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ESAME DI STATO
In relazione ai programmi svolti durante l'anno il
candidato ha approfondito il seguente argomento:
LA CITTÀ FRA REALE E IDEALE
(NELLA CLASSICITÀ E NELLA MODERNITÀ)
Materie
coinvolte GRECO,
INGLESE, ITALIANO e LATINO
IMMAGINI
DI CITTÀ REALI
La Roma Imperiale e il degrado morale
"Crotone"
dal "Satyricon" di Petronio
Un'immaginaria città industriale nell'Inghilterra del Nord: "Coketown"
da "Hard Times" di Dickens
IMMAGINI
DI CITTÀ IDEALI
Una città ideale sospesa tra sogno e
utopia
"Gli
uccelli" di Aristofane
La città come libro
"Le
città invisibili" di Calvino
- La città come libro Tamara
- La città ideale Bauci
-
La città modellata su Venezia Smeraldina
- La città e la spazzatura Leonia, Moriana e Bersabea
-
La città nascosta Berenice, Raissa e Olinda
LA
"TOTALE DISARMONIA CON LA REALTÀ" NELLE IMMAGINI
DELLA
POESIA DI MONTALE
Una
totale disarmonia con la realtà
"Non
chiederci la parola" da "Ossi di seppia" di Montale
La distruzione della "Cittadella delle
lettere"
"L'alluvione
ha sommerso il pack dei mobili" da "Satura" di Montale
La società consumistica descritta
dall'ultimo Montale
"Il
trionfo della spazzatura" da "Diario del '71 e del '72" di Montale
Tutta la letteratura è costruzione di mondi immaginari, alternativi a questo, detto reale, nel quale viviamo.
Anche quando gli
scrittori credono di fare una letteratura che copia il vero, la realtà da loro
costruita è diversa da quella esistente per almeno un aspetto:
è una creazione della loro mente, in cui eventi e storie sono governabili e
orientabili, e non dati di fatto che ci stanno di fronte e ai quali dobbiamo
adattarci.
A volte, però, la letteratura si pone in modo consapevole a costruire mondi di fantasia, talora migliori e più felici di questo (utopie positive), talora peggiori (utopie negative).
Negativi
o positivi, i mondi fantastici e alternativi costruiti dalla letteratura
contengono verità, speranze e messaggi indirizzati agli abitanti di questo
mondo:
ci dicono come dovrebbe essere meglio, o come potrebbe essere peggio, se non si
corre in fretta ai ripari.
Le utopie della letteratura parlano il linguaggio della tenerezza o della
rabbia per questo mondo, nel momento stesso in cui proclamano di volerne
fuggire.
Insomma, quanto più questi mondi appaiono fantasiosi e paradossali, inverosimili
e impossibili, leggeri e distaccati, tanto più denunciano le radici che li
legano a questa terra.
Vorrei incominciare il mio approfondimento dall'opera di Italo Calvino intitolata "Le città invisibili". Composto negli anni del soggiorno parigino e pubblicato nel 1972, Le città invisibili risente delle influenze del clima culturale francese. E' anzi proprio per l'adesione al nuovo ambiente culturale dello strutturalismo che il libro segna una svolta fondamentale nell'opera di Calvino. Nella precedente produzione dello scrittore vengono individuate due fasi: la prima neorealista e la seconda, vicina allo sperimentalismo di "Officina" e del "Menabò". Alla fine degli anni Sessanta l'autore aderisce a una nuova idea di letteratura, intesa come artificio e come gioco combinatorio. E questo nuovo modello di scrittura appare evidente in una delle 55 città descritte nel corso dell'opera, "Tamara", appartenente a uno degli 11 percorsi tematici, "La città e i segni", contenente 5 descrizioni di città, distribuite nei capitoli (9 in tutto) in modo irregolare. Tamara è incontrata da Marco Polo, il giovane viaggiatore veneziano, autore del Milione e protagonista dell'opera insieme a Kublai Kan, l'imperatore dei tartari, dopo un lungo cammino tra alberi e pietre, simboli "muti e intercambiabili" di una natura vuota. Gli elementi naturali si contrappongono agli elementi dello scenario urbano. La città non è affollata da cose, ma da segni, e ogni segno rimanda ad altri segni, alla dimensione simbolica del complesso ordinamento sociale. Tamara è il pieno della cultura che si contrappone al vuoto della natura, anche se si tratta di un pieno misterioso.
