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Per analizzare il concetto moderno di trattamento penitenziario è opportuno prestare attenzione a come storicamente la pena inflitta ai condannati sia mutata nel tempo, nella realtà delle società occidentali. La pena ha subito un'importante evoluzione. Basta far riferimento a come la letteratura medioevale sia ricca di narrazioni in merito a pene cruente e violente, sale di tortura, pene come le amputazioni, le marcature a fuoco, prigioni con celle buie e segrete. Il carattere punitivo e privatistico del castigo in epoca medioevale, obbligava il suddito ad osservare le regole imposte dal sovrano, unico soggetto deputato ad emanare ordini e giudicare il reo. La definizione delle pene era stabilita in conformità a regole riconosciute da un sistema sanzionatorio, che aveva come fonti primarie la consuetudine e la discrezionalità del signore, il quale giudicava secondo il soggetto imputato. Alla base del sistema giurisdizionale sussisteva la necessità di riparare i danni derivanti dal reato recati alla società, per questo motivo il reo veniva privato di tutti quei beni che per la comunità rappresentavano valori sociali, quali la vita, l'integrità fisica e il denaro. Lo spettacolo del supplizio, il cerimoniale della pena, era rappresentato in piazza per avere funzioni dissuasive nei confronti di coloro che avessero deciso di trasgredire le regole del sovrano.
Con l'avvio del sistema di produzione capitalistico, con una nuova visione della vita basata sulla produttività, sulla laboriosità, sull'accettazione delle regole, e le trasformazioni di costumi e di consuetudini, il concetto di pena subisce profondi cambiamenti. La legislazione punta il dito verso coloro che non sono in grado di adeguarsi a quest'imponente trasformazione economico-culturale: la classe dei non occupati (vagabondi, nomadi, mendicanti). Nei confronti di questi soggetti si sviluppa all'inizio del XVI secolo una normativa repressiva, caratterizzata da durissime pene corporali. La Corona inglese interviene così nel processo che va dalla dissoluzione dell'economia tradizionale, al precoce e vigoroso sviluppo del capitalismo agrario e industriale. L'esperienza delle Poor Laws mira a risolvere i problemi sociali e d'ordine pubblico derivanti dalle profonde trasformazioni in atto. Imposto l'assoluto divieto di mendicare e intensificata l'azione repressiva, la legge elisabettiana impone, agli indigenti privi di lavoro, l'obbligo di sottoporsi ad un test di povertà, consistente nella verifica della disponibilità all'internamento in strutture nelle quali si era avviati al lavoro. Questi contenitori avevano il compito di organizzare il lavoro all'interno, assumendo così tutti i tratti, più ancora de l'opificio, d'istituzioni totali dai severi caratteri disciplinari. I poveri oziosi che avessero posto rifiuto al lavoro, erano destinati alla reclusione in case di correzione.
L'esempio inglese è adottato anche in altre parti d'Europa portando alla comparsa d'esperienze simili in Francia, come l'Hopital général di Parigi, o in Olanda come le Rasp-huis. Il contesto storico in cui sorsero le case-lavoro in Olanda differì da quello inglese e non ne subì l'influenza; i fattori determinanti furono l'incremento dei traffici commerciali e, diversamente dall'Inghilterra, la mancanza di offerta-lavoro sul mercato.
La workhouse olandese, denominata rasp-huis, poiché vi si svolgeva una particolare lavorazione del legno, si finanziava con il lavoro degli internati e, per assicurare il conseguimento d'utili elevati, le attività lavorative erano praticate con metodi produttivi arretrati, con un basso investimento di capitali. La casa-lavoro olandese raggiunse il modello più sviluppato fra le istituzioni carcerarie del XVII secolo[1]. La pena detentiva, nella sua forma di privazione della libertà, si consolidò in un momento storico in cui la società, sulla base dei principi filosofici dell'Illuminismo, ripudiò le pene corporali e le mutilazioni quali risposte sanzionatorie tipiche dello Stato assoluto, e la ritenne più adeguata al fine di ristabilire l'ordine giuridico violato.
