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L'ABORTO (Latino, Greco, Filosofia, Scienze)




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L'ABORTO (Latino, Greco, Filosofia, Scienze)


I TESTI


Lisia (sec. V/IV a.C.)

<<Considerate anche il comportamento di Antigene [che non è il marito della donna accusata di aborto volontario, ma, forse, un parente del marito che voleva tute­larne i diritti]: dopo aver intentato un'accusa contro nostra madre, pretende di spo­sare nostra sorella e vuol sostenere il processo, per non pagare le mille dracme che deve versare chi non porta avanti la causa dopo aver presentato l'accusa>>

(Contro Antigene per aborto [di dubbia autenticità], fr. 8, tr. Medda)

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Testimonianze greche al passo controverso

TEONE: <<nell'altro discorso [di Lisia] si discute se l'embrione sia già un uomo e se le donne debbano essere libere da controllo relativamente alle questioni di aborto.>>

(Progymn. 2, I 166 W.)

TEONE: <<in questi casi bisogna che chi se ne occupa attribuisca la responsabi­lità agli esperti, come fa Lisia nel discorso 'Sull'aborto', dove giudicando un impu­tato di omicidio, è costretto a dimostrare che il feto è un essere vivente, e più volte dice: 'Come hanno dichiarato i medici e le levatrici'.>>

(Proleg. 'Tòn stàseon' VII I, 16)

SOPATRO: <<E questo è un esempio di questione medica, di cui anche Lisia si è occupato: se colui che ha indotto una donna ad abortire ha commesso un omicidio. Bisogna infatti stabilire, per prima cosa, se il feto prima di essere partorito fosse vivo: e questo è compito dei fisici e dei medici.>>

(Ad Hermog. V 3W.)

SOPATRO: <<Lisia nel discorso sul feto abortito, in cui Antigene accusa sua moglie [indicazione erronea!], che aveva abortito volontariamente, di omicidio, so­stenendo che aveva abortito e così aveva negato la paternità del bambino.>>

('Ek diafòron tina crésima', <<RhM>> LXIV 576, trad. Medda)

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'L'accusa mossa da Antigene, afferma il Medda, (che doveva essere un parente del marito della donna) alla vedova era quella di aver volontariamente abortito, ledendo in questo modo i diritti del marito e dei suoi parenti; la difesa è sostenuta dai figli che la donna aveva avuto da un precedente matrimonio.

E' del tutto improbabile che l'aborto potesse essere di per sè ritenuto punibile in una società che ammetteva l'infanticidio e l'esposizione dei neonati: è difficile però capire quali interessi cercasse di tutelare la causa per aborto.

Infatti, se a essere lesi fossero stati solo i diritti del padre, si sarebbe trattato di un fatto privato, e la controversia avrebbe dovuto avere un'altra forma; invece proprio il frammento lisiano, che allude all'eventuale multa di mille dracme nel caso che l'ac­cusa fosse ritirata, testimonia che l'aborto poteva essere anche oggetto di un pro­cesso pubblico.

Questo potrebbe far pensare che esso fosse sentito come una lesione dell'interesse collettivo; ma l'Harrison opportunamente osserva che il processo pubblico può es­sere interpretato come una forma di protezione dei diritti di chi non poteva difendersi attraverso un procedimento (in questo caso il feto), e allora anche un padre che avesse costretto la madre all'aborto sarebbe stato perseguibile.

Esiste anche la possibilità che la causa servisse soprattutto in casi come quello trattato da Lisia, per tutelare cioè gli interessi di erede del nascituro, la cui scom­parsa, in caso di morte del padre, avrebbe favorito i parenti più prossimi.

Per di più nel discorso lisiano si discuteva se l'embrione potesse essere già consi­derato un uomo, e questa discussione potrebbe essere un indizio del fatto che fossero proprio i suoi diritti ad essere tutelati.'

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Ippocrate (metà sec. V / inizio sec. IV a.C.)

<<[] Mi varrò delle prescrizioni dietetiche secondo il mio potere e il mio giudizio per giovare agli ammalati, ma in modo da astenermi da ogni danno e ingiustizia. Anche se sollecitato, non propinerò a nessuno un farmaco mortale nè mi farò autore di un simile consiglio, parimenti non farò manovre sulle donne allo scopo di procurare l'aborto. []>>

(Giuramento dei medici, trad. Untersteiner Candia)

<<Purgare le donne incinte, se vi è eccesso di umori, dal quarto al settimo mese; le altre di meno, perchè bisogna avere molta cura del feto che abbia meno di quattro mesi e più di sette mesi.>>

(Aforismi, IV, 1)

<<Una donna incinta, se salassata, abortisce, specialmente se il feto è assai grande.>>

(Aforismi, V, 31)

<<Se una donna incinta ha copiosa defecazione liquida, vi è il pericolo di un aborto.>>

(Aforismi, V, 34)


<<Se in una donna incinta il seno diventa all'improvviso piccolo, essa abortirà.>>

(Aforismi, V, 37)

<<Se una donna è incinta di due gemelli, e il seno diventa piccolo, essa perde un bambino: il maschio, se si rimpicciolisce quello destro, la femmina, se il sinistro.>>

(Aforismi, V, 38)

<<Donne incinte che sono sottili contro natura, abortiscono, a meno che non si siano ingrossate.>>

(Aforismi, V, 44)

<<Nei casi in cui donne incinte sono colpite da febbre e diventano eccessivamente sottili, senza cause evidenti, esse partoriscono con difficoltà e con pericolo, o vi è il pericolo che abortiscano.>>

(Aforismi, V, 55)

<<Il tenesmo [spasmo della vescica o del colon] che interviene in donna gravida fa abortire.>>

(Aforismi, VII, 27)

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Platone (fine sec. V/metà sec. IV a.C.)

Le levatrici e le loro mansioni

<<Socrate:

Rifletti bene a ciò che è tutto il ministero delle levatrici, e ti sarà più facile d'intendere quel che voglio dire. Tu saprai, penso, che nessuna donna, mentre è tuttora in grado di concepire e di generare, fa da levatrice ad altre, ma quelle soltanto che non possono più generare. [] E di ciò s'attribuisce la causa ad Artemide che, quantunque vergine, ebbe in sorte di presiedere ai parti. Peraltro, alle donne sterili la dea non concesse di fare da levatrici, giacchè la natura umana è troppo debole per esercitare un'arte in cose di cui non abbia esperienza; ma assegnò quest'ufficio a quelle donne che per età non potessero più generare, onorando così la somiglianza che esse hanno con lei. [] Ed è naturale, anzi necessario, anche questo: che le levatrici più delle altre donne siano atte a riconoscere chi sia incinta e chi no? [] E sono anche le levatrici quelle che, somministrando medicinali e recitando formule magiche, possono, se vogliono, provocare le doglie e calmarle, e affrettare il parto a quelle che stentano; e quando paia bene sopprimere il feto novello, lo sopprimono [Platone sembra che voglia dire che la levatrice poteva procurare l'aborto, quando ciò fosse necessario e non potesse riuscire pericoloso, cioè appunto quando il feto non era ancora maturo].

