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Morire per delle idee va bene. Ma di morte lenta.
Introduzione
Ciò che vorrei esprimere con tale tesina non è unicamente l'amore che provo per il cantautore Fabrizio De Andrè, fattore estremamente personale ed ovvio.
Vorrei esprimere, invece, l'estrema attuabilità (ed attualità), ai giorni d'oggi ed in ogni campo esistenziale, della voce di tale verseggiatore in musica.
La sua canzone, pura poesia, seppur spesso declassata in tal senso dai critici letterari, ha costantemente un occhio di riguardo per gli umili. Egli dipinge nelle proprie opere un quadro sociale, quasi una "commedia umana", dei suoi tempi, dedicando un particolare riguardo ai vinti di ogni classe sociale. Ed in questo il pensiero di De Andrè parrebbe assimilabile a quello di Verga, se i due non differissero così tanto nell'ideologia.
Verga vuole sondare la società, indagarla affondo secondo il criterio della "lotta per la vita", escludendo la mediazione della compassione per i "suoi" vinti.
A parlare, in De Andrè, è invece la sua profonda umanità (molto più simile alla poetica di Zola, dunque, che con uno spirito spiccatamente socialista non esita a dipingere anche gli aspetti più degradati delle umili realtà che descrive): egli vuole dar voce a chi non l'ha, o non può averla, schiacciato suo malgrado dalle dinamiche sociali (ed in questo potrebbe causare la rimembranza dei lacci e degli impedimenti che imbrigliano l'uomo nella trappola della vita, concetto tipicamente Pirandelliano). Anche le prostitute, spesso protagoniste delle sue opere, seppur nascoste dietro abili figurazioni (La canzone di Marinella ne è un illustre esempio), trovano dignità nelle sue canzoni, come molti altri emarginati e ribelli, miseri unicamente nella condizione, rigidamente assegnata loro dalla società informe.
Estremamente significativo è il fatto che De Andrè muova i suoi primi passi nella ormai celebre Via del Campo, strada proibita poiché luogo di contrabbando e meretricio, ma proprio in nome di tali attività illecite, profondamente affascinante ed inspiratoria.
Ma è in quel ghetto, e nell'eco che di esso si ode in molteplici suoi componimenti, che prende forma la solidarietà di De Andrè nei confronti dell'umanità respinta di prostitute, diseredati, minoranze etniche che quivi risiedono.
Tornando a trattare della dimensione letteraria della canzone deandreiana, numerosi critici hanno espresso il proprio parere riguardo la questione dell'annoverare o meno Fabrizio De Andrè, definibile propriamente un cantautore, nel numero dell'eletta schiera dei poeti. C'è sullo sfondo della questione un pregiudizio secondo cui il poeta possiede un quid qualitativo che lo pone su un gradino superiore rispetto allo scrittore di testi destinati al mondo della canzone.
Mentre tra il pubblico c'è la tendenza a riconoscere al cantautore la patente di poeta, tra i critici musicali e letterari è più diffusa la tendenza ad evidenziare differenze e distanze.
Ma non bisogna dimenticare che nella storia dell'uomo, soprattutto anticamente, il testo poetico ha viaggiato nella memoria con il suo vestito musicale (pensiamo alla poesia greca delle origini e ai trovatori). Forse la canzone ha, piuttosto, proprio quella dimensione popolare che la poesia ha perso.
Lo stesso De Andrè
disse, rispondendo ad una domanda sulle differenze tra poesia e canzone:
"Benedetto Croce diceva che, fino all'età di diciotto anni, tutti scrivono
poesie; dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle solo due categorie di
persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei
considerarmi un cantautore. Per quanto riguarda l'ipotesi di differenza fra
canzone e poesia, io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti
minori ma, casomai, artisti maggiori e artisti minori. Quindi se si deve
parlare di differenza tra poesia e canzone credo che la si dovrebbe ricercare
soprattutto in dati tecnici."
Il potere vestito d'umana sembianza, ormai ti considera morto abbastanza e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni degli umili, degli straccioni.[1]
Fabrizio Cristiano De André nacque a Genova il 18 febbraio 1940.
Al termine della seconda Guerra Mondiale, la famiglia, costretta a rifugiarsi nella campagna di Revignano d'Asti, tornò nella città natale di Fabrizio.
Durante gli anni del liceo avvenne un'esperienza determinante per De Andrè: nella primavera del 1956, infatti, suo padre gli portò in dono, dalla Francia, due 78 giri di Georges Brassens. Dall'incontro col grande cantautore francese, Fabrizio ricavò stimoli per la lettura di autori anarchici che non abbandonerà più: Bakunin e Malatesta, Kropotkin e Stirner. Inoltre, nel mondo cantato da Brassens, egli ritrovava quei personaggi così umili e veri che vivevano nei carruggi della sua città e che troveranno spazio, comprensione e dignità nelle sue canzoni.
De André si iscrisse anche all'università, ma le sue scelte confermarono la scarsa propensione agli studi 'ufficiali': frequentò medicina, poi lettere e infine giurisprudenza, senza laurearsi. Le sue giornate trascorrevano infatti tra musica, letture (Villon e Dostoevskij, sempre Bakunin e Stirner) e, soprattutto, serate in compagnia degli amici Luigi Tenco, Gino Paoli, Paolo Villaggio e altri. Affermerà in seguito, ricordando quel tempo: 'Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane'.
La svolta nella carriera di De Andrè si ebbe quando, nel 1965, Mina interpretò una sua composizione "La canzone di Marinella". A tal proposito egli dice: "Se una voce miracolosa non avesse interpretato nel 1967 La canzone di Marinella, con tutta probabilità avrei terminato gli studi in legge per dedicarmi all'avvocatura. Ringrazio Mina per aver truccato le carte a mio favore e soprattutto a vantaggio dei miei virtuali assistiti." (dalle note di ringraziamento dell'album Mi innamoravo di tutto).
Da lì in poi seguì l'enorme e ben noto successo del cantautore.
Coi soldi guadagnati acquistò un'azienda agricola nelle vicinanze di Tempio Pausania, in Sardegna.
La sera del 27 agosto 1979 Fabrizio e la moglie Dori Ghezzi furono sequestrati e rimasero prigionieri dell'Anonima per quattro mesi. La drammatica esperienza non cancellò tuttavia l'amore di Fabrizio per la sua terra d'adozione; tant'è vero che non vi è traccia di rancore nelle dichiarazioni da lui rilasciate dopo la liberazione: 'I rapitori - disse - erano gentilissimi, quasi materni Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po' di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dire che non godeva certo della nostra situazione'.
Dopo oltre trent'anni di brillante carriera, coronati dalla pubblicazione di
quindici album, alle ore 2.15 di notte dell'11 gennaio 1999, Fabrizio moriva
presso l'Istituto Tumori di Milano, dov'era ricoverato, assistito sino
all'ultimo momento dai suoi cari.
