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La Reggia di Caserta




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La Reggia di Caserta

La storia


I Borbone


Il contesto storico - politico Europeo

L'Europa del Settecento, al livello delle sue classi dominanti, forma una sola nazione la cui omogeneità non ha riscontro in alcuno dei secoli precedenti. Da Parigi a Pietroburgo e da Berlino a Napoli segni evidenti si ritrovano nel costume come nell'uso universale della lingua francese, nel cosmopolitismo delle aristocrazie e degli intellettuali come nella filosofia dell'Illuminismo, nelle regge dei regnanti come nel gusto artistico o nelle logge massoniche. Le regge, simbolo degli splendori e del mecenatismo delle monarchie, sopravvissute a rivoluzioni, bombardamenti e incuria, rappresentano l'elemento più tangibile della grandiosità delle dinastie che le hanno volute e vissute.


La dinastia

La linea dinastica dei Borbone di Spagna ebbe origine da Filippo, discendente di Enrico di Navarra: dopo aver sposato in prime nozze una Savoia, rimasto vedovo sposò Maria Elisabetta Farnese, erede del Ducato di Parma; dall'unione nacque Carlo di Borbone, futuro Re delle Due Sicilie. In seguito agli accordi matrimoniali con gli Asburgo, che prevedevano le nozze di Carlo con la figlia dell'imperatore, Maria Teresa, si rinsaldarono i rapporti tra Spagna ed Austria, mentre peggioravano quelli con Inghilterra e Francia; intanto la depressione nervosa che aveva colpito il re Filippo peggiorava, per cui Elisabetta Farnese fu costretta a prendere la reggenza del trono di Spagna. Inoltre, l'abdicazione del re di Sardegna Vittorio Amedeo e la morte del duca di Padova Antonio Farnese aprirono in Italia la successione di Don

Carlos, il quale fu nominato finalmente Duca di Parma e Piacenza. 

Il regno di Carlo

Il giovane principe Carlo di Borbone, allora diciassettenne, iniziò il suo viaggio verso l'Italia, dove contrasse il vaiolo. L'Europa era di nuovo in subbuglio a causa della lotta dinastica per il trono polacco, rimasto vacante alla morte del re Augusto II. In seguito alla pace tra Spagna, Austria e Napoli si decise di scegliere come sposa per Carlo la principessa Maria Amalia di Sassonia, figlia del re di Polonia e nipote dell'imperatore Giuseppe. Il matrimonio fu celebrato per procura e la sposa giunse a Napoli il 4 luglio 1738. La coppia ebbe cinque figlie femmine prima di avere il sospirato erede maschio, ma il principe Filippo era malato gravemente, e ciò condizionò forse il non facile carattere materno. In seguito la coppia ebbe altri figli, tra cui il futuro re di Napoli Ferdinando. Data la giovane età, Carlo era guidato da saggi e competenti consiglieri, scelti dai genitori, che lo avevano seguito dalla Spagna. Giunto in Italia aveva potuto apprezzare le grandi qualità morali e il rigore di Bernardo Tanucci, figura chiave del suo regno, il quale avrebbe dato inizio alle riforme, soprattutto in campo amministrativo, che caratterizzarono l'avvento al trono di Carlo. Nei suoi 25 anni di regno, seguiti al dominio austriaco e al periodo del vicereame spagnolo, Carlo di Borbone si dedicò al riassetto interno con una serie di provvedimenti e riforme in campo economico, commerciale, tributario e nel settore dell'amministrazione della giustizia come a quello esterno, con la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede e il riconoscimento del nuovo regno sulla scena internazionale. I risultati migliori si ottennero però in campo artistico, perché il sovrano, sulla scia delle sue passioni, creò le premesse per una fioritura delle arti quale non si era mai avuta prima e in così breve tempo.


Il regno di Ferdinando

Nel 1759, in seguito alla morte del fratellastro Ferdinando VI, Carlo fu richiamato in Spagna dove salì al trono con il nome di Carlo III; lasciò il trono di Napoli al terzo figlio Ferdinando, ma avendo questi solo nove anni la reggenza fu affidata ad un Consiglio presieduto da Tanucci. Il regno di Ferdinando IV durò a lungo, dal 1759 al 1825, ma egli fu costretto a fuggire due volte da Napoli e a rifugiarsi a Palermo, a causa della politica antifrancese da lui adottata, in un periodo di sconvolgimenti per l'intera Europa. Il suo breve primo esilio coincise con la Repubblica Napoletana, mentre il secondo durò dieci anni, a causa delle vicende storiche legate al periodo napoleonico. Ferdinando sposò nel 1768, a diciassette anni, Maria Carolina d'Austria,  figlia sedicenne dell'imperatore Francesco I. Sul temperamento del re si è scritto molto: era un uomo volgare, che si disinteressava al governo, succubo della moglie che, dopo la nascita del primogenito, era entrata nel Consiglio di Stato riuscendo in breve tempo a mandar via Tanucci.
Ferdinando fu quindi un uomo debole, privo delle doti che occorrono ad un regnante, amante degli svaghi e delle donne; l'unico elemento che può mostrarci una sensibilità sociale del tutto inattesa è l'esperimento di 'repubblica sociale' realizzato a San Leucio, in uno di quei 'Siti reali' voluti dal padre, nel quale trascorse l'infanzia.



Il disegno urbanistico

Il progetto presentato da Vanvitelli in sedici tavole incise su rame non comprende solo la Reggia e le sue dipendenze, ma traccia la pianta e la fisionomia della nuova città che doveva sorgerle accanto, segna le strade di collegamento con i paesi vicini e, soprattutto, traccia la spina dorsale del progetto, il Gran Viale tra Napoli e la grande Cascata che sgorga dalla collina di Briano, a voler collegare idealmente la nuova capitale con la metropoli lontana passando per il Palazzo Reale, punto di riferimento e unità di misura di una composizione senza confini, su cui esso domina con la sua mole squadrata e la sua imponenza volumetrica; il Palazzo è collegato idealmente a Napoli dal nastro bianco che si stacca dalla Cascata e sembra segnare il percorso d'acqua per raggiungere la capitale. Il Viale doveva essere costeggiato da ruscelli, derivazioni dell'acquedotto carolino, ma non fu mai realizzato.


Il trasferimento della corte

In seguito alla morte dell'Imperatore Carlo VI, era scoppiata una nuova guerra e la capitale si era trovata a sottostare alle pressioni della flotta inglese per ottenere la neutralità del Regno delle Due Sicilie; nell'animo del re si fece più forte l'esigenza di costruire una nuova capitale lontana dal mare, ma non troppo distante da Napoli. Il luogo che meglio si prestava a tale scopo era un vasto terreno pianeggiante ai piedi dei Monti Tifatini, di proprietà dei conti di Caserta, irriducibili avversari dei Borbone, che il Re acquistò inizialmente come riserva di caccia. Scelti i luoghi, bisognava trovare l'architetto capace di ideare l'edificio che, oltre ad ospitare la famiglia reale, potesse contenere un'Università, i dicasteri, una biblioteca pubblica, la magistratura, un gran teatro, un seminario ed una chiesa cattedrale; certamente, nell'ideare la 'sua' reggia, il pensiero del re correva alla meravigliosa Versailles dove aveva trascorso momenti indimenticabili, ospite della corte francese. Carlo conferì l'incarico a Vanvitelli, architetto in San Pietro, dopo aver chiesto al papa Benedetto XIV il suo benestare.




