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L'illusione come rappresentazione fittizia della realtÁ




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L'ILLUSIONE COME RAPPRESENTAZIONE FITTIZIA DELLA REALTÁ











Introduzione:


Tutto e' un'illusione,

e un'illusione

e' una piccola parte di niente

creata da noi

per trovare una scusa

all'incubo che si vive.


Anonimo



L'illusione è quella componente irrazionale della natura umana che si ostina a credere in quei valori o ideali che non trovano alcuna realizzazione nella vita quotidiana. Cercare di capire che cosa e' la realtà quando ci si trova immersi nella totale illusione e' praticamente impossibile.


Ho scelto il tema dell'illusione per dimostrare quanto spesso ciò che ci viene mostrato come reale, si rivela essere una menzogna. Attraverso l'illusione e la promessa di qualcosa di migliore, ci facciamo ingannare dalle apparenze, dalle utopie, dimenticando quella che è la realtà e credendo alla rappresentazione fittizia che ci viene offerta di essa. Senza andare molto lontano nel tempo, ma rimanendo ai giorni nostri, si potrebbe far riferimento alla realtà virtuale, usata come una droga allucinogena, per "fare uscire di testa" le masse e soprattutto i giovani che, sperimentano, come in ipnosi, realtà di violenza gratuita, che, insieme ai mass media, ci propina immagini di morte e catastrofi all'ora di pranzo, facendocele ingoiare assieme al cibo quotidiano. In questo modo diventano parte del nostro alimento e vengono assimilate a livello inconscio.

Come se ciò non bastasse, stanno ora diffondendosi, all'interno di Internet, giochi di simulazione esistenziale che offrono la possibilità di costruirsi una vita virtuale ideale in cui, desideri inappagati di fama e ricchezza possono, magicamente, essere soddisfatti. Ho visto gente trascorrere intere giornate dentro la simulazione virtuale dimenticandosi di vivere per davvero.follia reale! La simulazione virtuale dovrebbe servire per farci progettare un mondo migliore e aiutarci a non commettere errori di valutazione. Se imparassimo a utilizzarla come strumento di verifica ci fornirebbe il migliore servizio, senza "effetti collaterali"; invece, viene subdolamente usata, per accrescere l'illusione collettiva e alimentare desideri consumistici o, addirittura, tendenze criminali.

Quello che possiamo fare, per non cadere nel tranello della virtualità, è focalizzare il nostro pensiero, individuale e collettivo, sul senso della vita e la percezione del presente. La vita è un continuo divenire che è colto solo quando fluiamo con esso centrati nel "qui ed ora" , ossia, nell'eterno presente. Questa è l'unica condizione che dissolve il velo e mostra la realtà per quello che veramente è: una potenzialità di eventi, pensieri e stati emotivi a cui possiamo dare espressione secondo la nostra consapevole scelta.

Ma se dimentichiamo per un attimo la realtà virtuale e pensiamo al concetto di verità, ci viene in mente una cosa: il fatto che ci venga proposta come vera una certa visione della realtà allo scopo di controllarci è qualcosa che succede da secoli, qualcosa che continua a succedere e che ha avuto gli esempi più evidenti proprio nel secolo appena trascorso. Pensiamo alla Chiesa del Seicento, quella che fece ritrattare Galileo a proposito delle sue tesi eliocentriche in favore di quelle etnocentriche, che, in quanto nominate nella Bibbia, erano le uniche ammesse dalla Chiesa. Confutarle avrebbe significato porre dei dubbi sulla creazione divina del mondo, e quindi sul potere di controllo dei fedeli da parte della Chiesa. Nel XX secolo lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha avuto un ruolo fondamentale nell'ascesa dei regimi totalitari, perché permetteva ad essi di proporre alle masse esclusivamente la loro verità, che era così unica ed inconfutabile. Ed è proprio di questo che si occupa il filosofo della scuola di Francoforte Herbert Marcuse, che sottolinea quanto la realtà sociale equivalga sempre e comunque ad una mistificazione. Una altro filosofo che si occupa dell'illusione è Schopenhauer il quale la definisce come ciò che nell'antica sapienza indiana è detto "velo di Maya", ovvero il fenomeno, mentre il noumeno è una realtà che si nasconde dietro l'ingannevole trama del fenomeno e che il filosofo ha il compito di scoprire.


'È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua, o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente' da Il mondo come volontà e come rappresentazione di Schopenhauer.


Nella letteratura italiana è presente la poetica pirandelliana anch'essa incentrata sulla critica delle illusioni, che sfocia nella consapevolezza della impossibilità di conoscere la

realtà, e che qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inattingibile verità

della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile.

Ma il tema dell'illusione, o meglio dell'utopia, era presente già ai tempi di Seneca e Tacito, che si illudono di aver trovato in Nerone le virtù di un grande sovrano illuminato, quando poi si rendono conto di essere stati vittime di un'illusione, dal momento in cui la figura di Nerone degenera in quella di tiranno.

Infine Teocrito, attraverso la poesia bucolica, creava al suo pubblico l'illusione di una vita perduta ma non obliata, cercando di dimenticare e di far dimenticare per un attimo le imponenti costruzioni alessandrine, unendo la realtà all'immaginazione, creando così l'illusione della realtà.

E' nel teatro dell'assurdo, invece, che le illusioni lasciano il posto alla consapevolezza della totale impossibilità di ogni comunicazione e dell'assurdità della condizione umana, che si ritrovano in opere come "Waiting for Godot" di Samuel Beckett









ILLUSIONE DELLA PROPAGANDA TOTALITARIA


In Europa le dittature del nostro secolo sono nate come una delle diverse risposte all'ingresso della masse nella storia. Un fatto caratteristico, fu proprio che i movimenti totalitari europei reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Ad es. nazismo e fascismo hanno cercato con tutti i mezzi di ottenere l'entusiastico appoggio delle masse. I mass media sono stati strumenti funzionali a questo obiettivo, così come le adunate 'oceaniche', i discorsi del 'Duce' e del 'Fuhrer', ecc.. Ciò non avviene solo sul terreno politico, ma anche su quello del costume, delle abitudini di vita, dei valori morali. Le dittature mirano ad estendere il loro dominio dal terreno politico a quello privato, alla sfera intima e personale della persona, proponendosi come rivoluzionari capaci di incidere sulla natura stessa dell'uomo.

Alcuni regimi dittatoriali hanno avuto un largo consenso di massa perché hanno saputo utilizzare molto bene i mezzi di propaganda, e hanno incarnato alcuni ideali realmente presenti nel corpo sociale e nella cultura del momento.


Il fascismo:


" Il Fascismo ebbe il mito dell'organizzazione e cercò di organizzare un mito nella realtà"


( E. Felice )


Il mito e l'organizzazione furono le categorie attraverso le quali i fascisti interpretarono i problemi della moderna società di massa. Il pensiero mitico diede l'impulso allo sviluppo dell'organizzazione totalitaria, facendo penetrare il mito nell'animo delle masse. Il nesso fra mito e organizzazione aveva radici in una concezione della politica delle masse sorta molto tempo prima del fascismo, con la svalutazione della ragione come suprema regolatrice dell'uomo e della storia, e la scoperta della potenza dell'irrazionale nei movimenti collettivi. Mito e organizzazione erano già stati considerati da le Bon e Sorel come gli strumenti fondamentali della politica di massa, per trasformarla in una ordinata ed efficace macchina politica. Perciò il regime totalitario fascista pretendeva di trasformare la società dal profondo, in nome di un'ideologia , attraverso l'uso combinato del terrore e della propaganda. Riuscì così a mobilitare i cittadini attraverso proprie organizzazioni e ad imporre la propria ideologia attraverso il monopolio dell'educazione e dei mezzi di comunicazione di massa.