Teeteto:

Così è.

(Teeteto, 149 b-d, trad. Martini)

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Aristotele (sec. IV a.C.)

Sulla colpevolezza dell'abortire

<<[] bisogna procurare l'aborto prima che nel feto siano sviluppate la sensibilità e la vita, perchè sono la sensibilità e la vita a determinare la colpevolezza e la non colpevolezza dell'atto.>>

(Pol., VII, 1335 B, trad. Medda)

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Cicerone (inizio sec. II/metà sec. I a.C.)

Due casi di aborto

<<Ma non basta: benchè con l'uccisione del fratello egli superasse in atrocità ogni altro delitto, è da notare che a questa nefanda scelleratezza egli arrivò attraverso altri delitti. Mentre infatti era gravida Auria, la moglie del fratello, ed il parto pareva già vicino, uccise la moglie col veleno per sopprimere con lei un eventuale erede del fratello. Attaccò poi il fratello che, troppo tardi ormai, già versata la coppa micidiale, proprio mentre stava gridando che erano stati uccisi lui e la moglie e che voleva mutare testamento, fu colto dalla morte. Oppianico uccise così la moglie per non essere escluso, per il parto di lei, dall'eredità del fratello e privò della vita i figli del fratello prima che essi potessero venire alla luce. Questo perchè tutto il mondo capisse che nulla più di sacro poteva esservi a questo mondo per un uomo innanzi alla cui audacia neppure il grembo materno aveva potuto proteggere i figli del fratello.

Io ricordo che, quando ero in Asia, una donna di Mileto, essendosi lasciata corrompere per denaro da eredi di secondo grado ed avendo ad arte abortito, fu condannata a morte e non senza ragione, perchè aveva tolto ad un padre la speranza di veder continuato il proprio nome ed aveva tolto un sostegno ed un erede alla famiglia, un cittadino alla repubblica.

Quando non era Oppianico, nello stesso delitto, più degno di castigo!

Quella donna, almeno, facendo violenza a sè stessa, fu di sè stessa carnefice; Oppianico, invece, recò lo strazio e la morte ad un corpo altrui. Pare che gli altri non possano commettere, su d'un sol corpo, più di un omicidio: Oppianico solo, finora s'è trovato che sapesse uccidere più d'uno in un solo corpo.>>

(Pro Cluentio, XI, trad. Giovannetti)


Plinio il Vecchio (sec. I d.C.)

Proprietà del vino

<<Anche il vino può avere proprietà prodigiose. Si dice che in Arcadia viene prodotto un vino che rende fertili le donne e rabbiosi gli uomini; in Acaia, poi, soprattutto nei dintorni di Cerinia [nella parte settentrionale del Peloponneso], si dice che esiste un vino che provoca l'aborto, anche nel caso che la donna gravida abbia mangiato l'uva da cui esso si ricava, per quanto di sapore non diverso dall'altra uva [la notizia anche in Teofrasto IX, 18, 11]. Chi beve il vino di Trezene diventa - si dice - sterile. [] L'Egitto produce anche l''ecbolas' [altro tipo di uva] che provoca l'aborto.>>

(Nat. hist. XIV, 22, 116, 118, trad. AA.VV.)

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Tertulliano (metà sec. II/inizio sec. III d.C.)

'Homo est et qui est futurus!'

<<In quanto a noi, non solo ci è vietata ogni forma di omicidio, ma ci è proibito soffocare una vita appena concepita, quando ancora il sangue l'alimenta nel seno materno per formarne una creatura umana.

Impedire di nascere non è altro che un omicidio anticipato, e non v'è differenza tra il distruggere una vita già nata o una vita nascente.

E' già uomo anche chi diverrà uomo, ed anche nel seme è già tutto il frutto.>>

(Apolog., IX, 8, trad. Resta Barrile)

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In medicina

<<Nella terminologia medica questo termine indica sia l''aborto spontaneo' sia l''aborto volontario' (cioè indotto mediante manovre mediche).

Secondo l'O.M.S. si ha l'aborto quando l'interruzione della gravidanza avviene entro la 28^ settimana (ossia il 196° giorno) di gestazione [ma gli anglosassoni riten­gono che si tratti di aborto solo se l'interruzione della gravidanza si verifica entro la 20^ settimana, che corrisponde ad un peso fetale di circa 500 g., in quanto feti nati a quest'epoca gestazionale e sottoposti a particolari cure intensive sono sopravvissuti].

L''aborto spontaneo' consiste nella perdita del feto prima della 22^ settimana di gestazione o del raggiungimento della vitalità del feto stesso (cioè della capacità di sopravvivere fuori dal grembo materno senza aiuti artificiali).

L''aborto volontario' è, invece, l'interruzione della gravidanza con manovre medi­che e può essere consentito solo in presenza di condizioni morbose che colpiscano la madre od il feto e ne possono mettere a repentaglio la vita o la sopravvivenza.>>

Secondo la legge italiana

<<In Italia fino agli anni Settanta, la pena per la donna che, con qualunque mezzo adoperato da lei o da altri con il suo consenso [nel 1833, secondo lo Shorter, una delle pratiche più diffuse era quella di sciogliere nel caffè il fosforo raschiato dai fiammiferi e di bere l'intruglio, con la conseguenza che dal 1851 al 1903 in Svezia fu­rono registrati più di 1.400 casi, quasi tutti mortali, di avvelenamento], si procurava l'IG era la detenzione da uno a quattro anni.

Il 22 maggio 1978 viene infine approvata la legge 194 che detta norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza.

