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Proprio come nello studio della fisica e della cosmologia, anche nelle arti figurative è possibile attuare una distinzione tra "infinitamente piccolo" ed "infinitamente grande". Due concezioni sviluppatesi in Europa a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento.
La prima metà del XIX secolo è caratterizzata da una serie di scoperte scientifiche (specialmente nella chimica e nella fisica) che porteranno a cambiamenti radicali nella società del tempo. L'aspetto interessante da sottolineare è che le nuove scoperte non limitano la loro influenza a campi del sapere strettamente scientifici, ma trovano una vasta applicazione anche in materie umanistiche quali l'arte e la letteratura.
In particolar modo, la chimica avrà una grande importanza in ambito artistico in relazione alle teorie elaborate sui colori. Nelle opere pittoriche, infatti, i colori hanno assunto un ruolo fondamentale, introducendo lo spettatore nello stile e nella tecnica dell'artista. Ma soprattutto hanno permesso ai vari geni di esprimersi al meglio, soprattutto dopo il periodo impressionista. Decisiva in questo senso è stata la "Teoria dei contrasti simultanei" elaborata dal chimico francese Eugène Chevreul (1786-1889). Pubblicata nel 1839, la teoria mostra che i colori locali (o puri) non esistono, poiché ognuno è influenzato dai colori vicini. Inoltre un colore dona ad un colore vicino una nuance complementare nel tono in modo che i colori complementari si illuminano a vicenda e i colori non complementari appaiono "sporcati", come quando un giallo accostato ad un verde acquista una sfumatura violetta. Già gli impressionisti avevano constatato che ogni colore che vediamo nasce dall'influenza del suo vicino, e che perciò il colore, invece che mescolato, deve essere accostato all'altro
L'opera di Chevreul segnò soprattutto le scuole post-impressioniste e specialmente il neo-impressionismo di Seurat che voleva distanziarsi dalle tecniche impressioniste.
Seurat ritiene che finora si sia seguito più l'occhio che non regole precise. Così in un'epoca in cui la scienza sembra non avere limiti, Seurat applica sistematicamente la "Teoria dei contrasti simultanei" accostando sulla tela i colori e i loro complementari in modo che la fusione avvenga nella retina dell'osservatore. Invece che virgole, trattini e strisce di dimensioni varie, come hanno fatto gli impressionisti, ai colori dovrà essere data la forma di puntini, da cui il termine francese pointillisme (Seurat avrebbe preferito il termine "divisionismo" perché non è tanto la forma che interessa quanto la divisione dei colori).
"La peinture veut se penser tout en se faisant. Les peintres en arrivent à ne plus considérer l'ouvre d'après leur personnalité originale, mais d'après l'originalité de leur théorie" (Georges Seurat)[1].
Una delle opere più significative di Seurat è Una domenica pomeriggio all'isola della Grande Jatte, manifestazione compiuta del "pointillisme":
Figura - Georges Seurat, Un dimanche après-midi sur l'ile de la Grande Jatte, (1884-86)
Il tema è impressionista: rappresenta un luogo sulla Senna colmo di gitanti domenicali. Contrariamente ad un impressionista che avrebbe cercato di rendere la mobilità delle persone, dell'acqua o della luce, Seurat immobilizza tutto: le corse, i giochi dei bambini coloro che passeggiano. Inoltre i personaggi sono privi di volume, come ritagliati.
La tecnica pittorica utilizzata da Seurat da a questo quadro un aspetto freddo: cerca di giungere all'"acromatismo", cioè all'eliminazione dell'iridescenza della luce (alone luminoso) per conservare solo l'esatto colore in condizioni atmosferiche ben precise.
Essa è intesa ad ottenere la massima luminosità attraverso l'accostamento di colori complementari; le pennellate vengono ordinate sulla tela in piccoli tocchi regolari di colore puro, mentre è lasciato all'occhio dell'osservatore il compito di operare la sintesi finale.
Con il pointillisme si realizza l'"alliance possible et désirable de la Science et de l'Art" auspicata da Louis Pasteur.
Con l'avvento del periodo barocco, l'infinito spaziale appare prepotentemente sulla scena affermandosi specialmente in pittura e in architettura. Servendosi della prospettica lineare, l'arte barocca unisce il dipinto e l'osservatore in un unico spazio, creando l'illusione che l'immagine è reale quanto l'osservatore e che lo spazio pittorico si estende all'infinito. Il critico d'arte canadese John Rupert Martin (morto nel 2000) riteneva che questo senso di spazio pittorico fosse analogo al concetto cosmologico di infinito che stava affermandosi nel XVII secolo.