Luigi Vanvitelli

Nato il 2 maggio 1700 a Napoli da Gaspare Van Wittel di Utrecht ed Anna Laurenzini, romana. Il padre, eccellente paesaggista, voleva farne un pittore, ma il giovanissimo precoce artista mostrò con gli anni una speciale inclinazione per l'architettura, in modo particolare per le nuove espressioni di quella barocca: l'arte di Borromini era più viva che mai, ed influenzò sicuramente l'evoluzione del giovane Luigi con Pietro da Cortona e Gian Lorenzo Bernini. Già a ventisei anni era architetto in S. Pietro, dove fu utilizzato anche come pittore; il suo talento architettonico si rivelò con il concorso per la facciata di San Giovanni in Laterano.  Al momento in cui fu chiamato a Napoli da Carlo di Borbone, aveva 50 anni; nel lungo periodo in cui lavorò alla Reggia, lasciò altre testimonianze del suo genio e della sua arte a Napoli: la chiesa di San Marcellino, il foro Carolino a Piazza Dante, la facciata e la scala di Palazzo Calabritto, la facciata della chiesa di S. Luigi, villa Campolieto a Resina, i ponti sul Calore a Benevento e sul Sele ad Eboli ecc. Morì a Caserta il 1 marzo 1773, la sua salma fu tumulata nella chiesa di S. Francesco di Paola. Di Vanvitelli pittore rimangono poche cose: la volta dipinta a fresco e la pala d'altare nella cappella delle Reliquie della chiesa di Santa Cecilia a Roma, databili tra il 1725 e il 1726. Egli fu allievo dell'Accademia di San Luca, il cui principale fondatore, Federico Zuccari, aveva posto a fondamento di tutte le arti l'esercizio del disegno A questo riguardo è il caso di porre l'accento sull'eccezionale corpus di disegni, fra i più cospicui del Settecento, che egli ha lasciato. Tra questi, la Veduta di Villa Lante, attribuito al Vanvitelli quindicenne, e molte scenografie teatrali.



I siti reali


San Leucio

In origine San Leucio era una tenuta di caccia dislocata poco distante dalla Reggia di Caserta.Si trattava di un'ampia zona ricca di vegetazione, dominata da una collina sulla quale è situato il cinquecentesco casino del Belvedere dei principi di Caserta. La caccia era un'attività molto amata dai Borboni. Anche Ferdinando era un cacciatore, ma la sua pigrizia frenò questa sua passione. Proprio la fatica che si impiegava a portare tutto l'armamentario ed i cani sul luogo di caccia fece nascere l'idea di trasformare il vecchio rudere in un casino di caccia, e costruire un muro di recinzione per circondare e imprigionare la collina rendendo esclusiva la zona. Nei dintorni del sito vi erano insediate una ventina di famiglie contadine. Ferdinando, invece di sgombrare la zona, fece costruire degli alloggi per queste persone e un alloggio lo edificò anche per sé restaurando il Belvedere cinquecentesco dal quale eliminò il salone centrale trasformandolo in cappella. Francesco Collecini, architetto di fama, raffinato allievo del Vanvitelli, venne ricevuto dal sovrano, al quale spiegò il progetto che aveva in mente di realizzare. Il Collecini voleva impiantare un'attività industriale e precisamente un'industria serica. La colonia di San Leucio nasce nel 1789. È Ferdinando a decretarne l'istituzione, pomulgando anche uno Statuto che ne delineò lo scopo. Carlo e suo figlio Ferdinando dettero la giusta importanza al settore e conobbero la necessità di adeguarlo alle nuove tecniche che arrivavano d'oltralpe, e dovettero lottare duramente contro il conservatorismo delle associazioni professionali e d'arte per farle affermare. Ferdinando intuì che solo un'adeguata preparazione degli operai addetti alla lavorazione serica poteva portare adeguati risultati; di lì a pochi anni venne istituita una scuola per i figli dei contadini ai quali si insegnò l'arte della lavorazione della seta e della coltivazione della terra. Venne installato, nel cortile del Belvedere, un piccolo impianto, poi vennero eretti magazzini, filatoi, incannatoi, tintorie. Sorsero nuove abitazioni, in quanto il minuscolo nucleo operaio cresceva a vista d'occhio. Nel 1786 vennero perciò edificate, al cospetto dell'edificio principale, una serie di case a schiera. Attratti da questa nuova prospettiva di lavoro, entrarono nella colonia nuovi addetti, provenienti da tutte le parti del Regno e anche dall'estero. Ferdinando aprì le porte a tutti, ma a una condizione, severissima: lavorare bene. Anche se la lavorazione della seta si mostrò ben presto più redditizia della coltivazione, questa non venne disprezzata tanto è che un edificio venne adibito a vaccheria per l'allevamento del bestiame e la produzione di burro e formaggi. Ferdinando amava San Leucio ed il suo Belvedere, nessun altro luogo del Regno gli donava la serenità che riusciva a raggiungere in quel posto. Ciò in conseguenza del fatto che i sudditi di San Leucio lo amavano e lo rispettavano, riuscendo egli a ricoprire, in quei luoghi, la figura di re-padre venerato ed amato dai suoi figli riconoscenti. La colonia di San Leucio crebbe sempre più fino a raggiungere qualche migliaio di persone. Fu il momento di dettare nuove leggi scritte. Ecco che nacque lo Statuto, che fu - manco a farlo apposta - anch'esso rivoluzionario, anche se si realizzò senza spargimento di sangue. Fu un modello che stravolse in modo totale usi, costumi, prassi consolidate, abitudini inveterate, consuetudini stratificate. Vennero imposte: L'istruzione primaria obbligatoria e gratuita; la frequenza della scuola da parte di tutti i giovani; la proibizione dell'analfabetismo; la indispensabilità della cultura e del lavoro; l'equiparazione del lavoro dell'uomo a quello della donna; la meritocrazia (chi lavora meglio guadagna di più); la scrupolosità della pulizia della persona e degli ambienti. A ciò va aggiunto che la giustizia venne delegata ad organi elettivi, l'assistenza medica venne garantita dalla nascita ed fu gratuita, venne istituita una cassa di mutuo soccorso, l'apprendistato fu regolarmente retribuito e finanche i funerali furono a spese della comunità. Ferdinando fu il primo a comprendere la necessità di essere sempre all'altezza, non per desiderio di primeggiare, ma per la consapevolezza che, specie in campo industriale, chi non va avanti è destinato a precipitare. Ma, all'epoca, i piemontesi erano in possesso di un nuovo macchinario che a quanto pare riusciva ad imprimere una maggiore velocità e precisione al movimento, permettendo una più rapida e precisa tramatura della seta. Ferdinando fece il possibile per entrarne in possesso, e riescì a procurarsi una parte di quel macchinario, giunto misteriosamente a Messina, e lo fece copiare da un provetto operaio. Ma la vera rivoluzione per l'industria di San Leucio si ebbe quando l'abate Galiani riuscì ad entrare in possesso di un progetto di un filatoio ad acqua. Puntualmente venne realizzato a San Leucio, ma mancavano ancora persone che fossero capaci di farlo funzionare a regime. Ed anche questo problema venne prontamente risolto da Ferdinando che ingaggiò delle operaie specializzate genovesi per insegnare l'utilizzo di tale macchinario alle colleghe operaie napoletane. Presto Ferdinando dovette fronteggiare i divieti imposti dagli altri regni all'esportazione di nuovi macchinari e maestranze nel Regno di Napoli. Ma nuovi macchinari e nuove tecniche di lavorazione serica furono comunque introdotti nel Regno di Napoli ed adottate nella industria serica di San Leucio.La colonia divenne una realtà consolidata in Europa, e non ebbe bisogno, a differenza di altre industrie del Regno, di misure protezionistiche. Già nel 1789 Giuseppe Palmieri, direttore del Consiglio delle Finanze, fece approvare dal governo di Sua Maestà l'abolizione del dazio sulla seta. La materia prima venne acquistata a costi ragionevoli e venne lavorata con risultati eccellenti. La produzione, nella prima metà dell'Ottocento, fu ottimale. San Leucio era ormai sinonimo di qualità


