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L'ESISTENZIALISMO
Inquadramento crono-storico dell'esistenzialismo:
L'Esistenzialismo o la Filosofia dell'esistenza è quella vasta corrente filosofica contemporanea che si afferma in Europa appena dopo la prima guerra mondiale, si impone nel periodo tra le due guerre e si sviluppa ancora e si espande sino a diventare una moda soprattutto nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Se si considera, dunque, il tempo della sua nascita e della sua crescita, ci si accorge che l'esistenzialismo riflette esprime e porta a consapevolezza la situazione storica di una Europa dilaniata fisicamente e moralmente da due guerre; di un'umanità europea che, tra le due guerre, sperimenta in molte delle sue popolazioni la perdita della libertà con regimi totalitari tendenti alla spersonalizzazione dell'esistenza individuale.
L'epoca dell'esistenzialismo è un'epoca di crisi: della crisi di quell'ottimismo romantico prima e positivista poi, che per tutto l'Ottocento e il primo decennio del Novecento "garantiva", in nome della Ragione, dell'Assoluto, dell'Idea o dell'Umanità, il senso della storia, "fondava" valori stabili e "assicurava" un Progresso sicuro e inarrestabile.
L'Idealismo, il Positivismo e il Marxismo sono tutte filosofie ottimistiche, che presumono di aver colto il principio della realtà e l'assoluto senso progressivo della storia. L'esistenzialismo, invece, considera l'uomo come un essere finito, "gettato nel mondo", continuamente lacerato in situazioni problematiche o assurde. Ed è proprio dell'uomo nella sua singolarità che l'esistenzialismo si interessa.
L'uomo dell'esistenzialismo non è un esemplare di un genere rimpiazzabile da qualsiasi altro esemplare dello stesso genere. L'esistenza è indeducibile e la realtà non si identifica con la razionalità, né si riduce ad essa.
La non identificazione della realtà con la razionalità si accompagna come elemento caratterizzante ad altri 3 punti nodali del pensiero esistenzialista che sono:
la centralità dell'esistenza come modo di essere di quell'ente finito che è l'uomo;
la trascendenza dell'essere (il mondo e/o Dio) cui l'esistenza si rapporta;
la possibilità come modo di essere costitutivo dell'esistenza e, quindi, come categoria insostituibile nell'analisi dell'esistenza stessa.
In che modo si qualifica il concetto di esistenza all'interno dell'esistenzialismo? L'esistenza è costitutiva del soggetto che filosofa, e l'unico soggetto che filosofa è l'uomo; per questo essa è tipica in modo esclusivo dell'uomo, dato che l'uomo è l'unico soggetto filosofante (cioè che si rende conto della realtà e ne domanda il significato). L'esistenza, inoltre, è un modo di essere finito; ed essa è possibilità , cioè un poter essere. L'esistenza, appunto, non è un essenza, una cosa data per natura, una realtà predeterminata e non modificabile. Le cose e gli animali sono e restano quel che sono, ma l'uomo sarà quello che ha deciso di essere. Il suo modo di essere, l'esistenza, è un poter essere, un uscir fuori, anche se il passato, la gettatezza è qualcosa di inscritto nell'esistenza stessa.
L'esistenza è un poter essere e, pertanto, è "incertezza, problematicità, rischio, decisione, slancio in avanti". Ma slancio verso cosa? E' qui che cominciano a dividersi le correnti dell'esistenzialismo, a seconda delle risposte che sono: Dio, il mondo, se stesso, la libertà, il nulla.
Tratti essenziali e sviluppi dell'esistenzialismo:
Se per essenza di una corrente filosofica si intende un corpo sistematico di soluzioni offerte alla ripetizione meccanica, allora l'Esistenzialismo è negazione della propria essenza.
Invece, nel suo complesso, l'Esistenzialismo, se inteso in senso strettamente filosofico, costituisce uno sforzo grandioso mirante a pensare la totalità delle determinazioni del mondo nell'immanenza della coscienza reale che ognuno ha di sé e sfocia in una teoria che tende (senza pervenire con questo a una costituzione sistematica negata in partenza) ad esaurire tutta la problematica umana in un sistema di antropologia filosofica.
Il tratto fondamentale di ogni filosofia dell'esistenza è costituito dall'intuizione e dall'esperienza di una libertà assoluta (Kierkegaard: "siamo condannati ad essere liberi"). La formula sartriana e già kierkegaardiana "l'esistenza precede l'essenza" significa infatti che noi non siamo predeterminati al momento del nostro apparire nel mondo, ma che, una volta "gettati" nel mondo, creiamo il nostro destino con le nostre libere scelte, che siamo responsabili di noi stessi. L'Esistenzialismo ha un risvolto immediato nella filosofia morale un "umanismo" che esalta l'impegno e rifiuta la speculazione tradizionale la quale, illudendosi di ricercare all'infinito i motivi dell'azione umana, conduce all'assenteismo e all'immobilità e, in ultima analisi, all'irresponsabilità individuale a favore dell'universale.
Dal punto di vista teorico l'Esistenzialismo muove dalla constatazione che l'uomo inizialmente non è un essere raziocinante, ma semplicemente un "essere incarnato nell'esistenza", "gettato", appunto, in essa. In tal senso non possiamo riflettere che a partire dall'esistenza, la quale rappresenta la verità immediata.
L'esistenza compare all'Esistenzialismo come soggetto condizionante e ineliminabile di ogni atteggiamento dell'uomo.
Ogni volta che si arrivava ad una soluzione definitivamente data, ogni volta la ragione o i sensi, la fede o la sfiducia stabilivano una connessione necessaria con la natura, l'essere, il Dio, il nulla, in tutti questi casi il ritorno alla consapevolezza verso la finitudine e la temporaneità connesse all'esistere umano, determinava una "situazione esistenzialistica" caratterizzata dalle cosiddette "situazioni limite" che trascendono l'esistenza: queste situazioni sono immutabili, definitive, irriducibili, in trasformabili, sono come un muro contro cui urtiamo fatalmente. L'unica cosa che possiamo fare è quella di chiarificarle e nella chiarificazione vediamo che in tali situazioni " il vero io, quello che veramente vuol essere se stesso, non può reggersi da solo". L'esistenza fa naufragio e "quando l'io fallisce nel suo voler bastare a se stesso, si può dire che è pronto per quello che è altro di fronte ad esso, cioè per la Trascendenza".
Le "situazioni-limite" lasciano intravedere, ad una esistenza finita e destinata al naufragio, ciò che trascende. Jaspers, a questo proposito, postulava che: "l'ultima questione è di sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare".
L'Esistenzialismo si connota come:
situazione esistenzialistica trascendenza, morte, colpa, oblio, situazione affettiva (timore, paura, angoscia, fede), sono alcuni dei termini tipici che la contraddistinguono e che segnano, oltre che un ampio contesto artistico- letterario, il passaggio alla
filosofia esistenziale si è consapevoli di queste situazioni- limite nelle quali ci troviamo e le organizziamo in categorie che rendono possibile la fondazione di una filosofia in grado di rapportarsi alla situazione esistenziale emersa.
