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LA PESTE NERA
La "Peste nera" è un' epidemia di peste bubbonica che, originatasi nelle steppe dell'Asia centrale e di qui propagatasi in Cina e in India, dilagò in Europa a partire dal 1347 con effetti devastanti. La "peste nera ", o "peste bubbonica" è provocata dal morso della pulce del topo, pulce portatrice del bacillo pasteurella pestis. I sintomi erano febbre, vomito, fortissimo mal di testa, sfinimento e allucinazioni;nel secondo o terzo giorno della malattia compariva un rigonfiamento, un bubbone, in genere uno solo, nerastro, nella zona inguinale o sulle gambe, e dopo pochi giorni ancora sopravveniva la morte per emorragia interna. Il flagello arrivò dall'Oriente, pare che i Tartari, assediando nel 1345 la città di Caffa, grande emporio commerciale genovese sul Mar Nero, lanciassero dentro la cinta i corpi di alcuni appestati (l'epidemia dilagava infatti nelle loro file). Da Caffa, le navi genovesi, con a bordo alcuni contagiati o semplicemente topi imbarcati nelle stive col grano destinato all'Occidente, avrebbero poi portato la peste prima a Costantinopoli e poi nel bacino del Mediterraneo.
Secondo le fonti del tempo, da Costantinopoli l'epidemia dilagò piuttosto velocemente.La Sicilia fu contagiata per prima, come testimonia il cronista Michele da Piazza, con l'arrivo di alcune galee genovesi nell'ottobre del 1347 a Messina. Poi la pestilenza passò a Tunisi e in Africa settentrionale, nelle Baleari, in Sardegna e in Corsica, sulla costa catalana e Andalusa, e intanto risaliva lungo il litorale tirrenico spopolando Amalfi, Napoli, Pisa, Genova:in quest'ultima città sarebbe giunta nel gennaio 1348. Più tardi furono colpite Venezia e la Toscana, l' Umbria, la Romagna. Roma ne soffrì meno e Milano restò immune, forse perché isolata a causa di una guerra locale. In Francia la peste raggiunse innanzitutto Marsiglia, nel gennaio 1348, poi Lione, Parigi e le atlantiche, colpendo le Fiandre nel 1349. Intanto attraverso i passi alpini, il male era passato dall'Italia all'Austria, all'Ungheria, alla Polonia, alla Germania, alla Svizzera; sempre nel 1349, già imperversava anche in Inghilterra e di lì passò nella penisola scandinava dove imperversò per oltre tre anni.Alla fine del 1350 l'intera Europa, salvo ristrette aree, era colpita.
La violenza dell'epidemia lasciò sgomenti i testimoni dell'epoca: mai, prima o dopo d'allora, una calamità fece tante vittime umane, spesso cancellando in determinati luoghi intere popolazioni. Dello stupore angosciato dei superstiti resta testimonianza in molti scritti, a cominciare dal Decameron di Giovanni Boccaccio, dove si riporta che Firenze era tutta un sepolcro. Lo stesso Boccaccio scrive " Non solamente il parlare e l'usare con gl'infermi dava a' sani infermità e cagione di comune morte, ma ancora il toccar panni e qualunque altra cosa da quegli altri infermi stata tocca o adoperata."La gente infatti, pur ignorando quale fosse il veicolo della peste, capiva che essa si trasmetteva per contatto tra malati e sani.
Molti, come Francesco Petrarca, fuggirono questi orrori rifugiandosi in luoghi isolati e salubri. Le stime di mortalità del 90%, comuni allora, sono state tuttavia ridimensionate dalla ricerca moderna, e attribuite alla carenza di indagini affidabili; si è potuto in ogni caso verificare che nelle zone più colpite perì oltre il 50% della popolazione. Dopo la tragica estate del 1348 la popolazione fiorentina presumibilmente si ridusse da 90.000 a meno di 45.000 abitanti, mentre a Siena su 42.000 cittadini ne sopravvissero non più di 15.000. E ancora: Venezia, che nel 1348 aveva una popolazione di circa 120.000 persone era scesa a poco più di 50.000 dopo la peste, solo nel 1509 riuscì di nuovo a raggiungere e superare i 1000.000 abitanti. La popolazione europea, all'indomani della peste, secondo una stima degna di nota, sarebbe stata di 51-52 milioni di abitanti, con una diminuzione del 30-40% rispetto all'inizio del secolo.