Carditello

Il sito di Carditello ha origine dalla decisione del re Carlo di impiantare un allevamento di cavalli nel feudo appartenente al conte d'Acerra; fu solo durante il regno del figlio Ferdinando che Collecini ebbe l'incarico, nel 1787, di progettare gli edifici che avessero la duplice funzione di 'rifugio' reale per la caccia e di azienda agricola. Nelle intenzioni di Ferdinando, Carditello serviva per mettere in risalto la sua adesione alla vecchia politica agricola, mentre San Leucio doveva rappresentare la spinta verso il nuovo modello di sviluppo industriale, nato dalle idee dell'illuminismo, che avrebbe portato benessere alla popolazione. La planimetria si presenta come una doppia T risultante dall'alternarsi di lunghi corpi bassi e di otto torri, ottagonali, negli snodi dei corpi di fabbrica; al centro domina il casino reale su cui si aprono due profondi androni, volti a sottolineare il passaggio fra edificio regale e luoghi di lavoro. La palazzina ha dimensioni contenute ed ogni ambiente è in stretta connessione con gli altri, a voler testimoniare ancora una volta l'assenza di barriere tra la Corte e la comunità. Il sito di Carditello ha subito le conseguenze di atti vandalici e di anni di abbandono; sicuramente le pareti di un salottino erano decorate da affreschi di Hackert che, forse, simulavano tappezzerie; arazzi di Pietro Durante su cartoni di Fischetti arricchivano il salone maggiore, la cui volta era affrescata dallo stesso Fischetti. Un'ideale ricostruzione è possibile attraverso i due bozzetti conservati nella Reggia di Caserta in buone condizioni, che ci permettono anche di conoscere meglio Philip Hackert affrescatore e decoratore dei 'Siti Reali' (Carditello come San Leucio o la Casina sul Lago Fusaro). Le due scene di questo salottino erano un canto dedicato alla vita agreste in Terra di Lavoro, ed un bel ritratto della famiglia reale. I bozzetti sono importanti perché aprono la questione dell'intervento di collaboratori specialisti in figurine nei paesaggi dipinti da Hackert, ma purtroppo le due scene furono vittime di un caso meschino d'iconoclastia politica, in quanto le figure che ritraevano i personaggi di Casa Borbonica furono minuziosamente raschiate; lo sciatto restauro dell'edificio nel dopoguerra lasciò la sala senza copertura e la pioggia ha provocato danni gravi e irreversibili agli affreschi.


La Vaccheria

Il nucleo più antico del borgo della Vaccheria si sviluppò intorno al casino poi definito 'Vecchio', abbandonato dal re Ferdinando dopo la morte del figlio Carlo Tito, nel 1778. L'aspetto dell'edificio è quello di un'aristocratica dimora di campagna, con stalle per l'allevamento del bestiame. Sorto per volontà del re in splendida posizione panoramica sulla piana di Caiazzo, solcata dal Volturno, ha pianta rettangolare ed è composto da tre livelli e un seminterrato; dal pronao si accede ad una piccola cappella dedicata a San Leucio ed alla scala che porta ai piani superiori, adibiti ad appartamenti per il re e il suo seguito. L'unico elemento di similitudine con il Belvedere è la presenza di numerosi comignoli. Nello spiazzo antistante al casino, terminava la strada che collegava il Belvedere con la Vaccheria e il Casino di San Silvestro.  Nella piazza del Borgo fu eretta la chiesa di S. Maria delle Grazie, su progetto di Collecini portato a termine dall'architetto Patturelli, per soddisfare le esigenze religiose degli abitanti del quartiere che, prima della rivoluzione del 1799, lavoravano nella fabbrica di calze situata nell'edificio. L'inaugurazione avvenne il 2 luglio 1805 con grandi festeggiamenti che si protrassero per otto giorni e culminarono con un concerto diretto da Paisiello. La facciata di tufo a blocchi squadrati è in stile neogotico, con richiami all'architettura normanna siciliana. Nella pala dell'altare maggiore è rappresentata la veduta della colonia di San Leucio con il Belvedere e i quartieri operai. L'opera è di Pietro Saia e risale al 1805. A partire dalla piazza della Vaccheria si sviluppa il quartiere della Madonna delle Grazie, in origine adibito a canetteria e ad abitazione dei guardiacaccia e poi destinato ai lavoratori della fabbrica di calze. L'impianto progettuale richiama le case a schiera di San Leucio, pur con una maggiore semplicità delle caratteristiche formali. Adiacente alla chiesa, sorge il Fabbricato detto della 'Vaccheria' realizzato a croce latina nel 1774-75 per ospitare le vacche di Sardegna, poi trasformato in fabbrica di tessuti di cotone nel 1826-27.


La tenuta di S.Silvestro

Il Real Casino di San Silvestro sorge sulla collina di Montebriano, in un sito particolarmente ameno perchè ricoperto da una fitta vegetazione boscosa, rinforzata da nuovi impianti. Il disegno di Patturelli, collaboratore di Collecini, si presenta planimetricamente come un impianto a C, ossia racchiude una corte rettangolare priva del lato verso mezzogiorno. Comprendeva 12 vani, sei destinati a cantina e alla vinificazione, gli altri preposti a stalle, fabbrica di latticini e pollai. L'ingresso avviene attraverso un androne che immette nella corte, abbellita da un giardino all'italiana. Dall'androne una scala di pietra, coperta da una volta a botte, conduce al piano superiore. Nel primo ripiano un occhio di luce strombato di forma ellittica guarda verso il bosco. Il Casino ha subito molte trasformazioni durante il regno di Francesco I, che volle apportare vari abbellimenti. Il sito era adorno di giardini pensili, inoltre il bosco è ricco di luoghi d'interesse storico: tra questi, la pecoreria formata da un gruppo di capanne di paglia disposte a semicerchio, attualmente rifatte in muratura, per 'deliziare i lanuti quadrupedi'.





Il complesso


Il Progetto

Carlo di Borbone portò un notevole contributo all'elaborazione del disegno generale, ed ancor di più Maria Amalia di Sassonia, che scelse personalmente stoffe e decori. I Sovrani verificarono insieme all'architetto i perimetri primari delle fondamenta, i tracciati dei viali, le piantagioni già messe a dimora. La prima presentazione dei disegni del progetto ai Sovrani è descritta da Vanvitelli nella lettera al fratello Urbano del 22 maggio 1751. Nelle intenzioni del progettista, il palazzo doveva avere una facciata di

ordine ionico con l'architettura dell'ingresso più grande del resto della fronte per darvi maggiore risalto. Nel mezzo, il cortile principale circondato da quattro minori. Due magnifiche scale erano poste simmetricamente al cortile centrale. All'esterno il Palazzo è di una compostezza grave e solenne: caduto il richiamo al castello turrito del primo progetto, s'innalza una reggia moderna, dove nessun ordine sovrastante diminuisce l'importanza monumentale del corpo centrale. Al di fuori del particolare decorativo delle lesene, che variano di numero a seconda che si trovino sulla fronte esterna o su quella verso il parco, le facciate hanno una struttura uguale strettamente connessa alla pianta. I corpi di fabbrica che s'intersecano ad angolo retto prolungano le loro testate un po' oltre la linea perimetrale, dando luogo ad articolazioni accentuate dalle colonnine degli avancorpi. Vanvitelli trascura volutamente i portali esterni per non turbare la compattezza dello stilobate e dare risalto ai piani superiori.


La realizzazione

Con la solenne funzione per la posa della prima pietra il 20 gennaio 1752, si dà inizio all'attività per la costruzione del Palazzo Reale, impegnando per l'edificazione del solo palazzo circa 4.500.000 di ducati. La direzione tecnica era composta dal Direttore Generale e due aiutanti. Pietro Bernasconi era il capomastro di un'ingente schiera di maestranze, tra i quali donne e ragazzi, accanto ai quali furono impiegati i forzati e gli schiavi. Il programma dei lavori subì enormi ritardi rispetto ai 10 anni previsti, a causa di varie vicende che si verificarono nel corso degli anni: nel 1759 Carlo lasciò Napoli per la Spagna e ciò rallentò i lavori e spense un po' l'entusiasmo di Vanvitelli, nel 1764 vi fu una sosta forzata a causa della carestia e dell'epidemia che ne seguì, nel marzo 1773 morì Vanvitelli. L'opera era ancora lontana dal suo completamento, quando subentrò il figlio Carlo, che cercò di non tradire il disegno paterno, pur senza riuscire a portarla a termine com'era nel progetto.


