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L’alter ego dello zero: l’infinito




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L’alter ego dello zero: l’infinito


1 Il simbolo dell’infinito

Dov’è l’infinito è allegrezza. Non c’è allegrezza nel finito.

Chandogya Unpanishad


Il simbolo dell’infinito nasce nel XVII secolo, quando si giunge alla conclusione che l’inverso dell’infinitamente piccolo è l’infinitamente grande: compare così il simbolo ∞. E’ il matematico inglese John Wallis che per primo usa questo simbolo per indicare l’infinito matematico. Il motivo della scelta di questo simbolo sembra essere che il esso disegnava una grafia corsiva per indicare 1000 in cifre romane, ovvero un numero “grandissimo”. Wallis potrebbe però anche avere pensato che il doppio occhiello rimandasse immediatamente all’idea di infinito, poiché può essere percorso senza fine.


2 Il paradosso della cardinalità degli infiniti



L’infinito non esiste; esiste solo una mente stanca.

Anonimo


Per tutta la storia della matematica, il concetto attuale di infinito è stato respinto a causa di un paradosso che ne deriva: il paradosso della riflessività. Questo paradosso consiste nel riconoscere parti grandi quanto il tutto. Compare, per esempio, quando si vuole comparare l’insieme degli interi con l’insieme dei numeri pari, o l’insieme degli interi con l’insieme dei loro quadrati.

Già Galileo, nel XVII secolo prese in considerazione la successione dei quadrati n² dei numeri interi n. Ad ogni intero 1, 2, 3, 4 ecc. possiamo associare il suo quadrato 1, 4, 9, 16, ecc. I due insiemi sono infiniti e possono essere messi in corrispondenza termine a termine; sono quindi equinumerosi. Tuttavia, l’insieme dei quadrati è solo una parte dell’insieme degli interi, e dunque la corrispondenza viola l’assioma che “il tutto è maggiore della parte”. E’ proprio questo paradosso della riflessività che ha portato nei secoli i matematici a rifiutare il concetto di infinito. Con lo stesso procedimento, Georg Cantor, matematico tedesco vissuto a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, comparò la “numerosità” degli insiemi infiniti.

Il numero degli elementi di un insieme è detto il suo numero cardinale. Per esempio, il cardinale dell’insieme dei primi 100 numeri pari è 100, che è però diverso dal suo maggior elemento, che è 200. E’ invece difficile determinare, ad esempio, il cardinale dell’insieme dei numeri interi. Esso è infatti infinito.

Cantor comparò i cardinali di due insiemi, quello dei numeri naturali e quello dei numeri pari. Si servì del concetto di corrispondenza biunivoca: due insiemi sono in corrispondenza biunivoca se e solo se ogni elemento dell’uno può essere messo in corrispondenza con un elemento dell’altro, senza ripetizioni e senza omissioni.

Per capire questo concetto è utile immaginare uno stadio pieno di persone, del quale si vuole sapere se contiene più o meno persone rispetto ai posti a sedere. Si possono contare le persone e poi i posti e confrontare i risultati, ma risulta molto più veloce e semplice far sedere tutti quanti e poi vedere se rimangono posti vuoti o persone in piedi. Se nessuno è in piedi e tutti i posti sono occupati, allora l’insieme dei posti a sedere e quello delle persone sono in corrispondenza biunivoca.

E’ facile mettere in corrispondenza biunivoca l’insieme dei primi 100 numeri interi con quello dei primi cento numeri pari, secondo lo schema:

99, 100

| | | | | |


Questi due insiemi hanno lo stesso cardinale: 100. Se però applichiamo questo procedimento ad insiemi non finiti, ci si imbatte in un paradosso. Considerando, per esempio, l’insieme N di tutti i numeri naturali, e l’insieme P di tutti i numeri naturali pari, essi possono essere messi in corrispondenza biunivoca, secondo lo schema:

99, 100, 101, …

| | | | | | |


N e P hanno dunque lo stesso cardinale. Tuttavia, intuitivamente, N possiede più elementi: tutti gli elementi di P, ovvero i numeri pari, appartengono a N, ma N contiene inoltre i numeri dispari. P è una parte di N, dal momento che ogni elemento di P appartiene anche a N. Non è paradossale che essi siano equinumerosi e che quindi una parte sia grande quanto il tutto?


3 L’Albergo Infinito di Hilbert


C'è un concetto che corrompe ed altera tutti gli altri. Non parlo

del Male, il cui limitato impero è l'etica; parlo dell’infinito.

Jorges Luis Borges


La natura dell’infinito è illustrata nella storia dell’Albergo Infinito di Hilbert, ancora una volta un matematico tedesco.

In un normale albergo c’è un numero finito di camere, e se sono tutte occupate non c’è modo di sistemare un nuovo cliente. La situazione è però ben diversa in un albergo infinito. Supponiamo che una persona si presenti alla reception dell’Albergo Infinito e che le infinite camere dell’albergo siano tutte occupate. Non ci sono problemi: il direttore chiede al cliente della camera 1 di spostarsi nella camera 2, a quello della camera 2 di trasferirsi nella camera 3, e così via all’infinito. In questo modo la stanza 1 si libera per il nuovo ospite e tutti hanno ancora una camera.

