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IL RAPPORTO JOYCE-SVEVO
Nella Trieste dei primi anni del novecento si poteva incontrare un singolare insegnante di Inglese presso la Berlitz School : James Joyce.
Joyce nasce a Dublino nel 1882 e, pur essendo irlandese, compone le sue opere in lingua inglese. Apparteneva ad una famiglia della buona società di Dublino, le cui condizioni finanziarie andarono però declinando al punto che essa si ridusse all'indigenza. Studiò presso due istituti gesuiti, il Clongowes Wood College ed il Belvedere College; poi all'università di Dublino dove si laureò in lingue moderne. Alla vocazione sacerdotale cui l'aveva indirizzato la prima educazione egli ben presto rinunciò per imbarcarsi in una faida personale contro lo squallore, la disonestà e l'insensibilità artistica dell'Irlanda a lui nota e soprattutto di Dublino, 'il centro della paralisi'. Nel 1902 partì per Parigi, ma ne fu richiamato dalla malattia e dalla morte della madre; per qualche tempo insegnò in una scuola di Dublino, poi si trasferì a Trieste (con Nora Barnacle, che in seguito doveva sposare), dove fu insegnante d'inglese, indi a Zurigo. Nel 1922 si stabilì a Parigi e qui rimase fino al dicembre 1940, quando l'avanzata vittoriosa dei nazisti lo costrinse a rifugiarsi a Zurigo. L'esilio che egli si autoimpose fu un fatto più estetico che politico: volendo ricreare la vita di Dublino, suo unico soggetto, città amata ed odiata. In fuga dalle 'reti' della famiglia, della patria, della religione, ne era tuttavia ossessionato.
Nella sua opera si possono identificare quattro momenti:
1) Quello dei racconti, immagini di vita e di umanità dublinesi incise con precisione e registrate con minuzia, che possiedono però anche, sia singolarmente sia l'una in rapporto all'altra, una profonda dimensione simbolica: Dublinesi (Dubliners, 1915), noti in Italia anche con il titolo Gente di Dublino;
2) Quello del 'Bindulngsroman' quasi autobiografico, dove si compie l'equazione tra diventare adulto a Dublino per prendere coscienza del proprio destino di artista e maturare la consapevolezza dell'inevitabilità dell'esilio: Ritratto dell'artista giovane (A portrait of the artist as a young man, 1916), conosciuto in Italia ed in Francia con il titolo di Dedalus;
3) Quello della ricostruzione a distanza della vita e dell'umanità di Dublino in un complesso romanzo realistico-simbolico, dove la struttura narrativa, la scelta dei personaggi e le variazioni stilistiche del più alto vir tuosismo dilatano la storia dublinese fino a farne un microcosmo della vita umana e dei suoi dilemmi: Ulisse (Ulysses, 1922);
4) Quello del grande romanzo simbolico che, pur radicato ancora nella vita e nell'umanità di Dublino, si amplifica, mediante i giochi di parole polivalenti e l'accavallarsi caleidoscopico delle immagini, in un mito elaboratissimo dell'intera storia umana: opera che si espande e si contrae grazie a multiformi espedienti verbali, dove la linea narrativa si perde in prosa poetica dalle infinite risonanze evocative: La veglia di Finnegan (Finnegan's wake, 1939).
James Joyce muore a Zurigo nel 1941.