Articolazione spaziale

Una delle invenzioni vanvitelliane più felici consiste nell'uso delle gallerie e dei vestiboli allineati sull'asse dell'edificio e nel compito pratico ed estetico ad essi assegnato, intimamente connesso allo sviluppo della pianta centrale. Il sistema di circolazione interna è reso perfetto dai passaggi radiali che collegano i vestiboli ai cortili e dagli androni  che, a loro volta, mettono in comunicazione i cortili fra loro e con l'esterno: un'equilibrata rete di passaggi e di piazzali che permetterà lo svolgersi di parate, balli, sfilate e banchetti senza confusione, ingorghi o incidenti.  

I vestiboli sono ottagonali, a peristilio, coperti da calotte che poggiano su colonne; quello centrale è amplissimo e luminoso. Alla sua destra, la scala regia; a sinistra, la statua di Ercole su di un alto plinto; di fronte, sullo sfondo verde della collina, la cascata scintillante al sole, 'obelisco di cristallo ritto sopra la base fantastica disegnata dai nastri bianchi dei viali' (G.Chierici, La Reggia di Caserta, 1930). Attraverso gli archi della galleria si vedono i cortili, vasti come piazze, di cui hanno anche la funzione secondo i canoni dell'architettura vanvitelliana: nella reggia di Caserta il posto del cortile è preso dalla galleria assiale che offre una prospettiva in profondità, dove i quattro cortili sono pozzi di luce, luoghi di passaggio o di sosta necessari allo svolgimento della vita di Corte, penetrazioni della strada nel palazzo, e non più luoghi chiusi interni ad esso.

Tutto il complesso suggerisce un'idea di ordine e simmetria, una sorta di 'classicismo di Stato' com'era nelle intenzioni di Carlo, ma anche una forte compenetrazione tra il potere centrale e l'amministrazione dello Stato, tra la Corte e i suoi cittadini. Appare chiara, e stretta, la concatenazione creata per mezzo della galleria- cannocchiale tra l'edificio e il parco, che costituisce parte integrante della fabbrica: sullo sfondo smeraldo dei prati si stagliano i viali bianchi, la massa degli alberi aperta nel mezzo mostra in lontananza la distesa d'acqua che si modella sulle pendenze del terreno; in questo quadro austero e sobrio, la vigorosa architettura del Palazzo appare in tutto il suo valore monumentale, in cui volumi, colori, forme e superfici raggiungono un'insuperabile unità d'espressione.


Destinazione d'uso

L'edificio è a pianta rettangolare, racchiude quattro cortili pure rettangolari, è alto 36 metri ed è composto da cinque piani, oltre ad un sotterraneo ingegnosamente illuminato dalla luce esterna dove erano poste le cucine, le cantine e le officine. Esternamente presenta un basamento a bugnato, due piani adorni di mezze colonne e di lesene scanalate e un ultimo piano circondato da una balaustrata. La facciata principale ha tre ingressi arcuati, 2 porte e 243 finestre; sull'ingresso è posto un nicchione con un'epigrafe a ricordo di Carlo e Ferdinando. La facciata che dà sul parco è uguale, ma più ricca, con finestre inquadrate da lesene scanalate.



Il Palazzo


Lo scalone

La scala regia rappresenta nella sua composizione architettonica una delle invenzioni più felici di Vanvitelli, a cominciare dalla sua posizione a destra del vestibolo centrale. Essa conduce al peristilio centrale superiore su cui si aprono la Cappella e le due file di anticamere attraverso cui si accede agli Appartamenti Reali. Lo scalone, luminosissimo, si sviluppa in una grande rampa centrale, ricavata da un sol blocco di marmo, che si divide in due rampe parallele a partire da un pianerottolo, su cui vigilano due

leoni marmorei che simboleggiano la forza della ragione e delle armi (eseguiti da Paolo Persico e Tommaso Solari). La sua magnificenza, dovuta ai colori dei marmi pregiati adoperati per i pilastri, alle eleganti volte che si raccolgono intorno ad una cupola, agli archi e alle cornici, alle tre arcate alle quali si allaccia l'ordine della scala a guisa di pronao, ne fanno un esemplare unico. L'immensa volta aerea è aperta al centro da un oculo ovale, costruito non solo per ospitare un'invisibile cantoria, ma anche per inquadrare la parte centrale della cupola superiore. La lamia finta è costituita da una incannucciata incollata alle centine, sospesa tramite tiranti di legno alle capriate del tetto. In quest'opera ci sono fantasia, arte, tecnica e ardimento nella costruzione, e ben s'immaginano le difficoltà incontrate e magistralmente superate per la sua realizzazione. La scala è rivestita di marmo cipollino, mentre le fiancate della rampa centrale e le pareti del vano sono impiallacciate di marmi siciliani, di Vitulano, Bardiglio e Carrara.


Appartamenti Reali


Vanvitelli aveva progettato di distribuire nel Piano reale otto appartamenti: uno per il re, uno per la regina, due per le principesse reali, due per i principi secondogeniti ed uno ciascuno per il principe e la principessa ereditari. Durante la costruzione del Palazzo, la famiglia reale abitava nel palazzo baronale, oggi sede della Prefettura. All'incirca nel 1780 fu terminato l'appartamento dei secondogeniti, per cui i sovrani vi si trasferirono; nel 1783 fu terminato un altro appartamento ed il re, per accelerare i lavori,

ordinò che le pitture fossero simili a quelle esistenti nell'appartamento delle principesse: questa parte del palazzo prende il nome di Appartamento vecchio, per distinguerla da quella realizzata successivamente, definita Appartamento nuovo, che fu completato solo durante il regno di Francesco II. Infatti, le vicende della Reggia sono strettamente collegate con gli eventi che si verificarono in successione nel Regno delle Due Sicilie: la partenza per la Spagna di Carlo rallentò i lavori, non solo per l'impulso che il Re sapeva dare alla fabbrica, ma anche perché Tanucci, reggente di Ferdinando IV, tendeva a ridurre le spese. Fu così che, mentre in vent'anni si innalzarono 45000 metri quadrati di superficie con 1200 stanze, 56 scale, una cappella e un teatro, si costruì un parco di cento ettari e si portò l'acqua a Caserta con una conduttura di 40 chilometri attraverso sei monti e tre viadotti, ci vollero altri venti anni per approntare i due appartamenti, innalzare le fontane, la Castelluccia e creare il giardino di passaggio. Dall'inizio del XIX secolo fino al 1845, attraverso cinque regni, furono terminate solo tre sale dell'appartamento delle feste e sei dell'appartamento del re.



Anticamere


Sala degli alabardieri

Gli appartamenti reali cominciano dalla Sala degli Alabardieri, le cui pareti sono decorate da leggeri pannelli di stucco; la luminosità della sala fa risaltare il bruno della pietra, l'oro delle corone, dei festoni e dei gigli borbonici, e i toni caldi della tela nella volta centrale decorata da Domenico Mondo nel 1785, rappresentante Il Trionfo delle armi borboniche.


Sala delle guardie del corpo

La seconda anticamera, delle Guardie del Corpo, è molto più ricca di stucchi: gruppi di putti si staccano dalle volte reggendo bandiere, porte e finestre sono sovrastate da pannelli ad altorilievo raffiguranti episodi storici dell'antichità avvenuti nel reame. Di fronte alle finestre c'è un gruppo marmoreo raffigurante Alessandro Farnese incoronato dalla Vittoria.


