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La realizzazione del mercato comune, quale prefigurata dall'art. 2 del TUE, implica l'eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli, oltre che agli scambi commerciali, anche alla circolazione di persone, servizi e capitali.
In particolare, la libera circolazione delle persone è oggetto di un principio che rende possibile ai cittadini dell'Unione l'esercizio di un'attività, di carattere subordinato o autonomo, senza riguardo per i confini nazionali.
All'inizio il trattato non riguardava la persona in quanto tale, ma in quanto soggetto che esercita un'attività economica rilevante o comunque a tale soggetto collegata, ad esempio per vincoli familiari.
Troviamo dunque, tre gruppi di norme, che corrispondono a tre principali ipotesi:
- lavoro subordinato ( artt. 45-48)
- lavoro autonomo localizzato stabilmente nel territorio di uno Stato membro (artt. 49-55)
- prestazione di servizi, che si risolve in un'attività economica prestata occasionalmente in uno Stato membro diverso da quello di stabilimento (art. 56-62)
La disciplina della libera circolazione delle persone si articola in modo differente a secondo delle tre ipotesi, ciò però non inficia che, sotto certi aspetti, sia unitaria.
La Corte ha ampliato il più possibile la sfera di soggetti ammessi a beneficiare della libera circolazione, andando ben al di là delle ipotesi tipiche.
A ciò si aggiunga che lo stesso diritto derivato ha finito col riconoscere a tutti i cittadini dell'Unione, sebbene con talune limitazioni, un diritto di soggiorno generalizzato e, dunque, un diritto di circolare anche in assenza di un'attività lavorativa.
Una direttiva recente ha razionalizzato i precedenti strumenti comunitari che trattavano separatamente le varie figure di lavoratore subordinato, lavoratore autonomo, studente e persone inattive, disciplinando in un unico testo legislativo il diritto dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri.
La libertà di circolazione e di soggiorno, e più in generale lo status dei cittadini dei Paesi membri dell'Unione, sono da sempre e restano collegati al divieto di discriminazioni in base alla nazionalità sancito dall'art. 18 del TFUE[divieto di discriminazione in base alla nazionalità].
Tale disposizione va letta e applicata in combinato con l'art. 21 TFUE , che sancisce il diritto di tutti i cittadini comunitari alla libera circolazione e al soggiorno nell'intero territorio dell' Unione e senza alcun riferimento alla valenza economica dell'attività svolta.
Il giudice comunitario ha ulteriormente valorizzato l'art.21, riconoscendo anche al genitore cittadino di uno Stato terzo che abbia la custodia del figlio avente la cittadinanza europea il diritto di soggiornare con quest'ultimo nello Stato membro ospitante.
La Corte arriva a questa conclusione mettendo in chiara evidenza che il rifiuto della domanda di permesso di soggiorno presentata dalla madre che esercita la custodia del minore, priverebbe di qualsiasi effetto utile il diritto di soggiorno di quest'ultimo.
Non esiste, né potrebbe esistere una nozione europea di cittadinanza, le norme dell'Unione che ne prescrivono il possesso come presupposto soggettivo per la loro applicazione, in realtà rinviano alla legge nazionale dello Stato la cui cittadinanza viene posta a fondamento del diritto invocato.
Tale rinvio al diritto nazionale è stato operato espressamente anche nel Trattato, dove si definisce cittadino dell'Unione <<chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro>> art. 20 TFUE.
Ciò non significa che la competenza degli Stati membri in materia sia assoluta, in quanto deve esercitarsi entro i limiti definiti dal diritto dell'Unione, così come interpretato dalla Corte di Giustizia.
Né, tantomeno, che i diritti riconosciuti dal Trattato siano necessariamente riservati ai cittadini dell'Unione.
La Corte ha, infatti, precisato che il diritto dell'Unione non si oppone a che gli Stati membri concedano il diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento Europeo a persone che possiedano stretti legami personali, famigliari, economici con esso pur non essendo loro cittadini o cittadini dell'Unione residenti sul loro territorio.
Ciò premesso, gli sviluppi in materia sono piuttosto significativi.
La giurisprudenza, sulla premessa che lo status di cittadino dell''Unione è destinato ad essere lo status fondamentale e che il Trattato non esige che i cittadini dell'Unione svolgano un'attività lavorativa per poter godere dei diritti previsti dalla cittadinanza dell'Unione, ha chiarito che l'art. 21 TFUE è provvisto di effetto diretto e attribuisce al cittadino dell'Unione un diritto allo stesso trattamento giuridico nell'esercizio della libertà di circolazione e soggiorno.
Tale diritto è invocabile oltre che nei confronti dello Stato ospitante anche nei confronti dello Stato di appartenenza.
La Corte ha, peraltro, evidenziato che tale diritto di circolazione e soggiorno, ex art. 21 TFUE, non è diritto assoluto, essendo attribuito subordinatamente ed alle condizioni poste dal Trattato e dalle relative disposizioni di attuazione.
Tali limiti e condizioni, cui gli Stati membri possono subordinare l'esercizio del diritto in esame, devono però rispondere al principio di proporzionalità.
In altri termini, eventuali limitazioni non possono andare al di la di quanto è appropriato e necessario per l'attuazione dello scopo perseguito, restando al giudice nazionale quello di assicurare il rispetto di tale principio.
Inoltre, la Corte ha rilevato che i presupposti del godimento dei diritti del cittadino dell'Unione in materia di circolazione, sono ancorati all'ambito di applicazione ratione materiae.
Cioè si tratta di diritti condizionati all'esercizio effettivo della libera circolazione, con la conseguenza che ad essi non si può attribuire una valenza autonoma, rispetto ai diritti che Trattati e diritto derivato riconoscono in quanto collegati alle 4 libertà fondamentali che di volta in volta vengono in rilievo.
Lo status di cittadino europeo attribuisce una serie di diritti, oltre quello di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri,art. 21.
È il caso di aggiungere che il Trattato di Lisbona ha ribadito ed ampliato la nozione di cittadinanza europea, rafforzando, tra l'altro, gli strumenti di democrazia partecipativa.
Il pieno diritto di circolazione, inteso come diritto di attraversare le frontiere intracomunitarie senza controlli, rimane collegato all'adozione di disposizioni comuni sui controlli alle frontiere esterne.
Le difficoltà che permangono alla libera circolazione delle persone sono attualmente dovute ai controlli di polizia effettuati alla frontiera.
Si tratta di una questione collegata alla più generale politica di immigrazione, oltre che alla lotta alla criminalità e al terrorismo.
Non a caso la cooperazione degli Stati membri in materia è iniziata al di fuori del sistema comunitario, attraverso le iniziative dei governi e delle autorità preposte alla tutela dell'ordine pubblico e/o dell'immigrazione.
Gli sviluppi più importanti si sono avuti con gli accordi di Schengen,le cui problematiche sono state affrontate per la prima volta nel contesto dell'Unione, quale prefigurata dal Trattato di Maastricht, all'interno del terzo pilastro, dunque quale cooperazione in materia di giustizia e affari interni.
Il Trattato di Amsterdam ha poi inciso in maniera significativa su tale materia, sia in maniera formale che sostanziale, trasferendo la materia dei visti, dell'asilo, dell'immigrazione e altre politiche connesse con la circolazione delle persone nel Titolo IV del TCE e lasciando nel Titolo VI del TUE solo uno dei settori prima rientranti nell'ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni.
Il rischio di sovrapposizioni tra gli accordi di Schengen da un lato, il Titolo IV TCE ed il Titolo VI TUE è stato evitato grazie all'integrazione nell'Unione Europea degli accordi di Schengen e di tutti gli atti adottati.
In tale modo tutte le realizzazioni compiute sono state incorporate come <<acquis di Schengen>> nel sistema dell'Unione.