Alla componente punitiva si affiancò così anche un nuovo elemento: la rieducazione. Il problema rieducativo, però, fu visto quasi esclusivamente in termini di capacità lavorativa e abilità produttiva. Un particolare studio sulle case di lavoro ad opera di Rusche e Kirchheimer evidenzia che l'impiego del lavoro forzato svolgeva un ruolo fondamentale nel controllo del livello dei salari "liberi". Il lavoro forzato poteva essere utilizzato quando aumentava la domanda e diminuiva l'offerta di lavoro, in altre parole quando saliva il costo del lavoro libero. L'attività lavorativa forzata finiva, quindi, per svolgere una funzione calmieratrice sull'andamento dei costi del mercato del lavoro. Mettendo in rapporto i diversi sistemi punitivi coi sistemi di produzione da cui essi ricavano i loro effetti, i due autori "fanno emergere i meccanismi "positivi" e utili che le misure punitive avevano il compito di sostenere (e in questo senso se i castighi legali sono fatti per sanzionare infrazioni possiamo affermare che la definizione delle infrazioni e il loro perseguimento sono, in cambio, fatte per mantenere i meccanismi punitivi e le loro funzioni)" .
Circoscrivere all'aspetto utilitaristico la funzione delle case di lavoro sarebbe tuttavia troppo riduttivo; esse, infatti, assolsero altri due compiti fondamentali. In primo luogo realizzarono la conversione di "ex contadini eslegi" in proletariato da impiegare nel nascente sistema capitalistico, la cosiddetta funzione formativa, che permise l'apprendimento della disciplina del lavoro salariato[3]. In secondo luogo risposero ad un'esigenza di prevenzione generale, scoraggiando gli uomini liberi dal commettere reati per il migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. Infatti, qualsiasi condizione lavorativa nel libero mercato, era in ogni caso migliore di quella riservata agli internati nelle istituzioni carcerarie .
Nel XVII secolo, la figura del "povero", da soggetto non rispondente ai valori del tempo, si trasforma in individuo socialmente pericoloso, portando alla scomparsa della funzione rieducativa che aveva caratterizzato le case di correzione. Il carcere si concentra su attività di carattere affittivo e di controllo attraverso l'applicazione delle teorie del positivismo utilitarista di Bentham, espresse nella figura architettonica del Panapticon[5], che utilizzano la logica del lavoro e della disciplina come strumento di rieducazione. I valori del protestantesimo suggerivano di attribuire alla pena i caratteri di economicità, vantaggio per la collettività, efficacia contro la capacità di nuocere, uguaglianza ed esemplarità.. L'architettura ideata da Bentham, era costruita ad anello, suddivisa in celle, con al centro una torre provvista di finestre che si aprivano sulla facciata interna dell'anello. Ogni singola cella aveva due finestre: una verso l'interno e l'altra verso l'esterno. In questo modo, il sorvegliante nella torre centrale, poteva osservare ogni minimo movimento del detenuto senza essere visto. Nel descrivere la struttura architettonica Bentham definì il Panapticon "come un grande e nuovo strumento di governo, la cui eccellenza consiste nella sua grande forza che è capace di conferire ad ogni istituzione alla quale venga applicato" in virtù del fatto che, "è applicabile a tutti gli stabilimenti in cui, nei limiti di spazio che non sia troppo esteso, è necessario mantenere sotto sorveglianza un certo numero di persone". Se fino ad un secolo prima, la carcerazione era relegata ad ambiti marginali della giustizia penale, in questo periodo la prigione entra a tutti gli effetti nella penalità, occupandone tutti gli spazi. Foucault, nella sua analisi del passaggio tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, descriverà come la "festa punitiva" si vada spegnendo in due direzioni: la scomparsa dello "spettacolo della punizione" e l'allentamento della "presa sul corpo". Il controllo totale che Bentham avrebbe voluto realizzare, mediante l'istituzione panoptica, nasceva dalla convinzione che solo l'onnipresenza della custodia poteva, più che punire, prevenire il delitto commesso dalla natura criminale . Il carcere diviene istituzione totale, ossia, come lo definisce Goffman, il luogo in cui si forzano alcune persone a diventare diverse mediante la rottura delle barriere che separano le tre sfere principali di vita d'ogni individuo (lavoro, famiglia, divertimento) .
I principi rivoluzionari e la rivoluzione industriale portarono esigenze diverse e differenti concezioni della società del tempo: maggior fiducia nella scienza, certezza del diritto, uguaglianza formale. Si fece largo la concezione dell'uomo come essere razionale, detentore di propri diritti e responsabile delle proprie azioni. Il crimine risultò il prodotto di una libera scelta del soggetto. Nel 1764 Cesare Beccaria pubblica "Dei delitti e delle pene", un importante contributo teorico, attraverso il quale "il rifiuto della pena di morte come strumento ordinario di politica criminale segna il suo tempo con tale radicalità da trasformarlo in parola d'ordine e in programma politico destinati a sopravvivere all'epoca in cui quel rifiuto venne pronunciato, e alle stesse intenzioni del suo autore"[8]. Nell'aspra critica nei confronti delle ingiustizie sociali, Beccaria mette in evidenza come le pene debbano essere scelte razionalmente: economiche, pratiche, convenienti e socialmente utili, attraverso una legge conosciuta e certa. Tutti gli individui devono sapere che se commetteranno un reato, subiranno certamente una pena. Il filone teorico si dipana in due direzioni: la pena retributiva, che riconosce di fondamentale importanza il risarcimento alla società del danno subito, e l'altro filone, deterrente, che evidenzia il fine di disincentivare il reo e il resto della società dal commettere ulteriori reati. La pena oltre ad essere pronta, proporzionale ed infallibile, deve essere dolce, ossia deve risparmiare all'imputato inutili sofferenze.