Sala di Alessandro

L'ultima delle anticamere è dedicata ad Alessandro il Grande; sulla volta Nozze di Alessandro e Rossana, sulle pareti bassorilievi di stucco raffiguranti episodi della sua vita, fatti eseguire da Gioacchino Murat durante il suo regno, e due tele che ricordano il fondatore della dinastia: Carlo di Borbone alla Battaglia di Velletri e l'Abdicazione di Carlo a favore del figlio. La sala ha subito molte peripezie nella realizzazione rispetto al progetto originario, ma è degna del palazzo con i rivestimenti di granito, i bassorilievi, il grande dipinto sulla volta, il ritratto di Alessandro sul medaglione del camino. L'arredo fu salvato dopo la Restaurazione dal gusto di Ferdinando: infatti, le sedie, gli sgabelli e le poltrone provenienti dalle Tuileries, in puro stile impero, sono di legno intagliato e dorato e sono rivestiti di arazzi ricamati con il monogramma di Giuseppe Bonaparte, su cui fu cucito un dischetto con il monogramma di Ferdinando. La posizione della sala, al centro della facciata con vista sul vialone alberato per Napoli, la rende un luogo unico e privilegiato.


Appartamento nuovo


I lavori nella parte del palazzo che Vanvitelli aveva destinato al Re cominciarono solo nel 1806 con la direzione dell'architetto Giovanni Patturelli: da qui la definizione di 'Nuovo' per questo appartamento formato da tre sale che conducono nell'Appartamento del Re, sistemato solo dopo il 1816. 


Sala di Marte

La prima sala, o Sala di Marte, in stile impero, fu progettata da Antonio De Simone sotto la reggenza di Gioacchino Murat; le decorazioni sono di stile neoclassico ed esaltano le virtù militari: alle pareti tre bassorilievi dello scultore Valerio Villareale rappresentano la Forza, la Prudenza e la Fama, i bassorilievi soprapporta raccontano Episodi dell'Iliade di Villareale, D'Antonio e Masucci; un affresco di A. Raffaele Calliano nella volta, Morte di Ettore e Trionfo di Achille ed il pavimento di marmo verde antico e alabastro decorato con una greca che gira intorno ad un esagono con una stella nel mezzo, completano questa sala che serviva a trattenere 'i Titolati e Baroni del Regno, Ufficiali Maggiori ed Inviati Esteri'. In essa è conservata una bella coppa di alabastro orientale donata da Pio IX a Ferdinando II. Della sala sono conservati i disegni di De Simone al Museo di San Martino in Napoli, ed il plastico realizzato dalla famiglia Rosz nel Museo dell'Opera della Reggia. L'unico arredo consiste in numerosi sgabelli a 'faldistorio' ornati da spade e frecce, realizzati in epoca francese secondo il gusto militaresco d'oltralpe, che gli artigiani napoletani continueranno ad applicare anche dopo la Restaurazione borbonica, adattandolo al gusto napoletano con il bianco e oro dei mobili ferdinandei.


Sala di Astrea

La seconda sala, o Sala di Astrea, adorna anch'essa di rilievi e stucchi dorati di Valerio Villareale e Domenico Masucci, fu progettata insieme alla precedente. Sulla volta il dipinto rappresenta Astrea dea della Giustizia, di Giacomo Berger, ai lati figurano Le divinità dell'Olimpo, al centro La verità e l'Innocenza fuggono la Prepotenza, l'Ignoranza e l'Errore; sul camino è scolpito un grande bassorilievo di Villareale che rappresenta Minerva dea della giustizia e della fortezza fra la Legislazione e l'Innocenza, nel quale in origine Minerva era priva dell'elmo e l'Innocenza era nuda: durante la restaurazione fu aggiunto l'elmo e modellato un velo da Masucci per coprire la nudità. Le decorazioni della sala sono in finto marmo 'persichino', mentre il pavimento è realizzato a tessere e tarsie di marmi policromi. In origine, la sala era la terza anticamera per 'i gentiluomini di Camera, Ambasciatori, Segretari di Stato e altre persone privilegiate'. Della sala sono conservati i disegni di De Simone al Museo di San Martino in Napoli, ed il plastico realizzato dalla famiglia Rosz nel Museo dell'Opera della Reggia.
L'unico arredo consiste in numerosi sgabelli a 'faldistorio' ornati da spade e frecce, realizzati in epoca francese secondo il gusto militaresco d'oltralpe, che gli artigiani napoletani continueranno ad applicare anche dopo la Restaurazione borbonica, adattandolo al gusto napoletano con il bianco e oro dei mobili ferdinandei.


Sala del trono

La Sala del Trono è la più grande negli Appartamenti reali. Per circa mezzo secolo rimase senza decorazioni, trascurata sia dai reali francesi sia da Ferdinando IV quando tornò dopo la Restaurazione; fu Francesco I ad affidare all'architetto Pietro Bianchi un progetto, di cui ci rimane il modello ligneo, che prevedeva la costruzione di un salone monumentale in cui le statue dei grandi sovrani borbonici si allineavano lungo le pareti maggiori; ma le nicchie che dovevano contenere le statue avrebbero compromesso la stabilità dell'edificio, per cui i lavori iniziati nel 1827, interrotti e poi ripresi più volte anche per la morte del Re, furono completati solo nel 1845 dall'architetto Gaetano Genovese, che modificò i suoi disegni iniziali. Sulle pareti si susseguono 28 pilastri corinzi scanalati e binati,  i cui capitelli furono scolpiti dallo scultore Gennaro Aveta, autore anche delle sedici tabelle sovrapporta con simboli borbonici e le onorificenze del Regno. L'architrave è decorato con i ritratti dei 44 precedenti regnanti, da Ruggero il Normanno a Ferdinando II, tranne Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, opera di vari scultori: Antonio e Gennaro Calì, Angelo Solari, Francesco Citarelli, Gennaro De Crescenzo, Gaetano Della Rocca, Andrea Cariello, Giustino Leone, Francesco Liberti, Giuseppe Annibale e Giovanni Abate. Nella volta un affresco di Gennaro Maldarelli dipinto nel 1844 raffigura La posa della prima pietra del Palazzo, un cambiamento sostanzioso rispetto alle intenzioni di Genovese, che prevedevano ben tre figure rappresentanti il Tributo delle Provincie del Regno al Re, nonché decorazioni d'acanto e figure mitologiche. Sulle pareti doveva essere collocata una Fama ed era prevista una statua del Re vestito da generale romano; nella realizzazione definitiva la statua del re non fu realizzata e sulle pareti vennero collocate Due fame alate con trofei in rilievo, l'una eseguita dallo scultore Tito Angelini e l'altra dallo scultore Tommaso Arnaud. Tutti i migliori artisti che vivevano a Napoli nell'Ottocento concorsero, dunque, all'opera di decorazione di questa sala, che può essere considerata uno dei più perfetti esemplari dello stile del tempo; ma nel confronto con gli equilibri e l'armonia della composizione o del gusto dei particolari che presentano le sale di De Simone, qui si notano l'ostentata ricchezza di motivi mal combinati sulla volta, la disorganica decorazione del fregio e, soprattutto, il disinvolto accostamento degli elementi più diversi.


Appartamento Vecchio


Prima di accedere all'appartamento vero e proprio, vi sono quattro sale di conversazione dedicate alle stagioni, dipinte sulle volte con allegorie dall'impronta fortemente 'napoletana' suggerite, forse, dalla destinazione d'uso degli ambienti.

La Primavera  
L'Estate
 
L'Autunno
 
L'Inverno

Attraverso lo studio si entra nella parte più intima dell'appartamento; la stanza è di gusto severo, aristocratico, in essa i toni bassi delle lacche danno risalto ai finti cammei dipinti da Carlo Brunelli alle pareti, alle meravigliose tempere di Hackert, ai mobili laccati di Francoforte; più avanti la camera da letto dove morì Ferdinando II per una malattia infettiva, ragion per cui dopo la sua morte i mobili vennero bruciati.