La gente dell'epoca era impreparata ad affrontare la malattia; poiché si ignoravano le cause scientifiche del contagio, si speculava molto sulle origini dell'epidemia, individuate da alcuni in un inquinamento atmosferico agente attraverso un invisibile quanto letale miasma proveniente dal sottosuolo, liberato da terremoti di cui si aveva avuto notizia. Le scarse cognizioni igieniche - la presenza di fogne e immondezzai a cielo aperto era normale nelle città europee del Trecento - favorivano la diffusione del contagio, soprattutto nelle aree urbane, dove i governi adottarono sistemi per far fronte alla malattia, pur ignorando le cause reali. Oltre a incoraggiare l'adozione di misure d'igiene personale particolarmente accurate, posero restrizioni ai movimenti di persone e merci, prescrivendo poi l'isolamento dei malati o il loro trasferimento nei lazzaretti, l'immediato seppellimento delle vittime in fosse comuni appositamente predisposte fuori dalle mura, e la distruzione con il fuoco dei loro indumenti. Poiché si pensava che l'aria infetta fosse contagiosa, si diffusero rimedi empirici come bruciare erbe aromatiche o portare con sé mazzolini di fiori profumati (similmente nel corso di epidemie successive si credette che il fumo del tabacco fosse un rimedio efficace); In Inghilterra s'incidevano i bubboni al loro primo manifestarsi. Il grande Tommaso del Garbo raccomandava disinfettanti (soprattutto " aceto fortissimo"), invitando a non avvicinarsi alla bocca dei malati e a non toccare le loro vesti. I governi sbarravano l'ingresso nelle città, chiudendo ritrovi pubblici, ordinando l'isolamento dei malati. Anche se la città medioevale era l'ideale per l'espandersi del contagio, in campagna era peggio, perché (a parte l'opera di parecchi monasteri) mancava la possibilità di ricevere cibo da governi e conventi in tempo di carestia, di essere assistiti da confraternite religiose o ricoverati in lazzaretti. Naturalmente i più vulnerabili erano i denutriti, ovvero i poveri, e i più fragili: bambini e vecchi. E' probabile poi che morissero più donne, essendo più dedite alla cura dei malati e dei defunti; e poi i medici, i preti e i notai, costretti più di altri a frequentare malati e moribondi.
LE CONOSCENZE MEDICHE DEL TEMPO
Nel medioevo ci si affidava ancora alle dottrine del medico greco Galeno. Nel medioevo si pensava che il corpo umano fosse composto di quattro umori: il sangue, la collera, la flegma e la malinconia, a ciascuno di essi corrispondeva rispettivamente l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra. L'uomo era ritenuto ammalato quando la buona miscela che è alla base fisiologica dello stato di salute, era sovrabbondante o scarsa. Secondo i medici medioevali una particolare attenzione andava prestata all'eccesso di sangue, responsabile di svariate affezioni patologiche, che venivano curate con il salasso. I maggiori progressi delle discipline mediche nell'Europa medievale furono rappresentati dalla regolazione del tirocinio e dell'organizzazione dei medici, dallo sviluppo dei concetti di contagio e dalla politica di igiene pubblica, dall'istituzione dei centri che si occupavano se non della cura almeno dell'assistenza ai malati senza speranza, dei vecchi e dei trovatelli. La dieta era ritenuta della massima importanza per il trattamento delle infermità, e le prescrizioni dovevano essere precise fin nei minimi dettagli, per soddisfare ogni genere di necessità. Bisogna dire inoltre che nel tardo medioevo si cominciò, con frequenza sempre maggiore, a pensa re che le malattie fossero causate dalla possessione diabolica. Nel medioevo la chirurgia era fondamentalmente basata sulle tradizioni greco- bizantine, era in generale limitata a ferite, fratture, lussazioni, amputazioni, apertura degli ascessi, condizione che non era facile ignorare, almeno non a lungo. Le procedure erano semplici e dirette e si riducevano a due: l'asportazione o l'interruzione. Non era tanto importante per quale motivo vi fosse un eccesso di una determinata qualità in una determinata parte del corpo, quel che contava era ristabilire l'equilibrio. Se una preghiera o un purgante non riuscivano nell'intento, era meglio non fare ricorso a metodi più impegnativi. Ma se i metodi più semplici fallivano, era necessario passare a procedure più drastiche. Tra queste, la più popolare era il salasso.
