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Il trasferimento delle ideologie dal primo al terzo mondo




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IL TRASFERIMENTO DELLE IDEOLOGIE DAL PRIMO AL TERZO MONDO

L'influenza e configurazione delle ideologie occidentali nel Terzo mondo sono spiegabili perché esse furono recepite, applicate e sviluppate come teorie della resistenza al regime coloniale occidentale. Ogni volta vi fu combinazione del patrimonio di tradizioni indigene con le idee trasferite dall'Occidente.
Comunque si cercò di riadattare in maniera autonoma le idee, per legittimare l'aspirazione all'indipendenza. Il postulato più frequente fu la combinazione nazionalismo-socialismo.

E' evidente che l'accento del pensiero politico cada non tanto sul contenuto teorico quanto sulla funzione pratica delle idee nazionalistiche e socialiste. Le divergenze sono sul problema dell'uso della violenza rivoluzionaria e terroristica, sul rapporto tra modernizzazione e difesa di tradizioni autoctone. L'uso di socialismo è stato inflazionato per paesi che mostrano strutture ancora preindustriali, feudali o da dittatura militare (es. socialismo arabo).

Si riterrà più comodo ritenere responsabili le potenze del capitalismo straniere anziché il proprio governo dei grossi problemi. La maggior parte di questi paesi che si definiscono socialisti, lo sono meno di tanti Stai occidentali, nei quali lo Stato dispone di un potere economico ben più ampio.

Il regime militare è visto come terza via per evitare l'alternativa capitalistica e quella comunista. L'alternanza continua di regimi militari e civili, rendono il sistema monopartitico più duttile e meno totalitario.

I movimenti di liberazione degli anni '50 e '60 mostrano due cose: modelli ideologici fondamentali, ma anche gamma di variazioni da continente a continente. Ad aprire la strada furono in Asia tre capi diversi tra loro: il comunista Mao Tse-tung in Cina, il nazionalista Sukarno in Indonesia e Gandhi in India. Possiamo considerarli i prototipi dei vari indirizzi.

Sukarno, Gandhi e Nehru svilupparono una filosofia del neutralismo che proclamò la terza via e sfociò negli Stati non allineati (con Tito e Nasser), che aspiravano a unificare l'idea di liberazione socialistico-anticoloniale con le idee di autodeterminazione nazional-democratica.

Mao estendeva la teoria marxista del proletariato a tutto il popolo, saltando lo stadio del capitalismo. Nella sua ideologia è in primo piano il collettivismo, la lotta di classe e di popolo.

Nella teoria di Sukarno il concetto di "democrazia dirigista". Lo sviluppo del Terzzo mondo sarebbe stato determinato non dalla dittatura ma da una democrazia sui generis (collettivistico-nazionale, integrale). Questo progetto ricordava la classica teoria dell'autoritarismo di taglio nazional-rivoluzionario: rifiuto dello Stato pluripartitico, dittatura della elite dirigente della liberazione, funzione consultiva del parlamento, processo decisionale attraverso la discussione e il consenso (pilotato) anziché attraverso governi. Il progetto prevedeva una sorta di fronte nazionale (NASAKOM) di tutte le forze sociali, religiose e politiche "progressiste".

L'idea di Sukarno continuò a vivere in molte dittature semidemocratiche del Terzo mondo, con la miscela di "Jefferson e Marx" e un progressismo spinto.

In India ci fu prima la filosofia della liberazione politico-religiosa di Gandhi e in seguito la politica neutralista di Nehru. Entrambi si erano impegnati, nel periodo tra le guerre, nella costruzione del Partito del Congresso in India. Con l'idea della resistenza passiva e non violenta Gandhi si guadagnò un'adorazione carismatica anche tra le masse.

Egli sviluppò la teoria dei paesi postcoloniali, perché considerava elemento della modernizzazione non l'industrializzazione bensì soprattutto la difesa morale e umana delle forme autoctone dell'economia e della società di villaggio.