L'Esistenzialismo si è affermato come una reazione filosofica mirante a valorizzare l'uomo contro le astrazioni delle filosofie idealistiche, positivistiche e metafisicheggianti in generale. In un certo senso sono già esistenziali le filosofie di S. Agostino e, nell'età moderna, di Pascal, che polemizza con la filosofia cartesiana (Esprit de gèomethrie ed Esprit de finesse), tutta impegnata sul terreno scientifico, ma indifferente ai problemi che riguardano l'uomo di fronte alla vita e alla morte. La filosofia dell'esistenza in senso stretto, si è però presentata esplicitamente con Kierkegaard e la sua concezione del valore assoluto dell'esistenza del singolo (categoria del singolo).
L'Esistenzialismo si presenta come una volontà di riflessione concreta sull'uomo e sulla sua condizione e, dato che ogni individuo possiede una sua personale sensibilità che gli fornisce una particolare "intuizione del mondo", l'Esistenzialismo si è sviluppato secondo direttrici diverse, fondate ciascuna su un diverso modo di sentire la realtà: Esistenzialismo Ateo con Heidegger e Sartre, Esistenzialismo Religioso con Kierkegaard, Marcel e Levinas e Esistenzialismo Positivo con Abbagnano.
In particolare, per quanto riguarda l'Abbagnano, il significato dell'esistenzialismo "positivo" e la sua distanza dall'esistenzialismo "negativo", sono precisati nello scritto "Esistenzialismo Positivo" (1948). In esso l'Autore si oppone alle forme "negative" dell'esistenzialismo, affermando che la vita, pur movendosi nell'ambito della possibilità, e quindi del dubbio, si chiarisce però agli individui in forma intrinsecamente "normativa", come dover-essere, consentendo ad ognuno di mantenere la propria dignità, la funzione critica, la libertà. Egli chiarisce, inoltre, la fondamentale differenza fra l'esistenzialismo italiano- positivo, chiaro e costruttivo, e quello francese e tedesco che si smarriscono nell'angoscia del nulla.
L'insegnamento che scaturisce dal quadro di questi indirizzi dell'esistenzialismo contemporaneo è che l'equivalenza delle possibilità costitutive dell'esistenza, che è il loro comune presupposto, conduce alla negazione dell'esistenza stessa come possibilità. Se tutte le possibilità che costituiscono l'esistenza sono, per un motivo o per l'altro, equivalenti, l'esistenza è impossibile. Nei confronti di questo esistenzialismo che si può chiamare "negativo" perché nega lo stesso principio da cui muove l'esistenza, l'Abbagnano propone un indirizzo positivo che giustifichi il riconoscersi e il mantenersi dell'esistenza nella sua fondamentale problematicità, e lasci aperte le possibilità in cui essa si costituisce. Ad un esistenzialismo che vive sotto l'esclusivo segno di Kierkegaard, il filosofo della possibilità impossibile, bisogna contrapporre un esistenzialismo che riporti Kierkegaard a Kant, e a quanti altri filosofi hanno lavorato per garantire all'uomo il legittimo possesso dei suoi stessi limiti.
Circa il suo esistenzialismo positivo, l'Abbagnano in "Possibilità e Libertà" (1956 p. 23), sostenne:
."Ho presentato questa filosofia non come una dottrina immobile nei suoi dogmi, ma come uno sforzo di liberazione e come un invito alla libertà e alla scelta responsabile. Come tale, essa non si presenta come l'unica lettura del gran libro del mondo e come l'unica destinata a opprimere o a rendere fioca ogni altra voce. Essa pretende soltanto stabilire le condizioni di un dialogo che si continui e si svolga sempre più fecondo, perché tale è per essa la filosofia:un dialogo fra uomini liberi".
Presupposti remoti e prossimi dell'esistenzialismo:
L'esistenzialismo in letteratura:
Anzitutto l'esistenzialismo si presenta come una delle manifestazioni della grande crisi dell' hegelismo, manifestazioni che si sono espresse nel pessimismo di Schopenhauer, nell'umanesimo di Feuerbach, nel materialismo di Marx e nella filosofia di Nietzsche e che, per altro verso, trovano il loro corrispettivo nell'opera letteraria, così intrisa di tanto profonda problematicità umana di Dostoevskij e di Kafka. Questo esito letterario è connaturato all'esistenzialismo proprio per il suo carattere di filosofia antisistematica, che rifiuta l'astrazione e la generalizzazione, nemica dell'oggettività impersonale del discorso scientifico. Così, anche le opere di scrittori non filosofi esprimono, nella forma concreta della narrativa, l'inquietudine e la problematicità dell'esistenza umana. Nel "Processo" Kafka ha realizzato il senso della condanna imminente sulla vita dell'uomo anche se, apparentemente, senza motivo. Nella "Tana", invece, ha espresso il tema della radicale insicurezza del vivere contro la quale non valgono né ripari, né rifugi. Per contrasto, nel "Castello" o ne "La costruzione della grande muraglia cinese", troviamo il richiamo incessante, ma sempre sfuggente ad una realtà stabile, sicura, continuamente promessa e sottratta all'uomo.
La Kierkegaard - Renaissance:
Alla radice dell'esistenzialismo si trova il pensiero di Kierkegaard. E come una Kierkegaard - Renaissance si è presentato l'esistenzialismo. Il filosofo danese elaborò il concetto di "categoria del singolo" e, attraverso questo, attacca il fondamento "ridicolo" del sistema hegeliano. L'esistenza corrisponde alla realtà singolare, al Singolo: "un uomo singolo non ha certo un'esistenza concettuale". La filosofia si interessa ai concetti, essa non si preoccupa di quell'esistente che siamo io, lui, tu, nella nostra irripetibile singolarità; la filosofia si occupa del concetto di uomo, ma la mia o la tua esistenza non è un concetto. Kierkegaard afferma che il Singolo è superiore alla specie, contrariamente a quanto sostenuto da Hegel per il quale, ciò che conta, è l'umanità (specie). A parere del pensatore danese, Hegel pretende di guardare con gli occhi di Dio, di sapere tutto, ma cade nel ridicolo perché il suo sistema si dimentica dell'esistenza, cioè del Singolo, il cui modo di essere è l'esistenza che è il regno della libertà nella quale l'uomo è ciò che sceglie di essere. Il mondo dell'esistenza è quello della possibilità e nella possibilità tutto è ugualmente possibile. In breve: l'esistenza è libertà, poter essere, è possibilità di non scegliere, o di farlo e perdersi. La realtà è che l'esistenza è possibilità e, quindi, angoscia, il puro sentimento del possibile.
Dalla Fenomenologia all'Esistenzialismo:
Se Kierkegaard è la radice remota dell'esistenzialismo, la Fenomenologia è quella prossima che si propone di andare al di là dei sistemi "campati per aria" dei filosofi, partendo da dati indubitabili. Al fenomenologo non interessa l'analisi di questa o quella norma morale, ma vuole comprendere perché questa o quella norma sono morali e non, per es., norme giuridiche o di comportamento. L'esistenzialismo si articola, infatti, in una continua analisi dell'esistenza, e delle relazioni dell'esistenza umana col mondo delle cose e quello degli uomini. L'esistenza umana non può e non deve essere dedotta a priori; essa va descritta così come si manifesta nelle svariate forme dell'effettiva esperienza umana.