Calvino scrive: "L'uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l'occhio si ferma su una cosa, ed è quando l'ha riconosciuta per il segno d'un'altra cosa [.]. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono. Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Ci si addentra per vie fitte d'insegne che sporgono dai muri. L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose [.]. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti
La valenza simbolica di Tamara risulta fortissima dal
contrasto tra il suo isolamento geografico e la sua pienezza di segni e figure.
Descritta come nei libri, la città diventa leggibile come un libro, diviene
equivalente della cultura, della letteratura e della scrittura. Il "discorso",
contrapposto al silenzio della natura, assorbe l'uomo circolarmente. Mentre
crede di visitare Tamara, in realtà il visitatore entra in contatto con i nomi
con cui la città si autodefinisce.
Tamara appare dunque una "Cittadella delle lettere", la stessa "Cittadella
delle lettere" presente nell'immaginario di Eugenio Montale. Quest'ultimo nelle
Occasioni, raccolta poetica pubblicata nel 1939, rappresenta la
letteratura come ultima difesa e ultimo privilegio per una generazione di
autori che trova nella religione della cultura e dell'arte l'unico risarcimento
possibile a una condizione politica e letteraria che li esclude dal contatto
con la realtà sociale e con il pubblico.
La Firenze di "Solaria" e di "Letteratura", le due
riviste alle quali Montale collabora, diventa per lui simbolo di una civiltà
letteraria da difendere non solo dalla rozzezza del regime fascista, ma anche
dal dilagare della civiltà di massa e dei suoi automi.
Tutto ciò è rappresentato sapientemente nel quarto libro montaliano, Satura,
e in particolare in L'alluvione ha sommerso il pack dei mobili.
L'occasione contingente all'origine del testo è l'alluvione che ha colpito
Firenze nel 1966 e che ha causato l'allagamento della cantina in cui Montale
aveva lasciato libri, quadri e documenti del periodo fiorentino. La distruzione
operata dall'alluvione sugli oggetti lì conservati diventa allegoria della fine
di un'epoca, del tramonto dei valori umanistici di un tempo e della crisi ormai
irrecuperabile dell'identità del poeta, al quale non resta altro che il
coraggio trasmessogli dalla moglie. Esso è l'unico valore possibile di fronte
all'insignificanza dominante, alla mancanza assoluta di valori morali e
spirituali.
"L'alluvione
ha sommerso il pack dei mobili, delle carte, dei quadri che stipavano un
sotterraneo chiuso a doppio lucchetto". Il sotterraneo del verso 3 è
ovviamente la "Cittadella delle lettere" a cui ho fatto poco fa riferimento,
ora assediata da "eventi di una realtà incredibile e mai creduta", di
fronte alla quale al poeta non resta altro che il coraggio di prendere
atto dell'assurdità e insignificanza della storia, di fare a meno dei miti
consolatori del progresso.
Quando la realtà storica in cui ci troviamo a vivere è negativa ed oppressiva,
siamo spinti a rifugiarci, come hanno fatto anche Calvino e Montale, in mondi
immaginari, utopie (parola coniata nel Cinquecento da Tommaso Moro con il
significato di
non-luogo [ou-topos] o di luogo felice e perfetto [eu-topos]).
Questo è accaduto anche ad Aristofane, il più grande
poeta comico della commedia attica classica, autore de Gli Uccelli,
presentata in Atene al concorso annuale
nel 414 a.C.
L'azione della commedia è immaginata da Aristofane sullo sfondo della città di
Atene rovinata dalla guerra contro Sparta e dal disastro della spedizione in
Sicilia contro Siracusa: un'intera flotta distrutta, il meglio della gioventù
ateniese fatto schiavo e rinchiuso nelle terribili cave di Siracusa, le
latomie. Il disastro, anziché imporre una pausa alle lotte interne, le aveva
esasperate e la città soffriva della rivalità tra le diverse fazioni, che si
manifestava soprattutto nel moltiplicarsi delle denunce e dei conseguenti
processi politici, che esacerbavano gli odi.
I due ateniesi Pisetero e Evelpide, giunti al limite della resistenza, decidono
di tentare la scalata al mondo degli uccelli, per fondare tra le nuvole una
città del tutto indipendente da tante discordie, "una qualche città di buona
lana, su cui distenderci come su di una morbida pelliccia".