Effetto non secondario dell'integrazione dell'acquis Schengen nel sistema comunitario era rappresentato dall'estensione delle competenze del Parlamento Europeo e della Corte di Giustizia.
Va ricordato che i tredici Stati membri, ad eccezione di Regno Unito ed Irlanda, erano autorizzati tra loro a istituire una cooperazione rafforzata in materia.
Si può dire che l'integrazione dell'acquis Schengen decisa ad Amsterdam permetteva di superare il rischio di sovrapposizioni tra strumenti interni ed esterni all'Unione, ma non riusciva ad individuare una soluzione capace di garantire una disciplina comune in relazione all'ingresso ed al trattamento dei cittadini di Paesi terzi.
Il quadro complessivo è stato notevolmente semplificato dal Trattato di Lisbona, in virtù di due previsioni:
la prima concerne il futuro, impone che l'acquis Schengen e le ulteriori misure adottate nel suo campo di applicazioni debbano essere accettate integralmente da tutti gli Stati canditati all'adesione;
la seconda concernente il presente, sopprime la tradizionale struttura a tre pilastri dell'Unione, eliminando le distinzioni tra primo e terzo pilastro.
Quest'ultima novità comporta, di fatto, la comunitarizzazione della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, che <<ritorna>> ad essere disciplinata insieme alle politiche concernenti i visti, l'asilo, l'immigrazione ed altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone.
Nel nuovo Titolo V(artt. 67 e segg.) del TFUE, dedicato allo <<spazio di libertà, sicurezza e giustizia>>, confluiscono le politiche relative ai controlli alle frontiere, all'asilo e immigrazione, la cooperazione giudiziaria in materia civile e quella in materia penale, la cooperazione di polizia.
Ciò è espressione di una più generale consapevolezza delle dirette implicazioni di queste materie sulla circolazione delle persone nel territorio dell'Unione.
Di particolare rilievo, per la circolazione dei cittadini di Paesi terzi, appare la precisazione di portata generale che <<l'Unione si fonda sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze>>.
Si tratta di <<valori comuni agli Stati membri>> e propri di una società caratterizzata dal <<pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne>>.
Dalla enunciazione di tali principi si ricava che la tutela dei diritti umani nell'Unione europea non dipende dal possesso della cittadinanza dell'Unione.
Relativamente ai controlli alle frontiere , all'asilo e all'immigrazione, nel TFUE si precisa che obiettivi dell'Unione sono: garantire l'assenza di qualsiasi controllo sulle persone, a prescindere dalla nazionalità all'atto dell'attraversamento delle frontiere interne, garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace delle frontiere esterne, ed instaurare, progressivamente, un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne.
L'art. 80 TFUE precisa che queste politiche sono governate dal principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche relativamente al piano finanziario.
La politica comune di immigrazione deve assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l'equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri, nonché la prevenzione ed il contrasto rafforzato dell'immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani.
In conclusione il trattato di Lisbona appare sicuramente foriero di sviluppi positivi nella direzione di un'effettiva integrazione tra Stati membri dell'Unione, ma in attesa di tale evoluzione c'è da dire che tuttora gli Stati membri possono sempre decidere la reintroduzione di normali controlli alle frontiere nazionali per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale e previa consultazione con gli altri Pesi membri.
L'art. 45 TFUE assicura la libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione.
La libera circolazione dei lavoratori implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. L'art. 45, 3° comma, sancisce i diritti del lavoratore comunitario, e comprendono:
Il termine lavoratore(art.45) e l'espressione attività subordinata(Regolamento n. 1612/68) sono nozioni da interpretare in modo restrittivo.
La giurisprudenza del lavoratore dà questa definizione: "deve considerarsi lavoratore la persona che, per un certo tempo, esegue a favore di un'altra e sotto la direzione di questa prestazioni in contropartita delle quali percepisce una remunerazione. Una volta cessato il rapporto, l'interessato perde la qualità di lavoratore, fermo restando tuttavia che, da un lato, questa qualifica può produrre taluni effetti dopo la cessazione del rapporto di lavoro e che, dall'altro, una persona all'effettiva ricerca di un impiego deve pur essere qualificata come lavoratore".
La nozione comunitaria di lavoratore subordinato implica che:
Tale requisito, invece, non e richiesto ai familiari del lavoratore che siano cittadini di un Paese terzo, in quanto ad essi è consentito, ma solo in quanto familiari di un lavoratore comunitario, di beneficiare della disciplina della libera circolazione del lavoratori, per il resto a cittadini dei Paesi terzi è vietata la libera circolazione, salvo accordi tra il Paese d'origine e la Comunità(es. gli accordi stipulati con alcuni Paesi del mediterraneo).
L' Atto di adesione firmato ad Atene il 16 aprile 2003 consente ai vecchi Stati membri di limitare l'applicazione delle norme in materia di libera circolazione dei lavoratori nei confronti dei nuovi Stati membri per un periodo massimo di sette anni anche se essi beneficiano di un regime di preferenza rispetto a lavoratori di Paesi terzi.
Il rapporto di lavoro deve essere localizzato in territorio dell'Unione o comunque presentare un legame stretto con quest'ultimo.
Più in generale le norme sulla libera circolazione si applicano a tutti i cittadini comunitari che ne usufruiscano.
Ne consegue che è un diritto che il singolo può opporre al proprio Stato di appartenenza, quando è da esso che abbai ricevuto un trattamento deteriore per il sol fatto di avere lavorato in un altro stato membro o comunque tale da dissuaderlo dall'avvalersi di tale libertà di circolazione.
Non è escluso che si verifichino delle situazioni di discriminazione a danno dei cittadini del Paese membro interessato, ipotesi definita di discriminazione alla rovescia e che può trovar rimedio solo attraverso l'eventuale applicazione delle norme nazionali poste a tutela del principio di eguaglianza.
Con una la legge comunitaria del 2004 è stata garantita la parità di trattamento dei cittadini italiani con quelli di altri Paesi membri.
Oltre al rapporto di subordinazione, è necessaria la circostanza che si tratti di un'attività lavorativa effettiva e dotata di una certa consistenza.
Quindi non rientrano in tale disciplina le attività ridotte e precarie, così tanto da presentarsi come accessorie e marginali.
Sono ritenute rilevanti anche talune ipotesi di confine come il tirocinio professionale retribuito, un corso di studi sancito da diploma professionale che sia collegato alla precedente attività lavorativa svolta nello Stato ospite(etc)
Non è stato escluso il vincolo di subordinazione , salvo l'accertamento del giudice nazionale, nel lavoro svolto dal coniuge dell'unico titolare dell'impresa. Anche l'attività sportiva è stata compresa nella disciplina comunitaria sulla libera circolazione dei lavoratori, quando ricorrono le condizioni già citate.
L'accesso al lavoro in uno Stato membro diverso da quello di origine ed il conseguente diritto di soggiornarvi presuppone il diritto di ingresso nel territorio di tale Stato.
Tale diritto deriva dal Trattato ,nonché, all'occorrenza, dalle disposizioni del diritto comunitario derivato e può essere condizionato esclusivamente al possesso di una carta di identità o di un passaporto valido.
Non sono ammessi controlli che integrino una prassi sistematica, che per ciò stesso diventa un ostacolo arbitrario alla circolazione delle persone; lo stesso dicasi per i visti di ingresso o l'apposizione di un timbro sul passaporto.
Il semplice controllo amministrativo è ammesso a condizione che non sia discriminatorio.
Il diritto di ingresso in un altro Paese membro comporta il diritto di soggiornarvi almeno 3 mesi, col beneficio del diritto all'eguaglianza di trattamento con i cittadini dello Stato ospite (es. diritto al risarcimento del danno che la legge nazionale riserva ai cittadini, il diritto a sovvenzioni in occasione della nascita di un figlio).