Sapendo quanto fosse importante il consenso, il fascismo diede un'attenzione particolare al mondo della culturale e della scuola. Una volta consolidatosi, il regime si preoccupò di fascistizzare l'istruzione, attraverso la riforma Gentile, che accentuò la severità degli studi e sancì il primato delle discipline umanistiche su quelle tecniche; attraverso l'imposizione di testi unici per le elementari e un più stretto controllo sugli insegnanti, imponendo a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime. Impose inoltre un controllo sempre più soffocante alla stampa politica, attraverso svariate censure. Anche il cinema fu oggetto privilegiato delle attenzioni del regime, che limitò la penetrazione dei film americani, e cercò di bandire qualsiasi argomento politicamente scabroso, lasciando all'ente statale "Istituto Luce" la funzione propagandistica, proiettando immagini capaci di attirare l'attenzione popolare. Al controllo sull'istruzione e sulla carta stampata, il regime univa quello sulle trasmissioni radiofoniche, affidate a un ente di Stato denominato Eiar. La radio però iniziò ad avere successo solo negli ultimi anni 30, quando entrò stabilmente nelle case della classe media. Attraverso il nuovo mezzo giungevano non solo messaggi propagandistici, ma anche canzonette, servizi sportivi, tutti essenziali alla costruzione di una nuova cultura. Tutto ciò si prestava bene agli scopi di un regime che affidava il suo successo alla forza dell'immagine e alla sua capacità di persuasione. L'Italia del ventennio fascista infatti, aveva l'immagine di un paese fortemente fascistizzato. I ritratti di Mussolini esposti nelle scuole o innalzati per le strade; le copertine dei libri ornati con l'emblema del fascio littorio; i muri decorati da scritte guerriere; la grandi folle mobilitate in occasione delle ricorrenze fasciste; gli scolari che sfilavano in formazione militare, vestiti in camicia nera e armati di fucile. Queste e altre immagini avevano il compito di mostrare quanto il paese fosse cambiato rispetto al periodo precedente. In realtà esse divulgavano solo l'immagine ufficiale della nazione, che in realtà restava notevolmente arretrata. L'Italia, infatti, continuò a muoversi e a svilupparsi secondo linee di tendenza comuni a tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale. Anche se nel '39 si accentuò l'urbanizzazione e il numero di lavoratori dell'industria era aumentato notevolmente, l'Italia era un paese ancora fortemente arretrato e il distacco dalle grandi potenze non si era ancora ridotto ( la spesa per i consumi alimentari era tre volte inferiore a quella di un inglese o di un americano). Questa arretratezza favorì le tendenze conservatrici e tradizionaliste del fascismo, che predicava il ritorno alla campagna. Le parole d'ordine fasciste erano appunto "ruralizzazione" e "sviluppo demografico". Ispirandosi alla dottrina che identificava la potenza con la forza del numero, il regime cercò di incoraggiare l'incremento della popolazione, istituendo addirittura premi per le coppie più prolifere, e ostacolò il lavoro delle donne, opponendosi al processo di emancipazione femminile. Se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall'altro il regime era proiettato verso il futuro, verso la creazione dell'uomo nuovo, verso un sistema totalitario moderno, in cui l'intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime. Non era facile però far giungere il messaggio fascista nei piccoli paesi sperduti, dove non c'erano scuole e non si sapeva cosa fossero la radio e il cinema. Per questo, i maggiori successi, in termini di consenso, il regime li ottenne presso la media e piccola borghesia, più sensibile ai valori esaltati del fascismo e più disposti a recepirne i messaggi. Si può quindi concludere che il regime riuscì a cambiare i comportamenti pubblici e le forme di partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel profondo schemi mentali e strutture sociali.


Il nazismo:


A differenza del suo maestro e precursore Mussolini, Hitler riuscì nell'intento di assorbire ogni aspetto della vita del cittadino tedesco nei dettami della sua visione del mondo. Il nazismo, infatti, ebbe la capacità di proporre e imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell'anima popolare, ed ebbe l'abilità di servirsi a questo scopo di tutti gli strumenti disponibili nell'età delle comunicazioni di massa. L'utopia che il nazismo proponeva ai tedeschi attraverso la stampa, i discorsi del Führer, i film di propaganda, era un'utopia reazionaria e rurale: un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una società patriarcale di contadini-guerrieri, libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà industriale. Questo ideale contrastava in modo stridente con la prassi concreta del regime, sospinto dalla sua logica bellicista a favorire lo sviluppo della grande industria. Ma si innestava su una solida tradizione culturale, fondata sui miti della terra e del sangue, e rifletteva uno stato d'animo di istintivo rifiuto della civiltà moderna e di rimpianto per un passato preindustriale dipinto in forme idilliache. Per diffondere un'utopia antimoderna il regime si serviva paradossalmente di mezzi moderni. Quello nazista fu il primo governo a istituire un ministero per la propaganda, affidato a Joseph Goebbels. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da feste e cerimonie pubbliche, preparate con estrema cura, nelle quali il cittadino trovava momenti di socializzazione, sia pure fondata, che la vita nelle grandi città non offriva spontaneamente. Ma la più efficace invenzione della propaganda nazista fu senza dubbio quella che riguardava una 'cospirazione ebraica mondiale'. L'antisemitismo attecchì in un suolo fertile, dove già era consolidata l'opinione comune sul popolo ebraico che lo vedeva come simbolo della disonestà dell'intero sistema, a causa dell'ambiguo ruolo svolto dagli ebrei nella società europea in seguito alla loro emancipazione. I nazisti ponevano il problema ebraico al centro della loro propaganda: l'antisemitismo non era più solo una questione di opinioni, ma una faccenda relativa ad ogni individuo. Ciò diede alle masse di individui 'atomizzati', un mezzo di autoaffermazione, in grado di far loro riconquistare parte del prestigio perso con la caduta del sistema classista. Il mito della razza occupò un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo: la stessa idea della Stato aveva, rispetto a quella della razza, una funzione del tutto secondaria. Il tratto demoniaco dell'esperienza nazista sta nell'avere inseguito questo mito con brutale coerenza.


Lo stalinismo:


Anche Stalin, alla fine degli anni '30, sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco, finì con l'assumere in Urss un ruolo di capo carismatico non diverso da quello svolto nello stesso periodo dai dittatori di opposta sponda ideologica. Era l'autorità suprema, ma anche il depositario di un'autentica dottrina marxista e al tempo stesso il garante di una sua corretta applicazione. Seppe presentarsi ai comunisti come una guida solida e abile, alla sinistra in generale come uno dei pochi leader che facesse qualcosa per combattere il fascismo (almeno prima del Patto Molotov-Ribbentrop). Con l'avvento del fascismo molti avevano infatti cominciato a pronosticare la morte della 'democrazia borghese' e a ritenere che fascismo o comunismo sovietico fossero le sole vie possibili. L'abilità manipolatoria della propaganda e l'impossibilità per molti militanti comunisti di visitare di persona l'URSS (diversamente dai dirigenti del partito) e rendersi conto della reale situazione del paese favorirono il dittatore.

Inoltre, la letteratura, il cinema, la musica e la arti figurative furono sottoposte a un regime di rigida censura e costrette a svolgere una funzione propagandistico - pedagogica entro i canoni del cosiddetto realismo socialista. La storia recente fu riscritta per esaltare il ruolo di Stalin e sminuire quello di Trotskij e degli altri oppositori. Persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo e scienziati illustri furono perseguitati per aver sostenuto teorie giudicate non ortodosse. Lo stalinismo è inoltre inseparabile da quella traumatica esperienza che fu l'industrializzazione forzata. Stalin non solo emarginò politicamente tutti i suoi rivali o potenziali, ma li sterminò fisicamente. E fece eliminare insieme a loro migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti di deviazionismo. Vittime principali erano stati i contadini, in particolar modo i kulaki,che furono eliminati non solo come classe, ma anche come persone fisiche. Il periodo delle "grandi purghe" cominciò nel '34 e negli anni successivi le purghe s susseguirono a un ritmo impressionante, sempre giustificate dalla necessità di combattere traditori e nemici di classe. Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca, condotta nell'arbitrio più assoluto, che colpì milioni di persone e che diede vita a un immenso universo concentrazionario formato dai capi di lavoro: quell'universo che avrebbe preso il nome di "Arcipelago Gulag". La repressione non risparmiò nessun settore della società. Forse peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi, formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura. Le grandi purghe, le deportazioni in massa e iporecessi degli anni '30 provocarono una certa impressione in occidente, ma nel complesso non ebbe grande rilievo. Anzi, l'eco dei successi ottenuti in economia e nell'industria si diffuse rapidamente aldilà dei confini dell'Urss e gli antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza all'Unione Sovietica. Meno noti fuori dall'Urss erano i costi umani e politici di quell'impresa. E pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne.


HERBERT MARCUSE


L'avvento del nazismo, l'affermazione del comunismo sovietico e il trionfo della società tecnologica ed opulenta, sono le coordinate di fondo in cui si definisce il progetto storico- sociale della Scuola di Francoforte, e in particolare di Marcuse, uno dei suoi maggiori esponenti.

Secondo Marcuse l'apparato produttivo nella nostra società tende a diventare totalitario. La tecnologia, che è asservita al dominio, favorisce nuove forme di controllo sociale.

Filosofo e sociologo di culto, autore più citato che letto, Marcuse è il teorico del 'Gran Rifiuto' nei confronti della società tecnologica ed in generale uno dei più acerrimi nemici della Modernità. La formula indica la valenza fondamentale della sua impostazione, ossia la negazione: negazione sistematicamente attuata nei confronti di tutto ciò che è 'realtà', perché la realtà è veicolo di menzogna, ipocrisia, illusione. Come già emerge nei primi anni di vita della 'scuola' (che nasce ed inizia sviluppare le sue tesi a partire dagli anni 20) uno dei presupposti epistemologici dei francofortesi si realizza attraverso una coscienza critica fortemente connotata in senso negativo: ossia attraverso 'la negazione di ciò che appare evidente, il non soddisfarsi di quel che è dato'. Una coscienza critica che, a differenza di quanto accade ad Adorno e Horkheimer, in Marcuse diventa pressoché assoluta e necessitata a svilupparsi anche in senso eversivo.

