso da chi ne è privo, ai

passati o ai presenti che le sortirono. Cosa non meno contraria al retto senso,

che se qualche uomo sano invidiasse a quei miseri che io diceva, le calamità del

loro corpo; quasi che il danno di quelle fosse da eleggere volentieri, per conto

dell'infelice guadagno che partoriscono. Gli altri attendono a operare, per

quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale.

Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani;

privi di altri molti per volontà; non di rado negletti nel consorzio degli

uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi; hanno per destino

di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l'ottengono, dopo

sepolti. Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo

forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che

ti somigliano.

L'operetta Il Parini ovvero della Gloria è divisa in dodici capitoli, in ognuno dei quali è affrontato un diverso aspetto della gloria nelle dottrine filosofiche e letterarie. Il primo capitolo è caratterizzato da due voci, inizialmente Leopardi presenta Parini, successivamente, per il resto dell'opera, il narratore diviene Parini, che si rivolge ad un proprio discepolo. In questo capitolo si introduce il tema del conseguimento della gloria nelle scritture. Nel secondo capitolo sono delineati i requisiti del perfetto critico, esso risulta essere un uomo ideale ben lontano dalla massa delle persone che generalmente pretende di esprimere commenti su opere letterarie. Il terzo e il quarto capitolo esaminano il problema dello stato d'animo e dell'età del perfetto critico, elementi che influenzano profondamente l'opinione finale. Il capitolo quinto sottolinea che la fama di un'opera ne costituisce la sua gloria e che il giudizio più veritiero scaturisce dalla seconda lettura e non dalla prima. Il capitolo sesto illustra che due diversi fini spingono alla lettura, uno è il diletto e l'altro l'utilità; il secondo è certamente da preferire poiché proietta il lettore verso il futuro, diversamente dal primo che si prefigge un piacere momentaneo. Il capitolo settimo, parallelamente al primo capitolo, presenta l'argomento della gloria che si può ottenere da un'opera filosofica. Nell'ottavo capitolo si evidenzia che difficilmente una nuova meditazione viene accettata in breve tempo. Il capitolo nono si basa sull'idea che poeti e filosofi, seppure illustri, sono tenuti in minor considerazione rispetto ad altri artisti o scienziati. Il capitolo decimo e l'undicesimo affrontano il problema della gloria oltre la vita. Infatti, l'uomo a cui siano stati riconosciuti in vita i propri meriti di scrittore o filosofo non si accontenta, ma desidera essere apprezzato anche dai posteri, tuttavia affinché questo desiderio si realizzi si devono mantenere gli stessi usi, costumi e inclinazioni anche nel futuro. L'ultimo capitolo incoraggia a seguire il proprio intelletto, seppure non si riesca ad ottenere la giusta e meritata gloria. Gli uomini e gli scritti che vengono esaltati non sempre meritano le lodi che ricevono; al contrario opere e personaggi rimangono nell'ombra, a torto. Si evidenzia quindi il tema della casualità della gloria e della relatività del giudizio. In questa operetta si afferma la diversità fra gloria e celebrità, solo la prima compiace lo scrittore o il filosofo, ma d'altra parte, se un'opera gode di grande fama, è più facile che in futuro ottenga gloria. Il giudizio su un'opera da parte di un lettore dipende anche dal fine con cui quest'ultimo si avvicina al libro. Se l'intento è un diletto momentaneo non si avrà un apprezzamento notabile giacché il presente è piccolo e ristretto, mentre se la lettura implica un'utilità futura la valutazione sarà più positiva.
Il tema della superiorità degli antichi è caro a Leopardi ed è presente anche in questo trattato. Il rapporto tra opere e lettori era migliore in tempi passati, quando gli uomini prestavano maggiore attenzione nella lettura, e rileggevano i libri più volte. La grande rilevanza del passato è strettamente connessa alla svalutazione del presente e del futuro; in quest'ultimo vengono riposte, dall'immaginario collettivo, grandi speranze, credendo, in modo erroneo, in un miglioramento. In realtà tutto muta, in modo tutt'altro che vantaggioso. Ogni ente cambia, anche le dottrine filosofiche, letterarie e persino quelle scientifiche, per questo la gloria di scrittori, filosofi e scienziati presso i posteri dipende dalle diverse inclinazioni che le genti avranno in futuro. La speranza, in Leopardi, si rivela sempre illusoria, ne "Il Parini ovvero della Gloria", questo aspetto si può ritrovare due volte. In primo luogo, quando si sottolinea che ai giovani sono proprie le illusioni che si perdono con la maturità e, in secondo luogo, quando si mette in risalto che le fatiche compiute per ottenere gloria non sono ripagate da essa. Il motivo conclusivo dell'operetta è quello della preoccupazione per aridità dell'animo; si sostiene, infatti, che coloro i quali sono dotati di grande forza immaginativa, di intelletto acuto o di altre grande qualità devono perseguire le loro virtù con accettazione e coraggio. Il Parini ovvero della Gloria si può mettere in relazione per contrapposizione alla parte conclusiva Dei sepolcri. Mentre nell'opera di Foscolo si elogia la funzione eternatrice della poesia, in quella di Leopardi si sottolinea la casualità della gloria e il declino, che può avvenire col tempo, di opere illustri. Ciò che induce a ritenere che il collegamento con Foscolo fosse voluto da Leopardi è la ripresa di un personaggio importante de "Dei sepolcri", Parini.