I pensatori più rappresentativi dell'esistenzialismo:
Come ho già citato, l'analisi dell'esistenza non è stata solo oggetto di opere filosofiche, come è il caso dell'analitica esistenziale condotta da Heidegger in "Essere e Tempo", ma anche di una vasta opera letteraria (teatro, romanzi) che soprattutto con Sartre, Albert Camus e Simone de Beauvoir, ha sottolineato i tratti meno nobili, più tristi e dolorosi delle vicende umane; e con Gabriel Marcel e Emmanuel Levinas quelli più positivi dell'esperienza della persona che si costituisce nella disponibilità alla trascendenza e nella comunione con gli altri.
Una delle esperienze esistenziali più vere o, comunque, più incidenti è quella del coincidere con l'esistenza di altre coscienze, di altre esistenze, di altri io che non sono cose, oggetti, semplici manifestazioni astratte, prive di concreta esistenza, semplici presenze. Tale incontro con l'altro me che è come me (esistenza), è uno dei più rivelativi di quello che io sono, di quello che l'esistenza è. Da questo punto, partirò per cercare di indagare, attraverso le due figure emblematiche di Emmanuel Levinas e Jean - Paul Sartre, il problema dell' Altro come segno del tutto e segno del niente.
EMMANUEL LEVINAS
La filosofia di Lévinas è incentrata sul problema dell'Etica della quale ha elaborato i "principi primi" per aprirla alla metafisica, per questo motivo è stato definito il moralista del secolo.
Secondo Lévinas l'etica equivale alla metafisica, perché l'unica filosofia possibile, l'unica possibile conoscenza, è quella dei principi primi dell'agire morale.
Da questo punto di vista, occorre ricordare anche la "Critica della ragion pratica" di Immanuel Kant, scritta appositamente per poter recuperare una morale certa, rigorosa, valida e sicura per poi poter recuperare la metafisica che, nella "Critica della ragion pura" era risultata impossibile come scienza.
La legge morale veniva formulata sull'imperativo categorico del "Tu Devi" e la sua formulazione più adeguata era: "Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale"; es.: "Si potrebbe vivere in un mondo in cui tutti uccidessero necessariamente?".
La morale è in grado di recuperare la metafisica perché ha, come fondamento i tre seguenti postulati:
Libertà E' la capacità di un individuo di determinarsi ad agire indipendentemente dalle leggi del mondo sensibile. Se la legge morale comanda all'uomo di compiere un'azione solo perché deve farlo, allora egli può anche non obbedirle;
Esistenza di Dio Un uomo deve poter godere di un grado di felicità proporzionato allo sforzo che compie per conformare la sua volontà alla legge morale. Su questo mondo, questa perfetta adeguazione non è possibile ed è perciò necessario un Dio che sia garante della giusta proporzionalità, in un altro mondo;
Immortalità dell'anima Incessante tendere a realizzare una perfezione morale che nessun essere razionale può realizzare in questo mondo in modo totale perché l'uomo è finito e pieno di limiti e pertanto, l'anima immortale deve portare a compimento questa tensione.
Proverò, ora, ad analizzare più in profondità la figura di EMMANUEL LEVINAS.
Vita:
Ebreo, nato nel Dicembre 1905 a Kaunas, in Lituania.
Suo padre era cartolaio e libraio e fin da giovane ebbe modo di familiarizzarsi con i grandi scrittori della letteratura russa come Dostoevsij.
Nel 1923 Lévinas si trasferisce in Francia; e a Strasburgo segue i corsi di filosofia. Nel 1928-1929, si reca a Friburgo per assistere alla lezioni di Husserl e in questa città ha modo di conoscere Heidegger. Sia dell'uno che dell'altro Lévinas sarà il primo a far conoscere le opere e il pensiero in Francia.
Nel 1961 esce la sua opera più grande "Totalitè et Infini".In questo periodo insegna presso l'università di Poitiers e dal 1967 in quella di Nanterre. Dal 1973 è stato professore alla Sorbona ed è morto nel 1995.
Pensiero:
Per Lévinas la Bibbia e la filosofia sono in accordo, anche se la vera filosofia è quella che distrugge tutti i miti costruiti dall'uomo. Il compito della filosofia è pensare al Totalmente Altro dall'Essere e dal Logos che sono le categorie di una comprensione riduttiva e fallace del reale; della realtà, oltre l'Essere o al di là dell'Essere, ponendosi cioè, al di là di ogni ontologia onnicomprensiva per l'unico emergere reale dall'Essere, ossia l'esistente, l'uomo contro la categoria dell'identità o totalità.
Lévinas vuole aprire un pensiero con una diversa prospettiva dell'alterità radicale.
La filosofia di Lévinas nasce dallo stupore "del silenzio di Dio" verso le tragedie.
Pensare è ascoltare la Parola dell'infinito che è udibile dal volto dell'altro nella cui nudità e povertà risplende la traccia di Dio. Ciò è possibile solo nel rispetto della sua alterità, della sua solitudine, del suo mistero e della sua persona: è questo il principio primo dell'etica che, in questo ambito, diventa metafisica perché, se non violo con le mie categorie onnicomprensive il mistero dell'altro cioè se non lo riduco ad un'essenza pre-determinata e pre-giudicata, arrivo ad un tipo di conoscenza che è reale perché è traccia dell'infinito (Montale auspicava la scoperta di un anello che non regge per poter simbolicamente trovare, nell'impenetrabile concatenazione della verità del reale, qualcosa al di lì dell'essere e dell'essenza).
L'alterità è totalmente estranea all'ego (frattura tra sé e l'altro) e, pertanto, la mia esperienza non sarà mai paragonabile a quella di un altro, io non posso vivere il dolore, la gioia e altre esperienze limite di un altro. Per il nostro filosofo l'etica costituisce la possibilità di uscita dalla conoscenza come comprensione dell'altro che viene generalmente assimilato a sé ed espropriato della sua alterità e diversità.
L'altro, per essere tale, non può essere ricondotto né alla conoscenza che io ne ho che è sempre un'interpretazione parziale, né all'amore che parte da me e intende abbracciarlo. Lévinas vede nell'eros uno dei simboli massimi dell'alterità, eros non è possesso, ma mistero che implica la presenza dell'infinito.
Un'altra manifestazione dell'alterità è la filialità o la paternità perché la donna ha difficoltà nel distinguere il figlio da sé, mentre vero padre è colui che distingue il figlio da sé pur sentendolo da sé generato: "la paternità è una relazione con un estraneo che pur essendo altri, è me".
Lévinas è contro l'amore romantico inteso come la fusione di due esseri. Il volto non può essere assorbito nella mia identità e rappresenta l'inizio della rottura con la "totalità" perché la vera unione è un "faccia a faccia", alterità reciproche che non vengono assorbite o eliminate (in Kierkegaard la contraddizione è mantenuta: faccia a faccia = aut-aut). La rottura della totalità è rappresentata dalla soggettività umana, ridefinita da Lévinas nel "volto" che esprime il mistero del soggetto. La società non sarà la somma di soggettività fuse nel tutto, ma sarà fondata su una relazione intersoggettiva che non abolisce l'altro, ma ne rispetta il "mistero". L'altro è soggettività che trascende la totalità.