A cavallo tra il XVII e il XIX secolo, il problema delle prigioni fu affrontato negli Stati Uniti d'America con la scelta dell'isolamento cellulare, che si articolò in due differenti sistemi penitenziari. Il primo fu realizzato alla fine del XVIII secolo a Philadelphia nello stato della Pennsylvania. Punto di forza di quest'istituzione era l'isolamento continuato, anche diurno, con l'obbligo del silenzio, la meditazione e la preghiera. Il lavoro, svolto in isolamento all'interno delle celle, consisteva in attività artigianali condotte con sistemi antieconomici. Il compito principale era l'esercizio di una funzione terapeutica psico-fisica, per nulla curandosi delle esigenze economiche e produttive: il lavoro era per se stesso un premio, poiché rappresentava l'unica alternativa all'ozio e all'inerzia forzati[9]. Questo sistema, detto "solitary confiment", entrò presto in crisi per la necessità di introdurre il lavoro produttivo anche nelle istituzioni carcerarie. La crisi fu determinata dalla crescente domanda di lavoro, che accompagnata da una diminuzione dell'offerta, fece aumentare il costo del lavoro . Fu allora necessario che le carceri contribuissero, con l'impiego della forza lavoro disponibile, a far fronte alle nuove esigenze del mercato. Ad Auburn si avviò un esperimento penitenziario diverso ove l'isolamento era solo notturno ed il lavoro diurno si svolgeva in comune, ma in silenzio, così come i pasti. Questo sistema presentava un chiaro riferimento al modello monastico oltre che alla disciplina di fabbrica. I partigiani di questo modello sostenevano che rappresentasse una ripetizione della società nella quale bisogna imparare a rispettare le regole. In questo modo si abituava il detenuto "a considerare la legge come un precetto sacro, la cui infrazione genera un male giusto e legittimo" . Con le concessioni ai privati dello sfruttamento del lavoro forzato si contribuì ad abbassare i costi in alcuni settori, e ciò aprì la strada alla diffusione del "modello di Auburn" in tutti gli USA.
In Italia, in un momento storico importante come quello postunitario, l'industrializzazione come idea guida dello sviluppo economico, il progresso scientifico-tecnologico e l'insofferenza verso le astrazioni, favorirono l'affermarsi delle idee della Scuola positiva del diritto penale, sulla scia delle teorie di Cesare Lombroso. La criminalità cominciava ad essere concepita come fenomeno analizzabile scientificamente, l'agire umano interpretato casualmente come "deterministico" e il paradigma epistemologico positivista fu di tipo eziologico, in altre parole quello di una scienza che spiegava la criminalità esaminandone cause e fattori. Grazie alla Scuola positiva si aprirono le frontiere alla "difesa sociale" con l'idea innovatrice della prevenzione speciale, della risocializzazione del delinquente e con l'introduzione dei "sostitutivi penali". Vittorio Emanuele II approvò il primo regolamento penitenziario che entrò in vigore su tutto il territorio nazionale, ad eccezione delle province toscane ove si continuò ad applicare la vigente normativa. Era il gennaio del 1862 quando il "modello di Auburn" venne introdotto negli istituti penitenziari della penisola, mantenendo il principio dell'alternanza tra isolamento e lavoro diurno in comune. La nuova normativa sancì l'obbligo del lavoro (art. 4), attribuendo al direttore la capacità discrezionale di impiegare i detenuti nelle varie attività. Vi era la possibilità per i soggetti non recidivi di essere destinati a servizi interni, beneficiando così di un trattamento di favore (art. 269). Tutto quello che era prodotto all'interno degli stabilimenti carcerari restava di proprietà statale. Per coloro che si distinguevano per una buona condotta e per un lavoro attivo e produttivo erano previste gratificazioni, il godimento del vitto di lavorante e la ricompensa, la facoltà di ricevere ulteriori visite, l'utilizzo da parte del retratto del lavoro per l'acquisto di abiti invernali, fino alla possibile riduzione della pena o addirittura della grazia sovrana (art. 368).