L'architettura barocca sembra, infatti, portare lo sguardo dell'osservatore all'infinito: le strutture interne di chiese e basiliche sono ampie e si perdono frequentemente nell'abside dorata e luccicante; e mentre le navate laterali sono buie, una cupola centrale lascia penetrare la luce dall'alto dell'edificio. Nella pittura, invece, il senso dell'infinito è accentuato dall'uso del chiaroscuro. Infatti, l'infinito non può essere mostrato ma semplicemente intuito o sottinteso. L'intuizione avviene tramite un'impressione di spazio infinito, un moto verso una profondità illimitata che suggerisce l'esistenza di ciò che è nascosto. La sensazione è proprio data dal chiaroscuro che dona agli oggetti rappresentati una tridimensionalità maggiore, facendoli apparentemente saltare fuori della cornice.
È interessante notare come dopo essere scomparso dalla scena neoclassica, l'infinito riappare in epoca romantica assumendo connotati irrazionali e soggettivistici: il mondo esterno non è reale, ma esiste solo in quanto proiezione e creazione dell'io, proprio come dicevano gli idealisti[2]. Questo soggettivismo esasperato e irrazionale si traduce in una tensione verso l'infinito, nell'ansia di superare le barriere del reale ed attingere ad una realtà più vera. L'artista ha quindi la possibilità di interiorizzare il mondo, inventando spazi, luci e forme nuove.
Uno dei maggiori rappresentanti dell'espressione di infinito è il pittore tedesco Caspar David Friedrich. Partecipante attivo alla rivoluzione romantica, Friedrich trasfonde la ricchezza dei suoi sentimenti, la sua angoscia di fronte al mistero in paesaggi sublimi e talvolta angosciosi. Il sublime è, come diceva Kant, "ciò che è assolutamente grande.è una grandezza che è uguale a se stessa, al cui paragone tutto il rimanente è piccolo[.]". Ma l'animo umano, attraverso la vista di paesaggi sublimi, può intuire l'infinito e rendersi conto di possedere una facoltà superiore alla misura dei sensi.
Nel Viandante su un mare di nebbia, la grandezza sublime della natura è espressa dall'immensità spaziale, con i monti scalati in profondità e appena visibili sul fondo, dall'altezza della montagna rocciosa in vetta alla quale l'uomo solitario, di spalle, guarda verso l'infinito e dalla nebbia sottostante che avvolge nel mistero ciò che ricopre:
Figura - Caspar David Friedrich, Der Wanderer über dem Nebelmeer
In questo quadro, l'uomo identifica la figura del viandante che si ricollega al tema romantico dell'esule, l'uomo senza radici costretto a vagare senza sosta. La posizione di spalle sta forse ad indicare la situazione dell'uomo religioso che si prepara alla vita eterna: infatti, il paesaggio di sfondo rappresenta il riflesso dell'aldilà, mentre il primo piano, in gran parte immerso nelle tenebre, simboleggia il mondo terrestre.
Il "viandante su un mare di nebbia" simboleggia la solitudine, la disperazione e soprattutto il mistero che avvolge la figura senza volto, con i capelli al vento e lo sguardo rivolto verso uno spazio abissale. L'esperienza del viandante è ben più che un viaggio: essa rappresenta "il" viaggio senza meta e senza ritorno, simbolo della vita umana e del rapporto che essa intrattiene con l'infinito.
In molte creazioni pittoriche l'impressione di infinito è raggiunta attraverso la raffigurazione di distese spaziali infinite quali "il mare di nebbia" di Friedrich o, più frequentemente, mari veri e propri. Lo spettacolo di una distesa d'acqua provocava (e provoca ancora oggi) un sentimento di nullità dell'uomo di fronte alla vastità e alla potenza della natura. Ecco perché il tema del mare e della tempesta ricorre in molti quadri ottocenteschi.
Un esempio suggestivo che esprime la forza della natura contrapposta all'incapacità dell'uomo di dominarla è fornito dall'Evasione di Rochefort di Edouard Manet:
Figura - Edouard Manet, L'évasion de Rochefort, (1880)
Il quadro rappresenta la vicenda del giornalista Rochefort che nel 1873 è condannato alla galera per il suo ruolo durante la Comune. La sua evasione spettacolare via mare nel 1874 ispira a Manet, sei anni dopo, questa particolare composizione. L'eroe è appena riconoscibile, situato a prua di una minuscola barca che vaga tra le onde e accompagnato dai suoi complici. Si coglie l'effetto di solitudine e di pericolo reso dalle dimensioni della barca. Il mare, che invade la tela, è reso elettrico e fosforescente grazie a piccoli tocchi di colore qua e là. Pur avendo scelto l'imprecisione per rappresentare un avvenimento di sei anni prima, Manet tesse un superbo pezzo di infinito marino per evocare il pericolo e il dramma della scena.
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