Da questo punto di vista, soprattutto attraverso le sue opere più famose quali "Eros e civiltà del 1955" e soprattutto "L'uomo a una dimensione" Marcuse ci dice in sostanza che la vita, la nostra vita, è una tragica messinscena. Ci esorta a capire che ciò per cui spendiamo tempo e fatica, intelligenza ed energia è indegno dei nostri sforzi.

Se Marx e Freud sono stati definiti i maestri del sospetto, Marcuse è il discepolo che li supera portando all'estremo le loro indicazioni: come è stato notato, «la filosofia diventa negativa nel momento in cui cerca di demistificare la realtà sociale, giungendo alla conclusione che la verità, lungi dall'identificarsi con la realtà, resta ancora da scoprire» .

E non a caso Marx e Freud, insieme a Hegel, rappresentano i suoi punti di riferimento, momenti irrinunciabili del suo impianto sociologico. Da Marx assume il concetto di alienazione, grazie ad Hegel si impadronisce del il concetto di dialettica come dinamica negativa, da Freud - per il quale il principio del piacere è alternativo al principio di realtà - assume la visione della civiltà come risultante dinamica della continua repressione degli istinti: istinti che devono necessariamente essere 'liberati' affinché l'uomo possa essere realmente felice.

Il punto di partenza si determina sul negativo e sul negativo procedono i suoi sviluppi: le libertà che le democrazia occidentali consentono sono, in realtà, forme di costrizione mentale e materiale sempre più raffinate e perfezionate. Il benessere stesso, creato dal mercato, altro non è che un sistema soft - ma come tale ancor più pericoloso - subdolamente finalizzato alla strumentalizzazione delle coscienze. Ciò non sorprende se partiamo dal presupposto che la verità è sempre e comunque altrove rispetto alla realtà. La realtà sociale equivale sempre e comunque ad una mistificazione. Se rifiuto di riconoscere il legame che vige fra realtà e verità, il mondo in cui vivo non tarderà ad apparire come una bufala globale, composta da artefatti pratici ed artifici teorici. Un ambito in cui i veri desideri umani vengono manipolati e orientati dall'esterno.


H. Marcuse, Eros e civiltà


In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. In tal modo esso dissolve l'opposizione tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali. La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, piú efficaci e piú piacevoli. La tendenza totalitaria di questi controlli sembra affermarsi in un altro senso ancora - diffondendosi nelle aree meno sviluppate e persino nelle aree preindustriali del mondo, creando aspetti simili nello sviluppo del capitalismo e del comunismo.

Di fronte ai tratti totalitari di questa società, la nozione tradizionale della "neutralità" della tecnologia non può piú essere sostenuta. La tecnologia come tale non può essere isolata dall'uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio che prende adoperare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate.

Il modo in cui una società organizza la vita dei suoi membri comporta una scelta iniziale tra alternative storiche che sono determinate dal livello preesistente della cultura materiale ed intellettuale. La scelta stessa deriva dal gioco degli interessi dominanti. Essa prefigura modi specifici di trasformare e utilizzare l'uomo e la natura e respinge gli altri modi. È un "progetto" di realizzazione tra altri. Ma una volta che il progetto è diventato operativo nelle istituzioni e relazioni di base, esso tende a diventare esclusivo e a determinare lo sviluppo della società come un tutto. Come universo tecnologico, la società industriale avanzata è un universo politico, l'ultimo stadio della realizzazione di un progetto storico specifico, vale a dire l'esperienza, la trasformazione, l'organizzazione della natura come un mero oggetto di dominio.

Via via che il progetto si dispiega, esso plasma l'intero universo del discorso e dell'azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l'economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale di sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio. La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica.


Alla base di "Eros e Civiltà" sta la convinzione che la civiltà ha potuto svilupparsi solamente in virtù della repressione degli istinti , e in particolare della ricerca del piacere. La società infatti è riuscita ad accrescere la produttività solo impedendo all'individuo la libera soddisfazione delle sue pulsioni. Marcuse inoltre afferma che non sia la civiltà in quanto tale ad essere repressiva, ma quel tipo di società che è la società di classe, delineatasi in particolare in occidente, che è stato asservito a ciò che Marcuse chiama "principio di prestazione", ossia la direttiva di impiegare tutte le energie psico-fisiche dell'individuo per scopi produttivi e lavorativi. In tal modo, il fine della vita è divenuto il lavoro e la fatica, che gli uomini hanno finito per accettare come qualcosa di naturale. In uno scritto successivo, dal titolo " L'uomo a una dimensione" Marcuse riprende e radicalizza i vari motivi di critica della società tecnologica avanzata. L'uomo a una sola dimensione è l'individuo alienato della società attuale, è colui per il quale la ragione si è identificata con la realtà e che perciò non scorge più il distacco tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Sicché per lui, al di fuori del sistema in cui vive, non ci sono altri modi di esistere. Anzi il sistema, si ammanta di forme pluralistiche e democratiche, che però sono puramente illusorie, poiché le decisioni, in realtà, sono sempre nelle mani dei pochi. Anche la cosiddetta liberà sessuale delle società avanzate è un'illusione o un inganno. Marcuse parla, a questo proposito, di de sublimazione repressiva, intendendo la falsa libertà dell'occidente, nel quale, in apparenza, non ci sono più repressioni, ma in realtà si ha una semplice liberalizzazione commercialmente redditizia del sesso.

Tuttavia, la società non riesce ad imbavagliare tutti i problemi, a cominciare dalla contraddizione di fondo che la costituisce: quella fra il potenziale possesso dei mezzi atti a soddisfare i bisogni umani e l'indirizzo conservatore di una politica che nega a taluni gruppi l'appagamento dei bisogni primari e stordisce la popolazione con l'esaudimento dei bisogni fittizi. Tale situazione fa sì che il soggetto rivoluzionario non sia più quello individuato dal marxismo classico, ossia il lavoratore salariato, ormai completamente integrato nel sistema, bensì quello rappresentato dai gruppi esclusi delle società opulente. Questi gruppi possono incarnare il "Grande rifiuto", ossia l'opposizione totale al sistema e porre le basi per le traduzione dell'utopia nella realtà. Marcuse esalta l'utopia, poiché vede in essa la protesta verso il presente e l'ansia preveggente del futuro.



Un altro filosofo che si occupa del tema dell'illusione è Arthur Schopenahuer.


Arthur Schopenhauer


Il mondo della rappresentazione come "velo di Maya"

Schopenhauer analizza la contrapposizione tra realtà (volontà) e apparenza (rappresentazione) nella sua più grande opera: "Il mondo come volontà e rappresentazione".

Per Kant il fenomeno è la realtà, l'unica realtà accessibile alla mente umana; e il noumeno è un concetto-limite che serve da promemoria critico per ricordarci i limiti della conoscenza. Per Schopenhauer, invece, il fenomeno è parvenza, illusione, sogno, ovvero ciò che nell'antica sapienza indiana è detto "velo di Maya"; mentre il noumeno è una realtà che si "nasconde" dietro l'ingannevole trama del fenomeno, e che il filosofo ha il compito di "scoprire".


"E' Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente."

(Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 3)


La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la cui distinzione costituisce la forma generale della conoscenza: da un lato c'è il soggetto rappresentante, dall'altro c'è l'oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto esistono soltanto all'interno della rappresentazione, come due lati di essa, e nessuno dei due precede o può sussistere indipendentemente dall'altro. Di conseguenza, non ci può essere soggetto senza oggetto. Sulle orme del criticismo Schopenhauer ritiene che la nostra mente risulta corredata di una seria di forme a priori, la scoperta delle quali "è un capitale merito di Kant, un immenso merito". Tuttavia, a differenza di Kant, che ne elencava dodici, Schopenhauer ammette solo tre forme a priori: spazio, tempo e causalità. Quest'ultima è l'unica categoria, in quanto tutte le altre sono riconducibili a essa.

La causalità, afferma Schopenhauer, assume forme diverse a seconda degli ambiti in cui opera, manifestandosi come principio del divenire (come le necessità fisiche), del conoscere (come le necessità logiche), dell'essere (come le necessità matematiche) e dell'agire (come le necessità morali).

Poiché Schopenhauer paragona le forme a priori a dei vetri sfaccettati attraverso cui la visione delle cose si deforma, egli considera la rappresentazione come una fantasmagoria ingannevole, traendo la conclusione che la vita è "sogno".