Ama e ridi se amor risponde, piangi forte se non ti sente, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.[2]
1.1 La Guerra di Piero[3]
Dormi sepolto in un
campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi
lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente
così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l'inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve
fermati Piero , fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po' addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce
ma tu no lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera
e mentre marciavi con l'anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore
sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue
e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore
e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede e ha paura
ed imbracciata l'artiglieria
non ti ricambia la cortesia
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato
cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all'inferno
avrei preferito andarci in inverno
e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole
dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
1.2 Analisi - Epilogo d'una scelta non voluta
La canzone di De Andrè, ispirata da un ideale pacifista e antimilitarista, narra della vicenda di un soldato, Piero, costretto a malincuore dalla coscrizione obbligatoria ad arruolarsi nelle file dell'esercito, in un gelido inverno.
Ma in primavera, dopo aver attraversato la frontiera, egli incontra la morte, che indossa per tale occasioni le vesti di un soldato nemico, accomunato a Piero dal similare ripudio per la guerra combattuta. Eppure i due sono costretti ad affrontarsi, seppur siano dello "stesso identico umore": è il solo colore della divisa ("ma la divisa di un altro colore"), l'appartenenza a due schieramenti opposti a renderli nemici mortali, nonostante l'evidente affinità.
Piero, per aver salva la vita, dovrebbe sparargli senza remore. Eppure, in un rigurgito di solidarietà fraterna, dubiterà fatalmente, riflettendo sulla difficoltà che incontrerebbe nel "vedere gli occhi di un uomo che muore".
Ma questo atto di benevolenza porterà proprio lui alla morte, poiché il soldato nemico, accortosi di Piero, non esiterà a freddarlo. Così egli termina i suoi giorni, in Maggio, senza ricevere una degna sepoltura e privato dell'onore di essere bagnato dalle lacrime della sua cara Ninetta. Solo, dimenticato da tutti dorme "sepolto in un campo di grano", tra i tulipani rigogliosi.
1.3 La Ballata dell'eroe[4]
Era partito per fare la
guerra
per dare il suo aiuto alla sua terra
gli avevano dato le mostrine e le stelle
e il consiglio di vender cara la pelle
e quando gli dissero di andare avanti
troppo lontano si spinsero a cercare la verità
ora che è morto la patria si gloria
d'un altro eroe alla memoria
era partito per fare la guerra
per dare il suo aiuto alla sua terra
gli avevano dato le mostrine e le stelle
e il consiglio di vender cara la pelle
ma lei che lo amava aspettava il ritorno
d'un soldato vivo, d'un eroe morto che ne farà
se accanto nel letto le è rimasta la gloria
d'una medaglia alla memoria.
1.4 L'antimilitarismo come scelta umana
Di appena tre anni precedente alla pubblicazione della Guerra di Piero, La ballata dell'eroe ne tratteggia, in forma forse abbreviata e semplificata, i concetti e le immagini essenziali: in entrambe troviamo la morte del protagonista, costretto da una volontà superiore (lo Stato, nella fattispecie) a prender parte ad un conflitto bellico che egli non concepisce e non comprende. Nella Ballata dell'eroe, in particolare, il movente è di matrice patriottica: è la Patria, in effetti, l'unica a godere del sacrificio del militare, forzato a spingersi incontro alla morte. La sua amata, invece, è costretta a compiacersi di una sterile quanto inutile medaglia all'onore della memoria, in mancanza dell'eroe stesso.
Questo, che costituisce il punto di contatto con la Guerra di Piero, realizza anche il maggior contrasto con essa: Piero invoca la sua Ninetta, che nulla saprà mai della sua condizione (a differenza della donna cantata nella Ballata). Morirà dimenticato da tutti e consolato solo dai "mille papaveri rossi". Lo Stato, invece, in un tributo futile e ritardatario, onorerà la morte dell'eroe con una Medaglia.
Ma mentre Piero è completamente inerme innanzi alla drammatica realtà della guerra e, con essa, della morte ("lungo le sponde del mio torrente/voglio che scendano i lucci argentati/non più i cadaveri dei soldati/portati in braccio dalla corrente"), l'eroe della Ballata avanza in cerca della verità. Eppure nessuna verità può esistere all'interno della dinamica bellica (ed è qui chiaramente esplicitata l'ideologia antimilitaristica di De Andrè). La ricerca si arresta innanzi alla crudele realtà della morte, limite inesorabile di ogni umana azione.
Entrambi i testi stillano efficacemente l'antimilitarismo di De Andrè (che non è un semplicistico pacifismo velato da buoni sentimenti: come l'anarchia, è di totale e netta rottura), forgiante l'ideologia umanitaria che lo contraddistingue.
1.5 Condizioni umane dei soldati nella prima Guerra Mondiale
L'intenzione primaria delle nazioni entrate in guerra allo scoppio del conflitto era, naturalmente, quella di condurre una battaglia breve ed intensa, che arrivasse ad una rapida, e possibilmente, vittoriosa conclusione.
Ma tali aspettative vennero ben presto deluse dall'evolversi degli accadimenti.
A poco a poco si passò da una guerra di movimento ad una estenuante guerra di posizione, combattuta nel fango delle trincee: per chilometri e chilometri vennero stesi enormi sbarramenti di filo spinato e furono scavate profonde fosse in cui i soldati dovettero imparare a vivere, giorno dopo giorno, per proteggersi dagli attacchi nemici.
La trincea, la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive - un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico - diviene, così, la vera protagonista della guerra. I militari vi restano intrappolati per mesi e mesi, vivendoci come animali, a contatto con topi e pidocchi. Vi escono però, di tanto in tanto, in occasione di assalti tanto infruttuosi quanto cruenti e micidiali, a causa del diffuso uso di mitragliatrici. E nonostante tali offensive fossero un'evidente condanna a morte, i soldati erano obbligati ad ubbidire, pena la fucilazione immediata. Quando doveva avvenire un attacco, infatti, i carabinieri penetravano nelle trincee, con il compito di uccidere chiunque si fosse attardato nei camminamenti.
Milioni di uomini furono irrazionalmente spinti ad esporsi inermi al fuoco della mitragliatrice, nel vano tentativo di conquistare, con la sola forza del numero, le posizioni nemiche e di dimostrare la superiorità del proprio spirito. L'artiglieria, che aveva conosciuto uno sviluppo tecnico vertiginoso dall'inizio del secolo, fu usata in chiave prevalentemente offensiva, come con l'intento, spesso deluso, di scombinare le linee nemiche prima di un attacco.
Le armi utilizzate sono nuove ed ancora più devastanti rispetto a quelle adoperate nei conflitti dell'Ottocento.