A mia madre

Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce nel sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi piú infuria, se tu cedi
come un'ombra la spoglia
          (e non è un'ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto d'una
vita che non è un'altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell'eliso
folto d'anima e voci in cui tu vivi;

e la domanda che tu lasci è anch'essa
un gesto tuo, all'ombra delle croci.


 
Sulla linea d'interpretazione foscoliana si trova anche un grande poeta del Novecento italiano, Eugenio Montale. Nella poesia Alla Madre il poeta genovese offre la sua rielaborazione del tema della morte e della sopravvivenza dopo di essa.


















La poesia A mia madre è stata composta da Eugenio Montale nel 1942 ed inserita nella sezione Le Finisterre tratta da La bufera e altro. E' autunno, sui colli del Mesco, si vendemmia; è tempo di guerra, il conflitto tra gli uomini è più atroce del consueto. Montale si rivolge alla madre, sepolta in un cimitero su cui passa la rotta felice schiera delle coturnici per dirle che gli eventi storici e il naturale fluire della vita minacciano la sua memoria (or che la lotta dei viventi più infuria[..] chi ti proteggerà?); tanto più, dal momento che lei stessa rinunciava alle cure funebri giudicando che il corpo non fosse altro che un'ombra, apparenza in sé insignificante della persona vera che è l'anima. La madre credeva dunque in un paradiso di anime, ma egli non vi crede. Egli non pensa che la morte del corpo sia compensata da un'immortalità astratta, metafisica, ma che l'essere umano consista in un'individualità concreta, fisicamente incarnata (il gsto di una vita che non è altra ma se stessa) e che solo il ricordo del suo peculiare atteggiarsi faccia sopravivere l'estinto(quelle mani, quel volto). Alla posizione trascendentale della madre egli ne contrappone una immanente, fondata sul valore terreno dell'esistenza. Montale riprende qui delle tematiche foscoliane, la sopravvivenza dei defunti nella memoria dei vivi, ma accentuando anche il motivo più tipicamente proprio della specificità e materialità dell'individuo.

Il pensiero del poeta al riguardo subì una evoluzione quasi nichilista in relazione anche all'esperienza della guerra; Piccolo testamento uscì su "La fiera letteraria"(1953), poi nella raccolta La bufera e altro ed appartiene alla fase in cui Montale, segnato dalle impressioni della guerra, prese a raffigurare il dramma degli umani non più in assoluto ma sullo sfondo di una condizione storica. Sviluppa motivi polemici e politici in una formulazione però insolitamente esplicita: agli schieramenti ideologici e di partito viene contrapposta l'autonomia della coscienza individuale e della poesia che ne è frutto.


Piccolo Testamento

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d'officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
d'una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò piú lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiú non era quello di un fiammifero


Il poeta si rivolge ad una donna per dirle che quanto egli può lasciare di sé è la testimonianza di una lunga ricerca morale, di un pensiero che ha rinunciato alle rassicuranti certezze trasmesse dagli apparati clericali: un pensiero impotente di fronte alla fine che ci minaccia e di cui è allegoria l'angelo dell'inferno; un pensiero che tuttavia costituisce il segno di riconoscimento fra quanti ne condividono l'esperienza; che è contrassegnato quindi dall'orgoglio e dall'umiltà. Nel testo compaiono, su sfondi di buio, molti oggetti deboli, inafferrabili e luccicanti; essi segnalano la precarietà, le incertezze e anche la tenace persistenza di una tensione morale e intellettuale che è via definita come "traccia madreperlacea di lumaca/smeriglio di vetro". Quest'iride sola il poeta afferma di poter lasciare "a testimonianza d'una fede che fu combattuta", così che possa essere segno ineliminabile di un'esperienza intellettuale che fu vissuta interamente da Montale e che gli fornì "una speranza che bruciò più lenta di un ceppo nel focolare". Montale è però consapevole che "non è un'eredità, un portafortuna che può reggere all'urto dei monsoni sul fil di ragno della memoria, ma una storia non dura che nella cenere e persistenza è solo l'estinzione"; il dono che egli ha affidato alla donna non durerà eternamente alla catastrofe del nostro tempo e anzi la durata storica consiste solo nel consumarsi fino in fondo, solo la morte quindi permette la continuità della vita.