Del diritto di soggiorno (oltre il limite dei tre mesi) possono beneficiare i lavoratori dipendenti, con i rispettivi familiari, le persone che si stabiliscono in un altro Paese membro per esercitarvi un'attività economica.
Con l'entrata in vigore della direttiva 2004/38 tale diritto è attribuito a tutti i cittadini dell'Unione, unitamente ai loro familiari, a condizione però che essi dispongano di risorse economiche sufficienti e di un'assicurazione malattia.
Tale direttiva introduce anche la figura del diritto di soggiorno permanente di cui beneficeranno il cittadino dell'Unione ed i suoi familiari che avranno soggiornato legalmente ed in via continuativa per 5 anni nello Stato membro ospitante.
Per familiare vanno intesi, oltre il coniuge ed i discendenti e ascendenti diretti, anche il partner che ha contratto unione registrata secondo la legislazione di uno Stato membro.
Alcune direttive hanno esteso il diritto di soggiorno anche ai soggetti non "economicamente attivi"; tali direttive valgono ad integrare i "limiti e le condizioni" cui è sottoposto l'esercizio del diritto di soggiorno, che dunque finisce con l'essere attribuito al cittadino dell'Unione in quanto tale.
Il diritto di soggiorno deriva evidentemente dalla situazione in cui versa il beneficiario, mentre non è decisivo il possesso della carta di soggiorno, che pure viene rilasciata dallo Stato ospite per almeno 5 anni e con rinnovo automatico.
La Carta di soggiorno, inoltre, si distingue nettamente dal "permesso" di soggiorno attraverso il quale lo Stato esercita il suo potere in ordine all'ammissione dello straniero non comunitario e ha due conseguenze:
La direttiva 2004/58 interviene anche su tale profilo della libera circolazione dei lavoratori dell'Unione, abolendo la carta di soggiorno e sostituendola con un attestato di iscrizione che potrà essere richiesto soltanto se gli Stati membri lo richiederanno e che comunque troverà applicazione unicamente per soggiorni di durata superiore a tre mesi.
L'art.45 del Trattato chiarisce che la libertà di circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità relativamente a tutte le condizioni di lavoro.
I diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato o da normative derivate riguardano e possono dunque essere invocati dai lavoratori, ma niente esclude che possano essere invocati anche dai datori di lavoro.
La libertà di circolazione dei lavoratori si risolve, dunque, nel generale divieto di discriminazione in base alla nazionalità.
Tale divieto tende non solo a garantire al lavoratore che abbia una nazionalità diversa da quella dello Stato ospitante un trattamento non diverso da quello riservato ai cittadini, ma impedisce anche il verificarsi di condizioni concorrenziali a svantaggio dei lavoratori nazionali.
La libertà di circolazione è stata compiutamente realizzata con:
Relativamente alle condizioni di accesso al lavoro non vi può essere un precedenza o una priorità dei lavoratori nazionali rispetto a quelli di altri Paesi comunitari.
Va poi precisato che la disciplina della circolazione dei lavoratori comprende non solo la persona che si reca in un altro Paese membro in risposta ad un'offerta di lavoro ma si estende anche a colui che si limita a spostarsi per cercare lavoro.
L'applicazione del principio della parità di trattamento nell'accesso al lavoro vieta anche le discriminazioni dissimulate.
Al riguardo, i possibili elementi discriminatori sono i più vari, dal requisito della residenza a quello del titolo di studio ,alla conoscenza della lingua locale.
La giurisprudenza è sempre stata attenta ad accertare l'obiettivo sostanziale della parità di trattamento, verificando di volta in volta se la diversità di trattamento sia arbitraria e, quindi, dissimuli una discriminazione.
Il principio del trattamento nazionale ha poi trovato numerose applicazioni relativamente alle condizioni di esercizio dell'attività lavorativa, relative alla retribuzione, allo stato di disoccupazione, alla cessazione del rapporto di lavoro.
Sono compresi nella parità di trattamento anche tutti i vantaggi sociali e fiscali attribuiti ai lavoratori nazionali (es. un prestito agevolato in occasione della nascita di un figlio, riduzioni sulla tariffe ferroviarie, un'indennità di disoccupazione per i giovani).
Il regolamento n.1612/68 sancisce all'art.8 il principio della parità di trattamento anche in relazione ai diritti sindacali, in particolare l'iscrizione alle organizzazioni sindacali.
Un altro aspetto di grande rilevanza della libertà di circolazione dei lavoratori è quello del trattamento riservato alla famiglia del lavoratore ed alle condizione per l'integrazione dei suoi componenti nello Stato ospitante.
Il regolamento 1612/68 attribuisce al coniuge ed ai figli minori o ancora a carico del lavoratore una serie di diritti destinati a mantenere l'unità familiare ed a facilitarne l'integrazione quali:
L'art.45 n.3,lett. D,del TFUE garantisce i diritti del lavoratore e dei suoi familiari nel periodo seguente alla cessazione del rapporto di lavoro.
Le condizioni per conservare il diritto di risiedere nel Paese ospite sono:
In caso di licenziamento il lavoratore comunitario ha diritto alla stessa assistenza che gli uffici del lavoro dello Stato in cui era occupato prestano ai loro cittadini nella ricerca di un nuovo posto di lavoro.
Nel caso la cessazione del rapporto di lavoro sia dovuta alla sopravvenuta inabilità del lavoratore, quando abbia maturato un certo periodo di anzianità o per il raggiungimento dei limiti massimi dell'attività lavorativa, al lavoratore spetta il trattamento previdenziale e pensionistico previsto dalla legge locale.
In definitiva, il trattamento non discriminatorio ha natura di trattamento minimo, nel senso che è possibile l'applicazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali più favorevoli, in quanto estendano agli stranieri diritti e vantaggi non contemplati nel Trattato e nel regolamento n.1612/68.
La normativa sulla sicurezza sociale dei lavoratori migranti costituisce un corollario indispensabile alla libertà di circolazione.
Il fondamento di una tale normativa è costituito dall'art.48 del TFUE, in base al quale "il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura ordinaria, adottano in materia di sicurezza sociale le misure necessarie per l'instaurazione delle libera circolazione dei lavoratori, attuando in particolare un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti e ai loro aventi diritto: a) il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni sia per il calcolo di queste, b) il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati membri".
La normativa di attuazione dell'art.48 è essenzialmente contenuta nel regolamento n.1408/71 e nel regolamento n.574/72 aventi come scopo principale il coordinamento delle diverse normative nazionali in materia.
In mancanza di una disciplina comune, da un lato gli Stati membri continuano a disciplinare autonomamente i rispettivi sistemi previdenziali; dall'altro, nell'esercizio di tale autonomia, gli Stati membri devono rispettare il diritto comunitario.
Il regolamento n.1408/71 si applica ai lavoratori subordinati o autonomi che sono soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri e che siano cittadini di uno stato membro, nonché ai loro familiari e ai loro "superstiti".
La Corte di Giustizia ha precisato che "una persona possiede la qualità di lavoratore ai sensi del regolamento n.1408/71 quando è assicurata, sia pure contro un solo rischio, in forza di un'assicurazione obbligatoria o facoltativa".
Il coordinamento effettuato in virtù del regolamento predetto è fondato su 3 principi essenziali:
la parità di trattamento tra lavoratori che beneficiano della libertà di circolazione e cittadini della Stato membro di cui si tratta. In base a questo principio, dunque, non è ammessa alcuna discriminazione tra cittadini e altri lavoratori comunitari.
la lex fori determinazione della legge applicabile; costituisce il principio dell'unicità della legge applicabile, identificata con quella dello Stato in cui viene svolta l'attività lavorativa
la totalizzazione dei periodi assicurativi. garantisce al lavoratore che sia stato soggetto alle leggi di due o più Stati membri, il cumulo dei periodi assicurativi maturati in forza delle leggi di ciascuno degli Stati in questione.