Tutti gli eserciti dispongono di fucili a ripetizione e cannoni; mai utilizzate prima sono le mitragliatrici, che si riveleranno tra i più micidiali strumenti di morte della guerra. Ricordiamo inoltre i primi utilizzi bellici dei sottomarini, degli aerei (che al momento sono limitati, in prevalenza, all'uso in favore della ricognizione e per guidare il tiro delle artiglierie) e dei carri armati.
L'impatto psicologico determinato dall'uso estensivo dell'artiglieria pesante sui soldati intrappolati nelle trincee fu devastante, portando spesso a forme gravi e peculiari di nevrosi.
La prima guerra mondiale vide anche l'uso delle armi chimiche che erano state messe fuori legge dalla Convenzione dell'Aia del .
L'evidente squilibrio tra una tecnologia avanzatissima e una tattica arcaica avrebbe determinato l'immane massacro della prima guerra mondiale e le sue conseguenze sulla cultura e la storia europea.
Nasceva, come già è stato detto, la guerra di posizione e di massa, in cui il vero obiettivo non era più la conquista del territorio nemico e dei suoi centri politici, ma l'esaurimento delle sue risorse.
Al contempo nell'inferno della trincea si sviluppavano fenomeni nuovi che avrebbero determinato la storia culturale successiva. Un intenso spirito di cameratismo tra i soldati semplici avrebbe favorito l'idealizzazione della guerra, elemento fondamentale per il successivo imporsi delle ideologie totalitarie.
Molti militari, attraverso le loro lettere, ci hanno lasciato drammatiche testimonianze riguardo la vita quotidiana nell'inferno del fronte. Tormentati dal freddo e dalla fame, muniti spesso di un equipaggiamento inadeguato, i soldati vivevano seppelliti da un mare di fango: sdraiarsi per riposare era praticamente impossibile ed alzarsi significava esporsi al fuoco dei cecchini. Le condizioni igieniche erano precarie, l'aria irrespirabile anche per il fetore dei cadaveri in decomposizione.
Ecco alcune brevi testimonianze pervenuteci dal fronte:
- 'Non si creda agli atti di valore dei soldati, non si dia retta alle altre fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con orgoglio, né con ardore; essi vanno al macello perché sono guidati e perché temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio dei briganti, lo strozzerei'.
(B.N. anni 25, soldato; condannato a 4 anni di reclusione per lettera denigratoria,1916)
- 'Sono ritornato dalla più dura prova che abbia mai sopportato: quattro giorni e quattro notti, 96 ore, le ultime due immerso nel fango ghiacciato, sotto un terribile bombardamento, senza altro riparo che la strettezza della trincea, che sembrava persino troppo ampia. I tedeschi non attaccavano, naturalmente, sarebbe stato troppo stupido. Era molto più conveniente effettuare una bella esercitazione a fuoco su di noi; risultato: sono arrivato là con 175 uomini, sono ritornato con 34, parecchi quasi impazziti'.
Dal fronte occidentale, 1916
Ad aggravare le condizioni, morali quanto fisiche, dei soldati italiani impegnati al fronte, fu anche l'operato del generale Luigi Cadorna, basato essenzialmente sul totale disinteresse per la vita dei suoi uomini, causa di molte fucilazioni sommarie, atte a punire e a forgiare lo spirito dei soldati:
"Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all'attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice [.]."
'Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi'.
'Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell'ufficiale'
In tutte le nazioni combattenti la propaganda di guerra e innumerevoli scritti successivi alla fine del conflitto hanno presentato il soldato eroico, paziente, convinto della grande missione della propria patria. La realtà, però, è stata in parte diversa.Il combattente ha sì compiuto, a volte, atti di valore e abnegazione, è stato certo il protagonista della guerra, ma è stato anche un individuo disperato, pieno di angoscia, mortificato nella sua personalità, sottoposto a una tensione indicibile, desideroso di pace. Il soldato al fronte vive una realtà "rovesciata" rispetto al mondo che ha lasciato: nella vita civile era abituato a vedere ciò che gli capitava attorno, dormire di notte e lavorare di giorno, circondato da rumori familiari; al fronte, invece, non vede nulla che non sia la propria trincea e non sa ciò che gli potrà accadere perché è sovrastato da pericoli che non può controllare, è inerte di giorno mentre spesso è chiamato a combattere e a uscire dai propri ripari di notte, è circondato dal silenzio rotto dai rumori assordanti dei colpi di artiglieria. Inoltre vive in una condizione psicologica alterata: è preda di superstizioni, crede in apparizioni miracolose, tiene su di sé amuleti e portafortuna, crede di vedere sovente segni del Cielo che annunziano pace e serenità.
Il soldato in prima linea ha l'unico scopo di sopravvivere: compie atti eroici non già per motivi ideali, ma per motivi elementari, di pura sopravvivenza; quasi sempre uccide per non essere ucciso; durante i bombardamenti in trincea il suo pensiero si paralizza, resta immobile, sente il sibilo e lo schianto dei proiettili, ma il suo cervello è fermo.
E' un individuo che spesso non capisce ciò che gli si dice, ha una cultura estremamente modesta. Egli pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; le grandi parole come patria, giustizia, progresso non risvegliano in lui alcun sentimento.
Il soldato in trincea desidera fuggire, uscire da quell'inferno e per questo a volte si crea un'occasione che lo liberi da quel peso insopportabile: per essere ricoverato nelle retrovie e lasciare la linea del fuoco, si procura un'infermità iniettandosi olio di vaselina che gli induca febbri o stati di intossicazione, brucia parti del proprio corpo rovesciandosi addosso acqua bollente o soda caustica, si causa mutilazioni o ferite sparandosi un colpo di fucile o di rivoltella in una mano o in un piede; espone fuori della trincea una mano, così da essere colpito da un avversario.
2.1 Canto del
Servo Pastore [5]
Dove fiorisce il rosmarino c'è una fontana scura
dove cammina il mio destino c'è un filo di paura
qual'è la direzione nessuno me lo imparò
qual'è il mio vero nome ancora non lo so.
Quando la luna perde la lana e il passero la strada
quando ogni angelo è alla catena e ogni cane abbaia
prendi la tua tristezza in mano e soffiala sul fiume
vesti di foglie il tuo dolore e coprilo di piume.
Su ogni cisto da qui al mare c'è un po' dei miei capelli
sopra ogni sugara il disegno di tutti i miei coltelli
l'amore delle case l'amore bianco vestito
io non l'ho mai saputo e non l'ho mai tradito.
Mio padre un falco mia madre un pagliaio stanno sulla collina
i loro occhi senza fondo seguono la mia luna
notte notte notte sola sola come il mio fuoco
piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco.
Già il titolo della canzone ci riporta, per immediata associazione, al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, di Giacomo Leopardi, non senza una trasposizione spaziale ed esistenziale dell'esperienza dall'Asia alla Sardegna e dal nomadismo del pastore errante alla sostanziale cattività del servo pastore.