I Dublinesi hanno tra loro, per finalità e per tecnica, alcuni tratti in comune: sono in un certo senso racconti realistici e si segnalano per una singolarissima uniformità di tono e di stesura, dove lo stile è un medium neutro che, senza tradire, di per sé, per emozione o concitazione, trasmette ogni vicenda con quieta precisione, evocandone la giusta atmosfera e le giuste risonanze. Il realismo non è qui osservazione casuale del fotografo di passaggio ne accumulo di particolari slegati: tutti i racconti hanno una struttura meditata e coerente, tutti hanno una densità, una pienezza di evocazione che il tono uniforme della narrazione rende, mascherandole, più efficaci. La tranquillità distaccata di Eveline, la severa nettezza, in Dopo la corsa, dei particolari disposti in ordine accurato, gli interni attentamente bilanciati di Una piccola nube, il climax lancinante di Rivalsa, l'efficacia sommessa di Polvere (per indicare soltanto alcune delle caratteristiche più evidenti), sono l'opera di un artista nel quale il dono dell'osservazione, per quanto formidabile, non si permette mai di eclissare la perizia del letterato, la capacità di costruire, pianificare, organizzare. I due racconti più incisivi sono Il giorno dell'edera nell'ufficio elettorale e, l'ultimo, I morti: il primo possiede in larga misura tutte le qualità da noi segnalate ed è un brano insuperato per compiutezza di realismo obbediente ad un disegno più vasto; nel secondo però, I morti, la scrittura è assai più apertamente partecipe che in tutti gli altri brani della raccolta: qui Joyce non si limita a legare in organismo unitario una serie di eventi, bensì ha un messaggio specifico da trasmettere, un tema prestabilito che condiziona la scelta e l'assetto degli eventi. Il ritrarsi di un uomo entro il cerchio del proprio egoismo, il subentrare poi di una serie di fattori esterni che tentano a poco a poco di abbattere il muro del cerchio, ed infine il crollo del muro sotto l'assalto sferrato simultaneamente dall'esterno, sotto forma di un avvenimento che tocca l'uomo, e dall'interno, per il delinearsi in lui di una nuova capacità di comprensione: solo quando si individua questo tema dinamico, diventa intelligibile l'organizzazione del racconto. In superficie è la vicenda di Gabriel che, di ritorno da una bella festa in casa delle zie, è preso dal desiderio della moglie ma resta frustrato quando da lei apprende che una delle canzoni cantate da un ospite alla festa le ha ricordato un giovane che tanti anni prima l'aveva amata ed era morto di polmonite per essere rimasto sotto la sua finestra nella pioggia e nel freddo: sua moglie pensa dunque a quel passato da cui Gabriel è escluso, nel momento in cui egli vorrebbe che si desse a lui. Alla fine si esaurisce in Gabriel il desiderio e subentra una disposizione quasi impersonale alla comprensione, cui segue il sonno. I morti non fa parte della stesura originale dei Dublinesi, ma fu aggiunto in seguito, in un periodo in cui Joyce cominciava a prestare attenzione crescente al momento estetico: ed il racconto è di fatto una dichiarazione simbolica della sua adesione a questo atteggiamento. Gabriel passa dal punto di vista egocentrico a quello impersonale, così come l'artista passa dal metodo lirico personale all'approccio drammatico impersonale (secondo la spiegazione data da Joyce in Ritratto dell' artista giovane). Nel ritratto lo scrittore costruisce il racconto della vita di un artista potenziale dall'infanzia fino al momento in cui il protagonista comprende che l'arte implica l'esilio, in modo tale da mettere costantemente in evidenza il rapporto tra la visione obiettiva, integrale, microcosmica dell'artista e la sua inevitabile alienazione. All'inizio del romanzo Stephen Dedalus, il protagonista, ci appare saldamente ancorato alla famiglia ed alle istituzioni della terra natale, alle cui leggi egli si sottomette per tutto il periodo della crescita. Ma allorché perviene alla scoperta che il proprio destino è quello di vivere al di fuori di tali leggi (ed è una scoperta che ispira a Joyce pagine magistrali) egli deve apprendere a svincolarsi da esse, a coltivare la terribile neutralità dell'artista. Come il Dedalo del mito greco che, dopo aver costruito il labirinto per il re Minosse, deve fabbricarsi un paio d'ali per fuggire e mettere il mare tra sé ed il tiranno, così anche Stephen Dedalus deve trovare il modo di evadere dalla vita dublinese e dalle sue imposizioni. Santo Stefano era stato il primo martire cristiano, Dedalo il primo mitico artista dell'umanità. Attribuendo al protagonista il nome di Stephen Dedalus lo scrittore metteva quindi in rilievo la propria concezione dell'artista come proscritto dal consorzio umano.