Pinacoteca

La Pinacoteca casertana è in realtà una serie di ambienti in cui sono state raccolte varie opere: nature morte di pittori italiani e olandesi dell'Ottocento, quadri di battaglie e figurazioni di guerre. I ritratti della famiglia Borbone, sia d'Italia che di Francia, sono raccolti nella Quadreria, che comprende varie sale in successione, dove si possono ammirare i ritratti di Carlo e Maria Amalia, immagini ufficiali degli sposi, due grandi tele di Francesco Solimena, Filippo V e il ritratto a cavallo di Carlo III alla battaglia di Velletri, del 1744; l'albero genealogico dei Borbone; la Famiglia di Francesco I di Michele Cammarano, in cui il re è ritratto con la seconda moglie Isabella di Spagna.  I capostipiti Filippo V ed Elisabetta Farnese  sono ritratti in due dipinti attribuiti a Giovan Battista delle Piane, il Molinaretto. Un'intera sala è dedicata a Ferdinando IV e alla moglie Maria Carolina; un'altra è riservata al re Ferdinando II, soprannominato 'il re bomba' in seguito all'eccidio di Palermo del maggio 1849. Qui si trovano anche i ritratti di Maria Cristina di Savoia, la 'Santa', figlia di Vittorio Emanuele I e prima moglie del re, che morì dando alla luce Francesco II, di Maria Teresa d'Austria, che egli sposò in seconde nozze, di Maria Sofia di Baviera, la sposa dell'ultimo re di una dinastia che vide la fine dopo 126 anni di regno.


Sala ellittica del presepe

Nell'Appartamento Vecchio si trova una sala ellittica, dipinta in bianco e senza decorazioni, con in alto dei panchetti forse messi lì per i musici, dato che la sala era sicuramente destinata ai divertimenti della corte. Oggi essa ospita il Presepe borbonico, restaurato di recente, dopo che la maggior parte dei pastori era stata trafugata. La tradizione presepiale napoletana si afferma in periodo borbonico con Carlo, ma soprattutto con il collezionista Francesco I. L'usanza di allestire il presepe per il Natale si affermò nella Reggia di Caserta come attività collettiva della Corte: ad essa partecipavano non solo gli artisti e gli artigiani, ma tutte le dame di corte e le Principesse, abilissime nel confezionare gli abiti per i pastori, ricche dame o mercanti georgiani vestiti all'orientale, con sete multicolori e gioielli in filigrana o coralli. Alla realizzazione del presepe parteciparono artisti come Bottiglieri, Sanmartino, Mosca, Celebrano, Vassallo, Gori, i quali modellavano in terracotta le figure più importanti, mentre le altre avevano testa e membra di terracotta e l'anima di fil di ferro e stoppa. Le figure erano collocate su uno 'scoglio' di sughero, secondo regole rigide e nel rispetto delle scene canoniche, quali la Natività, l'Annuncio ai pastori e l'Osteria. Per realizzare il presepe ogni anno era eseguito un progetto, come descritto nelle tempere di Salvatore Fergola sulle pareti della sala; in esse è raffigurato l'ultimo presepe allestito dai sovrani, prima degli eventi infausti che portarono alla fine del regno borbonico, voluto da Ferdinando II che fece approntare la lunga 'Sala della Racchetta' facendone dipingere tutte le pareti 'ad imitazione di cielo'. L'attuale allestimento si ispira a quell'ultimo presepe ottocentesco, che ben rappresenta la Napoli cosmopolita della fine del Settecento.


Vestibolo e bagni

Nelle Stanze della Regina si avverte il cambiamento di stile avvenuto per l'intervento di Carlo Vanvitelli nella direzione dei lavori: incerto tra lo stile barocco e il classicismo che si andava affermando, egli li adotta entrambi. Basti pensare al rigore e al classicismo della Biblioteca Palatina, in contrapposizione al capolavoro d'arte rococò costituito dal Bagno della Regina. Qui si può notare l'importanza assunta dai luoghi da toletta, dalla cura e dalla civetteria con cui sono arredati: specchi veneziani, candele che si accendono ai lati delle specchiere, Venere, Diana e le Grazie dipinte da Fischetti su fondi bianchi, azzurri e rosa, putti modellati da Gennaro Fiore e, nella nicchia, la vasca marmorea scolpita da Salomone, alleggerita dal trompe l'oeil con il graticcio di pampini. Le stanze della Regina sono molto curate negli arredi; la Stanza da lavoro presenta una decorazione di grande effetto, con le pareti di raso giallo incorniciate da specchi provenienti dalla Real Fabbrica di Castellammare; la seconda saletta, detta degli Stucchi, ha pareti di specchi e stucchi a festoni bianchi e dorati. Per ammobiliarla furono inventate le sedie dette 'à la duchesse', intagliate da Gennaro Fiore.


Biblioteca Palatina

Le tre sale della Biblioteca Palatina fanno parte dell'appartamento della Regina. La Biblioteca fu voluta secondo la tradizione dalla regina Maria Carolina, donna di cultura e di gusto raffinato. Per la decorazione delle pareti fu chiamato a Corte un artista tedesco, Heinrich Friederich Füger. Füger rappresentava il nuovo, il moderno, la pittura classicista in aperta contraddizione con le forme barocche della tradizione napoletana, perciò egli scelse temi desunti dal repertorio classico per decorare le pareti della biblioteca: Il Parnaso con Apollo e le tre Grazie, L'Invidia e la ricchezza, La Scuola di Atene, La Protezione delle Arti

e il discacciamento dell'Ignoranza. I temi dell'iconografia sono divisi in quattro scene che ripercorrono la storia dell'Umanità che celebra una nuova 'Età dell'Oro' borbonica, tanto che alcuni, dato il legame di Maria Carolina con la Massoneria, hanno voluto leggervi chiari riferimenti all'interpretazione del progresso umano nel pensiero massonico. La decorazione dell'affresco a chiaroscuro della prima sala, eseguito su disegno di Carlo Vanvitelli, è 'alla pompeiana', ispirata ai reperti degli scavi realizzati a Pompei ed Ercolano in quegli anni. Di gusto neoclassico sono anche le alte librerie realizzate a boiserie da maestranze locali come la particolare libreria girevole di mogano e palissandro, posta al centro della stanza e realizzata per rendere comoda la lettura alla Regina. Nella sala di lettura, due dipinti a olio su tela, Carlo di Borbone a caccia delle folaghe su lago Patria di Vernet e Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici di S. Fergola. La Biblioteca fu fondata nel 1768 e contiene circa 14000 volumi ed opuscoli nelle tre sale. 


Cappella Palatina

Alla Cappella Palatina si accede dal Vestibolo superiore, senza entrare negli appartamenti Reali. Più che un luogo di preghiera, essa sembra un grande salone di ricevimento, data la scarsa presenza di decorazioni pittoriche e la profusione di marmi pregiati. E' palese l'ispirazione alla Cappella della reggia di Versailles, che doveva avere colpito il gusto del Re. Ci si trova davanti ad una sala a galleria con colonnato che s'innalza su di un alto stilobate. La galleria superiore, dove trovavano posto gli alti dignitari e le dame di corte, presenta una balaustra di marmo di Carrara e di Dragoni, sui pilastri delle fiancate ha sedici colonne binate di ordine corinzio in marmo di Mondragone. Sulla parete d'ingresso è la tribuna Reale con la parete di fondo decorata da semicolonne in giallo di Castronuovo e svecchiature di marmo di Mondragone; ad essa si accede tramite una scala a chiocciola. Nell'abside era previsto un altare in stucco, mai realizzato secondo il progetto vanvitelliano, che prevedeva la presenza di un'urna antica di marmo decorata con pietre agata e bronzi dorati.Nella curva absidale è posta una grande cona d'altare di Giuseppe Bonito raffigurante l'Immacolata Concezione, mentre ai due lati erano posti gli organi, che furono distrutti dal bombardamento del 24 settembre 1943, in cui si persero tutti i dipinti e gli arredi sacri.
La cappella Palatina fu inaugurata nel Natale del 1784, durante la Messa di mezzanotte celebrata alla presenza di Ferdinando IV e di tutta la corte.