Ma al di là del sogno esiste la realtà vera, sulla quale l'uomo non può fare a meno di interrogarsi. Infatti, sostiene Schopenhauer, l'uomo è un "animale metafisico", che, a differenza degli altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e a interrogarsi sull'essenza ultima della vita. Ciò avviene proporzionalmente alla sua intelligenza:


"Nessun essere, eccetto l'uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa è una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso [.] Quanto più in basso si trova un uomo nella scala intellettuale, tanto meno misteriosa gli appare la stessa esistenza [.] Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, forse non verrebbe in mente a nessuno di chiedersi perché il mondo esista e perché sia fatto così com'è fatto.."



Caratteri e manifestazioni della "volontà di vivere"

L'essenza profonda del nostro io, o meglio, la cosa in sé del nostro essere globalmente considerato, è la "volontà di vivere", cioè un impulso che ci spinge a esistere e ad agire.

Schopenhauer afferma che la volontà di vivere è l'essenza segreta di tutte le cose ossia la cosa in sé dell'universo, finalmente svelata.

Innanzitutto la volontà è inconscia cioè è un impulso inconsapevole. Di conseguenza, il termine "volontà" si identifica con il concetto di energia o di impulso.

In secondo luogo, la volontà risulta unica. Infatti la volontà non è qui più di quanto non sia là, più oggi di quanto non sia stata ieri o sarà domani.

Essendo oltre la forma del tempo, la volontà è anche eterna e indistruttibile, ossia un Principio senza inizio né fine.

Essendo al di là della categoria di causa si identifica anche come una forza libera e cieca, ossia come un'energia incausata, senza un perché e senza uno scopo.

Miliardi di esseri (vegetali, animali, umani) non vivono che per vivere e continuare a vivere. E' questa, secondo Schopenhauer, l'unica crudele verità sul mondo, anche se gli uomini hanno cercato per lo più di "mascherare" la sua terribile evidenza postulando un Dio. Ma Dio, nell'universo doloroso di Schopenhauer, non può esistere e l'unico assoluto è la volontà stessa. Infatti i suoi caratteri di fondo, cioè il fatto di essere unica, eterna, incausata, sono i caratteri che da sempre si sono conferiti a Dio e con cui hanno caratterizzato l'infinito.

Schopenhauer ritiene che l'unica e infinita volontà di vivere si manifesta attraverso due fasi logicamente distinguibili. Nella prima, la volontà si "oggettiva" in un sistema di forme immutabili. Nella seconda, la volontà si oggettiva nei vari individui del mondo naturale.

Il mondo delle realtà naturali si struttura a propria volta attraverso una serie di "gradi" disposti in ordine ascendente. Il grado più basso dell'oggettivazione della volontà è costituito dalle forze generali della natura. I gradi superiori sono le piante e gli animali. Questa sorte di piramide cosmica culmina nell'uomo, nel quale la volontà diviene pienamente consapevole.



Dolore, piacere, noia e la sofferenza universale


Per Schopenhauer volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione, ossia dolore, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere. E poiché nell'uomo la volontà è più cosciente, egli risulta il più bisognoso degli esseri, e destinato a non trovare mai un appagamento vero e definitivo:


"Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangano almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama a lungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con la mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole [.] bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento"


Pertanto, mentre il dolore, identificandosi con il desiderio, è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore.

Accanto al dolore, che è una realtà durevole, e al piacere, che è qualcosa di momentaneo, Schopenhauer pone, come terza situazione esistenziale di base, la noia, la quale subentra quando viene meno l'aculeo del desiderio. Di conseguenza, conclude Schopenhauer, la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso l'intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia. Ma se il dolore costituisce la legge profonda della vita (tant'è che "nessuno si è mai veramente sentito felice nel presente, a meno che non fosse ubriaco") ciò che distingue i casi e le situazioni umane è solo il diverso modo o le diverse forme in cui esso si manifesta:


"variando secondo età e circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità ecc. E se finalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma, viene sotto la malinconia, grigia veste del tedio e della noia".


Tutto soffre: dal fiore per mancanza d'acqua all'animale ferito, dal bimbo che nasce al vecchio che muore. E se l'uomo soffre di più rispetto alle altre creature, è semplicemente perché egli ha maggiore consapevolezza. Il genio, avendo maggiore sensibilità rispetto agli uomini comuni, è votato a una maggior sofferenza, "più intelligenza avrai, più soffrirai".

In tal modo, Schopenhauer perviene a una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tutta la storia del pensiero, ritenendo che il male non sia solo nel mondo, ma nel Principio stesso da cui esso dipende.


Le vie di liberazione dal dolore: l'arte, la morale e l'ascesi

Schopenhauer afferma che l'esistenza, in virtù del dolore che la costituisce, si impara poco per volta a non volerla. Di conseguenza, si potrebbe pensare che il sistema di Schopenhauer metta capo a una "filosofia del suicidio universale". Invece Schopenhauer rifiuta e condanna il suicidio per due motivi di fondo: 1) perché "il suicidio è un atto di forte affermazione della volontà stessa" in quanto il suicida "vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate", per cui anziché negare veramente la volontà egli nega piuttosto la vita; 2) perché il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia una manifestazione della volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé.

Di conseguenza la vera risposta al dolore del mondo non consiste nell'eliminazione, tramite il suicidio ma nella liberazione dalla stessa volontà di vivere.

Schopenhauer articola l'iter salvifico dell'uomo in tre momenti essenziali: l'arte, la morale e l'ascesi.


L'arte, per Schopenhauer, è la conoscenza pura e disinteressata degli aspetti universali e immutabili della realtà. L'arte, che è opera del genio, riproduce "l'essenziale e il permanente in tutti i fenomeni del mondo". Proprio per questo suo carattere contemplativo, e per questa sua capacità di dirigersi verso un mondo di forme non toccate dalla "ruota del tempo", l'arte libera l'individuo dalla catena dei desideri e dei bisogni, elevandolo al di sopra del dolore e del tempo. Tuttavia, la liberazione prodotta dalle varie arti, al culmine delle quali Schopenhauer colloca la musica, ha pur sempre un carattere parziale e temporaneo, che coincide con i momenti fugaci e preziosi in cui ha luogo.


La morale, per Schopenhauer, implica un impegno nel mondo a favore del prossimo. Infatti, l'etica è un tentativo di superare l'egoismo e di vincere quella lotta degli individui fra di loro, che costituisce l'ingiustizia e che rappresenta una della maggiori fonti di dolore.

Schopenhauer sostiene che l'etica sgorga da un sentimento di "pietà" attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze degli altri.

La morale si concretizza in due virtù cardinali: la giustizia e la carità. La giustizia, che è un primo freno all'egoismo, ha un carattere negativo, poiché consiste nel non fare il male. Invece la carità si identifica con la volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo.


L'ascesi nasce dall'"orrore" dell'uomo di vivere, è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando di volere la vita e il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e i volere:


"Con la parola ascesi [.] io intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astenzione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà".

Il primo passo dell'ascesi è la "castità perfetta": l'impulso alla generazione e alla propagazione della specie. La rinuncia ai piaceri, l'umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio e l'automacerazione sono le altre manifestazioni tipiche dell'ascetismo, che tendono tutte a sciogliere la volontà di vivere dalle proprie catene.

La soppressione della volontà di vivere è l'unico vero atto di libertà che sia possibile all'uomo.

Nel misticismo ateo di Schopenhauer il cammino nella salvezza mette capo al nirvana buddista.

Il nirvana è l'esperienza del nulla, un nulla, che non è il niente, bensì un nulla relativo al mondo, cioè una negazione del mondo stesso:


"Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà - dice Schopenhauer alla fine della sua opera - è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla".


In altre parole, se il mondo, con tutte le sue illusioni, le sue sofferenze e i suoi rumori, è un nulla, il nirvana, per l'asceta schopenhaueriano, è un tutto, cioè un oceano di pace o uno spazio luminoso di serenità.

Secondo un punto di vista largamente diffuso tra i critici, la teoria "orientalistica" dell'ascesi costituisce la parte più debole e contraddittoria del sistema schopenhaueriano. Del resto, la ricchezza di motivi del suo pensiero, al di là della cornice sistematica, è confermata dall'ampia serie di influssi esercitati sulla cultura successiva.




La critica delle illusioni è il tema su cui è incentrata la poetica di Pirandello, che sfocia nella consapevolezza della impossibilità di conoscere la realtà, e che qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inattingibile verità della vita.


Luigi Pirandello



Il senso di inquietudine e di smarrimento, di incertezza che caratterizza la letteratura italiana del Primo Novecento, trova la sua espressione artistica e, in certo senso scientifica, nella vasta produzione narrativa e drammatica di Luigi Pirandello, nato ad Agrigento in Sicilia nel 1867, premio Nobel per la letteratura nel 1934 e morto a Roma nel 1936.


VITA

Luigi Pirandello nasce ad Agrigento nel 1867 da una famiglia

borghese.

Si laurea in filosofia romanza presso l'università di Boon .

