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Dante e la matematica




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DANTE E LA MATEMATICA


Dopo gli anni '90 del XIII secolo, Dante si dedica agli studi di filosofia entrando a stretto contatto con il pensiero di Boezio, "l'anima santa" che poi collocherà nel cielo del Sole nel Paradiso e autore di quel " De consolatione philosophiae" su cui si formò il poeta.

Ma Boezio fu anche traduttore dell'opera di Euclide e scrisse lui stesso un "De institutione aritmetica" di cui, non si può escludere, che Dante ne fosse a conoscenza.

L'aritmetica e la geometria, che trapelano dalla Divina Commedia, per la verità, non rivelano una conoscenza della matematica che vada molto oltre la cultura generale, nonostante ciò l'immagine che Dante ce ne restituisce è sorprendente.

Non solo trae spunto dalle sue leggi per delineare immagini di grande forza e incisività, ma ne realizza anche un notevole elogio sul piano epistemologico.

Come vedremo dai singoli passi dell'opera, Dante ha una lucida consapevolezza dei limiti della ragione umana di fronte alla verità divina: alcune volte questi limiti sono rivelati dalla scienza, altre volte dalla poesia e dalla capacità di espressione. In entrambi i casi, pur mettendone in luce il limite, il poeta eleva scienza e poesia a massime espressioni della razionalità dell'uomo: piccola,sì, di fronte a Dio, ma meravigliosamente grande nel mondo.


. Un numero infinitamente grande

. . . . . . . . . . .

L'incendio suo seguiva ogni scintilla;

ed eran tante, che 'l numero loro

più che 'l doppiar delli scacchi s'immilla

. . . . . . . . . . .

(Paradiso XXVIII, 91-93)


L'infinito è uno dei concetti matematici che più frequentemente ritornano nelle opere

letterarie, poeti e scrittori spesso si rivolgono alla matematica per riuscire a rendere in

termini più realistici "numericamente" una realtà tanto lontana dall'esperienza umana.

La situazione è la seguente: i canti XXVIII e XXIX del Paradiso sono dedicati alla dottrina

degli angeli; Dante osserva le categorie angeliche che presiedono ai nove cieli del

Paradiso, disposte secondo nove cerchi concentrici in movimento: da ognuno di essi, come

da un pezzo di ferro incandescente, un numero enorme di scintille si stacca dal proprio

cerchio di competenza, in modo che gli angeli si distinguano uno a uno, pur continuando a

seguirne il movimento.

Ora Dante auctor si trova di fronte a un problema da risolvere: vuole rendere l'immagine

di un numero grande, grandissimo, tendente ad infinito. Che la sua genialità artistica,

sempre così strettamente legata al potere visivo delle parole, non si possa accontentare di

una qualsiasi banalizzazione dell'immagine è evidente al lettore della Commedia. Una

sbrigativa definizione "infiniti" avrebbe costituito qualche serio problema di carattere

teologico, oltre a risultare notevolmente meno incisiva per il lettore, la cui fantasia è

stimolata dal poter immaginare di contare fino a tale numero. Mentalmente di certo non

può arrivarci, ma la sua concreta finitudine lo rende molto più efficace.

Dante sceglie dunque di cercare un più azzeccato parallelo proprio nella scienza dei

numeri.

Il riferimento è ad una gustosa storiella di carattere matematico, che doveva circolare

negli ambienti culturali del tempo.

Si narra che Sissa Nassir, l'inventore degli scacchi, abbia chiesto al sovrano di Persia, cui

aveva fatto dono del nuovissimo passatempo, una ricompensa apparentemente modesta:

presa la scacchiera 8x8 del gioco che aveva inventato, il sovrano gli avrebbe dovuto

donare solamente qualche chicco di riso. Più precisamente un chicco di riso per la prima

casella, il doppio (ovvero due) per la seconda, il doppio ancora (ovvero quattro) per la

terza e così via fino alla sessantaquattresima, ultima casella.

E' fuori discussione che Dante potesse calcolare il numero risultante, ma era già ben noto

che al di là delle apparenze si trattava di una quantità mostruosamente grande, a motivo

della vertiginosa crescita di una funzione esponenziale.