Ma è anche la caratteristica comune della solitaria vita "primigenia" a rappresentare l'intrinseco punto di contatto tra l'immaginazione del poeta e quella del cantautore.
2.2 Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Leopardi (1829-30)
Che fai
tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore,
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene,
e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la
vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu
mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu cedo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuoi dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girardo senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal , conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu sé queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna, E'
funesto a chi nasce il dì natale.
Parallelismo evidente tra le due opere è l'ambientazione all'aria aperta, con la citazione di elementi prevalentemente naturali del paesaggio.
Ma la differenza si rivela proprio nel tipo di paesaggio, che se in Leopardi erano le steppe e le pianure circondate dai monti dell'Asia centrale, nella canzone è piuttosto un'ambientazione mediterranea - il rosmarino, il mare - che richiama direttamente i paesaggi ligure e sardo, familiari all'autore.
Dalla parte delle somiglianze con Leopardi, invece, si possono indicare l'innocente ignoranza del protagonista nella prima strofa, simile a quella del pastore di Leopardi (sottolineata dall'espressione dello scambio imparare/insegnare, tipico delle persone poco istruite) e soprattutto la presenza della luna, che ha un ruolo centrale in Leopardi.
Altro elemento di contatto tra i due testi è la condizione di solitudine del protagonista, che però - a differenza del Canto Notturno - non è motivo di domande inquiete rivolte alla luna, ma accompagna un atteggiamento quasi rassegnato, privo di tensioni verso l'alto o di ambizioni di sorta.
In definitiva quello che emerge da un'attenta analisi della canzone di De Andrè, è la disperata staticità della condizione del protagonista: non c'è evoluzione né tanto meno lieto fine (come la vita del pastore errante di Leopardi, caratterizzata da monotonia e circolarità); la sua vita è e rimane sempre la stessa, e l'unico conforto può essere solo il ricordo dei genitori o l'oblio di sé grazie alla fusione con la natura, o un gesto di calore, che però non viene da una persona, ma è attribuito o, meglio, richiesto alla natura stessa ("notte notte notte sola, sola come il mio fuoco / piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco') assunta come madre adottiva, in cui egli identifica le tappe del percorso della propria vita ("Su ogni cisto da qui al mare c'è un po' dei miei capelli sopra ogni sugara il disegno di tutti i miei coltelli") . Ma, proprio a tal proposito, anche questa natura, pur essendo a prima vista la generosa macchia mediterranea, si rivela fredda e distante, quasi come in Leopardi.
Tematiche: mondo mutevole e caduco; mistero dell'eterno ed irrisolvibile dolore dell'uomo; rapporto fra uomo ed universo.
Monologo del pastore, che rivolge le sue riflessioni alla Luna, ascoltatrice silente. Egli, figura umile ed ingenua, che ben potrebbe rappresentare il primigenio pessimismo di Leopardi, secondo cui più soffre chi più è istruito e raziocinante (poiché detiene maggior coscienza della propria sofferenza), segna invece il passaggio al pessimismo di dimensione cosmica dell'autore, che illustra le domande esistenziali dal quale, nel suo insanabile dolore, è tormentato il pastore. In tale canto, infatti, Leopardi è spinto a considerare non solo la costitutiva infelicità dell'intero genere umano ma, anzi, di tutti gli esseri viventi (O forse erra dal vero/ Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero/ Forse in qual forma, in quale/ Stato che sia, dentro covile o cuna, E'/ funesto a chi nasce il dì natale
Alcune analogie tra la propria vita e quella della luna (deserto terrestre che pare simile al deserto del cielo; il pastore conduce una vita pellegrina e monotona come quella della Luna) fanno pensare all'uomo ch'egli potrà ricevere da essa delle risposte sul perché delle cose e sul destino umano. Ma le sue domande non trovano risposta ed il silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che già sapeva: la ragione è insufficiente a comprendere il mistero delle cose e dell'esistenza universale. Ma non solo: il tacere della Luna da, paradossalmente, voce all'indifferenza della natura nei confronti delle sorti umane, già chiaramente esplicitata nel "Dialogo della Natura e di un Islandese".
Il pastore sente la necessità di affidare i propri interrogativi ad una coscienza superiore, universale, che comprenda ciò che egli non può intendere. La bellezza della primavera e del cielo stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell'ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi lasciano spazio a una certezza terribile, l'unica nella mente dell'uomo: a me la vita è male.
Nell'ultima strofa, infine, al pastore balena in mente il pensiero di una felicità raggiungibile solo in una condizione differente dalla propria. Questa riflessione esplicita l'esistenza della felicità solo nell'immaginazione, che si oppone alla vita reale.
L'andamento del canto sembra voler riprodurre quello di una litania religiosa o di una antichissima nenia. Tra gli elementi che creano tale impressione si pone la sintassi volutamente semplice, che solo in due passi tesi verso una conclusione fortemente negativa colloca il verbo in fondo al periodo.
2.5 Le Nuvole[6]
Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio
Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell'airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri
Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore
Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai
Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.
Quest'opera, che per il carattere recitativo appare piuttosto un componimento poetico, è scandita dalle voci di due donne sarde. Nella prima vibra una nota di anzianità e saggezza, la seconda ritrova una sonorità più armoniosa, ad incarnare il duplice aspetto della Madre Terra, come De Andrè stesso ci dice: 'Ho scelto Lalla Pisano e Maria Mereu perché le loro voci mi sembravano in grado di rappresentare bene la Madre Terra È messo subito in chiaro che «si mettono lì / tra noi e il cielo»: se da una parte ci obbligano ad alzare lo sguardo per osservarle, dall'altra ci impediscono di vedere qualcosa di diverso o più alto di loro. Allora le nuvole diventano entità che decidono al di sopra di noi e cui noi dobbiamo sottostare, ma, pur condizionando la vita di tutti, sono fatte di niente, sono solo apparenza che ci passa sopra con indifferenza e noncuranza per nostra voglia di pioggia..".
Quindi le nuvole appaiono come essenze d'una volontà superiore all'uomo: quando decidono di porsi tra di esso ed il cielo, possono permanere in tale posizione per più giorni, occludendo la vista di Sole e Stelle e limitando la percezione umana.
Le nuvole rappresentano, in una costante critica al potere e alle convenzioni sociali, i membri delle classi superiori, che limitano con le proprie imposizioni e grazie ai mezzi posseduti, più o meno leciti, il campo d'azione altrui.
Gli umili, i rappresentanti di classi infime, non possono far alto che sottostare al loro volere, osservandone il passaggio e perdurando in balia di essi (Certe volte ti avvisano con rumore/prima di arrivare/e la terra si trema/e gli animali si stanno zitti
"Le Nuvole, per
l'aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, secondo lui, che
insegnavano ai giovani a contestare; in particolare Aristofane ce l'aveva con i
sofisti che indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento
mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti
del governo conservatore dell'Atene di quei tempi. La Nuvola più pericolosa,
sempre secondo Aristofane, era Socrate, che lui ha la sfacciataggine di mettere
in mezzo ai sofisti.