Nel 1891 torna in Italia e si trasferisce a Roma dove vivrà

quasi sempre e dove terrà per oltre vent'anni la cattedra di

lettere italiane presso l'istituto di Magistero.

Nel 1901 escono i suoi primi volumi di novelle e romanzi: in particolare i più importanti

sono "L'esclusa", "Uno nessuno centomila", " Il fu Mattia Pascal".

Nel 1925 diventa accademico d'Italia e nel 1934, grazie all'enorme interesse suscitato in

tutto il mondo dalla sua opera teatrale, " sei personaggi in cerca d'autore", gli viene

conferito il premio nobel.

Muore a Roma nel 1936 a seguito a un attacco di polmonite.

Figura 1: Luigi Pirandello


POETICA

Pirandello è uno scrittore, drammatico e narratore rappresentò sulle scene l'incapacità

dell'uomo di identificarsi con la propria personalità, il dramma della ricerca di una verità al di là delle convenzioni delle apparenze.

Al centro della concezione pirandelliana c'è il contrasto tra apparenza e sostanza.

L'esperienza pirandelliana è quella di tutta la generazione dei decadenti , cioè di uomini che avevano visto vanificare gli ideali ottocenteschi di progresso, avviata verso la catastrofe della prima guerra mondiale.

La critica delle illusioni va a pari passo con una drastica consapevolezza dell'impossibilità di conoscere la realtà, e che qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile.

La posizione fondamentale della quale è necessario partire per capire la concezione della vita di Pirandello e quindi la sua poetica , è quella del contrasto tra illusione e realtà.

A seguito di ciò, nacque la convinzione del fallimento; la vita si presentava assurda nella sua casualità e tale che ogni illusione era destinata a mostrare il suo risvolto negativo.

Pirandello sostiene che il contrasto tra apparenza e realtà, non esiste solo fuori di noi, ma anche e soprattutto nell'intimo della coscienza: contrasto tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, tra ciò che siamo e ciò che risultiamo agli occhi degli altri, perché :

"la vita è un flusso che noi cerchiamo di arrestare in forme stabili e determinate".

Di conseguenza ciascun personaggio presenta centomila realtà interne, per cui la vera

realtà è nessuna.


Tra realtà e non-realtà ci sono due distinte dimensioni:

. La dimensione della realtà oggettiva, ovvero la realtà esterna degli individui,

apparentemente è uguale e valida per tutti, presenta per ognuno le stesse caratteristiche fisiche ed è la non-realtà inafferrabile e non riconoscibile.

Della realtà oggettiva esterna noi cogliamo quegli aspetti che sono maggiormente

confacenti al particolare momento che stiamo vivendo, in base al quale riceviamo della realtà certe impressioni, certe sensazioni che sono assolutamente individuali e non possono essere provate da tutti gli altri individui.

. La dimensione della realtà soggettiva, ovvero la particolare visione che ne ha il

personaggio, dipendente dalle condizioni sia individuali sia sociali, presenta tante

dimensioni quanti sono gli individui e quanti sono i momenti della vita del singolo.

Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi una realtà oggettiva ma una realtà

soggettiva che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra e si disumanizza.

L'uomo però deve adeguarsi ad una legge imposta dalla società e per farlo si costruisce una maschera; poiché il personaggio non ha alcuna possibilità di mutarla si verifica la sua disintegrazione fisica e spirituale della teoria della triplicità esistenziale:

1. come il personaggio vede se stesso

2. come il personaggio è visto dagli altri

3. come il personaggio crede di essere visto dagli altri.

Le conseguenze sono tre :

- è uno quando viene messa in evidenza la realtà -forma che lui si dà;

- è centomila quando viene messa in evidenza la realtà-forma che gli altri gli

danno;

- è nessuno quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli altri pensano non

è la stessa cosa, quando la propria realtà-forma non è universale, ma assume una

dimensione individuale e soggettiva.

La forma è la maschera, l'aspetto esteriore che l'individuo persona assume all'interno

dell'organizzazione sociale o per propria volontà o perché gli altri così lo vedono e lo

giudicano, è determinata dalle convenzioni sociali dell'ipocrisia, che è alla base dei

rapporti umani.

Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera:

quando un personaggio cerca di rompere la forma o quando ha capito il gioco, viene

allontanato, rifiutato, non può più trovare posto nella massa in quanto si porrebbe come elemento di disturbo in seno a quel vivere apparentemente rispettabile.

Tuttavia l'esistenza si fonda nel dilemma: o la realtà ti disperde e disintegra o ti vincola e ti incatena fino a soffocarti.

Quando interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la diversità di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della massa.

Solo la follia permette al personaggio il contatto con la natura e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi; ma questi contatti sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili perché troppo forte il legame con le norme della società.

La crisi dei vecchi valori è nata secondo Pirandello dalla scoperta della relatività di ogni cosa; la modernità è un insieme di spinte contraddittorie condannate alla relatività del proprio punto di vista: non esiste più una verità assoluta.

A questa crisi dell'uomo risponde con l'elaborazione di una nuova poetica, fondata

sull'umorismo: l'uomo da sempre vive in una dimensione illogica all'interno della quale cerca di crearsi una serie di inganni ed illusioni che la rendono apparentemente sensata; l'umorismo è la tendenza dell'altro a svelare la contraddizioni e nascere dalla crisi dei valori ottocenteschi che mirano il concetto stesso di verità.

Non si propagano valori ma si mettono in risalto le contraddizioni della vita, il contrasto tra forma e vita, tra persona e personaggio.

La forma è tutta quella serie di auto inganni creati dall'uomo in base ai propri ideali ed alle leggi civili e blocca la spinta alle pulsioni vitali, cristallizza la vita, cioè quella forza profonda ed oscura che si manifesta solo raramente nella malattia o nei momenti in cui non si è coinvolti nel meccanicismo dell'esistenza.

Il soggetto, costretto a vivere nella forma, non è più una persona ma una maschera che recita la parte della società e che egli stesso si impone in base ai propri principi morali.

Quando si ha la consapevolezza di tutto questo si diventa maschere nude, si è consci di tale contraddizione, ma completamente compatendo non solo gli altri ma anche se stessi.

L'opera pirandelliana mira dunque a rappresentare la complessità del dramma umano nel suo ritmo biologico ed esistenziale come si evince dalle numerose Novelle (confluite nella raccolta "Novelle per un anno") e da "L'esclusa". Quest'ultima segna, in modo particolare, il distacco dello scrittore dal Verismo alla cui oggettività sostituisce una visione personale della vita, in quanto ritiene che nulla esiste di vero e di oggettivo al di fuori dell'animo umano.

Marta Ajala, protagonista del primo romanzo "L'esclusa", è una donna che viene cacciata di casa perché ritenuta adultera e poi riammessa in famiglia quando effettivamente, per varie circostanze, commette adulterio. E proprio in questo romanzo si rivelano i temi di fondo di tutta la produzione pirandelliana: 1) contrasto tra apparenza e realtà; 2) lo sfaccettarsi della verità in tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla; 3) l'assurdità della condizione dell'uomo e della sua catalogazione (adultero, innocente, ladro, jettatore (il personaggio della "Patente")), in una forma cristallizzata che soffoca la vita.


Pirandello comincia a scrivere presto per il teatro, ma in modo episodico. Solo durante la I Guerra Mondiale vi si dedica completamente, ottenendo dopo qualche anno, un clamoroso successo dovuto all'attualità del suo teatro che mette in discussione tutte le certezze tradizionali già duramente colpiti dagli strascichi della guerra appena finita, dal trionfo della rivoluzione sovietica, dai contrasti internazionali e dall'aggravarsi della crisi sociale. Il teatro, pertanto, è la logica evoluzione della sua arte. Numerosi sono i lavori teatrali (una quarantina raccolti insieme con il titolo di "Maschere nude") che alludono alla duplicità di ogni personaggio costretto a svelare la propria dolorosa essenza rompendo la maschera che la società gli impone.

Nei "Sei personaggi in cerca d'autore" si evidenzia un duplice dramma: quello dell'incomunicabilità e quello dell'incapacità di poter diventare personaggi.

La novità dell'opera consiste nell'impossibilità di mettere in scena un dramma, poiché ognuno è condizionato dalle proprie opinioni e dai propri sentimenti e perciò incapace, essendo relative le visioni individuali, di comprendere appieno quelle degli altri.

Questa opera è uno dei capolavori del teatro pirandelliano, anche dal punto di vista tecnico-strutturale, per il rifiuto della scena convenzionale e per l'eliminazione dello spazio teatrale, come spazio distinto da quello della realtà.

Da quanto espresso i personaggi pirandelliani non conoscono l'illusione e il loro autore li nutre più di angosce che di speranze. Essi si muovono in un universo problematico, che ammette la negazione, ma non impedisce loro la rivolta contro se stessi prima, che contro gli altri, perché non solo la realtà esterna all'uomo è contraddittoria e meschina, ma anche quella interna psichica e intellettiva.