L'etica di Lévinas può essere una provocazione per chi svilisce il messaggio evangelico dell'amore nell'estensione della propria soggettività, quindi in possesso e nella "violenza" della riduzione dell'altro a sé. Il rapporto con l'altro non è immediato, ma è mediato dall'Infinito.
Secondo Lévinas il culmine dell'identità è la distinzione, il culmine dell'amore è l'alterità personale pienamente realizzata nel rapporto, il culmine della giustizia è il faccia a faccia con l'altro, che è tutto ciò che impedisce di ridurre l'altro a me. Per questo, il Filosofo può affermare che il principio primo dell'etica è la "separazione", ossia il muoversi verso l'altro sentito come altro da sé; occorre considerare sempre l'altro come un fine e mai come un mezzo.
Se nel volto dell'altro risplende l' "Eglità" come "traccia" dell'Infinito, tuttavia questa traccia non giunge mai , in Lévinas, a farsi realmente "segno" di Dio che rimane, perciò, assente perché la traccia sul volto dell'altro è cancellata come una traccia lasciata sulla sabbia che è traccia di un passato e di un'assenza.
L'essenza viene vista dal Filosofo come totalità che fa di tutte la cose degli oggetti per me, da me utilizzabili e, quindi, apre la prospettiva della violenza, mentre il volto altrui è il Totalmente Altro da me, è "per sé" e, dunque, non manipolabile da me, in quanto segno del Mistero.
Di seguito riporterò alcune specificazioni sui punti nodali del pensiero di Lévinas.
Dove nasce l'esistente:
Il problema filosofico è quello del "senso della vita".
Lévinas sostiene di non preoccuparsi di accordare le tradizioni della Bibbia e della filosofia e, se esse non si sono conciliate, è perché ogni pensiero filosofico si fonda su esperienze pre- filosofiche come, per il Filosofo, è stata la lettura della Bibbia, il cui miracolo è il confluire di letterature diverse verso uno stesso contenuto essenziale e, a suo parere, il polo di questa influenza è l'etica e, in questo modo, la verità etica è comune.
La religione non è identica alla filosofia (cfr. lo spirito Assoluto di Hegel) che non necessariamente offre le consolazioni che può dare la religione. Il filosofo si deve porre accanto alle cose senza illusione, rispettando la loro oggettività (sono altro da me) e il loro essere che non risponde solo alla domanda "che cos'è?", ma anche "com'è ciò che è, che significa che è?".
Per chiarire dove nasce l'esistente, Lévinas analizza la nozione di "il y a" che è l'essere in generale. L'esistente esce dall'esistenza, il sensato prende vita spezzando la neutralità dell'essere. L'essere e la realtà sono puro non senso, chi ha senso e dà senso è l'esistente, l'uomo.
In quest'ottica si può scorgere sullo sfondo il pensiero di Heidegger che vedeva l'uomo come l'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere. Una corretta impostazione di questo problema, richiede una esplicitazione preliminare di quell'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere, e questo ente è da Heidegger indicato col termine di Esserci (Dasein).
L'uomo, considerato nel suo modo di essere, è Da- Sein, esser- ci; e il "ci" (da) sta ad indicare il fatto che l'uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti.
L'Esserci, cioè l'uomo, non è soltanto quell'ente che pone la domanda sul senso dell'essere, ma è anche quell'ente che non si lascia ridurre alla nozione di essere. Le cose sono diverse l'una dall'altra, ma tutti sono oggetti posti davanti a me: l'uomo non può ridursi ad un oggetto puro e semplice del mondo; l'Esserci non è mai una semplice presenza come le cose, giacchè esso è proprio quell'ente per cui le cose sono presenti.
Il modo di essere dell'Esserci è l'esistenza, l' "essenza" dell'Esserci consiste nella sua esistenza, e l'essenza dell'esistenza è data dalla possibilità da attuare e, di conseguenza, l'uomo può scegliersi perdendosi o conquistandosi.
Ciò detto, l'uomo che si trova a dover decidere della propria vita, conosce la disperazione della solitudine o dell'isolamento nell'angoscia. Secondo Lévinas, il fatto di essere è quanto di più privato ci sia, l'esistenza è la sola cosa che nono posso comunicare perché la posso raccontare, ma non condividere. La solitudine appare come lo stesso evento di essere: "Siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con li lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l'altro, ma non sono l'altro". "Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l'esistere".
L' Amore e la Filiazione:
Gli "esseri" non si possono scambiare l'esistenza, ma entrano in rapporto tra loro in vario modo.
La prima figura di relazione con gli altri, è l'eros nel quale si esalta un'alterità tra esseri che non si limita ad una semplice alterità erotica (cfr. concezione dell'amore di Sartre). Il femminile è l'origine del concetto stesso di alterità che non scompare nella relazione amorosa. "La differenza di sesso non è la dualità di due termini complementari. Infatti, due termini complementari suppongono un tutto preesistente. Ora, dire che la dualità sessuale suppone un tutto, significa porre già prima l'amore come fusione e, dunque, come annullamento dell'ego.
Al contrario, il patetico dell'amore consiste in una insormontabile dualità degli esseri, è una relazione con ciò che sempre si sottrae, un faccia a faccia, appunto, un aut- aut. La relazione non neutralizza l'individualità, ma la conserva.
La seconda figura di relazione con gli altri, è quella della filialità. Quella biologica è solo il primo tipo, ma se ne può concepire uno come relazione tra esseri umani, senza legami di parentela. "La paternità è una relazione con un estraneo che, pur essendo altri, è me, il figlio non è opera mia, egli non è neppure una mia proprietà. Io non ho mio figlio, io sono, in qualche modo, mio figlio. Egli è un io, è una persona".
Il Volto:
Lo sguardo è conoscenza e percezione. La relazione col volto può essere dominata dalla percezione, ma ciò che è specificatamente volto, è ciò che non vi si riduce.
Anzitutto c'è la sua esposizione diretta, senza difesa nella quale appare la sua nudità dignitosa. E' proprio il volto che inizia e rende possibile ogni discorso ed è il presupposto di tutte le relazioni umane. L'altro non è un "dato" che viene afferrato quasi mettessimo le mani su di lui. L'altro mi guarda e mi riguarda e si disfa dell'idea che di lui ho in mente.
Scrive Lévinas in "Totalità e Infinito": "Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l'Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un'immagine. Il volto d'Altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa l'immagine plastica che mi lascia". Il volto dell'Altro ha significato di per sé, si impone al di là del contesto fisico e sociale: il senso del volto non consiste nella relazione con qualcos'altro, esso è senso per sé. Così, commenta Lévinas, "si può dire che il volto non è visto". Esso è ciò che non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero; è l'incontenibile, ti conduce al di là.