Ma a parte questo, e a parte il fatto che comunque Aristofane fu un grande
artista e quindi inconsapevolmente un grande innovatore egli stesso, le mie
Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti
nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno
terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di
potere.
De Andrè
La terra e la sua atmosfera costituiscono un gigantesco condensatore elettrico, dove la superficie terrestre assume la carica negativa, come anche l'atmosfera. La tensione ai capi delle armature di questo "condensatore" raggiunge valori di 200, 300 kV ( tra la parte inferiore della ionosfera ed il suolo).
L'atmosfera non è perfettamente isolante per cui si stabilisce, tra essa e la terra, una corrente elettrica media, detta di cielo sereno, di circa 1000 - 1500 ampere; tale corrente in brevissimo tempo (molto meno di un'ora) scaricherebbe il "condensatore" terrestre se il suolo non venisse continuamente alimentato in cariche negative dai temporali che incessantemente si succedono nel mondo, attraverso essenzialmente due meccanismi: gli effluvi elettrici dalle asperità del suolo verso le nubi ed i fulmini.
2.7 Il livello ceraunico
Come abbiamo detto il grande generatore elettrico terrestre è costituito dai temporali. Il loro numero medio annuo in una determinata località ne definisce il livello "ceraunico". Si conviene che in una stazione si è verificato un temporale se si è udito almeno un tuono.
In Italia il livello ceraunico varia tra 10 e 40, mentre i giorni con temporale si collocano tra meno di 5 a più di 30
2.8 La nube temporalesca
La nube che produce attività elettrica è nella stragrande maggioranza dei casi il cumulo-nembo elettrizzato.
Vi si possono individuare tre zone:
l'inferiore, costituita di goccioline d'acqua o di fiocchi di neve, elettrizzata negativamente tranne un nucleo centrale elettrizzato positivamente
la centrale, costituita di cristalli di ghiaccio e/o di gocce d'acqua soprafusa elettrizzata negativamente(costituisce la carica negativa principale) la superiore, interamente costituita di cristalli di ghiaccio, elettrizzata positivamente.
Un sottile strato
negativo avvolge la parte superiore del cumulo, effetto forse della
ionizzazione dovuta ai raggi cosmici.
Per induzione elettrostatica, come abbiamo già visto, il suolo sottostante inverte la sua polarità ed il campo elettrico che in cielo sereno è abitualmente negativo raggiunge parecchi migliaia di V/m
Le asperità del suolo, per effetto punta, generano degli effluvi di ioni positivi che accumulandosi in uno strato di qualche centinaio di metri di spessore limitano in qualche modo l'aumento del campo che pur tuttavia raggiunge 15 - 20 kV/m.
Una parte degli ioni prodotti, aspirata dalle correnti ascensionali determina la parziale elettrizzazione positiva della base della nuvola.
2.9 I lampi
Il lampo è la
manifestazione luminosa del riscaldamento dell'aria (sino 30 000 C° ) nel tubo
di flusso percorso dalla corrente di una scarica elettrica, corrente che a
differenza di quella dei fulmini, non fluisce a terra, ma resta confinata
all'interno della nuvola o si propaga tra nuvola e nuvola.
Si possono distinguere tre tipi di lampi:
Il lampo "intranuvoloso" che si mantiene all'interno della nuvola e la cui traccia non è distinguibile da terra
Il lampo diffuso costituito da una successione di scariche "intra-nuvolose" che si propagano lentamente sulla sommità di una linea di cumuli-nembi
Il lampo "internuvoloso", la cui traccia è sempre visibile da terra
Le scariche elettriche scoccano tra le diverse zone a opposta elettrizzazione della cella temporalesca. Inizialmente dopo una fase di elettrizzazione durante la quale non vi è attività elettrica e viene a formarsi la ripartizione indicata in Fig. 2, si hanno scariche intranuvolose tra la carica negativa principale e quella positiva superiore seguite spesso dai primi fulmini a terra. Allorquando nuove celle temporalesche vengono ad unirsi a quella iniziale i lampi intranuvolosi compiono traiettorie più lunghe e complesse e le scariche a terra diventano più potenti.
Lampo internuvoloso Lampo intranuvoloso
I lampi non sono legati solo ai cumulo-nembi; sono stati segnalati anche nel corso di tempeste di neve o di sabbia come durante certe eruzioni vulcaniche.Numerose testimonianze riferiscono ancora l'apparizione di luminosità diffuse, di origine non ancora accertata, durante i terremoti (soprattutto in Cina e in Giappone).
2.10 Il fulmine
Se la scarica elettrica raggiunge il suolo si ha il fulmine.
2.10.1 Tipi di fulmini
I fulmini portano verso terra una carica negativa (fulmini negativi) ma anche, seppur più raramente, una carica positiva (fulmini positivi) e sono preceduti da prescariche di ionizzazione dell'aria che si dipartono o dalla nuvola dirigendosi verso il suolo (fulmini discendenti) o viceversa (fulmini ascendenti).
2.10.2 Fulmini negativi discendenti
Costituiscono circa il 90% dei fulmini nei terreni pianeggianti o poco montagnosi. Traggono origine nella zona negativa principale del cumulo-nembo.
2.10.3 Fulmini negativi ascendenti
Sono inizializzati da prescariche positive che partendo dalle asperità del suolo raggiungono la parte negativa della nuvola. Sono questi i fulmini di terreni aspri, montagnosi, dei picchi e delle vette e quelli che colpiscono manufatti molto alti e snelli quali torri, piloni elettrici, antenne radio, grattacieli.
2.10.4 Fulmini positivi discendenti
Sono abbastanza rari e si verificano soprattutto in occasione di temporali invernali o di inizio primavera. Sono particolarmente potenti e possono provocare effetti distruttivi notevoli.Traggono spesso origine nella parte alta positiva del cumulonembo ma talora anche nel nucleo positivo inferiore e si sviluppano anche in assenza di precipitazioni liquide
2.10.5 Fulmini positivi ascendenti
Sono rari come i fulmini discendenti corrispondenti. Si originano in località aspre dove si manifesta facilmente l'effetto punta elettrostatico. Sono inizializzati da un precursore negativo che procede dal suolo alla parte della nuvola caricata positivamente.
2.11 Il tuono
Il tuono è dovuto alla espansione esplosiva del canale ionizzato percorso dalla corrente elettrica della scarica (vibrazione dell'aria causato dall'urto di particelle negative e positive). La tonalità come l'intensità del suono dipendono non solo dalla natura della scarica (un suono sordo e duraturo è dovuto a lampi inter o intra nuvolosi, uno secco a un fulmine vicino), ma anche tra l'altro, dalla morfologia del terreno e dalla presenza o meno della pioggia e dalla sua intensità.