Nasce così la teoria tipica della vita, come flusso continuo, inarrestabile, contraddittorio, relativo, che ripropone il drammatico contrasto tra vita e forma. La realtà è molteplicità di cui riusciamo a cogliere solo singole forme che pretendiamo di fissare. Tutto questo lo sanno bene i personaggi "in cerca d'autore" di Pirandello, i quali si sentono vivere ma non possono veder realizzata la loro condizione. Non bisogna pensare che il complesso delle idee, proprie dello scrittore, sia il frutto di una pura e personale elaborazione intellettuale; ma elementi molto complessi e storicamente individuabili hanno favorito la sua grande e unica personalità: vicende di vita privata e familiare, le condizioni civili della nazione, la tragica esperienza della follia della moglie, la considerazione e la sofferenza della crisi della società italiana prima, durante e dopo la guerra.

Infatti l'atteggiamento di Pirandello nei riguardi della vita, dell'uomo e del mondo può essere definito relativismo applicato alla conoscenza della verità, poiché non è possibile conoscere la verità per il semplice motivo che ne esiste una sola; quelle che si conoscono sono "tante verità", tante quante sono gli individui che la cercano. La conseguenza del relativismo filosofico è il relativismo psicologico che è legato al cambiamento dei nostri stati d'animo a seconda degli ambienti e delle situazioni in cui ci troviamo. E così la continua diversità e il mutare degli stati d'animo favoriscono nell'individuo la frantumazione dell'Io nella speranza di ritrovare la propria identità.


A questa concezione della vita se ne collega una dell'arte, che Pirandello cerca di definire teoricamente in uno suo saggio "L'Umorismo" del 1908. "Umorismo" per lui è il sentimento del contrario, cioè la compresenza del poeta e del critico nello stesso uomo. In un primo momento afferma Pirandello, di fronte a tanti casi della vita noi proviamo "l'avvertimento del contrario", cioè la comicità. In effetti quando avvertiamo il contrasto tra l'essere e l'apparire, tra sostanza e forma, ridiamo.

Ma se siamo capaci di passare dall'avvertimento al sentimento del contrario, cioè se siamo capaci di vedere nello stesso tempo la maschera e il volto, l'esterno e l'interno dell'uomo, non ridiamo più. Tutto questo avviene, chiaramente, attraverso la riflessione. Ecco perché lo scrittore prova pietà per i suoi personaggi, vittime dell'assurdità della vita e prova per loro una dolorosa fraternità.



"UNO, NESSUNO, CENTOMILA"

"Uno, nessuno e centomila" è un romanzo pubblicato nel 1925-1926.

Espone uno dei più interessanti problemi del pensiero pirandelliano; quello

dell'incomprensione e incomunicabilità umana.

Il romanzo mette in evidenza la diversità che esiste fra come noi ci vediamo e come gli

altri ci vedono, non solo esteriormente ma anche interiormente.

Ciascuno non è uno, ma centomila, tante quante sono le immagini che gli altri si fanno di

lui.

E'centrato sulle vicende di Vitangelo Moscarda, che da un banale fatto quotidiano trae

occasione per avviare un processo di riflessione che si conclude in un modo

imprevedibile.

Pirandello definì "Uno, nessuno e centomila" il romanzo di scomposizione della vita, poiché tutta la narrazione mette in luce l'autodistruzione di una personalità consapevole della propria incapacità di chiudersi in una forma coerente e autentica, della falsità ineluttabile dei rapporti con altri e con se stessi. La crisi di Vitangelo Moscarda inizia quando sua moglie gli fa osservare che il suo naso pende verso destra, cosa a cui non aveva mai fatto caso.

La prima reazione del protagonista è il "proposito disperato" di conoscere quell'estraneo che è in lui, credendo in maniera sbagliata che esso sia solo uno per tutti. Il dramma si complica quando scopre di essere centomila non solo per gli altri, ma anche per se stesso. Inizia così per lui la crisi della sua personalità e del principio d'identità. Egli cerca di distruggere le falsi immagini di sé che sono negli altri e in lui stesso, ma non potrà farlo se non estraniandosi dal contesto sociale. Moscarda alla fine rinuncia all'ambizione di darsi una forma per lasciare che la vita viva in lui, senza la volontà di costruirsi, senza più sentimenti e memoria. Solo ora è felice, avendo rinunciato ad ogni pretesa d'identità, non riconoscendosi più nel proprio nome e vivendo completamente fuori di sé, vagabondo nel flusso della vita universale come un albero, una nuvola, il vento. E solo così egli si salva.

Da tutto ciò si evince che l'uomo è sempre un vinto, la cosiddetta personalità è un puro sogno, perché l'Io, costretto ad entrare in continuo rapporto con il mondo esteriore, non può mai definirsi, nella sua completezza, ma solo relativamente al singolo rapporto. L'uomo è uno, nel momento del singolo rapporto; è nessuno, quando si distruggerà per determinarsi in un altro rapporto; è centomila per questo suo farsi continuo; e se manca il rapporto con l'altro, l'uomo continua a costruirsi lo stesso, alimentando le illusioni, perché bisognoso di illudersi, per non vedersi quale esso è.



SENECA "De Clementia"


E di illusione o meglio di utopia politica potremmo parlare anche in Seneca. Particolare è soprattutto il suo trattato di filosofia politica, il De Clementia nel quale egli, rivolgendosi a Nerone, lo elogia perché pur disponendo di un potere illimitato, egli da prova di possedere la virtù più grande del sovrano: la clemenza definita dal filosofo come la moderazione e l'indulgenza adottate dall'imperatore nel momento della punizione. La clemenza, infatti, contraddistingue il buono e clemente dal tiranno; il primo, infatti, instaura con il suddito un rapporto paterno e a tal proposito lo stesso Seneca dice:


"Al contrario è amato, difeso e onorato dalla cittadinanza nella sua interezza colui che si prende cura di tutto, che vigila su alcune cose di più, su altre di meno, ma da sostegno a tutte le pari dello stato come se si trattasse del proprio corpo; che è incline alla mitezza e che, anche quando è utile punire, manifesta una quanta riluttanza ponga mano a un rimedio amaro; che nell'animo non ha posto per alcun sentimento di ostilità né alcuna efferatezza, ma esercita il proprio potere in modo pacifico e salutare, desiderando che i suoi ordini incontrino l'approvazione dei cittadini; che si considera assai felice se ha esteso a tutti la sua fortuna; che affabile nel parlare, disponibile a concedere udienza e a essere avvicinato, amabile nel viso (cosa importantissima nell'accattivarsi il favore popolare), incline a desideri equi e non aspro nemmeno con i malvagi. Di lui gli uomini dicono in segreto le stesse cose che in pubblico; desiderano mettere al mondo dei figli e il tempo della sterilità imposta dai pubblici mali di conclude; nessuno dubita di rendere un buon servizio ai propri figli avendo fatto vedere loro una tale epoca. Un principe di questo tipo, al sicuro per il bene che fa, non ha bisogno di scorte e le forze armate che tiene presso di se sono solo un ornamento. Qual è dunque il dovere di un principe? Lo stesso di un buon padre, che è solito redarguire i figli talvolta con dolcezza, talvolta con parole minacciose e talvolta castirli anche con le frustate. Forse che un padre sano di mente disereda il proprio figlio al primo torto? A meno che molti gravi torti non abbiano completamente soprafatto la sua pazienza, a meno che il male che paventa non sia maggiore di quello che condanna, il padre non ricorre alla pena che verga provvedimenti irrevocabili: prima compie molti tentativi per richiamare al dovere un'indole difficile e già incontaminato sulla via del peggio e solo quando la situazione si è fatta disperata si ricorre agli estremi rimedi. Nessuno giunge a reclamare la pena di morte se non dopo aver esaurito tutti i rimedi".


Da notare, però, come Seneca ponga al centro della sua trattazione non la giustizia ma la clemenza. Egli è infatti consapevole del fatto che il principato è una monarchia assoluta e dunque esalta una qualità che implica comunque un rapporto di dipendenza: il punto di riferimento non è costituito dalle leggi che tutti devono rispettare ma dalla volontà arbitraria e non sottoposta a limitazioni del principe. Partendo da questo dato di fatto l'autore cerca di motivare teoricamente la realtà positiva del principato, e trova un'efficace supporto nella dottrina politica stoica che tradizionalmente indicava nella monarchia la migliore forma di governo a patto che il re sia sapiente. Ecco dunque che a Nerone vengono attribuite tutte le virtù proprie del sovrano perfetto. È evidente che sulla figura del giovanissimo imperatore Seneca proietta un modello ideale; i comportamenti esemplari che gli attribuisce corrispondono ad un programma politico che implicitamente lo esorta a realizzare fingendo di considerare già attuati quelli che sono i suoi auspici e le sue speranze. È, comunque, evidente il carattere utopistico sia di questo progetto politico sia dell'opera, ed esso è messo ancor più in evidenza se le parole di Seneca:


"Tu, Cesare, puoi aver l'audacia di vantare che tutto quello che è stato affidato a te e posto sotto la tua tutela si trova al sicuro, e che da parte tua nulla è sottratto allo stato né con atti di violenza né con trame oscure. Hai desiderato una lode rarissima

e non ancora concessa ad alcun principe, quella dell'innocuità. Non è fatica sprecata questa tua singolare bontà ne ha trovato estimatori ingrati o malevoli: vi è riconoscenza nei tuoi confronti e nessun singolo uomo fu mai tanto caro ad un altro singolo uomo quanto lo sei tu al popolo romano, che in te ha un bene grande e duraturo"


si mettono a confronto con quanto detto circa cinquanta anni dopo che un altro grande della letteratura latina: Tacito.