La disciplina comunitaria relativa alla libera circolazione dei lavoratori non si applica al pubblico impiego: "Agli impieghi nella pubblica amministrazione", art.45,n.4,del TFUE.
Per pubblica amministrazione si intende l'insieme di quegli impieghi che implicano una partecipazione diretta o indiretta all'esercizio di poteri pubblici, nonché le funzioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o di enti pubblici.
La giurisprudenza ha dato alla deroga in esame una interpretazione molto restrittiva, fissando la necessità di valutare caso per caso quando tale deroga vada applicata, nonché di verificare la sussistenza del particolare vincolo di solidarietà e fedeltà nei confronti dello Stato che caratterizza il rapporto di pubblico impiego.
Il diritto del lavoratore alla libera circolazione, in particolare all'ingresso ed al soggiorno, può essere limitato o negato per ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza o per ragioni sanitarie, art. 45, n. 3 TFUE e Direttiva 2004/38/CE.
Lo status di cittadino dell'Unione ha imposto una interpretazione molto restrittiva delle deroghe in parola.
La giurisprudenza ha precisato i limiti che gli Stati membri devono rispettare nella definizione delle esigenze di ordine pubblico.
Anzitutto l'applicazione della misura restrittiva non può avere finalità economiche o comunque non connesse alle esigenze di ordine pubblico riconosciute in una società democratica.
La Direttiva 2004/38/CE precisa inoltre che i provvedimenti restrittivi della libertà di circolazione possono essere collegati esclusivamente ad un comportamento personale e specifico del soggetto, mentre non possono essere fondati sulla semplice esistenza di precedenti penali o come deterrente per altri stranieri.
I motivi di ordine pubblico posti a fondamento della misura restrittiva devono essere portati a conoscenza del lavoratore, affinché egli si possa ben rendere conto del contenuto e degli effetti della misura e possa dunque provvedere ad una difesa adeguata.
Quanto alle ragioni sanitarie la Direttiva 2004/38/CE indica le varie patologie che possono giustificare il rifiuto di ingresso e/o di rilascio del permesso di soggiorno, precisando, tuttavia, che il sopraggiungere della malattia dopo i tre mesi successivi all'arrivo non consente allo Stato membro di procedere all'allontanamento dal proprio territorio.
La giurisprudenza, d'altronde, aveva già precisato che la norma rende possibile il rifiuto dell'accesso o del soggiorno nel territorio a persone il cui ingresso o soggiorno costituirebbe, in quanto tale, un pericolo per la salute pubblica.
Il diritto di stabilimento, disciplinato dagli articoli da 49 a 55 del TFUE, investe qualsiasi attività economica svolta in regime di non subordinazione e in modo stabile.
Di questo diritto beneficiano sia le persone fisiche che siano in possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri, sia le persone giuridiche.
Per queste ultime va fatta qualche ulteriore precisazione.
L'art.54 stabilisce che esse sono equiparate alle persone fisiche aventi la cittadinanza di uno Stato membro se costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale all'interno della Comunità.
Quindi la società che voglia aprire una sede secondaria in un altro Paese comunitario deve già avere un centro d'attività all'interno della Comunità.
Il Trattato prevede, peraltro, una importante eccezione al beneficio della libertà di stabilimento relativamente a quelle attività che nello Stato ospite "partecipino, sia pure occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri" (art.51).
In particolare la Corte ha subito precisato che l'eccezione non può avere una portata che vada al di là dello scopo per la quale è stata prevista.
L'occasione fu una controversia che riguardava la professione di avvocato, rispetto alla quale non era mancato chi ne sosteneva il carattere "pubblico" e dunque l'esclusione in toto dalla sfera di applicazione della libertà di stabilimento.
La Corte tenne a precisare che l'art. 51 del Trattato consente agli Stati membri di precludere l'accesso a quelle attività che ,considerate in sé stesse, costituiscono una partecipazione diretta e specifica all'esercizio dei pubblici poteri.
Ciò però non si verifica rispetto alle attività di consulenza ed assistenza legale o della rappresentanza e della difesa delle parti in giudizio svolte da un avvocato.
La libertà di stabilimento riguarda sia "l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese" (art.49 comma 2°),sia l'apertura di agenzie, succursali o filiali.
In definitiva tratta di due ipotesi:
Per quanto riguarda le persone giuridiche, la situazione è più complessa, specie quando si tratta di società non di nuova costituzione.
Una siffatta condizione comporta una serie di difficoltà, atteso che, quanto meno in quegli Stati membri in cui è proprio il criterio della sede ufficiale effettiva a determinare la nazionalità della società, il trasferimento di detta sede in un altro Stato membro può risultare incompatibile con il mantenimento della personalità giuridica di cui la società gode ai sensi dell'ordinamento giuridico dello Stato membro di costituzione.
In tali condizioni, l'esercizio della libertà di stabilimento a titolo principale finisce per essere puramente teorico.
Allo stato attuale del diritto dell'Unione, un Paese membro dispone della facoltà di definire sia il criterio di collegamento richiesto ad una società affinché possa ritenersi costituita ai sensi del suo diritto nazionale, e a tale titolo possa beneficiare del diritto di stabilimento riconosciuto dal Trattato, sia quello necessario per continuare a mantenere detto status.
Lo stesso art.49 comma 1 prevede inoltre l'ipotesi che il soggetto sposti solo una parte secondaria della sua attività in un altro Paese comunitario, cioè lo stabilimento che si realizza con la creazione rispettivamente di agenzie, succursali o filiali.
Il Trattato menziona, quindi, per l'esercizio dello stabilimento secondario gli strumenti della filiale, della agenzia e della succursale.
Al riguardo va precisato che mentre per filiale va intesa una persona giuridica controllata dalla società madre, ma costituita secondo il diritto del Paese ospite e dotata pertanto di autonomia, le agenzie e le succursali non sono persone giuridiche autonome rispetto alla società madre.
Inoltre il diritto di stabilimento a titolo secondario è accordato non solo alle persone giuridiche, ma anche alle persone fisiche, purché si tratti di cittadini di uno Stato membro stabiliti in un altro Stato membro.
In altre parole, uno Stato membro non può negare ad un cittadino di un altro Stato membro l'apertura di uno studio o di un ufficio sul proprio territorio, e ciò sebbene a tale divieto soggiacciono i propri cittadini.
In tale ipotesi dunque agli Stati membri non è concesso applicare agli stranieri comunitari le stesse limitazioni applicate ai cittadini, in quanto l'effetto restrittivo che ne conseguirebbe sarebbe sproporzionato, risolvendosi in fatto nell'impossibilità per i cittadini dell'Unione di avvalersi di un diritto fondamentale garantito dal Trattato per stabilirsi in un altro Stato membro, se non rinunciando al precedente stabilimento.
Il contenuto materiale della normativa che sancisce e disciplina la libertà di stabilimento ruota intorno al principio del trattamento nazionale.
Questo significa che ai cittadini degli Stati membri, nonché alle persone giuridiche, che si stabiliscono anche solo in via secondaria in un altro Stato membro,l'art.49 intende garantire lo stesso trattamento riservato ai cittadini, vietando anzitutto ogni discriminazione in senso soggettivo (che sia cioè fondata sulla nazionalità) o nuova misura che sottoponga lo stabilimento dei cittadini degli Stati membri ad una disciplina più rigorosa di quella riservata ai propri cittadini.
Lo stesso Trattato ha previsto, inoltre ,l'adozione di direttive per la soppressione delle restrizioni esistenti (art.50);l'adozione di direttive volte a coordinare le disposizioni nazionali relative all'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio (art.53 n.2);nonché di direttive sul reciproco riconoscimento dei diplomi (art.53 n.1).