Infatti nel prologo i due protagonisti affermano: "Perché noi siamo ammalati
della malattia contraria a quella di Saca, che non è ateniese e vuole per forza
la cittadinanza ateniese: mentre noi, che siamo cittadini di diritto, senza che
nessuno ci cacci via, abbiamo preso il volo. Ma non è perché odiamo la città;
ma se le cicale, sui rami, cantano un mese o due, gli Ateniesi, sui processi,
ci cantano tutta la vita. Per questo eccoci in viaggio a vagare qua e là in
cerca di un sito senza brighe, dove stabilirci e trascorrere i nostri giorni".
Si recano quindi da Upupa, il mitico Tereo, per fondare una città nell'etere e
riconquistare così la sovranità sull'universo, che in origine apparteneva agli
alati. Entusiasti, gli uccelli approvano e costruiscono un'immane città, che
sbarra ogni transito tra la terra e il cielo: il suo nome è Nubicuculìa.
Pisetero, a cui sono spuntate un paio di ali, è divenuto ormai il loro capo e
ottiene dagli dèi Basilea, la personificazione della sovranità.
Appare dunque evidente l'aspetto peculiare di questa
commedia: l'evasione dalla realtà, intesa come allontanamento dalla città amata
ed esecrata e come abbandono liberatorio all'immaginario della poesia. Alla tragica
condizione storica di Atene, alla crisi degli ordinamenti giudiziari, agli
scaldali politici, ai giochi di potere, alle rivalità e alla corruzione (tutti
temi di grande attualità), il poeta contrappone il mondo degli uccelli, ovvero
il recupero della natura, come dimensione della spontaneità e del contatto con
le genuine forze della vita. Occorre insomma rifugiarsi nell'utopia e
nell'unico dono che gli dèi hanno concesso all'umanità per salvarsi dai
fantasmi delle ambizioni da cui è inquinata la condizione umana: la parola
poetica. Esiste una realtà sicura e incorrotta, dove all'uomo è consentito di
recuperare il suo diritto alla gioia;
e questa è l'immaginazione, quando si traduce nelle forme della poesia.
Se ne Gli Uccelli la città costruita tra le nuvole si chiama
Nubicuculìa, ne Le città
invisibili essa prende il nome di "Bauci".
"Chi
va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s'alzano
dal suolo a gran distanza l'uno dall'altro e si perdono sopra le nubi sostengono
la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado:
hanno già tutto l'occorrente lassù e preferiscono non scendere. Nulla della
città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si
appoggia e, nelle giornate luminose, un'ombra traforata e angolosa che si
disegna sul fogliame".
Tuttavia, a differenza di Bauci, nella città degli uccelli valori e istituzioni
si risolvono nel loro esatto contrario: ciò che è proibito e malvisto da una
parte diviene lecito e ben accetto dall'altra e viceversa. La brama di evasione
dalla realtà induce a creare un mondo alla rovescia, in cui il riso contesta le
aberrazioni prodotte dalla società umana.
I due protagonisti della commedia affermano: "Se qualcuno di voi spettatori vuole trascorrere felicemente il resto della vita fra gli uccelli, venga pure da noi, perché quanto è turpe in Atene e punito dalle leggi, è bello fra noi uccelli. Infatti, se è turpe, secondo la vostra legge, picchiare il padre, da noi invece è cosa lodevole che un figlio, correndo dietro al padre, lo percuota dicendo: "Su lo sprone, se hai coraggio!". E se per caso c'è fra voi qualche schiavo fuggitivo, segnato con tanto di marchio, lo chiameremo tortorella screziata. Se uno è schiavo della Caria, si procacci dei genitori in mezzo a noi, ed ecco che avrà trovato la sua patria".
Anche
in un episodio del Satyricon di Petronio domina incontrastata la
legge dell'inversione. Miracolosamente sopravvissuti a un naufragio, i
protagonisti dell'opera, Encolpio, Gitone ed Eumolpo, giungono presso la città
di Crotone.
Un vilicus illustra loro il carattere straordinario di questa città, un
vero e proprio mondo alla rovescia, dove tutti i valori tradizionali e consueti
appaiono capovolti:
il commercio è mal visto; la letteratura, l'eloquenza, i sancti mores
banditi; matrimonio e prole scoraggiati. Gli uomini si dividono in due sole
categorie: cacciatori di eredità e uomini straricchi ma privi di eredi,
imbroglioni e imbrogliati.