Even in English literature the theme of immortality was one of the most discussed, in terms of general reflections on it and the possibility of achieving it by the glory, reached through heroic deeds or literary masterpieces. Among the others, Alfred Tennyson in his poems mostly expressed an interior fear for a nature, which is indifferent to human sufferings and does not provide an immortal destiny for man. In relation to this concept, the most significant poems are Tithonus and Ulysses.


Tithonus

The woods decay, the woods decay and fall,
The vapours weep their burthen to the ground,
Man comes and tills the field and lies beneath,
And after many a summer dies the swan.
Me only cruel immortality
Consumes; I wither slowly in thine arms,
Here at the quiet limit of the world,
A white-hair'd shadow roaming like a dream
The ever-silent spaces of the East,
Far-folded mists, and gleaming halls of morn.
Alas! for this gray shadow, once a man--
So glorious in his beauty and thy choice,
Who madest him thy chosen, that he seem'd
To his great heart none other than a God!
I ask'd thee, 'Give me immortality.'
Then didst thou grant mine asking with a smile,
Like wealthy men who care not how they give.
But thy strong Hours indignant work'd their wills,
And beat me down and marr'd and wasted me,
And tho' they could not end me, left me maim'd
To dwell in presence of immortal youth,
Immortal age beside immortal youth,
And all I was in ashes. Can thy love
Thy beauty, make amends, tho' even now,
Close over us, the silver star, thy guide,
Shines in those tremulous eyes that fill with tears
To hear me? Let me go: take back thy gift:
Why should a man desire in any way
To vary from the kindly race of men,
Or pass beyond the goal of ordinance
Where all should pause, as is most meet for all?

A soft air fans the cloud apart; there comes
A glimpse of that dark world where I was born.
Once more the old mysterious glimmer steals
From any pure brows, and from thy shoulders pure,
And bosom beating with a heart renew'd.
Thy cheek begins to redden thro' the gloom,
Thy sweet eyes brighten slowly close to mine,
Ere yet they blind the stars, and the wild team
Which love thee, yearning for thy yoke, arise,
And shake the darkness from their loosen'd manes,
And beat the twilight into flakes of fire.
Lo! ever thus thou growest beautiful
In silence, then before thine answer given
Departest, and thy tears are on my cheek.

Why wilt thou ever scare me with thy tears,
And make me tremble lest a saying learnt,
In days far-off, on that dark earth, be true?
'The Gods themselves cannot recall their gifts.'

Ay me! ay me! with what another heart
In days far-off, and with what other eyes
I used to watch < if I be he that watch'd <
The lucid outline forming round thee; saw
The dim curls kindle into sunny rings;
Changed with thy mystic change, and felt my blood
Glow with the glow that slowly crimson'd all
Thy presence and thy portals, while I lay,
Mouth, forehead, eyelids, growing dewy-warm
With kisses balmier than half-opening buds
Of April, and could hear the lips that kiss'd
Whispering I knew not what of wild and sweet,
Like that strange song I heard Apollo sing,
While Ilion like a mist rose into towers.

Yet hold me not for ever in thine East;
How can my nature longer mix with thine?
Coldly thy rosy shadows bathe me, cold
Are all thy lights, and cold my wrinkled feet
Upon thy glimmering thresholds, when the steam
Floats up from those dim fields about the homes
Of happy men that have the power to die,
And grassy barrows of the happier dead.
Release me, and restore me to the ground;
Thou seest all things, thou wilt see my grave:
Thou wilt renew thy beauty morn by morn;
I earth in earth forget these empty courts,
And thee returning on thy silver wheels