Teatro di Corte

Il teatro di corte è l'unica sala del palazzo portata a termine da Vanvitelli, anche se i lavori richiesero molto di più del tempo previsto, perché l'architetto era impegnato contemporaneamente nella costruzione della Reggia, dell'acquedotto carolino e in altre opere a Milano e Benevento. Esso non era previsto nel progetto originario, per cui la sua costruzione fu iniziata nel 1756, tre anni dopo l'inizio dei lavori per l'edificazione della Reggia. Fu inaugurato solo nel 1769, in occasione del carnevale, alla presenza di Ferdinando e Maria Carolina. Il teatro è l'esatta riproduzione del San Carlo di Napoli, in proporzioni ridotte.Posto nel lato occidentale del palazzo, ha tre ingressi: quello riservato al Re ed alla corte immette direttamente nel Palco Reale, mentre quelli laterali erano riservati agli invitati e al pubblico e, attraverso due scale semicircolari, conducevano ai palchi. Il teatro offre un'immagine di grande eleganza ed equilibrio compositivo. La pianta è quella classica a ferro di cavallo, come nello scalone Reale, su di un alto stilobate a finto marmo si innalzano le colonne alabastrine di Gesualdo. Fra le colonne, 42 palchetti disposti su cinque ordini, tutti decorati da figure di putti e festoni di fiori, ma ognuno diverso dall'altro. Il Palco Reale occupa in altezza tre ordini di palchetti, è sormontato dalla corona sostenuta dalla Fama che suona la tromba e da un ricco drappeggio di cartapesta, riportato all'originario colore azzurro dei Borbone con gigli dorati dal recente restauro, dopo che in epoca Savoia era stato coperto da un rosso carminio. Nella volta a spicchi, sostenuta da pilastri in breccia rossa d'Atripalda e dodici semicolonne di alabastro, il dipinto centrale raffigura Apollo che calpesta il pitone, a rappresentare il re Ferdinando che calpesta il Vizio, eseguito da Crescenzo La Gamba, come gli affreschi negli spicchi della volta raffiguranti Le nove muse e quelli dei medaglioni con i Quattro elementi. La balaustra dorata del secondo ordine di palchi circonda l'intera sala. Il palcoscenico presenta la caratteristica di poter creare un effetto scenico naturale aprendo sul fondo della scena un portone che dà direttamente sul palco. L'apertura fu creata nel 1770, per la rappresentazione della 'Didone' del Metastasio con la Compagnia del San Carlo, per creare l'effetto realistico dell'incendio nell'ultima scena. La realizzazione del portale smontabile si deve a Collecini. Resta, a testimonianza del passato splendore, il grande fondale presente nel teatro, con la figura dell'Ercole Farnese all'interno di uno splendido giardino.


La necropoli della Reggia

L'area sulla quale fu edificata la Reggia fa parte di un territorio naturale di importanza archeologica dove Etruschi, Sanniti e Romani hanno lasciato testimonianze della loro presenza. Nel corso dei lavori di scavo effettuati nel 1990, sono state riportate alla luce, nell'area sottostante il secondo cortile, sette tombe sannite a cassa di tufo, databili alla seconda metà del quarto secolo avanti Cristo. La presenza in alcune tombe di cuspidi di lancia, quasi certamente conferma l'ipotesi di appartenenza ad un defunto di sesso maschile, mentre, in un caso, la presenza di un anellino a fascetta di due fibule di bronzo lascia supporre l'appartenenza ad una donna. Il corredo funebre, disposto ai piedi del defunto, era composto quasi sempre da una Olla destinata a contenere le offerte per il defunto, da uno stamnos ed un servizio da tavola di piccole dimensioni, a vernice nera. Dai pochi resti ossei rinvenuti è stato possibile ricostruire parzialmente lo scheletro e tentare una ricostruzione del volto del defunto, con il metodo della sovrapposizione dei piani anatomici.


Cantieristica

L'edificazione della Reggia prevedeva l'impiego di una numerosa schiera di uomini e di una ingente quantità di materiali edilizi: calce, arena, pozzolana, ferro, mattoni, legname, pietra dolce, tufo e travertino. Tra gli artigiani molti erano stranieri, come il tedesco Rosz, ebanista e carpentiere, che tra l'altro realizzò le capriate lignee del tetto. Tra i materiali edili, le crete cotte costituivano quello più diffuso: esse erano usate per i pavimenti, la copertura del tetto e per i paramenti esterni delle facciate, formando un gradevole contrasto con il travertino che orna le finestre. La costruzione del parco, del giardino inglese, dell'acquedotto carolino comportò notevoli spese, tutte documentate dalla'amministrazione reale.


Modelli di architettura

Tra il 1755 ed il 1759 Vanvitelli si avvalse dell'opera dell'ebanista Antonio Rosz, proveniente dalla Westfalia, per la realizzazione di modelli che riproducessero fedelmente l'immagine della Reggia da sottoporre al parere di Carlo III e di Maria Amalia di Sassonia. L'architetto conosceva bene l'effetto che potevano produrre i modelli sui sovrani. Infatti, essi piacquero tanto che vennero mostrati a tutti gli ospiti di corte che restavano sbalorditi da un progetto così ardito. Accanto ai modelli della Reggia, visibili nelle sale del museo, sono esposte anche altre opere di epoca e provenienza diverse, come il modello della Palazzina Cinese, realizzato ancora da Rosz nel 1758, la scala a chiocciola o le Sale di Marte e di Astrea.


Vita quotidiana a corte

La raccolta di oggetti di uso quotidiano testimonia quei momenti della giornata in cui i principi e sovrani vivevano la loro 'privacy', dimentichi delle preoccupazioni politiche e amministrative del regno. Molto numerose sono le porcellane da tavola di produzione napoletana. I piccoli oggetti, che servivano a rendere più intimi gli appartamenti reali, risalgono per la maggior parte al secolo XIX. Testimoniano il gusto di quegli anni e la moda per il collezionismo, che appunto in quel secolo andava diffondendosi. Non sempre ci si trova di fronte ad oggetti di certo valore artistico, tuttavia essi rivelano il carattere, i gusti e la vita privata dei reali. Soprammobili, portaorologi, puntaspilli, centrotavola, rievocano quei momenti di raccoglimento familiare che anche i sovrani vivevano all'interno delle loro sontuose residenze. Tra questi oggetti molti erano quelli di cui si serviva il re. Di notevole interesse artistico sono le due culle appartenute alla famiglia reale dei Savoia: differenti per forma e per stile, sono pari per la preziosità dei materiali impiegati.


Passatempi dei principi

I giovani principi e principesse Borbone dedicavano, come tutti i ragazzi, alcune ore del giorno al gioco. Di solito, i principi andavano a caccia mentre le principesse si esercitavano a suonare o si divertivano con rappresentazioni teatrali, che si tenevano nel piccolo teatrino, detto appunto 'delle principesse'. I giovani principi, per esercitarsi nell'arte della guerra, si servivano di architetture costruite per realizzare i loro giochi. L'architetto Collecini edificò nel Parco della Reggia la Castelluccia, un vero e proprio fortino dotato di ponte levatoio e circondato da un fossato. Sempre per diletto, venne realizzata la Peschiera Grande in cui si svolgevano battaglie navali. Leopoldo di Borbone fece costruire nel 1823, nel parco della villa Favorita a Resina, un vero e proprio 'Parco dei divertimenti' aperto al pubblico nei mesi estivi e nei giorni di festa. Purtroppo, le giostre lasciate all'incuria furono presto distrutte e di esse rimangono solo i modelli costruiti dagli artigiani per la loro lavorazione; essi sono oggi custoditi nel Museo dell'Opera.