Il volto dell'Altro ti viene incontro e ti dice: "Tu non ucciderai". Nonostante il divieto può esserci l'assassinio, ma la malignità del male riapparirà nei rimorsi della coscienza dell'assassino (cfr. concezione dell'odio in Sartre) :nell'accesso al volto c'è anche un accesso all'idea di Dio.
Il volto è Responsabilità per Altri:
Il volto dell'Altro entra nel nostro mondo; esso è una "visitazione"; è responsabilità: esso mi guarda e mi riguarda. Il volto d'Altri mi impone un atteggiamento etico: "è il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto". E' così che il volto si sottrae al possesso; il volto dell'Altro, afferma Lévinas, "mi parla e mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss'anche godimento o conoscenza".
Il volto dell'Altro, dunque, mi coinvolge, mi pone in questione, mi rende immediatamente responsabile. La responsabilità nei confronti dell'Altro viene a configurarsi,nel pensiero di Lévinas, come la struttura originaria del soggetto. Fin dall'inizio, "l'Estraneo che non ho né concepito, né partorito, l'ho già in braccio". La mia responsabilità nei confronti dell'altro arriva fino al punto che io mi debba sentore responsabile anche della responsabilità degli altri.
Questo comporta la costruzione delle istituzioni e anche dello Stato. Difatti, scrive Lévinas, "l'Altro per il quale sono responsabile può essere il carnefice di un terzo che è anche il mio Altro" (cfr. Sartre). Di qui la necessità di una giustizia, e dunque delle istituzioni e dello Stato. Ha detto Lévinas in un'intervista: "Se noi fossimo stati in due, nella storia del mondo ci sarebbe fermati all'idea di responsabilità, ma dal momento in cui ci si trova in tre, si pone il problema del rapporto tra il secondo ed il terzo. Alla carità iniziale si aggiunge una preoccupazione di giustizia e quindi l'esigenza dello Stato, della politica. La giustizia è una carità più completa."
Per Lévinas, quindi, la responsabilità è responsabilità per altri ed è alla base della soggettività per quel che non è fatto mio e che non mi riguarda. Il legame con altri si stringe solo con la responsabilità, sia che questa sia accettata o rifiutata perché io sono responsabile di altri senza aspettare il contrario, perché l'inverso è affar loro.
Secondo il Filosofo, siamo responsabili delle persecuzioni che subiamo perché sopportandole e combattendole, senza scappare da esse, ma rendendosene testimoni, reclamiamo giustizia per il "proprio popolo" (Lévinas era ebreo. Cfr. tesina di religione).
La giustizia ha senso soltanto se conserva lo spirito del disinteresse che anima l'idea della responsabilità per l'altro uomo. La responsabilità mi incombe e non la posso rifiutare, preme su di me attraverso lo sguardo altrui che non posso deificare come frammento della Totalità.
"Nessuno, in questo momento può dire: ho fatto tutto il mio dovere". Questa affermazione è un'apertura all'infinito perché significa che siamo volti in costante tensione verso la realizzazione della nostra testimonianza di responsabilità per Altri. La testimonianza etica è una rivelazione che non è una conoscenza perché il testimone agisce per propria volontà e con l'affermazione "Eccomi!", testimonia il suo aver risposto davanti agli altri e per gli altri.
In "Altrimenti che essere o al di là dell'essenza" Lévinas giunge a vedere nella responsabilità per l'Altro "un'assegnazione a rispondere dell'Altro, un'espiazione per l'Altro, una sostituzione dell'Altro". A questo proposito, il Filosofo afferma: "Il soggetto è ostaggio". "Il termine io significa Eccomi, rispondendo di tutti e di tutto". Ed è soltanto attraverso la condizione di ostaggio, scrive Lévinas, che nel mondo può esserci "pietà, comprensione, perdono e prossimità". Dietro a questa posizione etica c'è, ad avviso di Lévinas, Dio: c'è Dio come ispirazione, quantunque non come svelamento di se stesso, perché Dio o la sua parola, mi viene all'idea concretamente, davanti al volto dell'altro uomo in cui io leggo il comandamento Tu non ucciderai. Il divieto scritto sul volto non si può considerare una prova dell'esistenza di Dio, ma è la circostanza in cui la parola di Dio acquista senso. Ed ecco ancora Lévinas: "Io non vorrei definire nulla attraverso Dio, giacchè io conosco l'umano. E' Dio che posso definire attraverso le relazioni umane, non l'inverso." In Lévinas, l'etica si fa spia di un Dio presente e irraggiungibile, vicino e differente.
JEAN PAUL SARTRE
Nacque a Parigi il 21 giugno 1905 e dopo aver studiato all'Ecole Normale Supérieure, insegnò filosofia nei licei di Le Havre e di Parigi.
Fu soldato di sanità durante la guerra, fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania. L'esperienza della prigionia e della Resistenza lo porta a un sempre maggiore impegno civile e culturale, e infatti, tornato in Francia, fondò il gruppo di resistenza intellettuale "Socialismo e Libertà", e la più originale rivista del dopoguerra, "Le temps modernes" da lui fondata nel 1945. Avvicinatosi ai movimenti gauchistes, nel 1964 rifiutò il premio Nobel e fu in seguito incriminato (1971) per articoli apparsi in giornali di estrema sinistra di cui aveva assunto la direzione ("Révolution", "Le cause du peuple").
In questo periodo il suo pensiero si impose tanto da influire sulla società e il costume; il compito della filosofia era, per Lui, quello di fornire un'analisi dell'esistenza e, nel far ciò, Sartre divenne il più ammirato, discusso e popolare interprete dell'Esistenzialismo. Egli ha messo l'individuo al centro del suo vuoto e gli ha ordinato di costruirvi il suo concreto tutto con l'assoluto di una libertà coatta, priva di meriti e di sanzioni, ma ricca di illimitati poteri individuali e impegnata in responsabilità collettive.
Sartre, oltre che filosofo, fu anche sceneggiatore cinematografico, drammaturgo, saggista e romanziere.
Morì nel 1980.
Pensiero:
Sartre inizia la sua attività di pensatore con le analisi psicologiche concernenti l'io, l'immaginazione e le emozioni.
Egli sostiene che l'io non è nella coscienza, ma è fuori, nel mondo, nel senso che l'io, le cose, sono il "per-sé", e sono intenzionali (la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa) L'uomo è l'essere la cui apparizione fa sì che esista un mondo, ma questo non è coscienza, è "in-sé". Esso può essere visto come un insieme di utensili e quando l'uomo non ha più scopi, il mondo resta privo di senso.
Quando scopriamo questa essenziale contingenza e assurdità del reale, il sentimento che ci invade è, per Sartre, la nausea: "Non c'è nessun essere necessario che può spiegare l'esistenza: la contingenza non è un'apparenza che si può dissipare; è assoluto."
L'esperienza della nausea rivela l'uomo ridotto a cosa e sommerso nelle cose ed io ho coscienza degli oggetti del mondo, ma nessuno di questi oggetti è la mia coscienza, perciò essa "è il nulla" (se l'"in-sé" è l'Essere e il "per-sé" è altro dall'essere, allora la coscienza è il nulla). Il mondo è l' "in sé" e di fronte a questa sta la coscienza che Sartre chiama "per sé". La coscienza è nel mondo, ma è diversa da esso ed è l'esistenza o l'uomo
La coscienza non è un oggetto, è vuota di essere, ma l'essere è pieno e compiuto.