Tuttavia l'obiettivo della libertà di stabilimento va perseguito negli Stati membri indipendentemente dalla vigenza o meno di una normativa ad hoc.
Quest'ultima è prevista solo per facilitare l'esercizio effettivo di tale libertà, mentre la semplice eliminazione degli ostacoli al regime di libertà di stabilimento è oggetto, a partire dalla scadenza del periodo transitorio, di un obbligo preciso e incondizionato, che non richiede alcuna specificazione normativa.
Pertanto l'art.49,una volta scaduto il periodo transitorio ,ha potuto essere utilmente invocato dai singoli in quanto norma provvista di effetto diretto (come affermato nella celebre sentenza Reyners).
Spetta, pertanto, alle autorità nazionali fare in modo che la libertà di stabilimento sia garantita quando sussistano le condiziona di applicazione dell'art.49,anche e nonostante l'assenza di direttive di coordinamento ai sensi dell'art.53.
E' così che la Corte ha riconosciuto ad un avvocato belga il diritto di stabilirsi ed esercitare in Francia, atteso che il diploma conseguito dall'interessato nel Paese di origine era stato dichiarato equivalente dall'autorità competente dello Stato di stabilimento, sebbene solo a fini accademici e non a fini civili.
Il principio del trattamento nazionale ha dunque una portata molto ampia e anzitutto mira ad evitare qualsiasi discriminazione che sia fondata sulla nazionalità, comportando così l'illegittimità di qualsiasi misura che colpisca lo straniero in quanto tale.
E ciò vale anche per normative nazionali che si applichino solo ai cittadini di altri Stati membri.
La regola del trattamento nazionale non può condurre alla negazione del diritto di stabilimento quale conferito dallo stesso Trattato, con la conseguenza che il diritto di costituire una pluralità di centri di attività nell'insieme dell'Unione prevale sull'eguaglianza di trattamento nei casi in cui la normativa nazionale preveda l'unicità della sede.
Inoltre, va precisato che il regime della libertà di stabilimento intende eliminare anche quelle discriminazioni che comportano in fatto una discriminazione a danno degli stranieri.
Ciò significa che è vietata anche ogni altra forma dissimulata di discriminazione.
Si tratta in sostanza delle ipotesi in cui una normativa preclude in fatto al cittadino di un altro Paese membro di godere della libertà di stabilimento, in quanto ne condiziona l'esercizio al possesso di certi requisiti che sono propri del cittadino e non di altri.
È quanto si verifica o si può verificare, anzitutto, attraverso il criterio della residenza o attraverso talune condizioni imposte alle società, condizioni che rischiano di sfavorire le società "straniere" rispetto a quelle costituite secondo il diritto nazionale o, ancora, con i titoli di studio.
Nonostante gli sviluppi giurisprudenziali, le direttive previste dall'art. 53 TFUE, intese al reciproco riconoscimento dei titoli di studio e professionali restano necessarie per facilitare l'accesso e l'esercizio di molte attività autonome, con particolare riferimento a quelle rientranti nelle professioni liberali.
Per alcuni mestieri e professioni, il cui esercizio in taluni Stati membri è subordinato ad una formale qualifica professionale sono state adottate numerose direttive in materia, definite misure <<transitorie>>, in attesa della piena e diretta efficacia dell'art. 53 TFUE, ma, nella sostanza, misure destinate ad essere definitive.
Il criterio in generale che informa tali direttive è quello per cui quando lo Stato di stabilimento richiede, per l'esercizio di un'attività, il possesso di una qualifica professionale formale che in altri Stati membri non è richiesta, è sufficiente che il soggetto interessato provi di avere svolto effettivamente quell'attività nel Paese di origine per il periodo fissato dalla direttiva.
Ciò vuol dire che ogni Stato di stabilimento può chiedere all'interessato di esibire un'attestazione, rilasciata dallo Stato di provenienza, comprovante l'esercizio dell'attività di cui trattasi, ma non può definire condizioni di accesso tali da rendere inutile tale attestazione.
Per molte professioni lo scenario è cambiato con la direttiva 2005/36/CE, c.d. Zappalà, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali.
Essa ha consolidato in un unico testo legislativo ben quindici direttive, fra le quali dodici settoriali, riguardanti le professioni di medico, infermiere, odontoiatra, veterinario, ostetrica, farmacista e architetto; tre che riguardavano il riconoscimento delle altre attività professionali.
In dettaglio la direttiva 2005/36/CE si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che intendono esercitare una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali.
Essa stabilisce che ciascuno Stato membro è tenuto a riconoscere, sulla base dei criteri fissati dalla direttiva in parola, il diritto di accedere a una professione, come subordinato o autonomo, a qualsiasi cittadino dell'Unione in possesso di un titolo che lo legittima a svolgere la medesima attività in un altro Stato membro.
In concreto, il riconoscimento delle qualifiche professionali da parte dello Stato membro ospitante consente al beneficiario di accedere alla stessa professione per la quale è qualificato nello Stato membro di origine e di esercitarla alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato membro ospitante.
Impianto della direttiva ricalca la classica distinzione tra prestazione dei servizi, su base temporanea ed occasionale, e libertà di stabilimento, concernente invece lavoro autonomo prestato in maniera stabile.
In relazione alla prima ogni cittadino dell'Unione, legalmente stabilito in uno Stato membro, può svolgere la propria attività di servizi in un altro Stato membro con il proprio titolo professionale di origine senza dover chiedere il riconoscimento delle qualifiche che possiede.
Il prestatore deve provare di aver esercitato la propria attività professionale nello Stato di stabilimento per almeno due anni nel corso dei 10 anni che precedono la prestazione di servizi, se in tale Stato membro la professione in questione non è regolamentata.
Il divieto di restrizioni riguarda anche l'applicazione di normative nazionali che subordinano lo svolgimento di attività professionali al rispetto o al compimento di talune formalità legali.
Nell'ipotesi in cui professionista intende invece svolgere la propria attività avvalendosi della libertà di stabilimento, problemi marginali si pongono per talune professioni già oggetto di direttive settoriali.
Diverso il caso delle professioni per le quali non esistono disposizioni di armonizzazione della relativa formazione. La direttiva stabilisce un sistema di riconoscimento basato sul criterio c.d. "dell'equivalenza delle qualifiche".
Se in uno Stato membro ospitante l'accesso ad una professione o il suo esercizio sono regolamentati, l'autorità competente di tale Stato consente l'accesso a detta professione e il suo esercizio alle stesse condizioni previste per i cittadini nazionali, purché richiedente possegga titolo di formazione, rilasciata da un altro Stato membro, che attesti un livello di formazione almeno equivalente al livello immediatamente inferiore a quello richiesto dallo Stato membro ospitante.
Se, al contrario, nello Stato membro d'origine del richiedente l'accesso ad una professione o il suo esercizio non sono regolamentati, richiedente è tenuto a dimostrare di possedere non solo titolo di formazione, ma anche due anni di esperienza professionale a tempo pieno, maturata nel corso dei 10 anni precedenti.
La direttiva raggruppa le qualifiche professionali in cinque livelli che si distinguono essenzialmente per la durata del percorso formativo richiesto per l'accesso alla professione nel paese di origine del richiedente: attestato di competenza, il certificato, il diploma di formazione breve, il diploma di formazione di durata minima di tre anni ed inferiore a quattro anni, il diploma di formazione durata minima di quattro anni.
Tra le direttive intese ad agevolare la libertà di stabilimento merita particolare attenzione la direttiva 2006/123/CE, nota come <<direttiva servizi>>.
Essa si inserisce nel quadro delle azioni volte a rendere l'Unione europea caratterizzata da una economia in crescita esponenziale.