Solo per curiosità, i chicchi di riso che Sissa Nassir avrebbe dovuto ricevere erano un

numero illeggibile: 18 446 744 073 709 551 615. (dico "avrebbe dovuto ricevere" perché

la leggenda vuole che il sovrano, scoperto l'arguto imbroglio e irritato da tanta irriverenza,

abbia risparmiato sul riso facendo mozzare la testa al povero Sissa Nassir.)

Dante evidentemente conosceva questo aneddoto, d'altra parte ai suoi tempi circolavano

numerosi giochi matematici, che non potevano non aver stuzzicato la sua vivace

intelligenza1.

Non ancora soddisfatto del numero ottenuto (non fosse mai che il numero degli angeli

celesti fosse assimilato a quello vagheggiato nelle pretese di ricchezza di un comune

uomo), Dante sostituisce alle potenze del due le potenze del mille. Così gli angeli invece

che raddoppiare si "inmillano", uno dei tipici neologismi danteschi, che chiude il paragone

poetico affiancando all'abilità di maneggiare aneddoti numerici l'immancabile creatività

linguistica.


Certezze incrollabili

. . . . . . . . . . .

O cara piota mia, che sì t'insusi,

che come veggion le terrene menti

non capere in triangol due ottusi,


così vedi le cose contingenti

anzi che sieno in sé, mirando il punto

a cui tutti li tempi son presenti


(Par. XVII 13-15)

e pochi versi più avanti


. . . . . . . . . . .

"[.] avvegna ch'io mi senta

ben tetragono ai colpi di ventura"

. . . . . . . . . . .

(Par. XVII 23-24)

Uno dei canti più emotivamente intensi della Commedia, il XVII del Paradiso è interamente

concentrato sull'incontro tra Dante e il suo trisavolo, Cacciaguida, incontro di importanza

centrale nell'economia del viaggio dantesco per l'annuncio dell'esilio e la legittimazione

dell'opera d'arte. Le parole, che i due si scambiano, sono tra le più complesse e ricche di

immagini della Commedia. E anche in questa occasione Dante non disdegna di inserire

rimandi matematici.

E' una delle più unanimemente accettate qualità della matematica (pur se talvolta

convertita in difetto) quella che il poeta sfrutta in questi versi: l'insindacabile certezza dei

suoi teoremi. Per Dante diventa simbolo del massimo livello di verità cui la mente umana

può assurgere. Con la stessa sicurezza con cui l'uomo è in grado di "vedere" che in un

triangolo non possono essere due angoli ottusi, su un piano decisamente più elevato il

beato è in grado di "vedere" passato, presente e futuro.


 

 

 

  Il teorema a cui Dante si riferisce ,che appartiene al I libro degli elementi di Euclide, è un corollario del teorema che afferma: in ogni triangolo, la somma degli angoli interni è un angolo piatto. Per il teorema dell' angolo esterno β + α = δ + γ, δ + γ è un angolo piatto perché l'angolo esterno è, per definizione, supplementare al relativo interno. Da queste due considerazioni ne segue la tesi per la transitività dell'uguaglianza. In base a questo teorema ogni triangolo può avere al più un solo angolo ottuso (cioè maggiore dell'angolo retto).



Con un lieve scarto, ma sulla stessa linea di significati, si colloca il riferimento geometrico

di poco successivo: un triangolo inscritto in una semicirconferenza è necessariamente un triangolo rettangolo:

noi sappiamo che un angolo alla circonferenza è la metà dell'angolo al centro che sottende lo stesso arco di circonferenza. Nel caso particolare in cui l'angolo al centro è un angolo di 180°, poichè sottende una semicirconferenza, il suo rispettivo angolo alla circonferenza sarà di 90°. Da ciò si può affermare che un qualsiasi triangolo inscritto in una semicirconferenza questo sarà un triangolo rettangolo.






. Cerchi e circonferenze: il problema della quadratura del cerchio


Qual è 'l geometra che tutto s'affigge 

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond'elli indige,


tal era io a quella vista nuova;

veder volea come si convenne

l'imago al cerchio e come vi s'indova;

. . . . . . . . . . .

