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"Tre modalità esistenziali: la vita estetica, etica e religiosa" Kierkegaard
Kierkegaard distingue tre condizioni o possibilità esistenziali fondamentali, alle quali egli dà il nome di "stadi", poiché possono essere considerati come momenti successivi dello sviluppo individuale. Infatti l'esistenza è il regno della libertà: l'uomo è ciò che sceglie di essere, è quello che diventa. Ci sono tre alternative fondamentali nella vita umana lo stadio estetico, quello etico e quello religioso. Contrariamente alle affermazioni hegeliane, nel passaggio dialettico tra uno stadio e l'altro non vi è nessuna forma di automatismo, bensì vi è un salto, un abisso; ognuno di essi rappresenta un'alternativa che esclude l'altra.
Il Don Giovanni e la vita estetica
L'esteta, la cui figura rappresentativa è Don Giovanni, è
colui che vuole vivere l'attimo, cercando di coglierne la pienezza. Egli
intende fare della propria vita un'opera d'arte, da cui siano bandite la noia e
la tristezza. La categoria in cui Don Giovanni vive, infatti, è quella dell'interessante:
in essa l'uomo non guarda ai contenuti, ma ai modi delle proprie esperienze,
non vive e non gode delle cose, ma della loro anticipazione e del loro ricordo.
Questo tipo di uomo vive la vita cercando di renderne unico e irripetibile ogni
suo attimo, vive solo il presente e insegue il piacere immediato. Questo
tentativo di ricercare sempre l'atto irripetibile, di vivere costantemente l'attimo,
porta l'esteta alla disperazione e alla noia, derivanti dalla consapevolezza di
non poter spostare in avanti all'infinito l'intensità delle emozioni.
È lo stadio dell'uomo che non ha fede se non nelle sensazioni immediate, egli
non crede in Dio e in nessuna possibilità di salvezza, si accinge quindi a
vivere da "rapace" prendendo al momento ciò che gli serve per la sua felicità
immediata. Tuttavia, non appagandosi che in astratto, non traducendosi mai in
un soggetto reale, l'esteta vive nell'orizzonte delle possibilità infinite,
senza mai prendere posizione, senza compiere il movimento della realizzazione
di sé. In questo stadio, infatti, l'uomo non esercita, secondo Kierkegaard, né
scelta autentica né libertà: l'esteta lascia che siano le circostanze a
decidere per lui. Vista nell'ottica della vita etica, la concezione estetica
della vita è disperazione. Essa nasce proprio dal fatto che l'esteta rimane
costantemente sul crinale delle infinite possibilità, può essere tutto e in
realtà non è nulla. Rimane una personalità frantumata e disarmonica,
costantemente affacciata sull'abisso del vuoto esistenziale. "Chi vive esteticamente non può dare della
sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre e solo nel
momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso" da
Kierkegaard, "Il concetto di angoscia".
L'assessore Guglielmo e la vita etica
La via etica implica una
stabilità e una continuità che la vita estetica, come cessante ricerca della
varietà, esclude. Nella vita etica l'uomo si sottopone a una forma, si adegua
all'universale e rinuncia ad essere eccezione. La vita etica rappresentata
dalla figura del marito (l'assessore Guglielmo) e dall'elogio del matrimonio. È
l'uomo che sceglie se stesso e in questa scelta afferma la continuità della sua
vita e l'impegno contro la fuga (estetica) dalle responsabilità. Nell'atto di
scelta l'io diventa sé: dal piano delle possibilità infinite si passa a quello
della realtà. L'uomo etico accetta quindi la ripetizione accettando ogni volta
e in modo nuovo di amare la stessa donna, di avere gli stessi amici, di
esprimersi nella stessa professione. Tuttavia lo stadio etico non è ancora la
dimensione ideale a cui anela Kierkegaard. Come uomo etico, il marito ha il
dovere di conformarsi alla legge morale che è universale, ma nello stesso tempo
egli rischia di perdere nell'anonimato e nella folla la personalità e l'autonomia.
L'uomo che sceglie se stesso sceglie ciò che vuole essere e si impone una
disciplina necessaria alla realizzazione del suo progetto. La vita diventa
costruzione, progetto, dovere.