La legge 194 dispone che la donna possa richiedere l'IVG, che, precisa l'art. 1, non è un mezzo per il controllo delle nascite, entro i primi 90 giorni, per motivi legati alla salute psicofisica, alle condizioni economiche, familiari, sociali, ecc.. Deve per que­sto rivolgersi al consultorio pubblico o ad una struttura sociosanitaria od al medico di fiducia. L'interruzione volontaria della gravidanza oltre i primi tre mesi può essere praticata solo in caso di pericolo grave per la vita della donna. L'IVG è gratuita e viene praticata presso strutture pubbliche. La richiesta di IVG è fatta personalmente dalla donna: nel caso di una minorenne, è richiesto l'assenso dei genitori o alternati­vamente di un giudice tutelare. La stessa legge prevede che i medici ed il personale sanitario contrari per motivi di coscienza possano rifiutarsi di praticare l'IVG [nel 1988 risultano obiettori il 62,2% dei ginecologi, il 53% degli anestesisti, il 51,5% del personale non medico, con 'picchi' a Bolzano, in Umbria, in Abruzzo e nel Molise, e con 'quote più basse' in Val d'Aosta ed in Emilia].

Il 19 maggio 1981 la legge 194 è rimessa in discussione da un referendum popo­lare articolato su una proposta ancor più liberalizzante e su una abrogativa: il 67,3% si pronunzia a favore del mantenimento della legge.

Dal 1981 al 1989 le statistiche riportano la seguente tendenza: 1981 -> 224.067 aborti procurati, 1982 -> 234.801, 1983 -> 233.976, 1984 -> 227.446, 1985 -> 210.597, 1986 -> 198.375, 1987 -> 191.469, 1988 -> 179.193, 1989 -> 171.684; verso una diminuzione dei casi segnalati, quindi, e con una percen­tuale del 2,4% di minorenni che hanno fatto ricorso all'aborto, che è tra le più basse della media europea [e, sempre secondo l'AIED, dal 1978 ad oggi si è passati da più di un milione di aborti clandestini annuali ad 80-100.000 concentrati, per lo più, al Sud e nelle isole].

I punti della legge 194 oggetto ancora oggi di controversie sono i seguenti:

- il limite di 90 giorni entro il quale può essere compiuto l'aborto non-terapeutico (che andrebbe ridotto);

- la decisione adottata solo dalla donna (ma anche dall'uomo);

- la condizione che l'intervento abortivo può essere effettuato solo nelle strutture ospedaliere pubbliche od in quelle convenzionate (ma anche nelle altre, a garanzia di un servizio altrimenti traumatico per l'inefficienza delle strutture);

- il ruolo dei Consultori Familiari (da potenziare).

Secondo la Chiesa

La posizione della Chiesa, per la quale vi è un senso solo nella funzione riprodut­tiva, è da sempre categorica: l'aborto è un omicidio e, come tale, va condannato senza riserve [ma con esso anche la contraccezione, la risposta più logica all'aborto].

Nel 1930 Pio XI, con l'Enciclica 'Casti connubii', consigliava la castità ad una coppia che non voleva figli; Pio XII e Giovanni XXIII riconoscevano, indirettamente, la liceità dei metodi contraccettivi naturali; nel 1968 Paolo VI, con l'Enciclica 'Humanae vitae', confermava la ten­denza assunta dai due Papi precedenti; il 16 ottobre 1988 Papa Wojtyla, con l'En­ciclica 'Mulieris dignitatem', rivelava indirettamente la sua intransigenza alla con­traccezione; il 4 febbraio 1990, con la pubblicazione della CEI 'Evangelizzazione e cultura della vita umana', Giovanni Paolo II condannava il sesso non procreativo e l'uso dei mezzi contraccettivi.

L'aborto nel mondo

Negli USA la legalizzazione dell'aborto avvenne nel luglio del 1973 e da allora si calcola che più di 22.000.000 di aborti siano stati praticati nei vari ospedali.

Il 30% di aborti sul totale delle gravidanze che gli USA hanno fatto segnare negli ultimi anni è una percentuale molto alta se paragonata al 13% della Germania, al 14% del Canada ed al 27% del Giappone, ma è pressochè trascurabile se parago­nata al 68% dell'URSS.

In tutta l'Europa dell'Est le cifre sono altissime: in Polonia vengono praticati 5-6.000 aborti all'anno ed in Ungheria nel 1990 ce ne sono stati 90.000 su una popo­lazione di appena 10.000.000 di abitanti.

La legalizzazione dell'aborto nei Paesi ex-comunisti risale quasi per tutti alla metà degli anni Cinquanta (fa eccezione l'ex Germania Orientale dove fu introdotta nel 1972) ed è retaggio dei vecchi regimi comunisti: significativo il caso della Romania che l'ha introdotto nel 1989 dopo la rivoluzione liberale.

Un pò ovunque, però, è in atto la reazione in senso contrario: sia per il cambia­mento politico, sia per la nuova penetrazione della religione.

Nei Paesi del Terzo Mondo l'aborto è normalmente consentito: le legislazioni na­zionali non pongono limiti, cosicchè è assai diffuso l'aborto clandestino, che uccide più di 200.000 donne all'anno per infezioni contratte a seguito dell'operazione abor­tiva.

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IL TRUCCO

In Grecia

La donna greca non aveva niente da invidiare alle sue nipoti d'oggigiorno per quel che riguarda la cura della persona.

Essa faceva il bagno in casa, aiutata dalle sue schiave, a meno che non fosse un'etèra o una donna di bassa condizione, nel qual caso, almeno in età recenti, frequentava i bagni pubblici; si profumava con profumi costosi ed esotici e si 'truccava' con molta cura.

I cosmetici, infatti, conosciuti forse nell'età più antica, erano usati in epoca classica anche presso le madri di buona famiglia, che ne facevano un uso moderato, mentre le etère ne abusavano; finchè in età ellenistica divennero l'indispensabile artificio per la bellezza di tutte le donne, specie di quelle di città.

Il colorito pallido, conseguenza della vita chiusa e sedentaria, la prima ruga, la pelle rilassata e 'stanca' erano inconvenienti da correggere o da nascondere in ogni modo e a qualunque costo.

Così si ricorreva al belletto bianco della biacca, al belletto rosso del minio, dell'ancusa o del fuco, che si spargevano sulle labbra e sulle guance con un apposito pennello, mentre si ombreggiavano le ciglia e le sopracciglia con un leggero velo di tintura nera di antimonio o di nerofumo.

Se poi la tinta naturale dei capelli non soddisfaceva o, peggio ancora, rivelava qualche filo d'argento, allora si tingeva tutta la capigliatura in biondo oro o in nero ebano e, quando, purtroppo, la natura spietata faceva l'ultimo oltraggio, si ricorreva all'inganno della parrucca.