Secondo il pensiero di Sartre l'uomo, una volta gettato nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa della sua vita. Nessuno ha scuse: se si fallisce, lo si fa perché si è scelto di fare fallimento. Cercare scuse significa essere in malafede: il voluto diventerebbe necessità inevitabile.
Le cose del mondo divengono gratuite, prive di senso, un valore non è superiore ad un altro e le azioni dell'uomo ne sono prive (perché non c'è niente di eterno e necessario, tutto è contingente).
La vita diventa un'avventura assurda dove l'uomo si proietta al di là di se stesso per divenire Dio. "L'uomo è l'essere che progetta di essere Dio", ma in realtà egli si mostra per quello che è: "una passione inutile" (non si può essere perfetti e non sbagliare mai).
E' possibile scandire il suo pensiero in due tappe:
Una concezione cupa della vita, negativa (fino al 1946: il suo pensiero riflette la distruzione della seconda Guerra Mondiale);
L'esistenza viene riscattata come responsabilità verso la vita degli altri (testimone della ricostruzione dell'Europa).
CONCEZIONE CUPA E NEGATIVA DELLA VITA Sartre sostiene che occorre partire dall'analisi fenomenologia della coscienza che viene prima di tutto il resto (cogito ergo sum). La coscienza è posizionale, è intenzionale, e l'essere nel mondo. Il mondo è l'in sé e la coscienza, rispetto ad esso, è libera, è ciò che costituisce e annulla il mondo.
Il problema fondamentale è quello di stabilire un'ontologia della coscienza, cioè il che cos'è l'esistenza. L' uomo è essere- nel- mondo e per chiarire la sua esistenza, ha bisogno di chiarire cosa sia il mondo.Il mondo è ciò che si mostra alla coscienza con contingenza e gratuità, senza fondamento ed essenza perché è divenire. Heidegger sosteneva che il mondo è una semplice presenza, privo di senso, ma ad esso cerchiamo di attribuire significato attraverso il mito, la religione, la scienza. Questo tentativo è quello di sfuggire al senso genuino delle cose che, se Heidegger faceva coincidere con "l'essere- per- la- morte" se Nietsche lo faceva oincidere col nulla, in Sartre è la nausea che è il sentimento che ci invade quando si scopre l'essenziale assurdità della realtà contingente. In altre parole, ciò che è essenziale per la realtà assurda, è la sua contingenza assoluta: il destino delle cose è il nulla , perché tutto passa e diviene (anche la storia è un costante cambiamento delle cose). Coerentemente al fatto che la realtà non ha senso, Sartre afferma: "Non c'è differenza tra chi si ubriaca e chi guida i popoli". La realtà delle cose ci disgusta perché esse non hanno da dirmi niente e, se la realtà è in questi termini, le coscienze soddisfatte, integrate in un mondo di valori (Es. filosofie sistematiche) sono delle mistificazioni. La critica di Sartre va verso tutto ciò che appare compiuto e che, dunque, sarebbe incoerente con ciò che lui è veramente: "coscienza emancipata" perché la coscienza, pur essendo nel mondo, è diversa da esso e questo significa essere liberi perché, se il mondo non può decidere di essere diverso da com'è (in sé) e la coscienza è totalmente altro dal mondo, allora essa è libertà. Se esistesse Dio come volontà e pensiero, questo condizionerebbe la volontà dell'uomo e, infatti, le parole di Dostoevskij, pur se da un punto di vista diverso da quello sartiano, ne rendono, in qualche modo, conto: "Se Dio non esiste, tutto è permesso". Questa frase viene rivissuta dal punto di vista ateo di Sartre come fondamento del suo concetto di libertà. L'esistenza è prima dell'essenza e l'uomo, se è libertà, è ciò che sceglie e decide di essere e se così è, sceglie di diventare ciò che non è.
La coscienza, essendo progetto costante, è annullamento del mondo, la libertà è possibilità e, dunque, annullamento di ciò che siamo, è il nulla. Tutto è contingente e tutto cambia e passa. Di qui nasce l'angoscia che è il sentimento della potenza nullificante della coscienza,così come la nausea è il sentimento del nulla di significato che riguarda le cose.
Per Sartre "la vita è un'assurda avventura" perché ogni volta che una scelta sarà compiuta, sarà anche annientata. L'uomo è condannato ad essere libero e a proiettarsi oltre sé, a trascendersi, ma "trascendendosi", annulla sé e il mondo.
La coscienza, il "per sé", è anche "un essere per altri" (cfr. paragrafo successivo). Neppure il rapporto con altri può riscattarci da questa inutilità della vita, anzi "l'essere -per -altri", aggrava ancora di più questa condizione angosciante perché gli altri sono una minaccia costante dato che invadono l'orizzonte della mia soggettività, mi minacciano perché io posso essere degradato ad oggetto di un mondo altrui.
IL RISCATTO DELL'ESISTENZA L'esistenzialismo di Sartre incontra il marxismo e da questa fase vedono la luce due opere fondamentali che sono: "L'esistenzialismo è un umanismo" e "La critica della ragione dialettica" che segnano una svolta meno pessimistica del pensiero del filosofo.
Partendo dall'assunto che l'uomo è ciò che progetta di essere, Sartre valorizza l'azione umana.
Ne "L'esistenzialismo è un umanismo", Egli cerca di dare un senso meno negativo della coesistenza umana. Se Dio non esiste, non ci sono valori assoluti che giudichino la nostra condotta e, pertanto, siamo completamente responsabili oltre che del nostro destino, anche di quello altrui (es.: ho sempre un'alternativa al partecipare ad una guerra).La teoria della libertà del primo Sartre, faceva cogliere all'uomo di essere un per sé nullificante, ora è una teoria della liberazione nei confronti dell'oppressione.
"L'esistenzialismo è un umanismo", trova ideale continuazione ne "La critica della ragione dialettica", nella quale Sartre dà una propria revisione del marxismo. Il pensatore francese accetta il "materialismo storico" per il quale, le idee dominanti, rispecchiano quelle della classe detentrice del potere, ma rifiuta in toto il "materialismo dialettico" che costituisce l'aspetto metafisico e scolastico del pensiero di Marx. Da questo punto di vista, l'esistenzialismo, è una "spina nel fianco" del marxismo perché esso deve depurarsi da tutte le reminiscenze metafisiche, in maniera da sostituire loro un vero e proprio umanesimo. La dialettica, inoltre, rende il marxismo un'ideologia perché applica alla realtà un'idea che si vuol far realizzare. Contro questa dialettica dogmatica, Sartre propone un'attività totale praticata da soggetti che progettano la loro esistenza in condizioni sempre diverse (teoria della "Rivoluzione Permanente").
L' "Essere- per- Altri" :
L'uomo o essere per sé è anche essere per altri, dove l'altro si rivela come tale nelle esperienze in cui invade il campo della mia soggettività e da soggetto mi trasforma in oggetto del suo mondo.