Se la disperazione dell'uomo estetico può farlo convertire ad una vita etica,
anche questa eccessiva disciplina e rigidezza può portare ad un tipo di vita
fredda e asettica.
È lo stadio dell'uomo che non crede in Dio ma che intende la sua vita come
progetto etico-laico, egli risponde delle sue azioni solo davanti agli uomini.
A questo punto, lo scacco dell'etica risiede nel suo indicare all'uomo uno scopo che non potrà mai raggiungere: l'infinità divina. L'uomo che si dà nel tempo, infatti, è ineludibilmente gravato dal peccato che lo riguarda come singolo e come specie. Ecco che la vera scelta etica di sé deve passare attraverso l'accettazione dolorosa della colpa: attraverso il pentimento, espressione dell'amore di Dio. Col pentimento si esce dalla sfera dell'etica per entrare in quella della religione, che richiede il salto della fede, un salto ancora più radicale di quello che divideva l'ambito etico da quello estetico.
Abramo e la vita religiosa
Questo stadio è il culmine del
percorso individuale. In questo stadio l'uomo si avvicina a Dio e vive la
propria religiosità intimamente e in modo assolutamente personale. L'uomo si
può avvicinare così al significato ultimo dell'esistenza abbandonandosi ai
misteri di una fede che non può travalicare l'ignoto. La fede supera lo stesso
ideale etico della vita. La vita di fede è rappresentata da Kierkegaard con la
figura di Abramo che accetta il rischio della prova impostagli da Dio,
ponendosi di fronte a Lui nel silenzio e nella solitudine, come singolo di
fronte all'Altissimo. La fede eccede la stessa morale perchè Dio ordina ad
Abramo di sacrificargli il figlio, quindi di commettere un omicidio. La fede
consiste proprio nel rischio, nell'accettazione
L'oggetto della fede urta contro la ragione che pretende di spiegare e di esaurire tutto e non ammette nulla sopra di sé: per essa, che non vuole credere, l'oggetto della fede è un assurdo. Il paradosso della verità religiosa è che essa non può essere oggetto di speculazione, ma deve essere accettata secondo il criterio della fede. Qui si usano una misura ed un criterio sovrumani, e rispetto a questo una sola situazione è possibile: quella della fede. Proprio per il paradosso come tale il credente è portato a credere, e non per una evidenza logica. Questo modello di vita porta l'uomo a trascendere le normali regole di vita: l'uomo religioso vive la fede come scandalo, come subordinazione completa a Dio oltre le stesse regole del vivere civile, un vessillo paradossale e assurdo ma necessario. Lo scandalo è per Kierkegaard il momento cruciale nella prova della fede, il punto di resistenza e perciò il segno della trascendenza della verità cristiana rispetto alla ragione.
Per Kierkegaard lo scandalo che investe l'uomo nei confronti della verità di fede nasce dal fatto che l'uomo non si pone come "Singolo davanti a Dio", cioè non accetta la misura di Dio. Quando ci poniamo davanti a Dio scopriamo innanzitutto che "c'è un'infinita abissale differenza qualitativa tra Dio e l'uomo" cioè che l'uomo non può assolutamente nulla, che è Dio a dare tutto. A questo contenuto si aggiunge, nel cristianesimo, la necessità di ammettere che Dio stesso si è messo in rapporto con l'uomo, che Dio è entrato nel tempo, l'Eterno si è incarnato in un uomo.
L'oggetto dello scandalo è proprio la figura di Cristo: è scandaloso credere che un uomo singolo sia Dio, che Gesù sia Dio. Le forme dello scandalo per Kierkegaard sono tre: Gesù fu un uomo in conflitto con l'ordine stabilito (fu lo scandalo cui non seppero reagire Scribi e Farisei); Gesù fu un uomo, ma disse di essere Dio (è lo scandalo della divinità, dell'elevatezza provato dai nemici di Cristo); Gesù, che pure era Dio, assunse l'aspetto di un uomo povero, sofferente, impotente (è lo scandalo dell'umiliazione, vissuto da coloro che hanno solo ammirazione per Cristo).
Ora la fede in
Cristo è proprio ciò che consente il superamento dello scandalo ed accettazione
del paradosso che è l'uomo-Dio; è accettazione del fatto che
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