Negli ultimi dieci anni del XIX secolo mutarono le condizioni del paese: pressione della borghesia industriale, crescente affermazione della grande impresa, crescita del proletariato di fabbrica, avvento dell'urbanesimo e incrementarsi della spesa pubblica, aumento del dissidio tra agrari e industriali. In concomitanza al consolidarsi del blocco industriale-finanziario si accentuò l'organizzazione del movimento operaio.
Attraverso il regolamento carcerario del 1891 s'inasprì il trattamento, riducendo i condannati in condizioni subumane, affermando l'obbligo di lavoro per i condannati (art.276). La proporzionalità tra la pena e la pesantezza del lavoro si realizzava, anche automaticamente, sulla base della disposizione che precludeva l'accesso ai servizi domestici - naturalmente meno pesanti- per coloro che si erano macchiati di particolari reati (furto, rapina, recidiva, delitti contro il buon costume), oppure dovevano aver scontato un certo numero d'anni di prigione (per gli ergastolani almeno vent'anni) (art. 279). Si manteneva il meccanismo delle gratificazioni, mentre il lavoro carcerario restava imperniato su una connotazione d'afflittività, in quanto componente obbligatoria della pena. Il codice penale Zanardelli del 1889, riprese l'impostazione del regolamento ritenendo il lavoro carcerario necessario al completamento della pena[12]. Una nuova luce sembrava aprirsi nel 1907 con la legge che prevedeva il riordino dei riformatori per minorenni, attraverso la quale ci si proponeva di sostituire all'indirizzo punitivo e repressivo, uno preventivo-rieducativo, e soprattutto di gestire gli istituti per mezzo di educatori destinati a prendere il posto delle guardie carcerarie. Cominciò a farsi largo il pensiero giuridico-politico del Socialismo giuridico, che vedeva nel diritto penale, "il mezzo per presidiare i rapporti di forza costruiti dalla classe dominante" .
Ben presto il Novecento cominciò ad essere profondamente segnato dall'irrazionalismo e dal nazionalismo. L'Europa agli inizi del XX secolo e nel primo dopoguerra, attraversata dai regimi totalitari, impaludò di spirito filosofico la teoria retributiva, che progressivamente perdeva sempre più ogni sua concreta funzione e uso sociale, fino a farla divenire dottrina antiutilitaristica. In Italia con l'avvento del fascismo, il delinquente fu rappresentato come un "peccatore criminalizzato", nei cui confronti la pena doveva operare con strumento di espiazione e di rimorso[14]. Nell'ideologia fascista la funzione esplicata dalla pena, non solo sul delinquente singolo, ma su tutta la collettività che avrebbe dovuto essere solidalmente coinvolta, veniva usata per rinsaldare fra i cittadini, che si mantenevano fuori all'ingranaggio penitenziario, la solidarietà reciproca e la sicurezza di chi versava in un ordine etico che ricompensava e gratificava chi ne osservasse le regole. Siamo vicini alla concezione etica e spirituale della pena secondo la Germania nazista. Il carcere istituzionale fascista fu avviato attraverso il regolamento carcerario del 1931, alla base del quale rimaneva il sistema di "ricompense" e "punizioni", facilmente riscontrabile in tutti i regolamenti europei prima e dopo la seconda guerra mondiale. Il regime disciplinare si articolava in tre leggi fondamentali: lavoro , istruzione e religione, "assoggettando a varie (e rispettivamente più gravi) sanzioni la negligenza nel lavoro e nella scuola" . Il lavoro carcerario diviene una vera e propria tortura e viene esaltato come "strumento incomparabile di rieducazione" , che si esplicava attraverso i lavori forzati, nelle colonie penali, e con l'utilizzo dei galeotti in opere pubbliche e di bonifica. Viene attuata la suddivisione tra lavoro esterno, quello che si svolgeva fuori dalle mura della stabilimento, e lavoro interno , quello che si svolgeva entro la cinta muraria del carcere (art. 115) . Questa distinzione introdotta dalla nuova disciplina fascista superò una contraddizione insita nella precedente normativa, che pareva consentire il lavoro all'aperto ai reclusi, e non ai condannati alla detenzione (art. 14-15 c.p. Zanardelli). Con il lavoro all'aperto, organizzato in case di lavoro o colonie mobili, i reclusi venivano impiegati nel compimento di opere di bonifica e di dissodamento dei terreni, e sfruttati per realizzare opere di regime . La normativa penitenziaria introdusse i nuovi concetti di mercede e remunerazione, abbandonando la gratificazione fino allora prevista. Per mercede s'intendeva la somma stabilita dal ministero in relazione alle diverse categorie di lavoratori, alle capacità del detenuto ed al suo rendimento. La mercede veniva poi divisa in decimi e la remunerazione consisteva nella quota di decimi spettante agli internati e ai detenuti in relazione al tipo di condanna inflitta ex art. 149 c.p., mentre la parte restante della mercede veniva devoluta allo Stato (art. 125). La somma finale che spettava al detenuto risultava quindi esser una cifra irrisoria, tenuto conto che su di essa venivano prelevate quote a titolo di risarcimento del danno, spese di mantenimento e spese