(Par. XXXIII 133-138)



Non è la prima occasione in cui Dante rievoca l'antichissimo problema della quadratura del

cerchio, che diventa un altro dei simboli dell'impossibilità della conoscenza. Possiamo

pensare alla geometria di cui parla Dante nel Convivio

"e 'l cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente"

e nel De Monarchia

"infatti lo studioso di geometria ignora la quadratura del cerchio"

La situazione in cui il poeta si trova ora è però sicuramente più solenne. Siamo nell'ultimo

canto del Paradiso, la "vista nova" cui Dante si trova di fronte è Dio stesso. Al potenziarsi

della vista del pellegrino, Padre Figlio e Spirito Santo si sono infine mostrati sottoforma di

tre cerchi, di diverso colore e uguale raggio.

All'osservazione più acuta il cerchio-Figlio generato dal Padre appare a Dante dipinto dentro di sé, del suo stesso colore, con l'immagine dell'uomo.

E' il mistero dell'Incarnazione, che Dante con le sue forze soltanto non riesce a penetrare,

così come il geometra non riesce a quadrare il cerchio.

Ma in questo contesto appare evidente come la primaria funzione del rimando geometrico

sia umanamente più profonda. Quello che deriva al lettore, con tutta la pienezza di

sentimenti del caso, è il vero e proprio dramma dell'uomo intellettuale, che "tutto s'affige",

tenta e ritenta, ma deve ad un certo punto ammettere i limiti delle proprie capacità

razionali.

Come si è accennato all'inizio, si può azzardare l'ipotesi che Dante adduca la matematica a

massima rappresentante del fallimento della ragione umana. E' una critica, certo, che

Dante muove alla scienza, ma io credo che la ragione di fondo di questa ricorrenza sia da

ricercare nel fatto che il nostro poeta vede nella matematica il più alto esempio di

perfezione raggiungibile dalla sola ragione umana. Che essa giunga al fallimento e debba

essere superata è insito nel limite dell'uomo e nulla toglie al valore della speculazione

scientifica.

Questo duplice valore della Matematica può essere ben esemplificato da un bel passo del

Convivio.


. Matematica, "Sole" delle scienze


"E lo cielo del Sole si può comparare a l'Arismetrica per due proprietadi: l'una si è che

del suo lume tutte l'altre stelle s'informano; l'altra si è che l'occhio nol può mirare.. E

queste due proprietadi sono ne l'Arismetrica: ché del suo lume tutte s'illuminano le scienze

(.) L'altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l'Arismetrica: che

l'occhio de lo 'ntelletto nol può mirare; però che 'l numero, quant'è in sé considerato, è

infinito, e questo non potemo noi intendere."



Il paragone è bellissimo: come il Sole tutto illumina, tutto permette di vedere, ma non può essere visto da occhio umano esso stesso, così la Matematica, "regina delle scienze"  tutte le illumina della sua luce, che invera.


Sebbene moltissimi siano oramai gli studi di vari autori dedicati all'analisi della presenza della matematica nell'opera di Dante e nella "Divina Commedia" in particolare, con grande stupore ci si accorge che esiste sempre qualche angolo inesplorato o qualche verso che può ancora fornire argomento di riflessione e di studio; lo stupore, tuttavia, cessa ogni volta, quando si riflette sulla grandezza dell'Opera.

I numerosi riferimenti matematici che possiamo riscontrare, si fanno spazio tra i versi quasi a voler evidenziare la loro presenza, una presenza molto importante che ci permette di comprendere come in realtà la matematica, pur nella sua perfezione, non rappresenti una scienza sterile, avulsa dal resto del sapere, ma una scienza in continua evoluzione e in stretto rapporto con le altre discipline.

La " geometria" della Divina Commedia, se così potremmo definirla, ci permette di capire il carattere poliedrico di Dante autore, il quale non rilegò mai i propri studi alla sfera umanistica ma cercò sempre, con costanza e tenacia, di allargare i propri orizzonti anche alla sfera scientifica.




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