Naturalmente la nuova India si è notevolmente allontanata da questo modello già con Nehru che portò a elaborazioni di un proprio "socialismo" che si distaccava da Gandhi.

Ancor più fortemente marcato dalla connessione tra politica e religione è stato lo sviluppo del pensiero nel mondo islamico. Anche qui abbiamo diverse forme: nei paesi di matrice araba nasce un conflitto permanente tra politica di potenza autonoma dei singoli Stati e il programma panarabo di una "nazione araba".

I casi più importanti sono i tentativi egemonici del dittatore Nasser e l'incandescente antimperialismo nazionalistico di Gheddafi.
Nel mondo islamico si è riusciti ancor meno che altrove a sviluppare e a realizzare una visione politica democratica. Non si è modificata la contraddizione di fondo che esiste nei paesi dell'islam tra una religione di tipo politico-autoritario e le tendenze alla modernizzazione.

Nasser: la sua "Filosofia della rivoluzione" del 1952 è la prima concezione non marxista del socialismo.

Sotto il suo successore Al Sadat si è arrivati a un sistema moderatamente autoritario che si appoggia all'Occidente. Il nasserismo appare quindi come una creazione molto personale ma di corto respiro ideologico.

I dittatori arabi sono quasi tutti militari che assumono il ruolo di uomini forti promettendo una sintesi tra vecchio e nuovo (es. Ayub Khan in Pakistan).

Tra dittatura militare, anticolonialismo e anticomunismo si colloca quel movimento fin dagli anni '40 in Egitto e in Siria, poi anche Irak e Giordania, che è il paritto socialista per il rinnovamento arabo (Ba'th). I suoi postulati sono: unità araba, neutralismo, democrazia e socialismo, il ruolo dell'islam viene ridimensionato. Tre i suoi princìpi fondamentali: l'unità e la libertà, il carattere e la missione della nazione araba.

Le numerose versioni del "nazionalismo arabo" variavano nei diversi paesi: questa idea ha prodotto più conflitti politici che non unità, l'unico legame restava l'inimicizia verso Israele.


In Africa si è prodotto la collisione tra forme di governo ereditate dall'era coloniale, idee nazionalistico-socialiste con accento progressista, e condizioni culturali e sociali tradizionali che apre la strada agli uomini forti. Possiamo distinguere tre tipi di ideologie: una dottrina nazionale a sfondo sociale, moderatamente autoritaria e filo-occidentale, che esalta i caratteri africani: il suo esponente è Sédar Senghor (Senegal). Un'altra è la teoria radicale della "dittatura democratica" con inclinazioni filocomuniste: qui abbiamo il dittatore della Guinea Touré. Tra questi estremi si muovono capi la cui ambizione a presentarsi come salvatori serve a giustificare le loro posizioni di potere.

Nella concezione di Senghor il "socialismo africano" e la "negritudine" occupano una posizione centrale. Per lui la nazione sta al di sopra delle "classi". Egli parla infine di una "terza rivoluzione" destinata a fornire il contributo dei popoli di colore alla "nuova civiltà planetaria".

La negritudine implica un mito irrazionale della comunità: ma svincolato dal razzismo europeo. Senghor parla di un vago "razzismo antirazzista". La negritudine è quindi quasi uno dei "miti"; per questo motivo Senghor è convinto che la cultura europea non può esser importa così com'è ad altri popoli.

Il nazionalismo moderno che già Montesquieu ha descritto entra continuamente in conflitto con la pretesa di tutte le grandi idee e dei grandi sistemi politici di avere una validità universale.

Il maggior sostenitore del "socialismo africano" è il capo di Stato della Tanzania, Nyerere. Ha basato il suo progetto di socialismo sulla comunità familiare tradizionale allargata, come alternativa alla società capitalistica o a quella comunista (limitazione della proprietà e costruzione di una comunità organica. Nyerere ha insistito sul nesso tra nazionalismo e panafricanismo, un terreno sul quale l'organizzazione dell'unità africana (OAU) ha fatto scarsi progressi.