Il capolavoro del Joyce maturo è Ulisse, storia di una giornata (il 16 giugno 1904) della vita di un gruppetto di figure dublinesi, storia che riesce a superare, grazie alla tecnica del 'monologo interiore' e del 'flusso di coscienza', i limiti di spazio e tempo ed a svelare l'intera storia dei due personaggi principali. Questi sono Leopold Bloom, ebreo irlandese, uomo d'affari tutt'altro che fortunato, tenero di cuore, sensuale, di media cultura, pieno di curiosità umana ma un po' volgare, con le visioni utopiche del pubblicitario; e Stephen Dedalus, il velleitario artista alienato, impastoiato dai sogni verbali e perseguitato da sensi di colpa per la propria condotta con la madre morta. Anche Bloom è alienato, perché come ebreo a Dublino non è mai pienamente accettato, nonostante l'indole espansiva e premurosa, dai concittadini, e nel corso delle sue attività di lavoro in città va incontro a frequenti ripulse pur non offrendo altro che buona volontà e amicizia. Stephen, con le sue fanatiche coazioni estetiche, è al polo opposto del volgare, compassionevole Bloom. Alla fine della giornata i due s'incontrano, Bloom salva Stephen, che ha bevuto assieme ad un gruppo di studenti di medicina, da una squallida rissa d'ubriachi in un bordello e lo porta a casa propria per aver cura di lui; ma Stephen non vuol restare e se ne va nella notte, lasciando Bloom che raggiunge a letto l'infedele moglie Molly. L'opera si conclude con il lunghissimo monologo di Molly Bloom che riflette sulle proprie varie esperienze di donna, affondando il romanzo in un humus di terrena sessualità. Tra le più straordinarie qualità dell' Ulisse vi è il connubio tra il realismo meticoloso, che trasmette con eccezionale vivezza le forme, i colori, gli odori, persino le sensazioni tattili di Dublino in quel giorno di giugno, ed i significati simbolici che operano a molti livelli diversi. Il titolo stesso allude all'analogia con l'Odissea: Bloom che vaga per Dublino è anche Ulisse l'errabondo; il triviale e l'eroico si legano ed anzi si identificano, così che il malconcio piazzista pubblicitario del sec. XX ed il favoloso viaggiatore del mondo antico si possono intendere come aspetti diversi di un antico destino umano. Ogni episodio dell'Ulisse rimanda ad un libro dell'Odissea o attraverso gli artifici puramente verbali, o per i parallelismi di situazione, o per le immagini ricorrenti, o spesso un po' per tutti e tre i motivi; ma la dimensione omerica non funziona coerentemente né ha alcun effettivo significato strutturale, salvo all'inizio, quando l'isolamento del giovane Stephen e la sua ricerca di un padre 'transustanziale' (poiché il padre di carne egli l'ha ripudiato) rimanda alla partenza del giovane Telemaco alla ricerca del padre Ulisse, ed alla fine, quando il ritorno di Bloom da Molly viene ricollegato, mediante tutta una serie di rimandi obliqui, col ritorno di Ulisse da Penelope. Ulisse tratta di un ebreo a Dublino, di un giovane esteta sicuro di sé sempre a Dublino, entrambi immersi in un ambiente che è Dublino; ma tratta anche di problemi come la solitudine e la comunità, l'identità, la colpa, l'alienazione, la frustrazione, il pregiudizio, la nostalgia, il posto che ha il sesso nella realtà e nella fantasia dell'uomo, e di molte altre cose: suo vero tema andrebbe dunque definito come l'Uomo nel Mondo. Dotato di significati molteplici il romanzo ricompensa generosamente le frequenti riletture. In La veglia di Finnegan, storia del sogno cosmico di un irlandese simbolico, Joyce costruisce a forza d'enormi giochi verbali evocativi un significato in espansione continua, attinge do da ogni fonte concepibile: dalla storia, dalla mitologia, dalla propria esperienza personale. Poiché il libro (su uno almeno dei livelli) è tutto un sogno, l'autore inventa un proprio linguaggio onirico in cui le parole