LA RELIGIONE
Nel medioevo la vita era considerata dono da parte di Dio e per ogni azione e bene bisognava rendere grazia a Dio. Quando nella vita si verificavano cataclismi o comunque avvenimenti negativi, venivano definiti come punizioni divine. Tutto ciò che avveniva sulla terra rappresentava il volere di Dio e l'uomo doveva limitarsi a sapere e praticare solo ciò che egli diceva. In tutta Europa la Chiesa e i moralisti in genere, erano convinti che la peste nera fosse una punizione divina per i peccati compiuti dall'umanità, e per questo predicavano la rinascita morale della società, condannando gli eccessi nel mangiare e nel bere, i comportamenti sessuali immorali, l'eccessivo lusso nell'abbigliamento; in questo contesto non meraviglia la popolarità acquisita dal movimento della Congregazione dei flagellanti. Si sviluppò tuttavia anche una corrente di pensiero opposta, propria di quanti ritenevano che se la malattia colpiva indiscriminatamente buoni e cattivi, tanto valeva vivere nel modo più intenso e sfrenato possibile.
Nel 1348 in tutta Europa si diffuse il movimento dei flagellanti, lunghe processioni di uomini in attesa della fine del mondo percorrevano le città, percuotendosi il corpo con le fruste e flagelli. Volevano sfuggire alla dannazione eterna con la penitenza e la sofferenza fisica. I partecipanti impegnavano per trentatre giorni (lo stesso numero degli anni di quando cristo fu messo alla croce) a durissime penitenze: coperti con un cappuccio e con la croce sulle spalle si percuotevano a vicenda cantando salmi e inni religiosi. I loro eccessi indussero Clemente Vi a condannarli (1349), ordinandone l'incarcerazione. L'anno seguente si sparse la voce che gli ebrei avvelenavano i pozzi per odio contro i cristiani e per impadronirsi delle ricchezze dei morti. Si scatenò così la caccia all'ebreo da parte di folle inferocite, con uccisioni, incendi, saccheggi.
Nel 1349 fra la festa della purificazione e la quaresima, gli ebrei furono
messi a morte in tutte le città, castelli e villaggi di Turingia. Lo stesso
anno, il giorno di San Benedetto (21 marzo), gli abitanti di Erfurt uccisero
cento e più ebrei. Altri ebrei, oltre tre mila, capendo di non poter sfuggire
ai cristiani si uccisero bruciando le proprie case, nel giro di tre giorni
furono caricati su dei carri e condotti al loro cimitero. Furono inoltre
accusati di compiere sacrifici rituali e di sconsacrare l'eucarestia. Inoltre
con la nascita delle banche il ruolo degli ebrei perse importanza e furono
cacciati nel 1390 dalla Francia e dall'Inghilterra e negli stati tedeschi la
vita delle comunità ebree era incera e difficile. Accuse simili a quelle degli
ebrei vennero rivolte anche ai lebbrosi, che furono spesso massacrati bruciati
sul rogo. L'aggressività delle masse popolari, terrorizzate dalla peste, si
rivolse verso chiunque fosse "diverso" dalla gente comune, sospettato, di
essere la causa del male. Per quanti cercavano spiegazioni facili alla
propagazione della malattia, colpevoli erano gli emarginati della società:
"untori" oltre agli ebrei,erano considerati in alcune zone vagabondi e
mendicanti che furono accusati di contaminare la popolazione residente, fatti
così oggetto della furia popolare.