In America latina del tutto analoghi sono i  problemi dello sviluppo e della modernizzazione. L'impronta europea delle elites culturali e politiche che hanno riprodotto le ideologie contrasta con le strutture sottosviluppate della società e dello Stato. Le dottrina hanno di fronte una realtà caratterizzata da latifondisti ricchi e popolazione contadina povera, da una industrializzazione disomogenea e da una forte influenza straniera sull'economia. Queste hanno portato quasi ovunque all'instaurazione di regimi autoritari.

Il terrorismo e la guerriglia hanno qui trovato, negli anni '60, un sostegno ideale. Qui si è finiti per portare alla leggitimazione autoritaria di una politica di violenza antiterroristica dall'alto. Un livello incandescente raggiunsero i conflitti scoppiati con lo sviluppo del regime del socialista Allende in Cile (1970-3). Da allora la collocazione intermedia dell'America latina tra Occidente e paesi in via di sviluppo è il tema emergente.

L'allargarsi della discussione sui diritti umani può andare a vantaggio dei movimenti rivoluzionari che possono sfruttare le parole d'ordine per erigere dittature di sinistra: l'esempio di Cuba. (Nicaragua e S. Salvador).

Bisogna fare netta distinzione tra regimi totalitari (marxisti) e autoritari (militar-conservatori). Le tradizioni cristiane e liberali del continente sono incomparabilmente più efficaci che in altre regioni del terzo mondo.

In America latina è mancata una esperienza politica profonda come quella del fascismo, del nazismo e dello stalinismo. Dobbiamo arrivare agli anni '60 per scorgere questa dinamica: terrorismo di destra e di sinistra.

Tuttavia si è andata consolidando una concezione dei diritti umani moderata soprattutto nei democristiani e nei socialisti riformatori.

Non sono mancati gli insuccessi: sconfitta del capo dei democristiani Eduardo Frei in Cile.

La problematica latino-americana si riassume nel rapporto tra elementi autoritari e liberali, dittatoriali e democratici. Il putsch in Cile fu un classico vuoto di potere: Allende era paralizato dalla pressione dell'estrema sinistra.

La polarizzazione estrema e la vanificazione di qualsiasi spazio per negoziare e agire esasperarono la tendenze alle soluzioni violente e alla fine sanzionarono la dittatura. La minaccia vera e propria viene dalle ideologizzazioni con tutto il seguito di intolleranza militare.; si giustificano con argomenti anticomunisti e sanzionano la propria violenza spacciandola per pacificazione antiterroristica.

I due estremismi hanno sempre portato alla totale disfunzione degli Stati, all'oppressione interna e a situazioni di conflitto sul piano internazionale.

Sembra anacronistico che un continente persino quasi omogeneo dal punto di vista linguistico, non abbia finora prodotto nessuna analoga idea di comunità latino-americana.

L'orientamento sul modello europeo e la scomparsa dei sistemi autoritari in questi paesi può oggi agevolare una maggiore apertura verso la democrazia rispetto al passato. Nessun altro continente come quello latino-americano ha altrettante opportunità di lasciarsi alle spalle lo stadio di sviluppo contrassegnato dalla dittatura.


Conclusione: le ideologie esercitano in periodi di continuo rischiaramento e di emancipazione una forza di attrazione che assume un'importanza politica di prim'ordine. Esse rappresentano una contestazione permanente al tentativo di ordinare l'esistenza politico-sociale del cittadino in base all'idea dei diritti umani e della disciplina civile della violenza, sì da rendere possibile quel "vivere bene" e quella forma di governo moderato che, da Aristotele in poi, contrappone l'idea politica di libertà agli ideologi dello Stato perfetto e del potere totalitario.

La lotta tra i principi universali della libertà e della schiavitù (Tocqueville) non è ancora decisa, né più né meno. Il suo esito è legato alla disponibilità a resistere alla seduzione ideologica del totalitarismo.

Dobbiamo riconoscere nella democrazia non un male necessario, ma un valore superiore alle promesse di paradisi terrestri con le quali da sempre si giusticano violenze ripugnanti e si distruggono libere comunità.


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