processuali . Il complesso della normativa risultante dal nuovo ordinamento del 1931, nonostante le incoraggianti dichiarazioni del ministro Rocco sul ruolo centrale e rieducativo del lavoro nell'istituzione penitenziaria, appariva inserirsi pienamente nella logica dell'istituzione totalitaria. Il lavoro, infatti, era concesso su basi largamente discrezionali, gestito con tecniche obsolete, malpagato perché improduttivo e soprattutto affittivo in quanto necessario al completamento della pena . Accanto alla rieducazione morale e all'espiazione consapevole del reo, si perveniva a considerare imputabile solo colui che era educabile, di contro si allargava la categoria dei non imputabili, in altre parole "non rieducabili", poiché la pena non era riuscita a convertirli all'osservanza dei valori violati. Per costoro la pena tendeva a depurarsi dei contorni solidaristici della rieducazione riducendosi a mera neutralizzazione.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, l'attenzione della classe politica fu riposta sulla costituzione del nuovo Stato e sulla mediazione tra le forze politiche. L'istituzione carceraria fu relegata in una concezione repressiva e sbrigativa della giustizia, che riteneva il carcere il mezzo più efficace per l'esecuzione della pena, mettendo da parte le tematiche di rieducazione, ritenute insofferenti dal sistema penitenziario. Mentre nel codice penale e di procedura furono effettuati aggiustamenti utili ad eliminare i contenuti illiberali della codificazione Rocco, i ritocchi all'Ordinamento penitenziario non seguirono lo stesso disegno, ma furono dettati esclusivamente dall'esigenza di far fronte alla situazione di disordine e collasso in cui versavano le carceri italiane. Con una circolare[22] il guardasigilli Togliatti ribadì la volontà di porre fine alle rivolte carcerarie, migliorando la condizione lavorativa degli agenti di custodia carceraria, da attuarsi attraverso l'inquadramento fra le forze armate e di polizia.
Sostiene Foucault: "Il lavoro viene definito, come l'isolamento, un agente di trasformazione carceraria, a partire dal codice francese del 1808. Il lavoro non è né un additivo, né un correttivo al regime di detenzione: che si tratti di lavori forzati, della reclusione, della carcerazione, viene concepito, dallo stesso legislatore, come un accompagnamento necessariamente obbligatorio"[23]. In quest'ottica il lavoro durante il periodo di reclusione diviene un elemento indispensabile "la pena detentiva, pronunciata dalla legge, ha soprattutto come oggetto il correggere gli individui, ossia renderli migliori, prepararli, con prove più o meno lunghe, a riprendere il loro posto nella società, per non abusarne. I mezzi più sicuri per rendere gli individui migliori sono il lavoro e l'istruzione" .
Nel dibattito dell'Assemblea costituente si ragionò a lungo sull'astratta funzione e finalità che attraverso la Costituzione si voleva attribuire alla pena, perdendo così l'occasione di adeguare l'ordinamento giuridico e il regolamento penitenziario alle nuove istanze democratiche. La Carta Costituzionale della Repubblica italiana entrata in vigore, il 1° gennaio 1948, non riuscì fino in fondo a porsi in netto contrasto con i principi stabiliti dal regolamento penitenziario del 1931. Lo sterile terreno di scontro tra scuole penalistiche si realizzò in particolare durante la stesura dell'art. 27 Cost.. Ci fu uno schieramento che espresse il timore per la formula "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato", sostenendo che avrebbe assunto il significato di un'esclusione delle altre finalità della pena e un'adesione ai canoni della Scuola positiva. In realtà i costituenti erano ben consapevoli che il concetto di rieducazione da loro inteso si contrapponesse all'idea di "bonifica umana", ossia epurare la società dai malavitosi, che stava alla base dei precedenti legislativi dell'epoca fascista. La rieducazione del detenuto era concepita come un reinserimento sociale del condannato al termine della pena. Si arrivò alla stesura del testo del comma 3 art. 27 Cost.: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", collocando la rieducazione come obbiettivo primario di tutto il trattamento penitenziario e del lavoro carcerario. Nonostante quest'importante contributo normativo per mezzo della fonte primaria dell'ordinamento giuridico italiano, la legislazione del 1931 sopravvisse a lungo, scatenando un acceso dibattito tra le dottrine giurisprudenziali. Mentre la dottrina tradizionalista riteneva il regolamento vigente conforme ai principi di rieducazione e legislazione sociale, e in ciò non contrastante con la giurisprudenza costituzionale[25], in quanto il lavoro era considerato "strumento di primo ordine per la redenzione e per il riadattamento di delinquenti alla vita sociale" , cominciarono a farsi sentire istanze contrarie alla tradizionale posizione della dottrina in tema di lavoro carcerario. Il pensiero tradizionalista rimaneva ancorato alla concezione del lavoro carcerario come obbligo di natura legale, e quindi non soggetto alla disciplina tipica del lavoro libero.