In the dramatic monologue "Tithonus," Tennyson instructs the reader that immortality is not necessarily a desirable thing, as Tithonus tries to convince Aurora to make him mortal again. In the poem, Tithonus asks Aurora to grant him immortality, which she does. Although in actual mythology Zeus grants immortality, it is immortality and not eternal youth that Tithonus receives. Therefore, he now "withers slowly" with a fate worse than death since many jealous gods "beat me down and marred and waste me." Tithonus presents the natural cycle of life followed by death by describing how first, "Man comes" then he "tills the fields" and finally "lies beneath". However, his "cruel immortality" prevents him from following the same pattern. The rhetorical question, "Why should a man desire in any way/To vary from the kindly race of man.as is most meet for all?" indicates his realization of the absurdity in asking for immortal life. His wish to be immortal like the gods can be interpreted as alluding to Adam and Eve's desire for the knowledge of God. Anyway, as a "soft air fans the clouds apart" (personification), Tithonus sees the "dark world" to which he belongs. Tithonus uses much imagery as he recalls those days of youth when he "felt my blood/Glow with the glow that slowly crimson'd all," experienced "kisses balmier than half-opening buds/Of April," and Aurora's "rosy shadows bathe[d]" him. At once he wishes to be one of those "happy men with the power to die." He asks Aurora to release him and let him die so that he could forget the emptiness of his days of long life.

Indeed, Tennyson in this poem shows a pessimistic vision of immortality, by drawing the figure of an overreacher who wants to be similar to God and have their own eternal youth. However, when Tithonus realises that "Me only cruel immortality consumes", he rejects it and askes Aurora to release him and let him rediscover the beauty of his real, but mortal, life. In Ulysses the same theme is described in a different way and paves the way for different conclusions.


Ulysses

It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these barren crags,
Match'd with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and know not me.

I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: all times I have enjoyed
Greatly, have suffered greatly, both with those
That loved me, and alone; on shore, and when
Through scudding drifts the rainy Hyades
Vexed the dim sea: I am become a name;
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and known; cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself not least, but honoured of them all;
And drunk delight of battle with my peers;
Far on the ringing plains of windy Troy.
I am part of all that I have met;
Yet all experience is an arch wherethrough
Gleams that untravelled world, whose margin fades
For ever and for ever when I move.
How dull it is to pause, to make an end,
To rust unburnished, not to shine in use!
As though to breath were life. Life piled on life
Were all too little, and of one to me
Little remains: but every hour is saved
From that eternal silence, something more,
A bringer of new things; and vile it were
For some three suns to store and hoard myself,
And this grey spirit yearning in desire
To follow knowledge like a sinking star,
Beyond the utmost bound of human thought.

This is my son, mine own Telemachus,
To whom I leave the sceptre and the isle -
Well-loved of me, discerning to fulfil
This labour, by slow prudence to make mild
A rugged people, and through soft degrees
Subdue them to the useful and the good.
Most blameless is he, centred in the sphere
Of common duties, decent not to fail
In offices of tenderness, and pay
Meet adoration to my household gods,
When I am gone. He works his work, I mine.

There lies the port; the vessel puffs her sail:
There gloom the dark broad seas. My mariners,
Souls that have toil'd, and wrought, and thought with me -
That ever with a frolic welcome took
The thunder and the sunshine, and opposed
Free hearts, free foreheads - you and I are old;
Old age hath yet his honour and his toil;
Death closes all: but something ere the end,
Some work of noble note, may yet be done,
Not unbecoming men that strove with Gods.
The lights begin to twinkle from the rocks:
The long day wanes: the slow moon climbs: the deep
Moans round with many voices. Come, my friends,
'Tis not too late to seek a newer world.
Push off, and sitting well in order smite
The sounding furrows; for my purpose holds
To sail beyond the sunset, and the baths
Of all the western stars, until I die.
It may be that the gulfs will wash us down:
It may be we shall touch the Happy Isles,
And see the great Achilles, whom we knew

Tho' much is taken, much abides; and though
We are not now that strength which in old days
Moved earth and heaven; that which we are, we are;
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yield.