D'altronde il desiderio che esse destavano nei loro amanti era la ragione stessa della loro importanza, specialmente in città quali Atene e Corinto.

Generalmente erano belle, e si servivano soprattutto della loro bellezza per attirare gli uomini.

Non ignoravano nessuno dei stratagemmi capaci di renderle ancora più seducenti, stratagemmi che le vecchie trasmettevano alle più giovani.

Le donne della buona società non esitavano a ricorrere a simili stratagemmi per conservare l'interesse dei loro mariti.

I belletti, i vestiti provocanti, le tuniche trasparenti di cui parla la Lisistrata di Aristofane sono tutte armi che le donne adoperavano per attirare gli uomini, mariti o amanti, quando volevano sedurli o trattenerli presso di sè.

Non c'è da dubitare sul fatto che tra la condizione sociale della donna, eterna minorenne che passava dalla tutela del padre a quella del marito, e la sua condizione reale ci fosse, anche su questo piano, una certa distanza: si può notare, infatti, una realtà quotidiana diversa dall'immagine un pò troppo incolore che una semplice analisi della vita delle donne basata sulla loro condizione sociale e giuridica farebbe supporre.

A Roma

Nei primi tempi i Romani non ebbero molta cura della loro persona e le donne raccoglievano semplicemente le chiome in un soffice nodo sulla nuca o in lunghe trecce.

Le donne della Roma repubblicana probabilmente non usavano i belletti colorati, tanto è vero che il 'Cyprus', utilizzato da parecchi popoli barbari per colorare in rosa ed in rosso la pelle, non viene citato da alcun autore latino prima di Celso e da questo viene adoperato a scopo non cosmetico, ma come emolliente.

Dalla fine del III sec. a.C. cominciarono ad emanciparsi fino a raggiungere le stranezze dell'età imperiale dinanzi alle quali anche noi moderni rimarremmo stupiti.

Le povere schiave dovevano lavorare ore ed ore per sistemare l'acconciatura della propria padrona, che si ergeva sulla testa per 40 o 50 cm., in strati sovrapposti di riccioli, volute, posticci, o che ricadeva da un nodo centrale in riccioli fittissimi, ciascuno fissato da uno spillone.

Diffuso era poi l'uso delle tinture, ed il colore preferito era il biondo-rosso, che si otteneva cospargendo la chioma di sego di capra misto a cenere di faggio!

Non parliamo poi dei cosmetici e di come le donne romane fossero capaci di impiastricciarsi il viso!

Le labbra erano tinte di rosso con polvere di ocra; il volto e le braccia erano imbiancati con gesso e biacca, le ciglia ed il contorno degli occhi erano anneriti con fuliggine, ed i denti lucidati con polvere di corno!

Svariatissime erano le creme di bellezza, conservate in cofanetti od in cilindri.

Alcune, a base di miele, di cera di api, di latte cagliato, di olio ed altri unguenti sono assai simili a quelle dei giorni nostri; altre, invece, erano miscugli così schifosi che solo il proverbiale coraggio femminile per conservare, o creare la bellezza, poteva tollerare.

Inoltre le romane si depilavano accuratamente; si cospargevano di escrementi secchi di uccelli per depurare la pelle da macchie o foruncoli, e, come fondotinta, oltre alla biacca, quando si volevano nascondere inconvenienti maggiori, niente era più indicato di un abbondante strato di creta!

Curavano, quindi, molto la pulizia della cute, soprattutto di quella del viso.

Per detergere la pelle e liberarne i pori dalle impurità, Dioscoride adoperava estratti di 'galle', escrescenze sferoidali delle foglie che hanno subìto la puntura di certi insetti.

Molto diffuso in questo campo fu l''Hellenium', una pianta i cui estratti erano ritenuti efficacissimi nella cura della pelle.

La differenza tra la cosmesi orientale (Egizi, Micenei, Siri) e quella romana è che quest'ultima, nonostante quanto detto sopra, era più rudimentale e spesso nociva alla salute, mentre l'altra, avendo come base essenze vegetali, poteva veramente raggiungere buoni risultati terapeutici.

APPENDICE: La farmacia cosmetica romana

I medici romani conoscevano bene pressochè tutte le malattie della pelle ed avevano una medicina ed una farmacia dermatologiche. Essi eseguivano perfettamente la terapia di parecchie di queste malattie; anche le malattie cutanee venivano prese in degna considerazione. Così le verruche erano curate anche applicando alla loro superficie sostanze caustiche o corrosive, come i fichi acerbi cotti nell'acqua o la feccia del vino. Sugli esantemi prodotti dal sudore, sulle scottature dovute a prolungata esposizione ai raggi solari, sulle lesioni cutanee prodotte dal freddo, sulle pustole dei bambini, si applicavano le lenticchie, prima bollite, poi impastate con il miele. Contro la vitiligine vi erano molte preparazioni: quella composta da Imeneo era a base di foglie secche di fico. Circa l'acne Celso avverte: <<E' quasi puerile impegnarsi nella cura dell'acne, delle lentiggini e delle efelidi, ma è senz'altro impossibile privare le donne della cura nell'ornarsi>>. Contro l'acne giovanile si adoperava una pomata composta in parti uguali da resina e da allume, con l'aggiunta di una piccola quantità di miele. Per le lentiggini occorreva applicare una pasta a base di galbano e di 'nitrum' triturati assieme nell'aceto. Abbiamo anche la descrizione della prima maschera di bellezza che la storia ricordi.

La sua composizione, elaborata da un medico di nome Trifone, era a base di argilla azzurra, di mandorle amare, di farina d'orzo e di molti altri vegetali più rari polverizzati. Il tutto veniva amalgamato mediante il miele e l'impasto si applicava alla sera, in uno strato sottile ed uniforme; al mattino seguente si detergeva il viso.

Vi erano anche detergenti speciali per i denti: i migliori erano a base di corallo finemente macinato stemperato nell'acqua solo qualche istante prima di adoperarli.

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I TESTI


Esiodo (sec. VIII/VII a.C.)