Talora i tuoni hanno una lunga durata. Ciò e dovuto alla lunghezza della scarica (parecchi km) ed alla velocità ridotta del suono (331 m/s) per cui il rombo dei punti più lontani della folgore può arrivare anche decine di secondi dopo l'arrivo di quello dei punti più vicini alle riflessioni e distorsioni che il suono subisce sul terreno ed attraverso le diverse masse d'aria.
2.12 Conclusione: De Andrè, un genovese dall'animo sardo
De Andrè amò molto la Sardegna ("Mi sento più contadino che musicista. Questo è il mio porto, il mio punto d'arrivo. Qui voglio vivere, diventare vecchio"), nella quale visse per circa ventiquattro anni, ed esplicitò tale affetto in numerose canzoni scritte in dialetto.
"A trentacinque anni mi sono trasferito in Gallura, non per fuggire ma per ritrovare la campagna. L'erba, il fieno, la terra, quel certo tipo di luna molto meno diafano, molto più carnale di quella, che ci appare in città, tra lo smog di Milano. E il dialetto, che rende più saporite le bestemmie più limpide. [.] Alla Sardegna mi lega l'aver ritrovato l'ambiente naturale della Liguria, così com'era nell'immediato dopo guerra. [.] Credo proprio che finirò per fermarmi qui, cercando di creare le condizioni ideali ad un lentissimo passare del tempo"[7]
Scelse tale località per stabilirsi e non solo per permanervi in villeggiatura. Acquistò, per altro, un'azienda agricola nelle vicinanze di Tempio Pausania.
D: Come mai
hai deciso di vivere in Sardegna?
Tra l'altro sei stato protagonista con la tua compagna Dori Ghezzi di una
brutta storia di sequestro.
Malgrado questo continui a viverci, come mai?
R: Per molti motivi, primo dei quali perché le varie etnie sarde,
malgrado cospicue differenze di lingua e di cultura, hanno in comune come
minimo il rispetto di valori fondamentali in cui credo anch'io.
Quindi con loro mi ci trovo bene, parlo della generalità della gente sarda.
Un altro motivo è l'ambiente ed è inutile descriverlo, basta guardarsi attorno;
credo sia uno dei più spettacolari e dei più puliti d'Europa (anche se io
faccio di tutto per bilanciarlo).[8]
Nel 1979 visse però, insieme con la compagna Dori Ghezzi, la drammatica esperienza del rapimento, ad opera dell'Anonima Sequestri. E nei quattro mesi che trascorrerà con i suoi rapitori si scoprirà a considerarli come appartenenti ad una tribù d'indiani, piuttosto che ad un'organizzazione mafiosa: come gli indiani, infatti, anche i sardi erano stati cacciati, dai numerosi conquistatori di turno (cartaginesi, romani), sui monti, confinati nella Barbagia, vittime di dominazioni sociali.
Questa visione gl'ispira il disco successivo a tale terribile esperienza: Fabrizio de Andrè (L'Indiano)
"Ho vissuto il rapimento con un'enorme curiosità, Come un film o un romanzo di cui purtroppo ero protagonista. Ma mi incuriosiva vedere come andava a finire, che cosa succedeva di giorno in giorno. Certo poi è stato di una monotonia orrenda, e infatti mi sono seccato. Ma almeno per il primo mese e poi alla fine l'emozione non è mancata. Io se non vivo di emozioni mi sento inutile e lì non c'era da immaginarsi tanto, lì le emozioni si vivevano veramente. Da un punto di vista umano è stato avvincente."[9]
C'è da dire inoltre che De Andrè, poco dopo la sua liberazione, spese alcune parole di pietà per i suoi sequestratori ("Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai") e al processo non si costituì parte civile per essi, confermando loro il proprio perdono, ma per i mandanti, colpevoli di essere persone economicamente agiate.
3.1 Via della povertà (Tratto da "Desolation Row", Bob Dylan)
Il Salone di bellezza in
fondo al vicolo
è affollatissimo di marinai
prova a chiedere a uno che ore sono
e ti risponderà 'non l'ho saputo mai'.
Le cartoline dell'impiccagione
sono in vendita a cento lire l'una
il commissario cieco dietro la stazione
per un indizio ti legge la sfortuna
e le forze dell'ordine irrequiete
cercano qualcosa che non va
mentre io e la mia signora ci affacciamo stasera
su via della Povertà.
Cenerentola sembra così facile
ogni volta che sorride ti cattura
ricorda proprio Bette Davis
con le mani appoggiate alla cintura.
Arriva Romeo trafelato
e le grida 'il mio amore sei tu'
ma qualcuno gli dice di andar via
e di non riprovarci più
e l'unico suono che rimane
quando l'ambulanza se ne va
è Cenerentola che spazza la strada
in via della Povertà.
Mentre l'alba sta uccidendo la luna
e le stelle si son quasi nascoste
la signora che legge la fortuna
se n'è andata in compagnia dell'oste.
Ad eccezione di Abele e di Caino
tutti quanti sono andati a far l'amore
aspettando che venga la pioggia
ad annacquare la gioia ed il dolore
e il Buon Samaritano
sta affilando la sua pietà
se ne andrà al Carnevale stasera
in via della Povertà.
I tre Re Magi sono disperati
Gesù Bambino è diventato vecchio
e Mister Hyde piange sconcertato
vedendo Jeckyll che ride nello specchio.
Ofelia è dietro la finestra
mai nessuno le ha detto che è bella
a soli ventidue anni
è già una vecchia zitella
la sua morte sarà molto romantica
trasformandosi in oro se ne andrà
per adesso cammina avanti e indietro
in via della Povertà.
Einstein travestito da ubriacone
ha nascosto i suoi appunti in un baule
è passato di qui un'ora fa
diretto verso l'ultima Thule,
sembrava così timido e
impaurito
quando ha chiesto di fermarsi un po' qui
ma poi ha cominciato a fumare
e a recitare l'A B C
ed a vederlo tu non lo diresti mai
ma era famoso qualche tempo fa
per suonare il violino elettrico
in via della Povertà.
Ci si prepara per la grande festa
c'è qualcuno che comincia ad aver sete
il fantasma dell'opera
si è vestito in abiti da prete
sta ingozzando a viva forza Casanova
per punirlo della sua sensualità
lo ucciderà parlandogli d'amore
dopo averlo avvelenato di pietà
e mentre il fantasma grida
tre ragazze si son spogliate già
Casanova sta per essere violentato
in via della Povertà.
E bravo Nettuno mattacchione
il Titanic sta affondando nell'aurora
nelle scialuppe i posti letto sono tutti occupati
e il capitano grida 'ce ne stanno ancora',
e Ezra Pound e Thomas Eliot
fanno a pugni nella torre di comando
i suonatori di calipso ridono di loro
mentre il cielo si sta allontanando
e affacciati alle loro finestre nel mare
tutti pescano mimose e lillà
e nessuno deve più preoccuparsi
di via della Povertà.