Tacito " annales"


Quest'ultimo, infatti, nella sua opera gli "Annales" si propone di narrare gli eventi relativi al periodo della dinastia giulio-claudia, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. È proprio a quest'ultimo sono dedicati gli ultimi quattro libri dell'opera. La narrazione del principato neroniano si apre con i dubbi iniziali della popolazione, Tacito, infatti, afferma


"Dunque, in Roma, città assetata di pettegolezzi, la gente si chiedeva come un principe, che aveva da poco compiuto i diciassette anni, potesse sobbarcarsi un carico tanto gravoso o allontanare il pericolo; quale affidamento si potesse trovare in lui, che era governato da una donna, e se fosse mai possibile risolvere, attraverso i precettori, anche le battaglie, gli assedi di città e le altre operazioni militari".


Procede, poi la narrazione che mostra il progressivo svelarsi di una natura malvagia. La degenerazione di Nerone in tiranno procede di pari passo con una terribile serie di delitti, di cui cadono successivamente vittime il fratellastro Britannico, la madre Agrippina e l'infelice moglie Ottavia sacrificata alla passione di Nerone per Poppea. La morte della madre, nel 59, toglie ogni freno alla degenerazione dei costumi privati dell'imperatore, che si abbandona a ogni forma di dissolutezza. Prosegue, dunque, la sfilza di omicidi mentre a Roma "Crescevano, giorno dopo giorno, i pubblici mali, mentre cedevano i punti di forza". Muore, infatti, Afranio Burro e Seneca chiede il permesso di ritirarsi a vita privata. Lo stesso scrittore, che in precedenza lo aveva esaltato come un principe perfetto, consapevole dei rischi a cui andava incontro e dell'ormai irrecuperabile dissolutezza del principe, chiede di poter abbandonare ogni attività pubblica per dedicarsi esclusivamente ai suoi studi.

Ricordiamo, poi, che la svolta politica del regno coincide anche con l'ascesa della sinistra figura del nuovo prefetto del pretorio: Tigellino, personaggio che potremo paragonare per dissolutezza a Seiano, il malvagio collaboratore a cui, a sua volta, Tiberio accordò un grande ed immeritato potere. Ma un altro evento sconvolge, a questo punto, la storia di Roma, come dice lo stesso Tacito:

"Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo del principe - gli storici infatti tramandano le due versioni - comunque il più grave e spaventoso toccato alla città a causa di un incendio" e Nerone per "soffocare ogni diceria" che lo indicava come il colpevole di quella sciagura, spacciò per colpevoli e condannò i cristiani, dando inizio alla prima persecuzione che li vide vittime. Le stravaganze, gli eccessi e la crudeltà del principe portarono, infine, nel 65 all'organizzazione di una vasta congiura, capeggiata da Pisone. Il tradimento di un servo, però, sventa la progettata uccisione del tiranno e da origine ad una lunga serie di arresti e condanne a morte tra le cui vittime più illustri, ricordiamo, Seneca e Petronio.Emerge, dunque, dall'opera la figura di un imperatore tutt'altro che clemente e che sicuramente non aveva fatto propri i precetti di Seneca, un imperatore che aveva portato solo morte e distruzione tanto che nel finale del libro lo stesso Tacito afferma:


"Quand'anche ricordassi, in un così monotono succedersi di eventi, guerre esterne e morti affrontate in difesa dello stato, la noia avrebbe sopraffatto anche me, e mi aspetterei il fastidio nei lettori, insofferenti ormai alle morti di cittadini, morti onorevoli sì, ma pur sempre penose e senza fine: ora, tale passività degna di schiavi e tanto sangue versato invano dentro la nostra patria straziano il mio animo e lo stringono in una morsa di profonda pena".



teocrito




Si conosce pochissimo sulla biografia di Teocrito e quel poco che si sa è ricavato dai suoi scritti. Dovrebbe essere nato intorno al 300 a.C., sicuramente a Siracusa. Ottiene la protezione di Gerone II di Siracusa e dopo alcuni anni parte per Alessandria dove entra in contatto stretto con Callimaco. Dovrebbe essere morto intorno al 260 a.C.

Il corpus di Teocrito a noi giunto comprende 30 carmi, 25 epigrammi e un carme "figurativo" (i versi sono scritti a forma di qualcosa) intitolato La Zampogna.

Non tutti i carmi sono autentici: 7 sono sicuramente spuri, la Zampogna e i carmi XXV e XXVI sono dubbi.

I suoi carmi sono differenti l'uno dall'altro sia per contenuto che per forma: sua caratteristica infatti è l'intensa sperimentazione formale, anche per quanto riguarda il dialetto.

Per Teocrito la ricerca erudita non rappresenta un momento di sfoggio delle proprie capacità, ma è un semplice ingrediente della sua poesia. Questa situazione si riflette naturalmente sull'argomento scelto: i temi mitologici vengono usati solo raramente, mentre il tema bucolico è alla base della sua produzione.

Fin dall'antichità Teocrito viene considerato l'iniziatore della poesia bucolica, ossia quel genere letterario i cui personaggi provengono dai campi e che ha come argomento la vita agreste. Comunque in Teocrito si notano dei livelli di evoluzione che dimostrano che egli non fu il primo a scrivere in questo genere. Della poesia bucolica si sa per certo che nacque in ambito popolare in Sicilia, patria di Teocrito.

Oltre al poemetto bucolico e mitologico compare in Teocrito in mimo: tale genere riproduce scene di vita reale con personaggi di tipo comune. Esiste un rapporto tra la poesia bucolica e il mimo: il dialogo, la quotidianità delle situazioni e dei sentimenti, l'estrazione sociale dei personaggi e la nascita in Sicilia.

Non sappiamo se Teocrito scrive in forma drammatica per motivi di rappresentazione teatrale, ma fatto sta che essi ne risultano fortemente adatti, destinati ad un pubblico elitario. Bisogna tenere conto che queste rappresentazioni dovevano coesistere con la normale fruizione attraverso la lettura, per cui si tratta di un'opera intermedia fra la tradizione orale e scritta.

Per la scelta dei personaggi e delle scene Teocrito è un autore molto realista.

La scelta dell'ambiente bucolico è spiegabile in reazione al fenomeno dell'urbanesimo che si era enormemente diffuso dopo la fondazione di Alessandria e si rifletteva sulle abitudini di vita. Teocrito non è già un nostalgico della natura agreste, ma con le sue opere fa rivivere un tipo di paesaggio ormai perso, fatto di spazi aperti e verdi. Il carattere agreste e pastorale non è l'unico della poesia teocritea, ma di sicuro prevale sugli altri. Negli idilli bucolici Teocrito, oltre a dimostrare una conoscenza approfondita della vita dei campi, offre un'immagine molto realistica e poetica del mondo pastorale. Il pastore teocriteo non è mai raffigurato nella sua genericità ma è descritto, con minuziosità, nei suoi abiti rozzi, nei suoi lavori ed usi e gli fa da sfondo una rappresentazione altamente descrittiva dell'ambiente che lo circonda. Il realismo raggiunge in Teocrito un tono così elevato che la gerarchia dei pastori è sempre rispettata nell'ordine decrescente di bovaro/pecoraio/capraio.

La caratteristica rilevante della sua poesia agreste è il modo di rappresentare la natura; la campagna teocritea è sempre ridente e luminosa, calda ed assolata. Il poeta ama cantare una natura ideale, nel suo rigoglio e splendore, in un termine solo «idilliaca».

Per questi motivi ha ragione il Del Corno quando riconosce al poeta di Siracusa un'eccellente capacità di saper unire indissolubilmente immaginazione e realtà, riuscendo a dissimulare, con un'abile maestria delle parole ed una ostentata ingenuità, un'ampia cultura ed erudizione. Questa è la visione della natura come paradiso di contemplazione, unica sede di felicità, ed è qui che si fondono reale e immaginario: la poesia di Teocrito è aspirazione verso un "altrove" irreale, con i connotati dell'esperienza sensibile che dà la dimensione del vero. Quello che nasce da questa simbiosi è l'illusione della realtà, per un gioco di partecipazione e distacco ben calcolato di Teocrito.