Il parco


Il Parco è articolato in tre aree: la prima, sita dietro al palazzo, è destinata al parterre, diventato un semplice prato verde inciso dai bianchi viali rettilinei, e comprende a sinistra il ' bosco vecchio', così chiamato perché preesistente alla costruzione della Reggia, a destra le praterie circondate da spalliere erboree. La seconda sale fino ai piedi della cascata dove si alza il colle di Briano coperto di boscaglie. Elemento essenziale del parco sono i giochi d'acqua che scaturiscono dalle fontane realizzate sotto la direzione di Carlo Vanvitelli. La terza area, che non faceva parte del progetto iniziale, è costituita dal Giardino Inglese. Nelle intenzioni di Vanvitelli, il Parco della Reggia di Caserta doveva avere la stessa imponenza del Palazzo. L'architetto aveva studiato i progetti dei colleghi olandesi, tedeschi e francesi, e ben conosceva i parchi e i giardini di Versailles, Fontenbleau e delle Tuileries: progettò dunque un viale, che dalla reggia alla cascata misurava tre chilometri, fiancheggiato da lecci, con vaste praterie circondate da boschetti, parterre e piante di varie essenze che disegnavano aiuole squadrate e specchi d'acqua. Ragioni economiche ridimensionarono l'idea di partenza, per cui il giardino all'italiana divenne un parco diviso in due parti.


Il giardino inglese


Secondo la tradizione, il Giardino Inglese nacque per volontà della regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV, che sicuramente lo finanziò con il suo patrimonio personale. Sembra che in realtà fosse Lord Hamilton,  'Inviato straordinario di Sua Maestà Britannica' alla corte napoletana, a suggerire alla regina la realizzazione del giardino, facendo leva sulla rivalità con la sorella Maria Antonietta, regina di Francia, che ne aveva voluto uno al Petit Trianon di Versailles. La Regina chiamò dall'Inghilterra il botanico Andrew Graefer, uno dei più famosi giardinieri del Regno. Il luogo scelto per impiantare il giardino era sito in prossimità della grande cascata, dove il terreno digradante verso mezzogiorno si prestava ai disegni più capricciosi e alla coltivazione delle specie più esotiche, che sarebbero state aggiunte nel tempo. Il giardino offre una serie di luoghi suggestivi, densi di richiami ai modelli del tempo: il Criptoportico, con le statue provenienti dagli scavi di Pompei e dalla collezione Farnese, il piccolo laghetto del Bagno di Venere, con le finte rovine pompeiane, il 'casino all'inglese' che fu l'abitazione di Graefer e, infine, l'Aperia, un'area utilizzata come serbatoio d'acqua da Vanvitelli, poi usata per l'allevamento delle api ed infine trasformata in serra nel 1826. 


Il Casino e le serre

Il Casino destinato a Graefer come abitazione è un fabbricato composto di un pianterreno e un piano superiore, che si presenta prospetticamente come un grande basamento su cui poggia un ordine dorico di pilastri, e cornicione corrispondente, abbellito da medaglioni. Il pianterreno è composto da undici stanze abitabili, alle quali si accede per mezzo di un vano arcato esposto a Mezzogiorno. Il piano superiore ha sei stanze sul davanti, e altrettante sul retro con esposizione a settentrione. Vi sono, inoltre, un sottotetto ed un locale destinato alla conservazione dei semi e degli attrezzi. Graefer effettuava continue escursioni in Campania, a Capri, sul litorale Salentino e a Palermo per rifornirsi di piante per il giardino: quelle che non erano messe a dimora erano custodite nelle quattro serre, site vicino al casino. Di queste, solo una aveva il soffitto di vetro ed era riscaldata con aria caldo-umida, mentre le altre tre erano preesistenti, tutte in muratura. Presso le serre è l'Acquario, un'ampia vasca circolare divisa per metà in quadratelli a fabbrica, ognuno destinato a contenere una pianta acquatica. Nelle vicinanze, un Rosaio con numerose varietà di rose, e la Scuola Botanica. Mantenendo i contatti con i botanici inglesi, Graefer riuscì a procurarsi esemplari provenienti dall'Australia, dalla Cina e dal Giappone: si spiega così la presenza della Camelia Japonica e d'altre rarità nel giardino di Caserta. Botanico più che giardiniere, Graefer creava ibridi, raccoglieva piante esotiche e sementi che avrebbero reso il suo giardino un Orto Botanico. Nel 1826 fu trasformata in serra con emiciclo neoclassico l'area dell'Aperia, che il recente restauro ha suggerito di utilizzare come 'teatro di verzura'.


Il laghetto e le finte rovine

Il laghetto delle ninfee si allarga al centro fino a contenere due isole, ricche di vegetazione, rappresentazione romantica del gusto ottocentesco: la più grande ha un tempietto in rovina, con colonne di granito e di dolomite, tolte dagli scavi di Pompei; la più piccola ha una sorta di padiglione destinato al ricovero d'anatre, cigni ed altri uccelli acquatici che vivono nel lago.


Il Criptoportico

Luogo ricco di suggestioni romantiche, il criptoportico è un finto ninfeo circolare con le pareti di tufo in cui si aprono dei nicchioni decorati di stucco e opus reticolatum romano, contenenti undici statue provenienti da Pompei e dalla collezione Farnese, delle quali alcune si trovavano sul posto anteriormente al 1792. Il pavimento è di marmi colorati a tassello, la volta in due punti è scoperta mentre il muro presenta finti crepacci e rotture. Dalle radici di un grande tasso secolare, piantato sul posto da Graefer, sgorga l'acqua che alimenta un laghetto, il Bagno di Venere, dove la dea emergente dalle acque è ritratta in una statua 'all'antica', scolpita da Tommaso Solari nel 1762 e posta su uno degli scogli che dividono l'acqua in mille rivoli, fino a formare presso un ponte una piccola cascata, poi un fiume e un salto d'acqua da cui ha origine un lago. In questa zona la vegetazione è costituita di piante che richiedono fresco e penombra, come le felci.


L'aperia

Nella parte settentrionale del giardino è situata una delle sue strutture più spettacolari, nata dall'adattamento dell'ampia vasca di una cisterna fuori uso, costruita da Luigi Vanvitelli parecchi anni prima dell'arrivo di Graefer. Il serbatoio, sostenuto da solidissimi piloni, era situato sulla sommità di una collinetta boscosa e doveva servire nel caso di un guasto all'acquedotto carolino; esso non fu mai adoperato, ed in epoca francese divenne luogo di allevamento delle api per la produzione di miele (di qui il nome 'Aperia'). Nel 1826, durante il regno di Francesco II, fu adibito 'ad uso di Flora', vale a dire di serra, per la coltivazione di piante arboree. Vi fu perciò collocata la statua di Flora o Cerere, opera realizzata da Tommaso Solari nel 1761 e per la quale l'artista fu pagato da Luigi Vanvitelli. In questa parte il giardino è a parterre con fiori; in passato era diviso in cinque grandi appezzamenti di terra, chiamati Scolle, per la coltivazione di alberi di piccolo e gran fusto.


Le piante

Il Giardino Inglese della Reggia di Caserta è assurto alle dimensioni e alla qualità di un vero Orto Botanico, ricco com'è di piante e fiori che rappresentavano una vera rarità all'epoca in cui furono impiantate. Qui le specie più esotiche hanno trovato una collocazione ed un clima ideali, che hanno favorito una crescita rigogliosa già nel giro di pochi anni, ma che oggi si offrono in tutta la loro bellezza di esseri viventi integrati perfettamente nel luogo di crescita. Eucalipti, pini, tassi, lauri, cipressi e gingko biloba, magnolie, platani, querce e acacie sono tra gli alberi che fanno da sfondo, che delimitano i viali e arricchiscono gli isolotti. Felci, ninfee e cespugli crescono rigogliosi nelle acque dei laghetti e delle fontane. Camelie, strelitzie, peonie, mortelle, convolvoli, ginestre e rose trovano posto nelle Scolle di terra coltivate. Infine, nel giardino vi sono bellissimi esemplari di palme coltivate su di una collinetta esposta a mezzogiorno, e piante grasse e cactacee, che crescono e vegetano presso un peristilio di foggia antica, mezzo caduto ad arte, con colonne e ruderi dell'antichità trasportati da Ercolano.






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