La direttiva mira ad eliminare gli ostacoli ancora presenti nel mercato interno che, di fatto, impediscono alle attività a carattere autonomo di circolare liberamente tra gli Stati membri, sia utilizzando la libertà di stabilimento, sia sfruttando la libertà di prestazione dei servizi.
La direttiva non si limita però ad agevolare le sole due attività menzionate, essa intende, nel contempo, rafforzare i diritti dei destinatari che da un mercato in libera concorrenza non possono che trarre vantaggi.
La direttiva stabilisce un quadro giuridico generale valido per qualsiasi attività di servizi fornita dietro corrispettivo economico, ad eccezione delle attività espressamente escluse.
La direttiva, in altre parole, ha un carattere orizzontale, nel senso che non riguarda una sola categoria o un settore particolare di servizi, ma abbraccia tutte le possibili attività di servizi esistenti o che potrebbero esistere in futuro.
Purtroppo, come sempre quando si parla di Unione, alle dichiarazioni auliche non corrispondono poi i fatti.
Dopo lunghe discussioni la direttiva non tocca molte e significative attività che restano escluse espressamente, fra esse: i servizi finanziari, audiovisivi, i servizi sanitari, le attività di azzardo, i servizi delle agenzie di lavoro interinale, i servizi forniti da notai ed ufficiali giudiziari.
Insomma sono escluse tutte quelle attività che costituiscono veri e propri monopoli, scardinati i quali i diritti dei destinatari trarrebbero sicuro giovamento.
La direttiva si compone di disposizioni comuni, riguardanti sia la libertà di stabilimento che la libertà di prestazione dei servizi, e di disposizioni dettate invece con riguardo unicamente all'una o all'altra libertà. Tra le disposizioni comuni figurano quelle volte a semplificare le procedure e le formalità amministrative, che costituiscono uno degli ostacoli più significativi all'accesso ed all'esercizio di un'attività di servizi in un altro Stato membro.
La direttiva quindi richiede agli Stati membri di istituire degli sportelli unici, rendere possibile l'espletamento delle procedure e formalità amministrative a distanza e per via elettronica, ad accettare documenti rilasciati da un altro Stato membro che abbiano finalità equivalenti.
Gli Stati membri hanno l'obbligo di prestarsi assistenza reciproca e di cooperazione al fine di garantire un controllo efficace dei prestatori e dei loro servizi nonché di evitare la moltiplicazione di tali controlli.
La cooperazione amministrativa si traduce nel diritto di uno Stato membro di richiedere informazioni, verifiche, ispezioni o indagine ad un altro Stato membro. È previsto un meccanismo di allerta in cui uno Stato membro è tenuto ad informare prontamente la Commissione e gli altri Stati membri interessati di qualunque comportamento di un prestatore di servizi che potrebbe provocare un pregiudizio grave alla salute o alla sicurezza delle persone o all'ambiente.
La direttiva prevede inoltre una serie di misure intese a promuovere la qualità dei servizi e ad aumentare il livello di informazione e di trasparenza del mercato con riguardo alla persona del prestatore ed all'attività da questi svolta.
Riguardo alle disposizioni concernenti esclusivamente lo stabilimento del prestatore in uno Stato membro diverso da quello di origine
rispetto ai regimi di autorizzazione, la direttiva ribadisce che risultano ammissibili solo nei casi in cui un controllo posteriore non sarebbe efficace a causa dell'impossibilità di constatare le carenze dei servizi interessati.
Agli Stati membri è pertanto consentito subordinare l'accesso ad un'attività di servizi e il suo esercizio ad un regime di autorizzazione soltanto qualora questo risulti non discriminatorio, giustificato da motivazioni di interesse generale e proporzionato rispetto all'obiettivo perseguito.
Quanto alla procedura di rilascio dell'autorizzazione la direttiva prescrive che essa sia chiara, resa pubblica e tale da garantire ai richiedenti che la loro domanda sia trattata con la massima obiettività, imparzialità e sollecitudine.
Con riguardo ai requisiti nazionali spesso imposti agli operatori economici ed in grado di ostacolare o di impedire l'esercizio della libertà di stabilimento la direttiva distingue fra quelli da ritenere assolutamente vietati e quelli che possono essere mantenuti in vigore al ricorrere certe condizioni.
- Tra i requisiti vietati: i requisiti discriminatori, fondati sulla cittadinanza o per le società sull'ubicazione della sede legale; il divieto di avere stabilimenti in più di uno Stato membro o di essere iscritti in registri o albi in diversi stati membri; le restrizioni della libertà di scegliere tra essere stabilito a titolo principale o a titolo secondario; applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che subordina rilascio di un'autorizzazione alla prova dell'esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato; l'obbligo di presentare una garanzia finanziaria o di sottoscrivere un'assicurazione presso un altro prestatore o presso un organismo sul territorio Stato membro in cui prestatore intende stabilirsi.
- Per quanto riguarda i requisiti che possono essere mantenuti in vigore o anche essere istituiti purché risultino non discriminatori, giustificati da un motivo imperativo di interesse generale e proporzionati, di otto tipologie sono: Le restrizioni quantitative e territoriali sotto forma di restrizioni fissate in funzione della popolazione o di una distanza geografica minima tra prestatori; gli obblighi per il prestatore di avere un determinato statuto giuridico; gli obblighi relativi alla detenzione del capitale di una società; i requisiti che riservano l'accesso ad alcune attività di servizi a prestatori particolari a motivo della natura specifica dell'attività; il divieto di disporre di più stabilimenti sullo stesso territorio nazionale; i requisiti che stabiliscono numero minimo dei dipendenti; le tariffe obbligatorie minime e/o massime che il prestatore deve rispettare; l'obbligo per il prestatore di fornire, insieme al suo servizio, altri servizi specifici.
Per la materia societaria l'art. 50 TFUE attribuisce al Parlamento Europeo, al Consiglio, alla Commissione il compito di coordinare ove occorra ed <<al fine di renderle equivalenti>>, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a tutela degli interessi dei soci e dei terzi.
Lo sforzo di coordinamento e di armonizzazione del diritto societario ha portato all'adozione di numerose direttive su: fusione, struttura della società e aspetti specifici di non poco rilievo.
Dopo lunga riflessione è stato adottato un regolamento che definisce lo Statuto della Società Europea.
Il modello è facoltativo e si aggiunge a quelli nazionali, destinato in particolare alle imprese che operando in due o più Paesi membri, vogliono un regime giuridico unitario per le diverse articolazioni.
Di sicuro rilievo è anche la direttiva concernente le OPA (offerte pubbliche di acquisto),che si colloca in un contesto di coordinamento, più generale ed in corso di realizzazione, delle garanzie a tutela dei soci e dei terzi.
La libertà di circolazione dei lavoratori autonomi e delle società è completata dalla disciplina sulla libera prestazione dei servizi prevista dagli artt. 56-62 del TFUE.
A differenza dello stabilimento, che si traduce nel diritto dei cittadini e delle società di uno Stato membro di esercitare in modo continuo e permanente la propria attività in un altro Stato membro, la prestazione dei servizi comporta l'esercizio solo temporaneo ed occasionale di un'attività non salariata in un altro Stato membro.
Occorre al riguardo tener presente che la posizione dei cittadini che si avvalgono della libera prestazione dei servizi non è paragonabile a quella dei soggetti stabiliti, poiché nel complesso gli obblighi imposti a questi ultimi sono ben più rigidi di quelli che gravano sui primi.
La disciplina dei servizi prevista dal Trattato è piuttosto sintetica e affida alle istituzioni comunitarie il compito di emanare i provvedimenti necessari ad attuare o facilitare la realizzazione della liberalizzazione.
L'art. 56 prevede che le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno della Comunità siano progressivamente soppresse nel corso del periodo transitorio nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un Paese della Comunità diverso da quello del destinatario della prestazione.