Nelle 'Opere e i Giorni' tra i saggi consigli a Perse anche

<<mh de gunh se noon pugostoloV exapatatw

aimula kwtillousa, tehn dijwsa kalihn.

oV de gunaiki pepoiJe, pepoiJ|­ o ge jhlhthsin.>>

(vv. 373/375)

<<E non far che una donna dal sedere azzimato ti faccia perdere la testa,

sussurrando parole allettatrici, mentre mira alla tua dispensa;

chi presta fiducia a una donna, presta fiducia ai pirati.>>


<<oikon men prwtista gunaika te boun tç arothra,

kththn, ou gamethn, h tiV kai bousin epoito,

crhmata dç en oikw pantç armena poihsasJai,

mh su men aithV allon, []>>

(vv. 405/408)

<<Cerca di avere anzitutto una  casa, una donna ed un bue per arare,

una donna comperata, non sposata, che all'occorrenza possa star dietro ai buoi,

e prepara in casa tutte le cose adatte,

affinchè non abbia a chiederle a un altro, []>>


<<h te domwn entosJe jilh para mhteri mimnei

ou pw ergç eiduia polucrusou AjrodithVç

eu te loessamenh terena croa kai lipçelaiw

crisamenh mucih katalexetai endoJi oikou

hmati ceimeriw, []>>

(vv. 520/524)

<<la fanciulla se ne sta dentro casa accanto alla diletta madre,

non ancora esperta delle opere di Afrodite splendida d'oro;

ella dopo avere ben lavato il tenero corpo ed asperso di olio

in gran copia va a riposarsi entro casa nella parte più interna,

durante la giornata invernale, []>>


e ancora, ai vv. 695/705


<<Conduci a casa tua una moglie, quando avrai l'età giusta, /

non molto al di sotto dei trent'anni, /

nè molto al di sopra; questo è il tempo opportuno per le nozze; /

e la donna abbia raggiunto la pubertà da quattro anni, e si mariti nel quinto. /

Sposa una vergine, perchè tu possa insegnarle onesti costumi; /

sposa soprattutto quella che abita vicino a casa tua, /

dopo esserti guardato bene intorno, per non sposarti, ludibrio ai vicini. /

Difatti nessuna cosa può l'uomo acquistare migliore /

di una sposa onesta, come non c'è niente di più triste d'una moglie cattiva, /

piena d'ingordigia, la quale brucia senza bisogno di torcia il povero marito, /

per quanto gagliardo, e lo vota ad una crudele vecchiaia.>>

(trad. A. Colonna)

o o o

Aristofane (sec. V/IV a.C.)

Povere donne!

<<Calonica:

Ciao, Lisistrata. Come sei stravolta: via quella faccia, creatura mia! A ponte fino le sopracciglia: no!

Lisistrata:

Dentro mi brucia, Calonica: mi avveleno per noi altre donne, gli uomini ci credono delinquenti nate

Calonica:

Hanno ragione, perdio!

Lisistrata:

L'appuntamento era qui, dovevamo decidere un affare importante: loro se la dormono, non viene nessuna.

Calonica:

Verranno, cara: uscire di casa, è un'impresa per le donne. Noi altre, chi deve sbattersi per il marito, chi svegliare lo schiavo, chi mettere a letto il bambino, chi lavarlo, dargli la pappa>>

(Lisistrata, vv. 3/15; trad. Marzullo)

Un attestato di superiorità

<<Prassagora:

Sono fatte meglio di noi, ve lo posso dimostrare. Primo: bagnano la lana nell'acqua calda come gli antichi, nessuna esclusa. [] Loro però sedute in cucina, come una volta. Portano roba sulla testa, come una volta. Fanno le Tesmoforie, come una volta. Infornano torte, come una volta. Consumano i mariti, come una volta. Tengono amanti in casa, come una volta. Si fanno manicaretti di nascosto, come una volta. Gli piace il vino forte, come una volta. [] Amici, affidiamo a loro la Città, senza troppe chiacchiere.>>

(Ecclesiazuse, vv. 879/888; trad. Marzullo)

Screzi

<<1^ vecchia:

Perchè gli uomini non arrivano? E' passato il momento! E io qua impalata, con la faccia incipriata, vestita a festa: senza niente. Canticchio fra me una lagna: faccio la scema per acchiapparne uno, quando passa.

Ragazza:

Ah, ti sei affacciata prima di me, mummia! Credevi di attirare la gente con le canzoni! Se fai così, canto pure io.>>

(Ecclesiazuse, vv. 908/915; trad. Marzullo)

Eubulo (in Ateneo, XIII, 557 f)

Che spettacolo!!!

<<Per Zeus, non sono impiastricciate di biacca nè come voi hanno le guance spalmate di succo di more. E, qualora usciate d'estate, due rivoli d'inchiostro scorrono dai vostri occhi e il sudore grondante dalle guance traccia sulla gola un solco vermiglio, i capelli trascinati sul viso sembrano canuti, sono intrisi di biacca.>>

(Venditrici di corone, fr. 98 K.; trad. Renna)

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Lisia (sec. V/IV a.C.)

La prova del tradimento

<< mi misi a dormire di gusto, come fa chi torna dal lavoro in campagna. Sul far del giorno tornò lei e aprì la porta [le camere delle donne si trovavano su un altro piano]. Siccome le chiedevo come mai durante la notte avevano cigolato le porte, mi rispose che si era spento il lume che stava accanto al bambino, e allora lo aveva fatto riaccendere dai vicini. Io rimasi zitto, pensando che le cose stessero davvero così. Eppure, giudici, avevo avuto l'impressione che avesse il viso truccato, sebbene fosse trascorso meno di un mese dalla morte di suo fratello [il lutto stretto era di trenta giorni].>>

(Per l'uccisione di Eratostene, pr. 14; trad. Medda)

Senofonte (sec. V/IV a.C.)

Meglio al naturale!

<< Allora Iscomaco disse: - Una volta, Socrate, la vidi che si era spalmata con molta crema, per sembrare più bianca di quanto non fosse, e di molto belletto, per sembrare più rosea della realtà, e che indossava scarpe alte per sembrare più alta del naturale. [] 'Credi pure, moglie - Iscomaco riferì di averle detto - che io non preferisco il colore della biacca e della cipria rosa al tuo, ma, come gli dei hanno fatto sì che per i cavalli la cosa più piacevole fossero i cavalli, per i buoi i buoi, e per le pecore, le pecore, così anche gli esseri umani ritengono che la cosa più piacevole sia il corpo umano senza trucco. Questi trucchi potrebbero ingannare in qualche modo gli estranei, ma, per chi sta sempre insieme, è necessario che la cosa venga alla luce, se cercano di ingannarsi a vicenda: o sono scoperti quando si alzano dal letto e prima che si siano truccati, o sono sbugiardati dal sudore, o denunciati dalle lacrime, oppure la verità viene rivelata quando fanno il bagno.>>

(Economico, 10, 2; 7-8; trad. AA.VV.)