Nella direzione di una nuova concezione del lavoro carcerario, e in antitesi alla normativa penitenziaria del 1931 si mossero, i due giuslavoristi, Umberto Romagnoli e Giuseppe Pera. Entrambi criticarono la concezione del lavoro carcerario come prestazione di diritto pubblico e il conseguente assoggettamento del detenuto lavoratore verso lo Stato, ritenendo il lavoro in carcere un rapporto di lavoro subordinato, ricorrendone gli elementi tipici di cui all'art. 2094 c.c.: l'obbligo della prestazione di fare (la subordinazione alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro), la collaborazione (ossia l'obbligo di eseguire una prestazione lavorativa in obbedienza, diligenza e rispetto della controparte imprenditrice e ai fini dell'attuazione degli scopi e degli interessi dell'impresa), e la remunerazione espressamente prevista[27].
Emerge in dottrina in questo periodo, un concetto che si sarebbe consolidato soprattutto nel decennio successivo, vale a dire l'idea di un'esecuzione flessibile in funzione degli obiettivi della rieducazione. A livello penitenziario, il guardasigilli Gonnella nel giugno del 1960 presentò un disegno di legge sulla riforma penitenziaria che rappresentava lo specchio dell'attività della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena nel quinquennio 1956-1960. I punti principali consistevano nell'osservazione dei detenuti su basi scientifiche e sull'individualizzazione del trattamento. Il progetto di riforma, nella questione sostanziale del lavoro dei detenuti e della loro retribuzione, perpetuava sostanzialmente la situazione di allora. La novità proposta era quella del lavoro fuori dal carcere, che consisteva nell'autorizzazione ai detenuti riprestare la loro opera in aziende agricole o industriali, pubbliche o private, site all'esterno degli istituti. In quel periodo entrò in funzione l'Istituto Nazionale di osservazione di Roma Rebibbia, che tentò di riprodurre per gli adulti, l'esperienza maturata in campo minorile con la legge del 1934. Con la normativa del '34 il trattamento dei minori delinquenti veniva delegato all'opera di esperti: medici ed educatori. L'art. 11, stabiliva l'importanza delle "indagini sulla personalità del minore" allo scopo di individuare i fattori alla base della devianza, e ricercare i mezzi più idonei per assicurare il recupero alla vita sociale.
Con la Risoluzione ONU 30 agosto 1955 vengono stabilite le "Regole minime per il trattamento dei detenuti" con lo scopo, come indicato nelle osservazioni preliminari, di fissare "i principi generali e le regole essenziali di una buona organizzazione penitenziaria e di una buona pratica di trattamento dei detenuti". Lo sforzo che vogliono incentivare è quello di superare le differenze pratiche che si oppongono alla loro applicazione. La prima parte della risoluzione evidenzia in generale le regole concernenti l'amministrazione penitenziaria. Nella seconda parte si segnalano indicazioni per i detenuti "comuni". Particolarmente interessante appare il paragrafo sul trattamento ove emergono alcuni principi che con molta fatica verranno introdotti in Italia con la legge 26 luglio 1975 n. 354[28]. Si considera scopo prioritario del trattamento dei detenuti "suscitare in essi le volontà e le capacità che permetteranno loro, dopo la liberazione, di vivere nel rispetto della legge e di provvedere a se stessi. Tale trattamento deve essere tale da incoraggiare il soggetto al rispetto di se stesso e di sviluppare in lui il senso di responsabilità". Nel paragrafo riguardante il lavoro si stabilisce il carattere di non afflittività e di obbligatorietà. E' considerato importante assicurare al detenuto un lavoro produttivo, organizzato in maniera simile al lavoro libero, professionalizzato attraverso una formazione adeguata. Sono fissati anche alcuni diritti del lavoratore detenuto quali l'indennizzo per malattia ed infortunio, il riposo settimanale, un'equa remunerazione. Secondo le interpretazioni di DECAUX - IMBERT, si ritiene che il lavoro dovrà contribuire al reinserimento dei detenuti e dovrà fornire loro opportunità di guadagno in vista del ritorno in libertà.. Appare indicativo il ritardo ventennale della legislazione italiana, nei confronti delle Regole minime, rispetto ai regolamenti degli altri paesi. Soprattutto per un Paese considerato a democrazia avanzata, con una Costituzione che fissa già alcuni principi guida nel trattamento dei detenuti.