Queste
parole tratte dal Satyricon mettono in evidenza la rappresentazione
disincantata di un mondo e di una società corrotti.
Senza deformazioni moralistiche, Petronio intende cogliere la natura
contraddittoria degli eventi, l'insensatezza dei comportamenti umani, il
degrado sociale e politico del periodo imperiale più oscuro, il tutto
condensato in un mondo alla rovescia, in una simbolica città in sfacelo.
Crotone, rappresentata come un campo di pestilenza, popolato solo di cadaveri
da lacerare e di corvi che li lacerano, è l'inverso della Graeca urbs,
così ricca di traffici, di vita e di cultura. Appare, dunque, inevitabile che
in una siffatta città sia possibile entrare solo facendo di se stessi il
proprio contrario.
La città ideale contrapposta a Crotone è contenuta ne Le città invisibili ed è "Smeraldina", la città modellata su Venezia. Marco Polo afferma: "Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. Per distinguere le qualità delle altre [città], devo partire da una prima città che resta sempre implicita. Per me è Venezia". Ed ecco mirabilmente descritta la città di Smeraldina-Venezia:
A Smeraldina, città acquatica, un reticolo di canali e un reticolo di strade si sovrappongono e s'intersecano. Per andare da un posto a un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la linea più breve tra due punti a Smeraldina non è una retta ma uno zigzag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che s'aprono a ogni passante non sono soltanto due ma molte, e ancora aumentano per chi alterna traghetti in barca e trasbordi all'asciutto. Così la noia a percorrere ogni giorno le stesse strade è risparmiata agli abitanti di Smeraldina
Calvino espone la conclusione della sua opera per bocca di Marco Polo:
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".
Il punto di partenza e la conclusione cui approda Calvino sono i medesimi di Montale: di fronte alla "totale disarmonia con la realtà", all'inferno del reale, due sono le soluzioni possibili: accettare l'inferno e diventarne parte (scelta tipica dell'"Uomo che se ne va sicuro" e "L'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro"), oppure cercare nell'inferno e dare spazio a ciò che non lo è ("Codesto solo oggi possiamo dirti ciò che non siamo e ciò che non vogliamo").
C. C. Brannigan, "Olinda", acquaforte
acquatinta, 2 C. C. Brannigan, "Berenice", acquerello, 2005
Questa condizione
di disarmonia con la realtà comporta anche una nuova dimensione espressiva,
fatta di parole "storte e secche", capace non di affermare ma di negare.
Tuttavia non si tratta di una soluzione nichilista, ma di un nuovo e sicuro
punto di partenza (come in Leopardi). Ed è così che possiamo trovare nella Berenice-ingiusta
la Berenice-giusta, nella Raissa-infelice la Raissa-felice, in Olinda
"una nuova città che si fa largo in mezzo alla città di prima e la spinge
verso il fuori".
A Olinda, chi ci
va con una lente e cerca con attenzione può trovare da qualche parte un
punto non più grande d'una capocchia di spillo che a guardarlo un po'
ingrandito ci si vede dentro i tetti le antenne i lucernari i giardini le
vasche, gli striscioni attraverso le vie, i chioschi nelle piazze, il campo
per le corse dei cavalli. Ed ecco che diventa una città a grandezza
naturale, racchiusa dentro la città di prima: una nuova città che si fa
largo in mezzo alla città di prima e la spinge verso il fuori.
Anche a Raissa,
città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un
altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento
disegnando nuove rapide figure cosicché in ogni secondo la città infelice
contiene una città felice che nemmeno sa d'esistere Anziché dirti di
Berenice, città ingiusta, dovrei parlarti della Berenice nascosta, la città
dei giusti. La vera
Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente
giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un'altra: che
tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l'una
dentro l'altra, strette pigiate in districabili. C. C. Brannigan, "Raissa", acquaforte
acquatinta,
2001
L'inferno del reale è rappresentato chiaramente nel capitolo quinto di Hard Times di Charles Dickens.
In chapter five we find the description of Coketown, which is the setting of the whole novel. This is an objective description of an ordinary industrial town, made of dirt and desolation.
The
impression of an ugly town where living is very unpleasant is what the reader
gets. In this chapter Dickens often associates the features of Coketown to
colours, sounds and smells; this quite clear in the description of the river
that crosses Coketown and that is red colour and ill smelling, besides the
canal is associated to the black colour. Another image is the machinery and the
tall chimneys which are linked to the image of
serpents of smoke. All the buildings of this town are made of black
bricks and are full of windows trembling all day long.