A mezzanotte in punto i poliziotti
fanno il loro solito lavoro
metton le manette intorno ai polsi
a quelli che ne sanno più di loro,
i prigionieri vengon trascinati
su un calvario improvvisato lì vicino
e il caporale Adolfo li ha avvisati
che passeranno tutti dal camino
e il vento ride forte
e nessuno riuscirà a ingannare il suo destino
in via della Povertà.
La tua lettera l'ho avuta proprio ieri
mi racconti tutto quel che fai
ma non essere ridicola
non chiedermi 'come stai',
questa gente di cui mi vai parlando
è gente come tutti noi
non mi sembra che siano mostri
non mi sembra che siano eroi
e non mandarmi ancora tue notizie
nessuno ti risponderà
se insisti a spedirmi le tue lettere
da via della Povertà.
In tale canzone ha luogo la demistificazione di luoghi comuni, fiabe, opere letterarie o personaggi storicamente esistiti, attraverso il gioco dei contrari e l'utilizzo del paradosso. I Marinai affollano un salone di bellezza mentre Cenerentola non appare remissiva, come vorrebbe la tradizione, ma piuttosto spavalda; Einstein è vestito da ubriacone, laddove il fantasma dell'opera indossa i panni da prete; Casanova sarà violentato e Mr. Hyde piange, avvedendosi della risata di Jekyll, riflessa in uno specchio.
L'ultima citazione elencata rimanda direttamente all'opera di Stevenson, come anche il mito del paradosso e degli opposti, complementari e forgianti l'anima di ogni essere umano.
3.2 The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde
This novel had its origin in a dream that Stevenson had: he dreamed about a man that created a drug in order to turned into a different being.
Plot: Dr. Jekyll is a respectable man of science. But he wants to go beyond the limits imposed by the society, in order to get forbidden knowledge; so he creates a poison which can divides the two opposed sides of men.
However he menages to isolate only the bad part of himself: Mr. Hyde, that Jekyll initially wants to destroy.
During the story Hyde begins to grow in stature and the original balance of good and evil in Jekyll's nature is threatened with being permanently overthrown.
So Hyde begins to dominate over Jekyll, who has only two choices. He could choose a life of crime, or eliminate Hyde in the only way left: by killing himself.
Thus the story ends with Jekyll's suicide
Setting: England and Scotland, London (characterised by the opposition between his rich West End and its poor East End) and Edinburgh (with the beautiful New Town and the Old Town, where crime was a pressing problem)
Also Jekyll's house represents the ambivalence of life and the two opposed sides of the same man: the front façade (used by Dr. Jekyll) is well-kept, the second (used by Mr. Hyde) instead is very sinister.
The most of the events happens during the night, and in darkness or fog.
Protagonists and characters: Dr Jekyll and Mr. Hyde are also represented by their physical appearances: Jekyll is handsome, his hands are well-shaped, his body is harmonious; Hyde, instead, is very ugly (his deformity stands for his bad behaviour, he's pure evil), he's pale, less robust and less developed than Jekyll, since him bad side has been less exercised.
In the narration there are no women and the only relationships between people are professional ones.
All the characters belong to the upper class.
Jekyll understands that people are divided into two sides: a bad part and a good one.
If a man wants to live in a civilised society, he has to choose between them but, also, people must accept the incongruous elements of their personality, (in order) to live better.
This duality of men reflects the double nature of the society, characterised by antithetical values, hypocrisy and sexual repression.
So Jekyll wants to separate the opposed components of men in order to solve the contradictions which cause human sufferance: "the unjust might go his way, delivered from the aspirations and remorse of his more upright twin; and the just could walk steadfastly and securely on his upward path, doing the good things in which he found his pleasure, and no longer exposed to disgrace and penitence by the hands of this extraneous evil."
But, at the end, his experiment is unsuccessful and he menages only to separate his bad side: Mr. Hyde.
3.3 Il Testamento di Tito[11]
Non avrai altro Dio,
all'infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.
Credevano a un altro diverso da te,
e non mi hanno fatto del male.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
davvero, lo nominai invano.
Onora il padre. Onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
Quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni
senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
Senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
Il quinto dice 'non devi rubare'
e forse io l'ho rispettato
vuotando in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri, nel nome di Dio.
Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l'ami, così sarai uomo di fede:
poi la voglia svanisce ed il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore,
ma non ho creato dolore.
Il settimo dice 'non ammazzare'
se del cielo vuoi essere degno.
guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno.
guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno.
Guardate la fine di quel nazareno,
e un ladro non muore di meno.
Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo.
Lo sanno a memoria il diritto divino
e scordano sempre il perdono.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Non desiderare la roba degli altri,
non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:
nei letti degli altri, già caldi d'amore
non ho provato dolore.
L'invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.
Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest'uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l'amore.
La canzone appare come un amaro rovesciamento dei dieci comandamenti cristiani, operato in punto di morte da uno dei due ladroni crocifissi con Gesù Cristo.
De Andrè ci parla della figura di Tito in questi termini: 'Tito ne aveva fatte di tutti i colori ma senza far male a nessuno, sicché alla fine era più innocente di quel Cristo col quale gli toccò di dover dividere la morte ricevendone in cambio un'astratta promessa di paradiso, là in quell'esiguo spazio sul Golgota che ancora oggi, duemila anni dopo, ci pesa addosso'[12]
Tito contraddice il primo comandamento (non avrai altro Dio all'infuori di me) nel segno d'una fratellanza superiore a tale imposizione: genti diverse, proveniente dall'Est, credono ad un Dio differente da quello cristiano, eppure non sono meno umane, né meno benevoli. Non è allora forse superficiale la maniera in cui ci si riferisce a Dio?
Non nominare il nome di Dio invano: il Ladro si ritrova ad invocarne il nome, nel momento di maggior disperazione ("con un coltello piantato nel fianco") eppur egli pare troppo impegnato per curarsi delle sue pene e Tito, ora davvero, lo nomina invano.
Anche il precetto d'onorar madre e padre appare ingiusto e sommario: non è possibile imporre l'amore anche ad un figlio che dai genitori non ha ricevuto affetto, ma solo soprusi e violenze.
L'acrimonia di Tito si riversa poi sull'antica usanza del sacrificar un essere vivente durante le cerimonie religiose: qui l'oggetto del sacrificio è il ladro, che come tale e nel numero di molteplici altri emarginati, era escluso da tali riti. Il collegamento, inoltre, con la crocifissione subita è immediato.
Il quinto comandamento dice "Non rubare.": Tito, in tal caso, non si sente colpevole, in quanto i suoi atti non hanno mai danneggiato gli umili e gli innocenti, ma hanno colpito sempre e solo coloro che già avevano le tasche gonfie, arricchitisi spesso a scapito dei più bisognosi.