Lo scopo è di consentire al prestatario di un servizio di esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato in cui la prestazione è fornita, alle stesse condizioni che tale Stato impone ai propri cittadini.
Beneficiari della disciplina sui servizi sono i cittadini aventi la nazionalità di uno Stato membro e stabiliti "in un Paese della Comunità"(art. 56).
L'art. 56, c. 2° prevede che la libertà di prestazione di servizi possa essere estesa, con procedura legislativa ordinaria, anche a cittadini di Paesi terzi. Tale ipotesi non si è realizzata.
Tra i prestatori che beneficiano della libertà in parola vi sono anche le persone giuridiche, costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi sede sociale, l'amministrazione o il centro dell'attività principale nell'Unione, in virtù del richiamo operato dall'art. 62 all'art. 54 del TFUE, concernente lo stabilimento di società.
Ai sensi dell'art. 58 n. 1 sono tuttavia escluse dal campo d'applicazione materiale della disciplina sui servizi le attività relative al settore dei trasporti.
Una parziale eccezione è inoltre prevista in merito ai servizi bancari, assicurativi e finanziari in genere, per essi è stato infatti previsto un processo di liberalizzazione specifico, da attuarsi in armonia con la liberalizzazione progressiva della circolazione dei capitali.
Infine, come per lo stabilimento, sono ammesse le restrizioni dovute a ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanitarie.
Il "servizio", come risulta dagli artt. 56 e 57,si identifica con un'attività non subordinata fornita, normalmente contro remunerazione, da un prestatore stabilito in uno Stato membro diverso da quello in cui la prestazione deve essere eseguita.
Prestazione del servizio e suo pagamento possono anche non essere contestuali, ma, come per le prestazioni assicurative, pagate con notevole anticipo rispetto alla prestazione che avviene anni dopo.
Inoltre, l'art. 57 del Trattato non richiede che il corrispettivo sia pagato direttamente da coloro che usufruiscono del servizio. Per es. : prestazione mediche dispensate in ambito ospedaliero o meno.
Il caso tipico è, ad esempio, quello del libero professionista che svolge un'attività di consulenza o di progettazione in uno Stato membro diverso da quello in cui ha il suo studio, dell'albergatore che ospita turisti stranieri, delle trasmissioni televisive che raggiungono telespettatori in Stato diverso da quello di emissione.
Le ipotesi in cui si traduce il carattere transfrontaliero della prestazione sono numerose:
può aversi uno spostamento del prestatore del servizio in uno Stato membro diverso da quello in cui è stabilito ed in particolare nel Paese del destinatario (ad es. medico che va a curare un paziente che risiede in un altro Paese membro);
può aversi uno spostamento del destinatario del servizio nello Stato in cui è stabilito il prestatore (ad es. turista che usufruisce di tutti i servizi);
né il prestatore né il destinatario si spostano in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stabiliti: a spostarsi è solo il servizio (ad es. servizi finanziari, bancari e assicurativi);
può aversi che il destinatario della prestazione e il prestatore del servizio sono stabiliti nello stesso Stato membro ed è solo il prestatore a spostarsi ovvero si spostano entrambi ed insieme per raggiungere il luogo in cui la prestazione deve essere eseguita (ad es. gruppi di turisti, destinatari del servizio, e delle rispettive guide, prestatori del servizio, provenienti da uno stesso Stato di origine si spostano insieme per raggiungere il luogo in cui la prestazione deve essere eseguita).
La disciplina materiale della libera prestazione dei servizi è anzitutto fondata sul divieto di discriminazioni in base alla nazionalità.
Il Trattato tuttavia non si limita a prescrivere il principio del trattamento nazionale; ed infatti l'art. 56.1 non vieta unicamente le discriminazioni basate sulla nazionalità, ma più in generale le "restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno della Comunità nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un Paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione".
A ciò si aggiunga che in base all'art. 61, fino a quando permangono negli Stati membri restrizioni alla libera prestazione dei servizi, "ciascuno degli Stati membri le applica senza distinzione di nazionalità o di residenza a tutti i prestatori di servizi contemplati dall'art. 56.1".
Il tenore di queste prescrizioni si spiega con il fatto che rispetto alla libera prestazione di servizi il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, o, nel caso di persone giuridiche, della sede, non gioca un ruolo decisivo come avviene nel caso del diritto di stabilimento.
Tenuto conto, infatti che l'attraversamento delle frontiere non sia accompagna ad uno stabile insediamento, il principio del trattamento nazionale rischierebbe di tradursi in restrizioni ultronee rispetto a tale caratteristica della prestazione dei servizi.
Quanto ai tempi e ai modi della liberalizzazione, anche in materia di servizi il Trattato aveva previsto la consueta gradualità, nel senso che tale obiettivo doveva essere raggiunto entro la fine del periodo transitorio.
Era previsto il consueto obbligo di standstill ,imposto agli Stati membri, nonché il compito affidato alle istituzioni comunitarie di adottare, da un lato, un Programma Generale e direttive volte ad eliminare le restrizioni esistenti; dall'altro, direttive per il riavvicinamento di disposizioni nazionali ed il reciproco riconoscimento dei diplomi.
L'assenza d'intervento normativo ritardava tuttavia i tempi della liberalizzazione, impedendo così ai cittadini comunitari la possibilità di avvalersi della libertà in questione.
In tale contesto ,è stata, pertanto, la giurisprudenza della Corte a rivelarsi determinante.
Nella sentenza Van Binsbergen la Corte rilevò infatti che l'applicazione dell'art. 56 non è più sottoposta ad alcuna condizione; ne consegue che gli art. 56 e 57 "hanno efficacia diretta e possono venir fatti valere dinanzi ai giudici nazionali, almeno nella parte in cui impongono la soppressione di tutte le discriminazioni che colpiscono il prestatore di un servizio a causa della sua nazionalità o della sua residenza in una Stato diverso da quello in cui il servizio viene fornito".
Il secondo aspetto importante del regime di libera prestazione dei servizi è dato dalla portata sostanziale e non solo formale del divieto di restrizioni discriminatorie.
Ciò vuol dire che sono vietate anche quelle restrizioni che colpiscono anche i cittadini o le società nazionali, ma che in fatto si risolvono in una restrizione per gli stranieri spesso più vistosa.
Tipico è il requisito della residenza.
Inoltre, la giurisprudenza è orientata nel senso che costituiscono una violazione degli artt. 56 e 57 "non solo le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza del prestatore, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata" .
Ad esempio l'obbligo di versare la quota di contributi a carico del datore di lavoro che effettui una prestazione di servizi, in quanto esteso alle imprese stabilite in un altro Paese comunitario e quivi sottoposte agli obblighi contributivi dei datori di lavoro.
In tale ipotesi, infatti, il pagamento di tali contributi si risolve in un onere economico supplementare per i datori di lavoro stranieri, essendo questi ultimi comunque tenuti al pagamento dei medesimi contributi già nel Paese di stabilimento.
Le restrizioni alla libertà di prestazioni dei servizi all'interno del mercato comune non si esauriscono con le violazioni del divieto di discriminazione.
In altre parole il disposto degli artt. 56 e 57 non può significare che tutta la legislazione nazionale, applicabile ai cittadini di uno Stato membro, e relativa normalmente all'attività permanente delle persone in esso stabilite, possa essere applicata integralmente e allo stesso modo alle attività di carattere temporaneo esercitate da persone stabilite in altri Stati membri.
In questo senso l'applicazione del principio di libera prestazione dei servizi può pertanto tradursi in una situazione di maggior favore formale per i prestatori o destinatari stranieri rispetto ai cittadini e alle società del Paese in cui la prestazione è fornita.
In definitiva è incompatibile con l'art. 56 qualsiasi restrizione imposta per il motivo che il prestatore è stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel quale la prestazione viene fornita.
