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Il mito di Prometeo
Il titano Prometeo appare per la prima volta nella Teogonia e nelle Opere e i giorni di Esiodo, nel VII sec a.C. Prometeo è il previdente, l'astuto che inganna Zeus, padre degli dei, offrendogli le ossa di un bue sacrificato avvolte nel grasso, in modo da farle sembrare la parte migliore, e conservando così la carne per gli uomini. Zeus, una volta svelato l'inganno, priva gli uomini del fuoco. Aiutando l'umanità per la seconda volta, Prometeo riporta il fuoco al genere umano, rubandolo. Zeus, per vendicarsi, invia agli uomini Pandora, colei che aprirà poi il vaso contenente tutti i mali del mondo.
Anche Eschilo parla del titano in Il Prometeo incatenato. Prometeo non è solo il furbo, ma il titano in rivolta che si ribella contro Zeus, quando quest'ultimo, giudicando mal riuscita la razza umana, vuole ricominciare e sostituirla con un'altra. Per contrastare il piano di sterminio, Prometeo ruba il fuoco agli dei e, con l'occasione, consegna agli uomini le arti e le scienze. Per punirlo, Zeus lo fa incatenare in una montagna sul Caucaso con catene d'acciaio, e ogni giorno un'aquila ne divora il fegato che durante la notte si è ricostruisce.
L'uomo greco
Prometeo è quindi colui che, in nome del progresso, della civiltà e del benessere degli uomini, compie il peccato di hybris, cioè il peccato di tracotanza, contro il volere divino, e per questo viene punito. Sia Esiodo che Eschilo, con questo mito, vogliono infatti mettere gli uomini in guardia contro il peccato della dismisura. Eschilo scrive: <<La mancanza di misura, maturando, produce la spiga del traviamento, e il raccolto che se ne trae è di fatto solo lacrime>> 1.
Gran parte della filosofia greca si basa su questo monito. L'uomo saggio è colui che non supera il limite. La formula posta all'entrata del tempio dell'oracolo di Delfi " Conosci te stesso", ripresa da Socrate, invita infatti l'uomo a prendere conoscenza della propria finitudine, del fatto cioè di essere mortali. La sola strada per l'uomo di essere felice è quindi quella della conoscenza dei propri limiti.
Note:
1. Come messo in luce dall' intellettuale A. Finkelcraut nella sua opera Noi, i moderni, To, Lindau, 2006, p 247
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