Il percorso parlamentare per arrivare alla riforma del sistema penitenziario iniziò nel 1968 con il progetto Gonnella, già ricalcante iniziative risalenti al 1960. Il disegno di legge decadde per la fine della III legislatura, dopo che la commissione affari costituzionali aveva formulato le sue osservazioni, ma senza che il Parlamento avesse iniziato la discussione nel merito. Il testo conteneva alcune rilevanti novità: l'istituto di studi penitenziari, i centri di servizio sociale per adulti (CSSA), e il regime di semilibertà. Il dibattito attorno alla riforma dell'ordinamento era ancora contrassegnato dalla contrapposizione tra rieducazione ed esigenze di custodia. Studi e convegni che seguirono, sul tema della rieducazione del detenuto, alimentarono la fiducia in forme di flessibilità dell'esecuzione penale, quale ad esempio, la libertà condizionale del condannato che aveva fornito prova sicura di ravvedimento, tradotto in legge n.1634/62. Nel corso del 1968, ritornato Gonnella al ministero della giustizia, e riesaminato da parte di un comitato ristretto il precedente progetto venne presentato al Senato il 28 ottobre 1968. Il periodo tra il 23 aprile del 1969 e il 10 marzo del 1971, che accompagnò la discussione davanti alla commissione giustizia del Senato e l'approvazione del disegno di legge Gonnella, fu ricco di avvenimenti per la cronaca delle istituzioni penitenziarie e per la presa di coscienza politica di parte della popolazione carceraria. La cultura tradizionale della pena fu interiorizzata dall'opinione pubblica e dai detenuti, penitenziaristi e accademici perdettero l'esclusivo monopolio sull'argomento. Nel 1969 il pensiero ufficiale fu scavalcato dalle rivolte carcerarie e dall'eco all'esterno. La sociologia criticò aspramente la validità dei metodi tradizionali, spostando la problematica dallo scontro tra scuole penalistiche alla riflessione sulla realtà carceraria di chi finiva in carcere e perché. Si formò una cultura accademica di matrice marxista, dalla quale derivò gran parte della produzione più originale e approfondita, in grado di costituire un moltiplicatore a livello di scuola universitaria, d'opinione pubblica e persino di attività politica[29]. Il disegno di legge Gonnella attribuiva al Magistrato di sorveglianza, oltre al controllo degli istituti penitenziari in qualità di garante dei diritti dei detenuti, anche la competenza del coordinamento e del controllo delle attività di trattamento che favorivano la rieducazione del condannato. Il Magistrato, si precisava, era affiancato da educatori, assistenti sociali e assistenti volontari che collaboravano nel trattamento, aprendo il carcere all'esterno e costituendo, per il detenuto, una connessione con la società.
La fine anticipata della legislatura impedì alla Camera di esaminare il disegno di legge approvato dal Senato. Nella successiva legislatura il governo ripresentò il disegno di legge approvato dal Senato, al quale furono apportati diversi emendamenti. Si delineò un sistema di sanzioni alternative al carcere attraverso l'affidamento in prova al servizio sociale, si potenziarono la semilibertà, la liberazione condizionale, la liberazione anticipata, la possibilità di ottenere licenze e permessi. Nel nuovo progetto fu prevista, accanto ai tradizionali strumenti di recupero sociale, costituiti dal lavoro, l'istruzione e la religione, un'ampia possibilità di contatto dei detenuti con il mondo esterno attraverso la partecipazione dei volontari, e una larga previsione dei permessi. Nell'iter parlamentare alcuni emendamenti peggiorarono l'impianto della legge. Ecco le principali modifiche: fu reintrodotto l'obbligo di rimborso delle spese di mantenimento; con reviviscenza del correlativo beneficio della remissione del debito; ci fu il ripristino del controllo visivo sui colloqui in genere; furono soppressi i permessi speciali per i condannati; venne istituita una sezione di sorveglianza competente per le decisioni che modificavano lo stato di detenzione; fu assegnata la facoltà al Ministro di giustizia di sospendere le regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge qualora ricorressero gravi ed eccezionali ragioni di ordine e sicurezza; si soppressero le norme relative ai casi di differimento e di sospensione della pena e della misura di sicurezza detentiva; fu eliminato l'istituto di studi penitenziari , della disciplina della scelta e della formazione del personale[30].