L'altro non è colui che è veduto da me, quanto piuttosto colui che mi vede (contrariamente a Lèvinas ), colui che mi si fa presente, tenendomi sotto l'oppressione del suo sguardo.
Sartre analizza le esperienze dello sguardo altrui che sono, in genere, dell'inferiorità, quali la vergogna, il pudore, la timidezza.
Quando nel mondo della mia coscienza entra un altro, la mia esperienza viene modificata, non ha più il suo centro in me, mi trovo come elemento di un progetto che non è il mio e non mi appartiene. Lo sguardo altrui mi fissa e mi paralizza, mentre fino a quando l'altro era assente, io ero libero, ero soggetto e non oggetto. Quando appare l'altro, nasce il conflitto: "La mia caduta originale è l'esistenza dell'altro".
Il senso originale dell'"essere- per -altri" è il conflitto. Nello sguardo altrui l'uomo può accettare di essere reificato o, annientando l'"essere- per -altri", recuperare la libertà.
Per trascendere lo sguardo altrui ho due possibilità:
Amore anche questa possibilità è destinata allo scacco in quanto non ci sono mai due soggetti liberi, uno si annienta sempre nell'altro. Tanto più valorizzo la soggettività altrui, tanto più sono oggetto. L'amore, per, Sartre, si riduce al vivere la sessualità, che può presentarsi in modo sadico o masochistico, o provo piacere a reificare o a essere reificato;
Odio Es. l'omicida, quando annienta l'altro, è reificato perché è un omicida e può essere solo quello. Egli è reificato dal fatto che nella sua coscienza riemergerà sempre l'altro che gli ricorda di essere un omicida.
Da questa situazione di crisi non si può uscire. L'essere visto da altri significa non essere più padrone della mia vita, perché i progetti dell'altro sono trascendenti da me e io divento un oggetto per i progetti altrui. Sono veduto, ma non riesco a vedermi, oscillo tra vergogna e orgoglio perché io posso reificare gli altri, ma "inferno sono gli altri".
Per avere una visione più chiara della percezione che Sartre aveva dell' "essere- per -Altri", ho letto e provato ad analizzare l'opera teatrale del Filosofo, "A Porte Chiuse".
L'esistenzialismo è un umanismo:
Sartre identifica l'uomo con la sua libertà perché la sua vita non è come quella di una pianta il cui futuro è già "scritto" nel seme, l'uomo è il demiurgo (l'artefice) del suo avvenire.
Egli non è essenza fissa, è ciò che progetta di essere e l'esistenza precede l'essenza: "Se l'esistenza precede l'essenza, non sarà mai possibile spiegarla in riferimento ad una natura umana data ed immodificabile, non c'è determinismo, l'uomo è libertà". "Se Dio non esiste, non troviamo innanzi a noi dei valori in grado di legittimare la nostra condotta. Siamo soli, senza scuse. L'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché una volta gettato nel mondo è responsabile di tutto ciò che fa."
La libertà difesa da Sartre è assoluta e la responsabilità attribuita all'uomo è totale, "l'uomo inventa l'uomo".
Il filosofo francese è convinto che: "Tutto ciò che mi accade è mio, ciò significa che io sono sempre all'altezza di ciò che mi accade in quanto uomo, poiché ciò che accade ad un uomo da parte di altri uomini o da parte sua, non può essere che umano. Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture, non creano uno stato di cose inumano: non ci sono situazioni inumane", e aggiunge: "La realtà umana è desiderio di essere in- sé. Il progetto fondamentale della realtà umana, sta nel dire che l'uomo è l'essere che progetta di essere Dio. Essere uomo, significa tendere ad essere Dio o, se si preferisce, l'uomo è desiderio di essere Dio".
"A Porte Chiuse" (1945):
Personaggi
Ines impiegata delle poste, ha ucciso un uomo (il cugino) e due donne;
Estella ha sacrificato la sua giovinezza ad un vecchio ed è un infanticida;
Garcin pubblicista e letterato, ha torturato sua moglie;
Il cameriere
Trama
"A porte chiuse" è un dramma scritto da Sartre nel 1945, nel quale Egli espone, attraverso i personaggi di Ines, Garcin ed Estella, la tragedia umana dell'incomunicabilità e dell'impossibilità di rapportarsi agli altri.
Il Filosofo sostiene che siamo totalmente liberi e, perciò pienamente responsabili delle nostre azioni, prigionieri in eterno dei nostri atti.
I tre personaggi sono continuamente preda del loro essere in conflitto l'uno con l'altro, fra inutili confessioni e tentativi di liberazione: Garcin tenta disperatamente di scappare dalla stanza nella quale il cameriere lo ha rinchiuso con gli altri personaggi, ma, quando finalmente ci riesce, decide di non uscirne. Sartre non chiarisce subito che luogo sia veramente quello in cui si trovano, ma lascia presagire che lì la coscienza non ha più possibilità di scelta e i giudici sono, insieme, vittime e carnefici di se stessi e degli altri.
Garcin, Ines ed Estella si ritrovano tutti, abbiamo detto, in un'unica stanza dove sono sottoposti l'uno allo sguardo dell'altro, dove non possono fare a meno di venire deificati, di parlare e nella quale si è "nudi" ed esposti al giudizio altrui. Ciò lo si capisce quando Estella cerca uno specchio per potere sistemare la sua immagine, dato che nella stanza non ce ne sono, è costretta a farsi guidare da Ines:
"Estella- Signore, avete uno specchio?"
"Ines- Volete che vi serva io da specchio?"
I tre personaggi, costretti a stare insieme, finiscono col raccontarsi perché si trovano in quel luogo e finalmente capiamo che, dopo essere morti, sono stati sprofondati all'inferno perché: Ines aveva ucciso il cugino e due donne, Garcin perché aveva torturato la moglie ed Estella perché era un'infanticida.
I tre protagonisti si domandano per tutto il dramma per quale motivo siano stati rinchiusi insieme in quell'unica stanza e, nella scena quinta:
Garcin capisce che: ". allora è questo l'inferno. Non avrei mai creduto. vi ricordate: lo zolfo, il rogo, la graticola, . Ah! Che scherzo. Non c'è bisogno di graticola, l'inferno sono gli altri". E Ines aggiunge: ". E noi siamo insieme per sempre".
In "A porte chiuse", Sartre tocca diversi aspetti del proprio pensiero, come quello fondamentale dell'oppressione esercitata dallo sguardo dell'altro che mi osserva e nella scena quinta si legge:
"Garcin- Capisco benissimo che la mia presenza vi importuna. E personalmente preferirei rimaner solo." e
"Ines- Non siete solo e non avete il diritto di infliggermi lo spettacolo della vostra paura" "Il carnefice è ciascuno di noi per gli altri due"
"Estella- Com'è seccante, non posso più giudicare da me"
"Garcin- Ciascuno di noi cercherà di dimenticare la presenza degli altri".