Questa rappresentazione ha uno scopo ben preciso. Innanzitutto dobbiamo ricordare che con Teocrito siamo al tempo dell'Alessandria dei Tolomei, un secolo in cui l'urbanesimo e la città s'impongono sulla campagna, influendo sulle abitudini quotidiane e sugli atteggiamenti mentali. Forse Teocrito non voleva cantare la nostalgia della natura, ma con i suoi versi creava al suo pubblico l'illusione di una vita perduta ma non obliata, cercando di dimenticare e di far dimenticare per un attimo le imponenti costruzioni alessandrine edificate dall'architetto macedone Δεινοκρατης: il φαρος, il μουσειον, luogo che ospitò lo stesso Teocrito durante il suo soggiorno ad Alessandria, ed il Σεραπειον. Il miglior giudizio critico trasmessoci dall'antichità è forse quello di Quintiliano che definisce l'atteggiamento di Teocrito verso la città: "Admirabilis in suo genere Theocritus, sed musa illa rustica et pastoralis non forum modo verum ipsam etiam urbem reformidat."

L'orientamento bucolico di Teocrito nasce perciò dall'esigenza di confrontarsi con la quotidianità dei suoi tempi cercando di creare, attraverso i suoi campi ed i suoi pastori, un rifugio letterario in cui trovare protezione. I canti dei pastori ritraggono un mondo lontano, completamente separato dalla realtà dei tempi. L'amore, le gare canore, il pettegolezzo, il godimento dei profumi e dei suoni dell'estate sono le uniche preoccupazioni della vita bucolica. Un mondo di ασυχια ideale nel quale dimenticare le amarezze della realtà. Teocrito, bisogna dire, non è un precursore di questo rifiuto del mondo contemporaneo ma è influenzato dalle nuove prospettive spirituali dell'età ellenistica. All'uomo dell'αγορα subentra l'uomo dell'οικια. La partecipa-zione dell'uomo alle comuni vicende si è affievolita, separando il cittadino dal potere statale, isolandolo nell'individualismo; da qui nasce la necessità di ritrovare la propria dimensione nel proprio intimo o su elementi, come avviene in Teocrito nella minuziosa descrizione del paesaggio, che ancora si lasciano penetrare dalla curiosità dello sguardo umano.

Per meglio coinvolgere il lettore in questo mondo fantastico il poeta non fornisce una descrizione del luogo in cui si svolge l'azione ed il paesaggio emerge solamente nel corso del dialogo stesso. In tal modo il lettore penetra in questo onirico mondo della natura che assume, così, una funzione catartica.









The theatre of the absurd:

S. Beckett


The Second World War deeply compromised each and every possible trust in the progress, it deprived the man of all his illusions. The absurd dramatists, so, wanted to manifest the man condition's absurdity.

But even before the end of the war Albert Camus was already putting the question why, since life has no meaning, man should not escape in suicide, and I one of his works, "The Myth of Sisyphus", he tried to diagnose the human situation in a world of shattered beliefs.

In the second post-war period, the absurd theatre staged the contemporary man's alienation, the crisis, the anguish, the solitude, the complete impossibility of every communication through situations and surreal dialogs. The situations and the dialogs are developing without sense: they're repetitive, dramatic, devoid of logic connections and plunged in a fantastic ambience. The effect is tragic and comic at the same time. The action is reduced to the minimum, the events are devoid of sense; every theatrical rule fainted. The characters are immersed in situations without connection with time and the space; they're not able to proceed toward anywhere: immovable, they admire a life devoid of sense. The texts don't want to transfer information, nor give voice to problems, nor narrate characters' life, nor explain thesis or ideology: it's a theatre that tries to translate in images the inner reality. The character can change during the representation; often, the plot results to be circular, so that the work (often a one and only act) ends like it started; the things can proliferate each of them until earn a space and a relevance greater, than that of the characters themselves.

In other works, characters and events express a deep despair, as in "Waiting for Godot" (1953).


EXTRACT FROM "WAITING FOR GODOT"

Nothing to be done.







Estragon, sitting on a low mound, is trying to take off his boot. He pulls at

It with both hands, panting.

He gives up, exhausted, rests, tries again.

As before.

Enter Vladimir.

ESTRAGON:

(giving up again). Nothing to be done.

VLADIMIR:

(advancing with short, stiff strides, legs wide apart). I'm beginning to come round to that opinion. All my life I've tried to put it from me, saying Vladimir, be reasonable, you haven't yet tried everything. And I resumed the struggle. (He broods, musing on the struggle. Turning to Estragon.) So there you are again.

ESTRAGON:

Am I?

VLADIMIR:

I'm glad to see you back. I thought you were gone forever.

ESTRAGON:

Me too.

VLADIMIR:

Together again at last! We'll have to celebrate this. But how? (He reflects.) Get up till I embrace you.

ESTRAGON:

(irritably). Not now, not now.

VLADIMIR:

(hurt, coldly). May one inquire where His Highness spent the night?

ESTRAGON:

In a ditch.

VLADIMIR:

(admiringly). A ditch! Where?

ESTRAGON:

(without gesture). Over there.

VLADIMIR:

And they didn't beat you?

ESTRAGON:

Beat me? Certainly they beat me.

VLADIMIR:

The same lot as usual?

ESTRAGON:

The same? I don't know.

VLADIMIR:

When I think of it . . . all these years . . . but for me . . . where would you be . . . (Decisively.) You'd be nothing more than a little heap of bones at the present minute, no doubt about it.

ESTRAGON:

And what of it?

VLADIMIR:

(gloomily). It's too much for one man. (Pause. Cheerfully.) On the other hand what's the good of losing heart now, that's what I say. We should have thought of it a million years ago, in the nineties.

ESTRAGON:

Ah stop blathering and help me off with this bloody thing.

VLADIMIR:

Hand in hand from the top of the Eiffel Tower, among the first. We were respectable in those days. Now it's too late. They wouldn't even let us up. (Estragon tears at his boot.) What are you doing?

ESTRAGON:

Taking off my boot. Did that never happen to you?

VLADIMIR:

Boots must be taken off every day, I'm tired telling you that. Why don't you listen to me?

ESTRAGON:

(feebly). Help me!

VLADIMIR:

It hurts?

ESTRAGON:

(angrily). Hurts! He wants to know if it hurts!

VLADIMIR:

(angrily). No one ever suffers but you. I don't count. I'd like to hear what you'd say if you had what I have.

ESTRAGON:

It hurts?

VLADIMIR:

(angrily). Hurts! He wants to know if it hurts!

ESTRAGON:

(pointing). You might button it all the same.

VLADIMIR:

(stooping). True. (He buttons his fly.) Never neglect the little things of life.

ESTRAGON:

What do you expect, you always wait till the last moment.

VLADIMIR:

(musingly). The last moment . . . (He meditates.) Hope deferred maketh the something sick, who said that?

ESTRAGON:

Why don't you help me?

VLADIMIR:

Sometimes I feel it coming all the same. Then I go all queer. (He takes off his hat, peers inside it, feels about inside it, shakes it, puts it on again.) How shall I say? Relieved and at the same time . . . (he searches for the word) . . . appalled. (With emphasis.) AP-PALLED. (He takes off his hat again, peers inside it.) Funny. (He knocks on the crown as though to dislodge a foreign body, peers into it again, puts it on again.) Nothing to be done. (Estragon with a supreme effort succeeds in pulling off his boot. He peers inside it, feels about inside it, turns it upside down, shakes it, looks on the ground to see if anything has fallen out, finds nothing, feels inside it again, staring sightlessly before him.) Well?

ESTRAGON:

Nothing.

VLADIMIR:

Show me.

ESTRAGON:

There's nothing to show.



In this extract, there is the belief that man's life appears to be meaningless and purposeless and that human beings cannot communicate and understand each other. (..Hurts! He wants to know if it hurts!)

There seems to be no past or future, just a repetitive present.

It has no setting but a country road and a bare tree; it has no plot; it has no characters in the traditional sense, as a character presupposes some personality; it has no action; it has no dialogue in the conventional sense, because the characters are unable to provide each other with information either about their present situation, or about their recent experience and current events in the world outside.

Vladimir and Estragon are two human beings perpetually concerned with questions about the nature of the self, world and God. They are complementary. Vladimir is more practical, he never dreams and he keeps waiting; Estragon is a dreamer.

Estragon cannot remember anything about his past; Vladimir although possessing a better memory, distrusts what he remembers. Time is meaningless as a direct result of chance which is at the basis of human existence.

Vladimir and Estragon return to the same place each day to wait for Godot and experience the same general events with variations each time. It is not know for how long they will continue to do it: time essentially is a chaos.


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