Per quanto riguarda l'imposizione religiosa circa la procreazione, essa gli appare maggiormente superficiale ed egoistica di quanto non potrebbe esserlo un rapporto esclusivamente atto al piacere. La sovrappopolazione che l'adempimento della morale cristiana provocherebbe, infatti, non porterebbe che dolore.
Il settimo precetto è
platealmente contravvenuto con le tre crocifissioni, mentre l'ottavo viene
forse rispettato, ma a scapito del perdono e dalla misericordia umana ("Lo
sanno a memoria il diritto divino
e scordano sempre il perdono").
Tito, infine, non si pente d'aver trasgredito gli ultimi due comandamenti, desiderando e possedendo la donna ed i beni altrui. Ciò che ora invidia però, in punto di morte, è la vita dei suoi aguzzini.
Ma in conclusione il Ladrone, osservando la sofferenza di Cristo, si riconosce nelle altrui pene e subisce una conversione (non religioso, ma piuttosto ideologica): pur dimenticando il proprio dolore, soffre per gli altrui patimenti, e nella pietà ch'Egli sente nei confronti di Cristo, impara a conoscere l'amore.
3.4 Gott ist tot Crollo della Metafisica secondo Nietzsche[14]
L'ironia con cui De Andrè rovescia e sconvolge i precetti cristiani, potrebbe richiamare alla mente il crollo delle Metafisiche, teorizzato da Nietzsche.
"Ciò che ci divide non è il fatto che noi non troviamo nessun Dio, né nella storia, né nella natura, né dietro la natura, ma che quello che è stato adorato come Dio noi non lo troviamo affatto 'divino', ma al contrario pietoso, assurdo, dannoso; non solo perché è un errore, ma perché è un crimine contro la vita."[15]
Nella sua critica alle metafisiche egli espresse la propria avversità nei confronti della speculazione filosofica di colui che fu comunemente considerato il padre della metafisica occidentale: Platone.
Egli, infatti, era colpevole d'aver svalutato il mondo reale, facendolo apparire come una mera riflessione di una dimensione superiore.
Platone asseriva che tale realtà (il mondo delle idee) potesse essere in parte attinta dai saggi. Con il cristianesimo si arriva a pensare che tale mondo sia invece promesso ai saggi e ai virtuosi.
Kant nega, in seguito, la conoscibilità (ma non l'esistenza) di tale mondo metafisico, mentre il positivismo ne denuncia lucidamente l'inconoscibilità. Nel quinto momento di tale vicenda, denominata Storia di un errore, tale dimensione viene ritenuta superflua ed in virtù di ciò, nell'ultimo passaggio, anche il mondo apparente nel quale viviamo cessa d'esistere come tale, poiché è ormai crollato il mondo reale al quale esso rimandava.
1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in esso, lui stesso è questo mondo. (La forma più antica dell'idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi 'Io, Platone, sono la verità').
2. il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso ('al peccatore che fa penitenza').(Progresso dell'idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile - diventa donna, si cristianizza ).
3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (In fondo l'antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l'idea sublimata, pallida, nordica, kónigsbergica).
4. Il mondo vero - inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a chi ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto? (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).
5, Il 'mondo vero' - un'idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante - un'idea divenuta inutile e superflua, quindi un'idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).
6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente? Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA).
Nella prospettiva della sua visione vitalistica del reale è ovvio che il comune rifugiarsi nella speculazione metafisica e nella religione, costituiscono per Nietzsche una vile quanto inutile fuga della realtà. Mortificare il corpo a favore dello spirito, non godere della vita in attesa del raggiungimento di un mondo ulteriore e sovrumano, nella speranza d'una ricompensa futura sono pratiche quanto mai futili e fuorvianti.
L'invito di Nietzsche, nell'ottica superomistica, è quello di vivere intensamente, senza limiti ed in ogni suo frangente la vita, senza mai rifuggirla.
La creazione di un mondo soprannaturale per il filosofo, inoltre, è esclusivamente una menzogna orchestrata con l'intento di sopportare il fardello dell'esistenza e di spiegarne le contraddizioni e le disarmonie.
La morte figurata di Dio, quindi, non ha bisogno di essere giustificata. L'unico aspetto da analizzare è l'effetto che questa drammatica realtà investe sulle menti degli uomini: si delinea così la figura del Superuomo, centrale nella filosofia nietzschiana, l'unico che può sopportare e superare lo smarrimento successivo al cedimento della religione
3.5 Conclusione: in direzione ostinata e contraria
Dare voce agli emarginati, come già è stato detto, costituisce un imperativo primario per De Andrè.
Essi gli appaiono certo soggetti validi ed inspiratori, semplici ed immediati, innocenti anche nelle loro manifestazioni più crude ed illecite. De Andrè ha la forza necessaria per affrontare la sfida di ribellarsi alle ingiustizie, di rendere immortale chi è effimero, di sconvolgere e minare le dinamiche sociali alla base, rovesciandone la scala di valori.
"La sua produzione musicale accompagna momenti cruciali del dopoguerra nel nostro paese. Comincia a scrivere negli anni del boom economico, negli anni settanta racconta la contestazione che sfocia nel terrorismo, mette a nudo le contraddizioni degli anni ottanta, e preconizza la crisi della globalizzazione a ridosso del nuovo millennio. In quarant'anni la società italiana ha attraversato cambiamenti radicali, ma per De Andrè il punto di riferimento sono rimasti sempre i ghettizzati, le vittime, a prescindere dalla loro lingua e dal tempo in cui vivono, dal colore della pelle o dalle loro tendenze sessuali."[16]
Bibliografia
o Bajani, Deandreide. Storie e personaggi di Fabrizio De André, Milano, Bur 2006
o Baldi G., Giusso S., Razzetti Z., G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia Bruno Mondatori Editori, 2001
o Cannas A., Floris A., Sanjust S.(a cura di), Cantami di questo tempo, Cagliari, Aipsa Edizioni 2007
o Cartiglia C., Storia e ricerca - il Novecento, Milano, Loescher 2007
o Cotroneo R. (a cura di), Come un'anomalia, Einaudi 1999
o it.wikipedia.org (Internet), Fabrizio De Andrè da Wikipedia, l'enciclopedia libera, 6 giugno 2008
o Spiazzi M. & Tavella M., Only connect., Bologna, Zanicheli 2005
o www.giuseppecirigliano.it/FDA_analisitesti.htm (Internet), Fabrizio de Andrè - Analisi dei testi, Maggio 2008
o www.nimbus.it/liguria/rlm10/fenomeni_elettrici.htm (Internet), Fenomeni elettrici dell'atmosfera, 6 giugno 2008
o https://www.viadelcampo.com/ (Internet), Omaggio a Fabrizio de Andrè, Maggio 2008
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