Il desiderio di piacere

<<E l'aspetto di una padrona quando lo si paragona con quello di un'ancella, dato che lei è più semplice e decorosamente vestita, risulta molto attraente, soprattutto quando si aggiunge il desiderio di piacere, invece dell'essere costrette ad accontentare l'uomo. Invece quelle che stanno sempre sedute dandosi delle arie si espongono ad essere giudicate artificiose e ingannatrici.>>

(Economico, 10, 12-13; trad. AA.VV.)

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Eschine (sec. IV a.C.)

Una severa punizione voluta da Solone per le adultere

<<Solone, il più illustre dei legislatori, ha trattato, con l'austerità propria dei suoi tempi, dell'onesto comportamento delle donne. E così egli vieta ogni forma di abbellimento esteriore in una donna che sia stata sorpresa in flagrante adulterio, le ordina di astenersi dal partecipare a funzioni pubbliche, a che, frequentando donne oneste, non abbia a corromperne il comportamento.  Se, a discapito di questa difesa, ella continui a prender parte a dette cerimonie o si ostini ad agghirlandarsi, egli ordina al primo in cui si imbatterà di strapparle i vestiti, di far scomparire ogni traccia di abbellimento e di darle dei 'ceffoni', evitando, tuttavia, di causarne la morte o di 'stroppiarla'. Quel legislatore in tal modo colpisce con una pena vergognosa questo tipo di donne e prepara loro un modo di vivere per nulla sopportabile.>>

(Contro Timarco, pr. 183; trad. Martin)

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Plauto (metà sec. III a.C./fine sec. II a.C.)

Ipocrisie o confidenze?

<<Baciucchiella:

Dammi subito lo specchio e la cassetta coi monili, Barcaccia; voglio acconciarmi per quando arriverà Fiordamore, l'amore mio.

Barcaccia:

Lo specchio serve alla donna che non si fida di sè e della sua età: ma che bisogno hai di specchio tu, che sei lo specchio più bello per lo specchio? []

Baciucchiella:

I capelli - guarda! - stanno bene a posto?

Barcaccia:

Se sei a posto tu, puoi star sicura che lo sono anche i capelli. []

Baciucchiella:

Dammi il belletto.

Barcaccia:

E che ne hai bisogno?

Baciucchiella:

Ma mi debbo spalmare le guance.

Barcaccia:

E che vorresti imbiancare l'avorio con l'inchiostro? []

Baciucchiella:

Ma su, ora dammi il rossetto.

Barcaccia:

Non te lo do, sei già bella abbastanza. Vuoi impiastricciare quel capolavoro di faccia ridipingendolo? La tua non è l'età da ricorrere alle tinture e alle creme, alla cipria e a qualsiasi altro impiastro.

Baciucchiella:

Ora reggimi lo specchio. []

Baciucchiella:

E non credi che debba passarmi sopra un pò di pomata?

Barcaccia:

Ma neanche per idea!

Baciucchiella:

E perchè?

Barcaccia:

Perchè la donna odora bene quando non ha odore addosso. Non vedi le vecchiacce, che si ungono e credono di rimettersi a nuovo, slabbrate e sdentate come sono, che le magagne credono di ricoprirsele col belletto, quando l'unguento e il sudore hanno fatto tutta una poltiglia allora fanno lo stesso odore di quando il cuoco fa un ragù alla cacciatora! Non riesci a capire di che cavolo odorino, sai solo che è una puzza.

(Mostellaria, vv. 248/279 scelti; trad. Paratore)

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Properzio (sec. I a.C.)

Amore non ama artifici

<<A che giova, vita mia, recare adorne le chiome

e muovere le pieghe sottili di una veste coa?

Perchè ti cospargi i crini di mirra orontea

e ti vendi per doni forestieri

e sprechi la grazia naturale con ornamenti comprati,

non consentendo alle tue membra di splendere dei pregi propri?

Prestami ascolto, non c'è bisogno di alcun abbellimento per la tua figura:

Amore nudo non ama artifici esteriori.>>

(I, 2; 1-8; trad. Sbordone)

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Ovidio (metà sec. I a.C./inizio sec. I d.C.)

I cosmetici per il viso: ricette

<<Priva della pellicola e delle reste l'orzo

che i coloni di Libia su navi ci hanno inviato.

Un'uguale quantità di lenticchie sia amalgamata con dieci uova,

ma l'orzo mondato raggiunga il peso di due libbre [gr. 657,36].

Quando questa poltiglia esposta ai soffi del vento si sarà essiccata

falla macinare con la ruvida mola da un'asina lenta.

E quelle prime corna che cadranno ad un cervo longevo

tritura assieme ad essa (mettine la sesta parte di una libbra [cioè gr. 54,78]),

e quando poi tutti gli ingredienti si saranno mescolati

alla polvere farinosa

subito vaglia il tutto con un setaccio molto fitto.

Aggiungi dodici bulbi di narciso senza tunica

che la mano decisa dovrà pestare sul liscio marmo

e, poi, pesta insieme un sestante [gr. 54,78] di questa sostanza

gommosa col seme etrusco [la spelta];

a questo punto si aggiunga nove volte tanto di miele.

Ogni donna che tratterà il volto con tale cosmetico

risplenderà più liscia dello specchio suo.

E tu non esitare, poi, a torrefare i giallastri lupini

e contemporaneamente tosta i semi di guado selvatico.

I due componenti, con ugual dosaggio, pesino sei libbre [kg. 1,972]

e fà macinare entrambi da mola di pietra scura.

Non ti manchi la biacca nè la spuma del salnitro rosso

nè il giaggiolo che viene dalla terra d'Illiria.

Fà impastare il tutto da braccia vigorose di giovani,

ma il peso giusto di questa poltiglia dovrà essere un'oncia [gr. 27,39].

Dovrai aggiungere poi la sostanza medica che si prende dal nido dei

queruli uccelli [i gabbiani]:

toglie le macchie dal viso: la chiamano alcionèa.

Se mi chiedi quale peso ritenga giusto per essa,

bene: quella di un'oncia divisa in due parti [gr. 13,69].

Perchè tutta la sostanza si rapprenda e possa essere facilmente

spalmata sulla pelle

aggiungi miele dell'Attica tratto da favi biondi.>>

(Medicamina faciei, vv. 51-82; trad. Galli)

Le malizie per conquistare un uomo

<<Già compilai per voi, donne, un libretto [il 'Medicamina faciei']

ricco d'ogni consiglio alla bellezza;

è un piccolo libretto, ma prezioso.