Il concetto di trattamento, così come ricorda Pavarini, mette in luce come dall'origine il problema fu quello di come "trattare i detenuti", ossia come rendere il loro comportamento conforme alle esigenze di controllo e di disciplina interna[31]. Poi la discussione sul modello carcerario portò a ragionare sul modo migliore di correggere il soggetto, omologandone il comportamento alle logiche di sicurezza e ordine dell'istituzione. Ben presto si finì per definire il "carcere come luogo utile a rieducare, poiché accettabile ed ordinato, dove ordine e legittimità (accettabilità) coincidono, per antonomasia, con virtualità rieducativa" .
Nello specifico, ecco emergere con forza il significato ambivalente del termine "trattamento", inteso sia come l'insieme dei criteri e delle norme formali ed informali che devono regolare l'organizzazione interna all'istituzione carceraria e la vita che in essa si svolge; sia come l'insieme dei mezzi e degli interventi che devono essere attivati verso il recluso, al fine di rieducarlo e di risocializzarlo[33]. "Attraverso l'implicito riconoscimento dell'impossibilità di considerare di per sé "rieducativa" la struttura carceraria, in prospettiva il carcere viene visto non tanto l'istituzione che rieduca, quanto l'istituzione dove si rieduca: il luogo dove si emendano gli spiriti, e non il mezzo che li trasforma; il veicolo istituzionale che smonta abitudini e sentimenti con un "trattamento" appropriato, e non la struttura che impone il proprio marchio in virtù di un'intrinseca capacità- rieducatrice. Il penitenziario non è più dunque la riproduzione di una società "perfetta", dotata per ciò stesso di un'attitudine risocializzatrice, ma l'istituzione vicaria rispetto alle cause "predisponenti" alla criminalità individuata nelle sperequazioni sociali, nelle carenze educative, e nelle diversità di status, che il trattamento dovrebbe rimuovere o almeno neutralizzare" .
Si veda MELOSSI D. e PAVARINI M., Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI - XIX secolo), Bologna, Il mulino, 1977
"Uno degli aspetti fondamentali della società moderna è che l'uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale. Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall'una all'altra, dato che il complesso delle attività è imposto dall'alto da un sistema di regole formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione. Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell'istituzione" .
GOFFMAN E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza., Torino, Einaudi, 1968 (V edizione 1976)
RODOTA' S., prefazione a "Dei delitti e delle pene" di BECCARIA C:, Milano, Universale economica Feltrinelli, 1991
TRACHINA, Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario, in AA.VV., Dei diritti dei detenuti e trattamento penitenziario; a cura di GREVI, Bologna, 1981, p. 144
Si veda GALLO E. e RUGGIERO V., Ibidem, e RICCI A. e SALIERNO G., Il carcere in Italia, Torino, Einauidi, 1971.
Scrive FASSONE: " ora la progressiva simbiosi fra Chiesa e Stato appaga le mire egemoniche del regime fascista, sia le ricorrenti ambizioni del mondo cattolico a porre un marchio confessionale sulle istituzioni, non può certo meravigliare che all'atmosfera pre-concordataria in politica si accompagni la ricerca della bella emenda del reo nella cultura penalistica, e la insistita modulazione della nota forza moralizzatrice della pena".
Si veda l' art. 1 Reg. Rocco "In ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l'obbligo del lavoro".
Si veda, nello specifico, l'articolo di EFISIO LOI e NICOLA MAZZACUVA, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, in: Il carcere riformato, Bologna, Il Mulino, 1977 pp. 67-69
FASSONE E., Sfondi ideologici e scelte normative nella disciplina del lavoro penitenziario, in AA.VV., Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, cit. p.158
Si veda DE LITALA, Sicurezza sociale e sistema penitenziario in Italia con particolare riferimento al lavoro dei detenuti, in Lavoro e sicurezza sociale, 1962, p. 15 e ss.
DI GENNARI G. - BREDA R. - LA GRECA G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, Giuffrè, 1997 pp. 382-383.
Vedi in proposito CHRISTIE N., Abolire le pene?,Torino, ed. Gruppo Abele, 1985 e COHEN S., Visions of Social Control, Cambridge, Polity Press, 1985
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