Quando il cliente ricapita in città, torna all’Albergo Infinito, questa volta con un numero infinito di amici. Ma neanche questo è un problema: il direttore sposta l’ospite della stanza 1 nella stanza 2, quello della stanza 2 nella stanza 4, quello della stanza 3 nella stanza 6 e così via, all’infinito. In questo modo si liberano infinite camere: quelle di numero dispari.


4 La scommessa su Dio


Dio è il punto di contatto fra lo zero e l'infinito.

Alfred Jarry


Il concetto di zero e quello di infinito si prestano perfino a “scommettere” su Dio. E’ il caso di Blaise Pascal, matematico francese che tra zero ed infinito trovò proprio Dio. Pascal analizzò se, statisticamente, valesse la pena accettare Cristo come Salvatore, e grazie alla matematica dello zero e dell’infinito giunse alla conclusione che la fede in Dio era vantaggiosa.

Per capire pienamente la scommessa in sé, analizziamo un altro semplice gioco. Immaginiamo di poter scegliere tra una busta A o una busta B, il cui contenuto sia poi deciso dal lancio di una moneta: se viene testa, A contiene una banconota da 100 euro e B è vuota, mentre se viene croce A è vuota e B contiene denaro, ed esattamente 1 000 000 di euro.

Quale busta scegliere? La risposta è sicuramente B, perché il suo valore è maggiore di A e non è difficile dimostrare il perché. Basta impiegare uno strumento del calcolo delle probabilità, detto “speranza”, che in questo caso indica l’aspettativa sul valore delle due buste.

Nella busta A possono trovarsi 100 o 0 euro e siccome può contenere la somma di denaro, essa ha un certo valore atteso, ma non pari a 100 perché può anche essere vuota. Per stabilirne statisticamente la speranza, ovvero il valore atteso, si può calcolare la somma dei possibili contenuti in base alle corrispondenti possibilità:


1 probabilità su 2 di trovare 0 €

1 probabilità su 2 di trovare 100 €


0,5 x    0 € = 0 €

0,5 x 100€        = 50 €


Speranza       = 50 €


La conclusione è che il valore atteso della busta A è pari a 50 euro. Calcoliamo il valore per la B:


1 probabilità su 2 di trovare 0 €

1 probabilità su 2 di trovare 1 000 000 €


0,5 x 0 €                     = 0 €

0,5 x 1 000 000 € = 500 000 €


Speranza = 500 000 €


Il valore atteso della busta B è dunque 500 000 €: diecimila volte più grande di quello di A. Potendo scegliere, la decisione più saggia sarebbe B.


Per calcolare se valesse la pena essere cristiani, Pascal immaginò un’altra coppia di buste: la fede cristiana e l’ateismo. Egli suppose che l’esistenza di Dio fosse 1 a 1 rispetto alla sua non-esistenza (il 50%). L’uomo può quindi scegliere tra la busta A e la busta B, tra essere cristiano o ateo. Nello scegliere la fede, comportandosi da buoni cristiani, dopo la morte si presentano due possibilità: se non c’è alcun Dio, svanire nel nulla, ma se Dio esiste, andare in Paradiso e godere dell’eterna beatitudine –  l’infinità positiva.

Il valore del vivere secondo la fede cristiana ammonta così a:


1 probabilità su 2 di svanire nel nulla

1 probabilità su 2 di andare in Paradiso


0,5 x  0 = 0

0,5 x  +


Speranza = +


Mezza infinità è ancora l’infinità, quindi il valore atteso di essere cristiani è infinititamente positivo. Calcoliamo invece cosa accade se si punta sull’ateismo. Se Dio non esiste, l’ateo non guadagna niente dall’avere avuto ragione: dopo la morte si dissolve infatti nel nulla. Se la scelta però è sbagliata e Dio esiste, la conseguenza è l’Inferno per l’eternità: infinità negativa. Cosicché il valore di essere ateo risulta:


1 probabilità su 2 di svanire nel nulla

1 probabilità su 2 di andare in Paradiso


0,5 x  0 = 0

0,5 x  -


Speranza       = -


Di fronte all’infinità negativa il buon senso ci induce a decidere di vivere da cristiano invece che da ateo. Se anche la probabilità dell’esistenza di Dio fosse solo una su mille, il valore dell’essere cristiano sarebbe ancora:


999 probabilità su 1000 di svanire nel nulla

1 probabilità su 1000 di andare in Paradiso


x 0 = 0

0,001 x  +


Speranza = +



La vincita resta quindi l’infinità positiva, così come l’infinità negativa resta la vincita dell’ateismo. E’ quindi preferibile essere buoni fedeli, indipendentemente dal fatto che l’esistenza divina sia molto o poco probabile.


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