Rivolgetevi a lui che vi ristori

dallo sfacelo delle vostre forme:

sempre per voi è pronta l'arte mia.

Ma che l'amante non vi colga mai

con i vasetti delle vostre creme!

L'arte che vi fa belle sia segreta.

Chi non vi schiferebbe nel vedervi

la feccia [del vino] sparsa sopra tutto il viso,

quando vi scorre e sgocciola pesante?

E che fetore

l'esipo [sudiciume attaccato alla lana di pecora non lavata, usato anche contro il mal di testa e l'epilessia] emana, sozza spremitura

del vello immondo d'un caprone, fetida

anche se vien da Atene. E non vi approvo

quando applicate in pubblico misture

di midollo di cerva, o vi sfregate

davanti a tutti i denti. Queste cure

fan belle, ma son brutte a vedersi.>>

(Ars amatoria, III, vv. 205-217; trad. Barelli)

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Marziale (sec. I d.C.)

Un severo consiglio a Massimina

<<Ridi, fanciulla, se sei saggia, ridi>>

disse - credo - il poeta di Sulmona [Ovidio]

ma non lo disse a tutte le fanciulle.

Poniamo pure ch'egli l'abbia detto

a tutte le fanciulle,

non lo disse per te:

tu non sei più fanciulla, o Massimina,

e non hai che tre denti,

che ci mostrano il nero della pece

o quel del bosso.

Ora, se credi a me ed allo specchio,

il riso devi tu temere []

quanto Fabulla imbellettata

teme i rovesci della pioggia,

quanto Sabella, bianca di cerussa,

teme i raggi del sole. []

(Epigr., II, 41; trad. Carbonetto)

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Petronio (sec. I d.C.)

Una bellezza perfetta

<<Qualunque cosa io dicessi, sarebbe troppo poco col confronto. I capelli, rialzati sulla fronte piccola e pura, le scendevan per le spalle, naturalmente ondulati; i sopraccigli, quasi congiunti sugli occhi, le si piegavano in arco fin sulla linea del volto; le pupille brillavan più chiare di stelle in notte senza la luna; il naso era un pochino ricurvo, e la bocca adorabile, come Prassitele immaginò che l'avesse Diana. Il mento, il collo, la mano, il candore del piede che traspariva fra i sottili legaccioli d'oro, oscuravano il marmo di Paro. Allora, per la prima volta, ebbi a disprezzar Dori, che pur amavo da un pezzo.>>

(Satyricon, 126; trad. Cesareo/Terzaghi)

Plutarco (sec. I/II d.C.)

Un espediente

<<La cosa più incredibile di tutto fu che riuscì a nascondere la gravidanza, pur facendo il bagno con le sue compagne. Infatti, il prodotto con cui le donne si spalmano i capelli e li rendono dorati o rossi contiene un unguento che rilassa le carni e fa ingrassare, così da produrre una sorta di dilatazione e gonfiore; Empona usò questo unguento con abbondanza su tutte le altre parti del corpo e nascose la grossezza del ventre.>>

(Sull'amore, 25; trad. Gigliozzi)

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Luciano (sec. II d.C.)

Una laboriosa preparazione

<<esse [sono fornite] di bacinelle d'argento, brocche, specchi e, come in una farmacia, di una moltitudine di boccette, e vasetti pieni zeppi di porcheria, nei quali sono tenute pronte sostanze capaci di ripulire i denti o studiate per annerire le palpebre. Il più del tempo è consumato dalla pettinatura dei capelli: alcune, mediante preparati capaci di fare che le loro trecce mandino al sole di mezzogiorno riflessi rosseggianti, le tingono, come colorassero delle lane, con fiori fulvi, condannando la propria natura; quante invece si accontentano della chioma nera consumano in questa la ricchezza dei mariti esalando dai loro capelli i profumi, si può dire, di tutta l'Arabia, ne avvolgono a forza in riccioli su strumenti di ferro scaldati a fiamma lenta la naturale crespatura, e la capigliatura, quand'è minuziosamente curata e fatta scendere fino ai sopraccigli, lascia in mezzo poco spazio alla fronte, mentre i ricci posteriori ondeggiano pomposamente fin sul dorso. Dopo di ciò ci sono i calzari a più colori, che stringono i piedi entrando nella carne e la veste dal tessuto velato, che è veste in apparenza, perchè sembrino non essere nude. [] Quando poi l'intero corpo è stato stregato dalla bellezza ingannevole di una falsa avvenenza, arrossano le guance svergognate con belletti che vi spalmano sopra, affinchè il colore purpureo tinga la loro pelle bianchissima e grassa. Ebbene, qual è la loro vita dopo tanta preparazione?

(Amor., 39-41; trad. AA.VV.)

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Giovenale (sec. II d.C.)

Si truccano i pervertiti

<<A poco a poco ti accoglieranno tra loro quelli che in casa portan nastri attorno alla fronte, gran collane al collo e placano la dea Bona [dea della castità]  con pancetta di tenero porco e grandi crateri di vino. Ma con rito perverso, ogni donna è respinta lontano, non può entrare: soltanto ai maschi s'apre l'altare della dea. - Via di qui, o profane! - si grida, - nessuna flautista può far gemere qui il suo flauto!

Orge come queste le celebravano un tempo i Bapti [seguaci del culto orgiastico della dea Cotitto], al lume segreto d'una torcia, capaci di disgustare persino la cecropia Cotitto. Eccone uno che con ago ricurvo s'allunga le sopracciglia tingendole con fuliggine inumidita e battendo le palpebre si dipinge gli occhi levati al cielo. E un altro che beve da un priapo di vetro, con le chiome rigonfie sotto una reticella d'oro, vestito d'azzurri quadretti o di raso giallino: solo in nome di Giunone giura il suo servo. E quell'altro ancora che tiene in mano uno specchio, []>>

(Satire, II, 83-99; trad. Barelli)

Svetonio (sec. I/II d.C.)

ma anche gli imperatori!

<<[Ottone] aveva delle civetterie quasi femminili giacchè si faceva depilare e, avendo i capelli radi, portava una parrucca così ben fatta e perfettamente sistemata che nessuno se ne accorgeva; inoltre si radeva tutti i giorni e poi si applicava sul viso la mollica di pane bagnata, abitudine che aveva preso fin da quando gli era spuntata la prima barba, allo scopo di non averne mai.>>

(Ottone, 12; trad. Noseda)

Tertulliano (sec. I/II d.C.)

Cambiano i tempi!