Besides Dickens shows the best attribute of the kind of life that people lead
in Coketown, a life characterized by monotony.
"It was a town
of red brick, or of brick that would have been red if the smoke and ashes had
allowed it. [.] It was a town of unnatural red and black like the painted face
of a savage. It was a town of machinery and tall chimneys, out of which
interminable serpents of smoke. [.] It had a black canal in it, and a river
that ran purple with ill-smelling dye, and vast piles of building full of
windows where there was a rattling and a trembling all day long. [.] It
contained several large streets all very like one another, [.] inhabited by
people equally like one another, to whom every day was the same as yesterday
and tomorrow, and every year the counterpart of the last and the next. [.] You
saw nothing in Coketown but what was severely workful".
As for Dickens the concept of civilization as progress
is denied and the metaphors suggest a savage world. All economic and social
changes have developed only in a few years, so up to now the English situation
is quite worrying; in fact suburban quarters have sprung up in a short time and
people have been living a hard life.
In Hard Times we can see that Dickens sides with the workers: all changes of the middle class against the working class are hypocritical, selfish and with no real foundation.
Besides, Coketown is "a triumph of fact; it had no greater taint of fancy in it". Coketown is based on objectivity, but the result of this produces a "melancholy madness". So Dickens becomes the spokesman of imagination as a right need of human nature.
Fact, fact, fact, everywhere in the material aspect of the town; fact, fact, fact, everywhere in the immaterial. [.] What you couldn't state in figures, [.] was not, and never should be, world without end, Amen
The Victorian age enjoyed the prosperity that the industrial revolution had brought to England, but Dickens has the social conscience that it has destroyed the natural beauty; in fact dirt, air pollution and ugliness are the inevitable products of such industrialization. As in a painting, the inhabitants' expression communicate only the monotony and sadness of life in this industrialized town. People have lost their personality, their individuality: they are like one another and look like robots.
"A town so sacred to fact, and so triumphant in its assertion, of course got on well? Why no, not quite well. No? Dear me! No. Coketown did not come out of its own furnaces, in all respects like gold that had stood the fire".
"It was a town of red brick, or of
brick that would have been red if the smoke and ashes had allowed it. [.]
It was a town of unnatural red and black like the painted face of a savage.
It was a town of machinery and tall chimneys, out of which interminable
serpents of smoke. [.] It had a black canal in it, and a river that ran
purple with ill-smelling dye, and vast piles of building full of windows
where there was a rattling and a trembling all day long. [.] It contained
several large streets all very like one another, [.] inhabited by people
equally like one another, to whom every day was the same as yesterday and
tomorrow, and every year the counterpart of the last and the next. [.] You
saw nothing in Coketown but what was severely workful. [.] Fact, fact, fact,
everywhere in the material aspect of the town; fact, fact, fact, everywhere
in the immaterial. [.] What you couldn't state in figures, [.] was not, and
never should be, world without end, Amen. [.] A town so sacred to fact, and
so triumphant in its assertion, of course got on well? Why no, not quite
well. No? Dear me! "Era
una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi,
se fumo e cenere lo avessero consentito. [.] Era una città di un rosso e di
un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena
di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano interminabili
serpenti di fumo. [.] No.
Dai suoi altiforni la città non usciva splendente e radiosa come un pezzo
d'oro purificato dal fuoco".
No. Coketown did not come out of its own furnaces, in all respects like
gold that had stood the fire
C'era un canale nero e c'era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti
che vi si riversavano; c'erano vasti agglomerati di edifici pieni di
finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno. [.] C'erano tante
strade larghe, tutte uguali fra loro, [.]
ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, persone per le quali
l'oggi era uguale all'ieri e al domani, e ogni anno era la replica di
quello passato e di quello a venire. [.]
Non c'era nulla a Coketown che non stesse a indicare una industriosità
indefessa. [.] Fatti, fatti, fatti dappertutto nell'aspetto materiale della
città; fatti, fatti, fatti dappertutto in quello immateriale. [.] Quello
che non si poteva esprimere in cifre, [.] non esisteva, non sarebbe
esistito mai, nei secoli dei secoli, Amen. [.]