Nella scena quinta troviamo anche la concezione della morte in Sartre, oltre che l'ulteriore esempio di come gli altri possano reificare non solo la mia esistenza, ma anche il ricordo che di essa permane nonostante la fine della vita:
"Garcin- Garcin è un vigliacco. Ecco quel che hanno deciso loro, i miei compagni. Fra sei mesi diranno: vigliacco come Garcin. Ne avete della fortuna voi due, nessuno pensa più a voi sulla terra. Io ho la vita più dura". "Loro non mi dimenticheranno. Moriranno, ma ne verranno altri che prenderanno le consegne. Ho lasciato la mia vita nelle loro mani".
Per Sartre, dopo la morte, possono verificarsi due situazioni: venire dimenticati o continuare a vivere grazie al ricordo degli altri anche se, in questo caso, saranno loro a decidere per noi, reificandoci ed impadronendosi della nostra esistenza.
Analisi critica del dramma
"Huis- clos" può essere definito il più tetro e tragico dei drammi di Sartre, non fosse altro che per quell'ambientazione- reclusorio entro cui i protagonisti vivono la loro infernale vicenda di condannati a vita. I tre hanno un passato di perversione e di pena che li isola e li annulla vicendevolmente, calandoli nel crogiuolo di una resa senza condizione alla passività della vita: il brasiliano Garcin, un giornalista torturatore della propria moglie, la francese Estella che ha ucciso il bambino avuto dall'amante, la spagnola Ines, le cui perversioni sessuali hanno finito col pietrificarne il sentimento e annullarne la ragione. L'area- prigione entro cui i tre conducono il dramma dell'esistere finisce per rivelarsi chiarificatrice, nel senso che, dopo un avvio convenzionale, spinge i tre verso la delucidazione reciproca del proprio abbrutimento, che Sartre utilizza drasticamente costringendoli ad un'inquisizione pirandelliana che sblocca psicologicamente le coscienze e li costringe a rincorrersi nell'universo stravolto della confessione, come cavalli di una giostra che si scorgono a vista senza potersi mai raggiungere. Qui lo specchio con tutta la lucida consapevolezza della verità assoluta che è in grado di esprimere, è rappresentato dagli altri due che ascoltano il terzo nella sua nudità di "confessato" che non ha più remore, e si apre totalmente mettendo in luce l'abisso senza fondo di viltà e di abominio in cui la malafede lo ha gettato. Così, i tre si riconoscono del tutto indifesi di fronte all'esigenza di verità che la particolare condizione in cui si trovano propone loro e l'unica possibilità di salvezza offerta dall'amore si risolva in un tragico intrico che può solo servire a tendere ancor più il filo del dramma e dell'isolamento: gli sforzi di Ines che vorrebbe amare Estella si vanificano davanti alla figura attenta e inquisitoria di Garcin, che diventa persecutore da perseguitato, e a sua volta lo slancio di Estella verso Garcin, è distrutto dalla presenza vigile di Ines. Ridotti ad oggetto, degradati a cosa dalla fatticità della situazione, tentano la drastica soluzione della morte, dell'assassinio incrociato, come necessità assoluta di reperire il fondo dell'abisso, ma neanche questo è possibile perché significherebbe recuperare alla vita chi invece alla vita più non appartiene e può obbedire soltanto alla propria passività. Resa impossibile la morte come liberazione e vanificata la facoltà di amarsi dall'oggettivazione dell'odio, resta solo la continuità della vita nel fastidio e nell'odio dell'uno per l'altro:
"Garcin: Il bronzo. Ecco il momento. Qui c'è il bronzo, e io mi rendo conto che sono all'inferno. Vi dico che tutto era previsto. Avevamo previsto che mi sarei fermato davanti a questo caminetto, a premere con la mano questo bronzo, con tutti questi sguardi fissi su di me. Tutti questi sguardi che mi divorano. Oh, siete soltanto due? Vi credevo molti di più. E' questo dunque l'inferno? Non lo avrei mai creduto. l'inferno sono gli Altri.
Estella: Amore mio!
Garcin: Lasciami. C'è lei, tra noi due. Non posso amarti, fin che lei mi vede.
Estella: Così? Ebbene, lei non ci vedrà più. (Afferra il tagliacarte e la colpisce).
Ines: Che fai? Che fai? Sei matta? Lo sai che sono morta.
Estella: Morta?
Ines: Morta! Morta! Morta! Né coltello, né pugnale, né corda. E' cosa già fatta, capisci? E noi siamo insieme, noi tre, per sempre.
Estella: Per sempre. Dio, com'è buffo. Per sempre!
Garcin: Per sempre! (Tutti e tre cadono a sedere ognuno sul suo divano. Lunga pausa. Smettono di ridere e si guardano. Garcin si alza.)
Garcin: E va bene. Continuiamo."
JEAN PIAGET
Psicologo Svizzero (1896- 1980), allievo di Claparède e condirettore dell'Istituto delle Scienze dell'Educazione di Ginevra, ha dato uno dei massimi contributi al processo di chiarificazione dei problemi di psicologia genetica, che per merito suo si è trasformata in una scienza a carattere sperimentale. Egli, infatti, ha condotto in modo sistematico lo studio della vita mentale attraverso tutti i livelli di età, dalla nascita fino all'adolescenza, associando il metodo sperimentale (da Lui definito "critico") a quello clinico, a quello dell'osservazione a carattere quasi sperimentale. In tal modo è riuscito a evidenziare le strutture corrispondenti alle diverse fasi dello sviluppo mentale e le modalità con le quali si attua il passaggio dall'una all'altra.
Lo studio del pensiero infantile quale si presenta soprattutto sul piano verbale è contenuto nelle sue prime opere importanti: "Le langage et la pensèe chez l'enfant" (1923; "Il linguaggio è il pensiero del fanciullo"), "Le jugement et le raisonnement chez l'enfant" (1925; "Il giudizio e il ragionamento nel fanciullo"), "La reprèsentation du monde chez l'enfant" (1926; "La rappresentazione del mondo nel fanciullo").
Successivamente ha analizzato l'intelligenza come forma di adattamento dell'organismo all'ambiente ("La naissance de l'intelligence chez l'enfant", 1936; "La construction du rèel chez l'enfant" 1937; "La formation du symbole chez l'enfant", 1945). Un terzo gruppo di opere rivela il tentativo di trovare un'interpretazione di carattere generale della natura e dello sviluppo dell'intelligenza, che consiste essenzialmente nella contrapposizione fra la irreversibilità del pensiero intuitivo e della reversibilità del pensiero operatorio. Appartengono a questo gruppo i lavori pubblicati in collaborazione con B. Inhelder e A. Szeminska sull'evoluzione dei concetti di tempo, spazio, quantità, caso, ecc.presso il bambino: "La psychologie de l'intelligence" (1947; "Psicologia dell'intelligenza") e l' "Introduction à l'èpistèmologie gènètique" (1950), opera fondamentale in cui è studiato il meccanismo di accrescimento delle conoscenze seguendo lo sviluppo del pensiero matematico, fisico, biologico, psicologico e sociologico.
Con la collaborazione di Louis de Broglie e di Andrè Lichnerowicz dirige un'opera di volgarizzazione dei problemi dell'epistemologia.
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