Ed, infatti, come precisato nella sentenza Sager, l'art. 56 richiede "la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali ed a quelli degli altri Stati membri, allorché essa sia tale da vietare o da ostacolare in altro modo le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi".
Sulla base di tale approccio sono state dichiarate in contrasto con la disciplina in questione, ad esempio, le normative che richiedono il possesso di una particolare qualifica professionale alle guide che si spostano in un altro Stato membro insieme a gruppi di turisti, gli uni e gli altri provenienti da uno stesso Stato membro.
Va anzitutto sottolineato che tra le misure distintamente e indistintamente applicabili c'è una differenza sostanziale sul piano delle eccezioni consentite.
Le prime (misure distintamente applicabili),infatti, sono compatibili solo se possono farsi rientrare in una deroga espressamente prefigurata dal Trattato; ad es dall'art. 52 cui rinvia l'art. 62, per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità.
Le seconde (misure indistintamente applicabili),invece, la Corte ha comunque insistito sul carattere eccezionale delle possibilità di deroga apportabili alla libera prestazione dei servizi.
Essa ha infatti affermato che la libertà in questione può essere limitata unicamente:
La Corte ha, in definitiva, applicato anche alla materia dei servizi la formula Cassis de Dijon utilizzata in tema di misure restrittive degli scambi di merci.
Nella sentenza Gouda, peraltro, la Corte ha operato una utile ricognizione, esemplificativa, "delle esigenze imperative connesse all'interesse generale" in relazione alle quali misure restrittive sono state riconosciute compatibili con il diritto comunitario:
le norme che tutelano la proprietà intellettuale, i lavoratori e i consumatori; conservazione del patrimonio storico-artistico nazionale; valorizzazione delle ricchezze archeologiche storiche e artistiche. Es vedi libro pagg. 603-606.
Nella generale enunciazione dell'art. 3 del TUE, sia prima che dopo le modificazioni apportate dal Trattato di Maastricht, la libera circolazione dei capitali ha sempre trovato collocazione accanto alla circolazione delle persone e dei servizi, nell'unica previsione della lettera c).
Lo stesso dicasi per l'art. 14,in cui la circolazione dei capitali è uno degli elementi dello "spazio senza frontiere interne".
Il Trattato di Maastricht ha modificato sensibilmente la disciplina originaria dei movimenti dei capitali e dei pagamenti.
Ciò non può sorprendere più di tanto, atteso che la previsione di una unione monetaria e di un rafforzato coordinamento delle politiche economiche ha ovviamente inciso profondamente in quei settori del mercato comune che maggiormente risentivano della significativa autonomia che il Trattato di Roma aveva lasciato ai singoli Stati membri in tema di politica economica e soprattutto monetaria.
Le due nozioni di movimenti di capitali e di pagamenti sono diverse.
La prima si riferisce alle operazioni finanziarie che si traducono in un investimento ovvero in un allocazione di risorse senza collegamento alcuno con una prestazione ovvero con scambi di beni o servizi; la seconda comprende precisamente le controprestazioni in denaro degli scambi di beni o di servizi.
Significativa è la sentenza Luisi e Carbone, dove la Corte ,dopo aver precisato che anche il turista che si sposti in un altro Paese ed è per ciò stesso destinatario di servizi, deve poter beneficiare della liberalizzazione, ne dedusse che i trasferimenti di valuta per scopi turistici rientravano nella previsione sui trasferimenti di valuta corrispondenti e necessari all'esercizio della libertà di prestazione di servizi e dunque liberalizzati.
La Corte ha, in seguito, finito col dare una lettura più ampia e sistematica dell'intera disciplina dei movimenti di capitali, precisandone lo scopo di garantire la più ampia libertà possibile e dunque di eliminare tutti gli ostacoli, anche quelli che, pur non esaurendosi in formali autorizzazioni valutarie e non pregiudicando l'operazione, costituiscono pur sempre un intralcio alla libera circolazione dei capitali.
La liberalizzazione completa dei movimenti dei capitali si è realizzata con la direttiva n. 361/1988 che ha enunciato in termini generali ed incondizionati il principio di libertà dei movimenti dei capitali con la sola eccezione riguardante l'acquisto di case secondarie, oggetto di possibili restrizioni (la c.d. deroga danese).
Significativo era poi l'art. 7 della direttiva che sanciva l'impegno degli Stati membri ad applicare lo stesso grado di liberalizzazione anche ai movimenti di capitali con i Paesi terzi.
Il Trattato di Maastricht ha definitivamente sancito l'assetto raggiunto, perfezionandolo sotto il profilo sistematico in modo anche più razionale, in particolare mettendo insieme capitali e pagamenti fino ad allora disciplinati in settori diversi.
Il capo quarto del Trattato dedicato a "Capitali e pagamenti" sancisce ,infatti, che "nell'ambito delle disposizioni previste nel presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi". La stessa formula è utilizzata subito dopo per i pagamenti (art. 56 n. 2).
Il principio sancito dall'art. 56 è dunque che sono abolite anche tutte le restrizioni indirette o dissimulate in misure in apparenza indistintamente applicabili.
In breve, sono da considerare restrizioni non consentite ai movimenti di capitali tutte quelle misure che di diritto o di fatto scoraggiano investimenti o altri tipi di movimenti di capitali ( come i prestiti) in altri Paesi membri.
Le uniche deroghe ammesse a questo principio fondamentale di libera circolazione sono quelle contemplate dagli artt.57 e 58.
Le misure di controllo degli Stati membri non possono ,perciò, avere l'effetto di ostacolare i movimenti di capitali conformi al diritto comunitario.
A quest'ultimo proposito, si rileva che la prassi di alcuni Stati membri di subordinare ad una previa autorizzazione o addirittura di vietare del tutto i trasferimenti intracomunitari di valuta, ad esempio di banconote, era già incompatibile con la richiamata direttiva, così come oggi è incompatibile con l'art. 58 del Trattato a meno che al dovuto test di proporzionalità non risulti effettivamente necessaria ai fini di ordine pubblico o di sicurezza.
Un'ipotesi particolare che ha dato luogo ad uno specifico contenzioso è quella relativa alla c.d. golden share che in sostanza è un diritto di veto che lo Stato - azionista conserva per sé rispetto a talune deliberazioni di gestione della società ritenute rilevanti per gli interessi generali del Paese.
Resta ferma, peraltro, la circostanza che la libera circolazione dei capitali è strettamente funzionale all'esercizio effettivo delle altre libertà e, in particolare, del diritto di stabilimento, che secondo la Corte si dovrebbe ritenere prevalente quando l'acquisto di partecipazioni conferisce la possibilità di esercitare una influenza determinante sulle decisioni dell'impresa.
Il Trattato prevede poi delle misure di salvaguardia comunitarie. Per il caso che movimenti di capitali con Paesi terzi causino o minaccino di causare difficoltà gravi per il funzionamento dell'Unione economica e monetaria, il Consiglio può adottare misure nei confronti di Paesi terzi, a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione e consultata la Banca centrale europea (art. 59),nonché eventuali misure di urgenza collegate alle più generali misure rientranti nella politica estera e di sicurezza comune di cui all'art. 301 del Trattato. In proposito uno Stato membro può adottare unilateralmente misure solo se urgenti e salvo diversa delibera successiva del Consiglio (art. 59 n.2).
Infine un forte impulso al processo di realizzazione di un mercato unico dei capitali è stato di recente dato dall'adozione di un complesso piano di regolamentazione dei servizi finanziari (c.d. PASF) il quale comprende disposizioni di regolamentazione dei servizi di investimento, dei settori bancario e assicurativo, nonché importanti proposte di riforma del diritto societario finalizzate a rimuovere le barriere esistenti agli investimenti e alla raccolta di capitali, a fornire informazioni adeguate agli investitori e rendere effettivo il controllo di società e mercati.
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