In una città così dedita al fatto, così trionfalmente sicura della sua
supremazia, naturalmente tutto andava a gonfie vele, vero? Be', non
proprio. No? Povero me!
Una delle conseguenze negative della moderna società industriale è la produzione sproporzionata di spazzatura; un grave problema di estrema attualità (basti pensare a ciò che è accaduto a Napoli negli ultimi mesi).
Ne Le città invisibili, Calvino descrive tre città reali, "Leonia", "Moriana" e "Bersabea", accomunate dal disagio della spazzatura.
"Più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. [.] E' una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne. Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula. [.]
Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. [.]
[La spazzatura] sommergerà la città nel proprio passato
che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle altre città
limitrofe, finalmente monde:
un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia
della metropoli sempre vestita a nuovo
C. C. Brannigan, "Moriana", acquaforte
acquatinta, 2 Credono pure, questi abitanti, che un'altra
Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di
spregevole e d'ingegno, ed è costante loro cura cancellare dalla Bersabea
emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa. Al posto dei tetti
ci si immagina che la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cui
franano croste di formaggio, carte unte, resche, risciacquatura di piatti,
resti di spaghetti, vecchie bende. Se non è al suo primo viaggio l'uomo
sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un
semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa
di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di
fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di
sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. C.
C. Brannigan, "Bersabea",
acquerello,
2006
Anche
Montale in una poesia contenuta in Diario del '71 e intitolata Il
trionfo della spazzatura prende in esame il tema del rifiuto nella
moderna società industriale.
Gli anni del "miracolo economico" (1956-1963) sono quelli del silenzio poetico
montaliano: la certezza dell'inevitabile morte della poesia nella società
contemporanea induce il poeta a tacere. Quando, nel 1964, la rielaborazione del
lutto per la morte della moglie Drusilla Tanzi spinge Montale a scrivere di
nuovo versi, questi non hanno più nulla di sublime e di elevato, ma si pongono
al confine fra poesia e non poesia; la poesia dell'ultimo Montale è
caratterizzata, dunque, da un'evidente svolta in senso prosastico:
per reagire al vuoto della parola consumata e banalizzata, al "trionfo della spazzatura"
che caratterizza la realtà travolta nel vortice dello sviluppo industriale, il
poeta abbandona lo stile alto e concentrato che caratterizzava la sua poesia
precedente per una comunicazione più diretta, nella quale dominano la parodia e
l'ironia.
Concludo
l'approfondimento con le parole pronunciate da Calvino in una conferenza tenuta
a New York nel 1983:
"Che cosa è oggi la città, per noi? Penso d'aver scritto qualcosa come un
ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più
difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi
della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore
delle città invivibili".
BIBLIOGRAFIA
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mezza
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Loffredo
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C. Dickens, "Tempi Difficili", Garzanti, Milano, 1989
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"Discovering Literature. History and Themes in English Literature",
Valmartina,
Torino, 2003
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Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese,
"La
scrittura e l'interpretazione", edizione rossa, G. B. Palumbo Editore, 2001
M.
Barenghi, G. Canova, B. Falcetto, "La visione dell'invisibile, saggi e
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Calvino", Mondadori, Milano, 2002
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Raspadori e M. Tellini, "La città moderna", G. B. Palumbo Editore, Palermo,
2001
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Fedeli presenta "Un libro al posto del mondo", di F. Bulega, Milano, ITSOS,
2005
G.
Pontiggia, M. C. Grandi, "Letteratura latina, storia e testi", Principato,
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1999
P. Fedeli, "Petronio. Crotone o il mondo alla rovescia", in "Aufidus" 1, 1987
SITOGRAFIA
www.cittainvisibili.com
(maggio 2008)
www.wikipedia.org
(maggio 2008)
www.istitutocalvino.it (maggio 2008)
www.venezialodge.com (maggio 2008)
www.griseldaonline.it (maggio 2008)
www.guanciarossa.it (maggio 2008)
www.repubblica.it (maggio 2008)
In
copertina: - "La Città Ideale" dell'Anonimo Fiorentino
conservata nel Museo Nazionale di Urbino
(da
www.wikipedia.org)
- "Fedora" di C. C. Brannigan (da www.cittainvisibili.com)
- "Zora" di C. C. Brannigan (da
www.cittainvisibili.com)
Appunti su: https:wwwappuntimaniacomsuperioriarte-culturaesame-di-stato-la-citt-fra-rea75php, |
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