Sui flagellanti nell'epoca delle pesti, è un brano di un Anonimo del secolo XIV, tratto da "Annales Sanctae Justinae":
".Negli anni precedenti, mentre tutta l'Italia era contaminata da molti delitti e nefandezze, una improvvisa forma di devozione, sconosciuta al mondo,invase prima Perugina, poi Roma, e poi quasi tutta l'Italia. Era così intensamente avvertito il timor di Dio che nobili e plebei, vecchi e giovani, bambini anche di soli cinque anni, se ne andavano in processione a due a due,nudi, per le strade della città; ciascuno aveva in mano un flagello di cuoio e tra gemiti e lamenti si flagellavano accanitamente sulle spalle a sangue e, versando abbondanti lacrime, come se vedessero con i loro occhi la passione del Salvatore, imploravano con un canto lamentoso la misericordia del Signore e l'aiuto della Madre di dio; supplicavano e pregavano affinché colui che fu placato dagli abitanti di Ninive in penitenza, si degnasse di perdonare anche loro che riconoscevano le proprie iniquità. Non solo di giorno ma anche la notte, con i ceri accesi, nel rigore dell'inverno, a cento, a mille, a centomila, andavano intorno per le città e le chiese, si prosternavano umilmente davanti agli altari, preceduti dai sacerdoti con croci e vessilli. Lo stesso facevano nei paesi e nei castelli, cosicché sia le campagne che i monti risuonavano delle voci di coloro che invocavano il Signore."
LA PESTE NELLA BIBBIA
La peste da sempre ha fatto irruzione nella vita degli uomini, portando loro dolore e morte. E' difficile accettare un dolore troppo grande; più facile se gli si attribuisce un senso. Questo è il perno di ogni lettura sacra. Nella BIBBIA la peste non viene per nulla, ma per insegnare; infatti viene interpretata come risultato di una colpa, vendetta o monito superiore. La sua comparsa non può essere imprevista, nè casuale: è annunciata con solennità dalla voce stessa di DIO, espressione diretta della sua volontà. Al contrario di altri testi, la BIBBIA è completamente indifferente alla narrazione vera e propria della malattia. Pone, invece, grande attenzione alle cause di cui essa è proseguimento ed effetto naturale. I testi della Bibbia in cui si parla di peste sono: l' Esodo, il Duteronomio e i Paralipomeni nell' Antico Testamento, l'Apocalisse nel Nuovo Testamento.
ESODO: Mosè, eletto messaggero della volontà divina, porta al Faraone l' annuncio dei dieci flagelli che si abbatteranno sull' Egitto se gli Ebrei non saranno lasciati liberi. La peste degli animali è la quinta delle piaghe minacciate e poi messe in atto da Dio: tutti gli animali degli Egiziani muoiono, ma con 'mirabile distinzione' neanche uno viene sfiorato dalla malattia fra quelli dei figli di Israele.
DEUTERONOMIO: Nel Deuteronomio Mosè fa quattro discorsi in cui tra le altre cose, dice al popolo ebraico ancora in viaggio verso la terra promessa: 'se non vorrai ascoltare la voce del Signore Dio tuo, e non ti curerai di mettere in pratica tutti i Suoi comandamenti sarai maledetto e il Signore ti aggiunga la peste, finché essa non t' abbia sterminato dalla terra nella quale entrerai per possederla'. Bisogna però ricordare che la peste appare qui come un male fra gli altri, forse neanche il più grave, e che, come accade sempre nella Bibbia, non è mai descritta in modo puntuale dal punto di vista medico e storico
PARALIPOMENI: Quando re David ordina di censire le tribù d'Israele per conoscere il numero dei suoi guerrieri, mostra di non fidare più nella protezione soprannaturale del Dio degli eserciti. Dio punisce allora il popolo ebraico, retto da David, con una pestilenza che, secondo quanto narrato nei 'Paralipomeni', che fanno parte della sezione 'storica' della Bibbia, farà morire settantamila uomini.