vengono combinate, distorte, inventate per incastro di frammenti verbali, dotate di più significati simultanei, tratte spesso contemporaneamente da varie lingue diverse, fuse insomma in tutte le combinazioni possibili per ottenere in una sola volta grappoli di significati. In effetti, ogni parola ed ogni espressione trasmettono tante risonanze allusive da rendere necessario un volume intero per annotare in modo esauriente poche pagine. C'è voluto il lavoro collettivo di numerosi lettori appassionati per chiarire le intricate interazioni dei bisticci verbali polivalenti, singoli o a grappolo, nei quali si proiettano le idee; ed ogni rilettura rivela significati nuovi. Ancor più che Ulisse, La veglia di Finnegan punta a comprendere tutta la storia umana. Il titolo è ripreso da una ballata irlandese-americana in cui il protagonista, il manovale Tom Finnegan, caduto da una scala perché ubriaco ed apparentemente morto, resuscita quando, durante la 'veglia' (la notte trascorsa accanto alla salma) qualcuno lo spruzza di Whisky. Sul tema di morte e resurrezione, dei cicli ricorrenti nell'arco della storia s'impernia tutto il romanzo, che trae uno dei principi organizzatori dalla teoria dei corsi e ricorsi storici proposta da G.B. Vico (1725). L'opera si apre con la caduta di Finnegan, e presenta poi il suo successore Hunphrey Chimpden Earwicker, che è Ognuno ed il cui sogno costituisce il romanzo. Egli ha dei sensi di colpa per un atto osceno che ha compiuto (forse) nel Phoenix Park di Dublino; sua moglie Anna Livia Plurabelle o ALP (che è anche Eva, Isotta, l'Irlanda, il fiume Liffey) ha come lui molti ruoli mutevoli; i due figli Shem e Shaun (o Jerry e Kevin), che rappresentano l'estroverso, l'artista e l'uomo d'azione, il creatore ed il divulgatore, simbolizzano con metamorfosi d'ogni genere la dicotomia di fondo della natura umana. Nei quattro libri in cui (sullo schema vichiano) è divisa La veglia di Finnegan si snodano le vicende, comiche e grottesche, tristi e tenere, disperate ed appassionate e tremendamente banali (spessissimo più cose ad un tempo), con tutti gli spostamenti di significato propri del sogno, così che i personaggi si trasformano gli uni negli altri o in oggetti inanimati, e la scena è in mutamento continuo. Il sognatore, di cui le iniziali HCE denotano l'universalità ('Here Comes Everian', 'Arriva Ognuno'), è al tempo stesso una persona ben precisa, gestore di un pub di Chapelizod, un sobborgo di Dublino sul fiume Liffey, presso Phoenix Park. La sua misteriosa trasgressione è in un certo senso il Peccato Originale: Earwicker è un po' Adamo ed un po' un gigante primordiale, il monte Howth, il Grande Genitore (altra lettura di HCE è 'Haveth Childrens Everywhere', 'Abbiate figli ovunque'), l'Uomo della storia. Altri personaggi compaiono e scompaiono, sempre in mutamento, da un capo all'altro del libro, come i Dodici Clienti (che sono anche dodici giurati e l'opinione pubblica) e i Quattro Vecchi (che sono anche giudici, i quattro evangelisti, i quattro elementi); e tutti contribuiscono ad intrecciare l'ordito del significato plurivalente, che resta la dimensione caratteristica dell'opera. Il romanzo è un'opera stupefacente e, a suo modo, anche irresistibilmente comica; tuttavia si sente che esso rappresenta l'inizio di un processo involutivo di Joyce e ci si chiede se gli anni (perchè di anni si tratta) richiesti da una piena chiarificazione del testo valgano davvero lo sforzo. Sembra che l'obiettivo di Joyce fosse quello di giungere a scrivere un'opera che fosse un colossale, definitivo 'bisticcio' dagli innumerevoli riverberi semantici, un'unica parola carica di tutti i significati possibili che dicesse, con assoluta simultaneità e da ogni immaginabile punto di vista, tutto quello che si può dire sull'uomo.
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