<<Puoi vedere - cosa che Cecina Severo [Tacito, in Ann. II 33, ne segnala la severità con il 'sesso debole'] bollò severamente davanti al senato - matrone che se ne vanno in pubblico senza stola. Ma basti dire che per decreto dell'àugure Lentulo colei che così si spogliava della sua dignità veniva punita come per adulterio, poichè alcune avevano a bella posta smesso di indossare, come impedimento all'esercizio della seduzione, proprio quelle vesti che sono indizio e difesa della dignità. Ma ora facendo da ruffiane a se stesse, per essere avvicinate più agevolmente, hanno rinunziato alla stola e alla camicia, alla benda e alla cuffia, e perfino alle stesse lettighe e alle portantine, dalle quali anche in pubblico erano protette come nel segreto della casa. Ma uno spegne i propri lumi, un altro accende quelli che non sono suoi. Guarda le bagasce, merce di pubblici mestieri, e le stesse tribadi, e se preferisci distogliere gli occhi da tali esseri vergognosi che han fatto scempio in pubblico della castità, guarda almeno di traverso, e a questo punto vedrai le matrone.>>

(De pallio, IV, 9; trad. Costanza)

Vergognatevi!

<<Vi piantate sulla testa non so qual macchina di capelli, ora costruita a modo di parrucca, in cui la testa rimane imprigionata, come in un fodero o in un coperchio, ora ridotta tutta indietro a pesare sul vostro collo. [] Via da una fronte libera l'umiliante servitù di siffatte acconciature! Invano vi affaticate di mostrarvi adorne, invano mettete in opera tanti industriosi parrucchieri: Dio prescrive che voi siate velate, perchè vuole, io credo, che la testa di alcune di voi non sia veduta da nessuno. Ed oh! se avverrà che, nel giorno del trionfo dei Cristiani, io, miserabile, alzi, anche sotto i vostri piedi, la fronte, vedrò allora se voi risorgerete con tutta la biacca e il rossetto e lo zafferano, e con tutta codesta ambiziosa acconciatura del capo; vedrò allora se così dipinte gli angeli vi solleveranno sulle nubi, nell'aria, per muovere incontro a Cristo!>>

(De cultu femin.,VII; trad. Moricca)

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Girolamo (metà sec. IV/inizio sec. V)

Consigli

<<Anche l'abbigliamento e l'abito le indichino a chi è stata promessa. Non ti permettere di forarle le orecchie, di imbellettare di biacca e rossetto un volto consacrato a Cristo, di appesantirle il collo con perle ed oro, di gravarle il capo con gemme, di tingerle i capelli di rosso dandole così un anticipo del fuoco della geenna. []  Pretestata, donna di famiglia nobilissima, per ordine di suo marito Imezio, zio della vergine Eustochio, cambiò l'abbigliamento e la veste di essa, e le acconciò, disponendoli ad onde, i capelli trascurati, con l'aspirazione di vincere il proponimento della vergine e il desiderio della madre. Ed ecco che la notte stessa vede in sogno un angelo dall'aspetto terribile che le si fa incontro e la minaccia di castighi: 'Tu hai osato anteporre a Cristo l'ordine di tuo marito? Tu hai osato toccare con mani sacrileghe il capo di una vergine di Dio? Queste mani già ora ti diverranno secche, perchè, con tale tormento, ti renda conto di cosa hai fatto e tra cinque mesi sarai condotta all'inferno. Se poi persevererai nel misfatto, sarai privata, al tempo stesso, del marito e dei figli.' Tutto si adempì nell'ordine ed una morte rapida suggellò il pentimento tardivo della sventurata. Così Cristo si vendica di chi viola il suo tempio, così difende le sue gemme ed i suoi gioielli più preziosi.

(Epist. 107, Ad Laetam, 5; trad. Palla)

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APPENDICE

Dalle iscrizioni funerarie alcuni esempi di fedeltà e di tradimenti, di vita 'vissuta' nell'agiatezza e nella povertà.

Avignone, Francia

AGLI DEI MANI

A CUPIZIA FIORENTINA SPOSA PIA E CASTA GENNARO PRIMITIVO

Il marito dedica questo sepolcro come ha potuto, da povero

(CIL XII 1036)

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QUI E' DEPOSTO GIUNIO FAUSTO UN POVERO PICCINO DI DUE ANNI

Alla madre mia empia e scellerata gli Dei Superi e Inferi facciano scontare il fio per avermi

(CIL XII 1036)

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Roma

Fui la sua prima moglie e, finchè vissi, piacqui al marito e gli fui cara.

Tra le sue braccia resi l'ultimo respiro, fu lui piangendo a chiudermi gli occhi morenti.

E' un elogio sufficiente, per una donna, dopo la morte.

(CIL VI 6593)

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Haidra, Tunisia

La vita è bene, la vita è male? La morte non è nè l'una nè l'altra cosa.

Rifletti, se hai giudizio, quale delle due ti convenga di più.

Ma, poichè esistono i Mani, ti sia lieve la terra.

TITTIA LUCILLA VISSE 14 ANNI E 5 MESI. DEL QUALE TEMPO 18 MESI, FINO AL GIORNO DELLA SUA MORTE, CON IL MARITO. ALLA SPOSA INNOCENTE E PIA FABIO ESUPERANZIO POSE.

(CIL VIII 11665)

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Ain Kebira, Mauretania

SACRO AGLI DEI MANI

DI RUSTICEIA MATRONA. VISSE 25 ANNI.

Causa della mia morte fu il parto e l'empio fato. Ma tu cessa di piangere, mio diletto compagno, e custodisci l'amore per il figlio nostro. Poichè il mio spirito è ormai tra gli astri del cielo.

ALLA MOGLIE MERITEVOLE POSE.

(CIL VIII 20288)

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Salona, Spalato

SELIA CHIA LIBERTA DI MARCO.

Qui son io, Chia; per volere del fato, la mia bellezza è dissolta in cenere. L'ìnvida morte tutti eguaglia

(CLE 1949)

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Pisa

AGLI DEI MANI

di Scribonia Hedone, con la quale vissi diciotto anni senza mai un litigio, per desiderio della quale giurai che dopo di lei non avrei preso un'altra moglie.

(ILS 8461)

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Roma

Ti chiamavi Tortora e tale fosti veramente, fino alla morte il marito non ebbe altro amore.

(Diehl 2142)

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Vercelli

A Filomeno ed Eutichia, che andarono insieme sani a dormire e furono trovati esanimi l'uno nelle braccia dell'altro.

(ILS 8476, trad. Mazzolani)

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