In this poem Tennyson makes use of the allegoric figure of the greek overreacher Ulysses in order to convey the idea that man has a strong desire for the unknown and for heroic deeds, by which he is able to obtain glory and immortality. The main sources used by Tennyson are the greek mith of Ulysses as it was narrated in the Odissey and the medieval interpretation given by Dante in his Commedy. In the first one, Ulysses is placed within a mythological world populated by heroes, monsters, supernatural beings and gods; on the one hand, in the Iliad he is portrayed as a cunning speaker who deceives the enemy by the means of the wodden horse, so causing the fall of Troy; on the other hand, in the Odissey  he is the wandering hero who overcomes the difficulties of his journey thanks to his bravery, endurance, cleverness, resourcefullness and wisdom. In Dante's perspective Ulysses is placed in the Inferno as the adviser who caused the fall of Troy with a cunning deception, but he is also decribed as a brillant speaker who persuaded his shipmates to follow him in his last voyage in order to seek for knowledge and noble deeds. Indeed, Tennyson mixed up both the two interpretation, by describing Ulysses as an old king, who is not able to face up the sad and boring reality which sorrounds him so that he decides to give all the powers to his own son Telemachus, who was "centred in the sphere
Of common duties"
, embodying the conventional figure of the wise king, and leave for a last voyage into "that untravelled world, whose margin fades for ever and for ever when i move". Moreover, in the last part of the monologue Ulysses is aware that death will soon put an end to everything and yet he issues his proud challenge to the oncoming nothingness openly turning to his mariners and proposing a final voyage into the unknown to them ("Come, my friends, tis not too late to seek a newer world"). In this way Ulysses becomes the poet's alter ego giving expression to his torturing doubts about man's destiny after death and also a metaphor for human existence which, although it is in progress, is always aware of its own mortality, which implies that in Ulysses's perspective the immortality is given to man only by the search for heroic deeds, which could overcome the limits of human life.

In James Joyce's The Dead the most effective antithesis by means of which the author gives wholeness and harmony to the novel is the widespread metaphorical pattern of life and death.

She was fast asleep. Gabriel, leaning on his elbow, looked for a few moments unresentfully on her tangled hair and half-open mouth, listening to her deep-drawn breath. So she had had that romance in her life: a man had died for her sake. It hardly pained him now to think how poor a part he, her husband, had played in her life. He watched her while she slept, as though he and she had never lived together as man and wife. His curious eyes rested long upon her face and on her hair: and, as he thought of what she must have been then, in that time of her first girlish beauty, a strange, friendly pity for her entered his soul. He did not like to say even to himself that her face was no longer beautiful, but he knew that it was no longer the face for which Michael Furey had braved death. Perhaps she had not told him all the story. His eyes moved to the chair over which she had thrown some of her clothes. A petticoat string dangled to the floor. One boot stood upright, its limp upper fallen down: the fellow of it lay upon its side. He wondered at his riot of emotions of an hour before. From what had it proceeded? From his aunt's supper, from his own foolish speech, from the wine and dancing, the merry-making when saying good night in the hall, the pleasure of the walk along the river in the snow. Poor Aunt Julia! She, too, would soon be a shade with the shade of Patrick Morkan and his horse. He had caught that haggard look upon her face for a moment when she was singing Arrayed for the Bridal. Soon, perhaps, he would be sitting in that same drawing-room, dressed in black, his silk hat on his knees. The blinds would be drawn down and Aunt Kate would be sitting beside him, crying and blowing her nose and telling him how Julia had died. He would cast about in his mind for some words that might console her, and would find only lame and useless ones. Yes, yes: that would happen very soon. The air of the room chilled his shoulders. He stretched himself cautiously along under the sheets and lay down beside his wife. One by one, they were all becoming shades. Better pass boldly into that other world, in the full glory of some passion, than fade and wither dismally with age. He thought of how she who lay beside him had locked in her heart for so many years that image of her lover's eyes when he had told her that he did not wish to live. Generous tears filled Gabriel's eyes. He had never felt like that himself towards any woman, but he knew that such a feeling must be love. The tears gathered more thickly in his eyes and in the partial darkness he imagined he saw the form of a young man standing under a dripping tree. Other forms were near. His soul had approached that region where dwell the vast hosts of the dead. He was conscious of, but could not apprehend, their wayward and flickering existence. His own identity was fading out into a grey impalpable world: the solid world itself, which these dead had one time reared and lived in, was dissolving and dwindling. A few light taps upon the pane made him turn to the window. It had begun to snow again. He watched sleepily the flakes, silver and dark, falling obliquely against the lamplight. The time had come for him to set out on his journey westward. Yes, the newspapers were right: snow was general all over Ireland. It was falling on every part of the dark central plain, on the treeless hills, falling softly upon the Bog of Allen and, farther westward, softly falling into the dark mutinous Shannon waves. It was falling, too, upon every part of the lonely churchyard on the hill where Michael Furey lay buried. It lay thickly drifted on the crooked crosses and headstones, on the spears of the little gate, on the barren thorns. His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead.


Throughout the story the living are shown as spiritually dead, and though Michael is physically dead, he is alive in Gretta's heart. It is only through the final image of the snow that the symbolic reconciliation of life and death occurs. The snow may be both a symbol of death, because it covers both the dead and the living, the symbol of hopeless solitude and incommunicability or of the isolation and alienation of the artist in Dublin and Ireland, and, at the same time, the symbol of purification and life, since it clears the world of all negative images. 


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