APOCALISSE: Nella prima parte della visione apocalittica di S.Giovanni, che costituisce l' ultimo libro del Nuovo Testamento, vengono descritti i flagelli che si abbatteranno sulla terra e sul cielo, annunciando la fine dei tempi. Anche in questo caso, come sempre nella Bibbia, la peste non ha significato né rilievo particolare: è solo uno fra i diversi castighi divini. 'E quando aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto animale dire: <<Vieni>>.Guardai, ed ecco un cavallo scialbo, e chi vi stava sopra si chiama Morte, e l'accompagna l'Inferno. E fu dato loro il potere sopra un quarto della terra, e di uccidere ,con la spada, la fame e la peste, le belve della terra.'
TEORIE E SUPERSTIZIONI
L'opale
pietra maledetta:
Gli uomini medioevali credevano anche che a portare la peste fossero gli opali.
Nel '300 si diffuse l'idea che questa pietra era maledetta. L'opale era tra le
gemme preferite dei gioiellieri italiani. A Venezia, dove l'Epidemia scoppiò
con particolare virulenza, fu osservato che queste pietre si illuminavano in
modo inusitato quando chi le portava contraeva il morbo, ma sembravano
scolorirsi al sopraggiungere della morte. Da quel momento gli opali furono
associati all'idea di morte. A quei tempi ovviamente si ignorava che le mutevoli
sfumature della pietra erano dovute a variazioni della temperatura corporea.
La peste di Eyam:
Nel settembre del 1665, George Viccars, un sarto aprì un pacco di stoffa umida
e la mise ad asciugare vicino al fuoco. Senza saperlo scatenò una nuova
epidemia, il pacco proveniva infatti da Londra dove la peste bubbonica
infieriva da mesi. Pidocchi e pulci erano compagni abituali ancora nel XVII
sec. E lo sventurato sarto non fece caso ai morsi che ricevette. Fu colpito
dalla peste, nel giro di una settimana era morto. La peste era scoppiata nel
villaggio di Eyam. Le cure mediche a quei tempi erano approssimative, contrarre
la peste significava morte certa; molti abitanti si prepararono ad abbandonare
la città, ma i due pastori anglicani del paese decisero di impedire l'esodo.
Parlando congiuntamente persuasero i concittadini a restare in paese. Eressero
un muretto di pietre per impedire l'accesso di straniero. Le provviste di cibo
e gli indumenti che giungevano dai vicini paesi erano deposti presso le pietre
di confine. L'orrore si intensificò col passare dei mesi, ormai non si
celebravano più i riti funebri e, esauriti i posti nel cimitero, i cittadini
venivano seppelliti nei giardini. Le preghiere degli sfortunati abitanti furono
esaudite nel 1666 quando non si registravano nuovi casi di peste. Erano
sopravvissuti solo i due pastori e 88 persone delle 350. Il volontario
isolamento della cittadina fu un atto di eroismo salvando molte altre vite
dalla morte certa.
Il pifferaio di Hameln:
Al fenomeno della peste è da collegarsi anche la leggenda del pifferaio di
Hameln. La leggenda infatti narra della venuta del pifferaio negli anni
precedenti la pestilenza: versioni posteriori però tendono a datare il fatto
nel periodo della pestilenza del 1345 in cui la figura del pifferaio era
chiamata a liberare la città dai topi che avevano portato il morbo. E' quindi
probabile che la nota leggenda del pifferaio giunta a noi sia quella posteriore
con la peste come sfondo.
È probabile che appena prima dello scoppio dell'epidemia, la popolazione europea in epoca medievale avesse raggiunto il picco più elevato di livello demografico; gli effetti della peste dovettero dunque essere immediatamente evidenti: l'eccedenza di forza lavoro agricola si azzerò, alcuni villaggi si spopolarono e gradualmente sparirono, molte città persero di importanza, mentre crebbe il numero dei terreni rimasti incolti. Anche le razzie di soldatesche sbandate o di ventura favorirono una vasta ondata migratoria dalle campagne verso le città. Se a Firenze, passata l'epidemia, la popolazione era stimata fra i 25.000 e i 30.000 abitanti, già nel 1351 era salita a 45.000 unità per toccare le 70.000 trent'anni dopo. Nelle decadi che seguirono i salari aumentarono e le rendite dei proprietari terrieri scesero, segno della difficoltà di trovare manodopera e tenutari. Si può dire in un certo senso che i vivi beneficiarono della moltitudine di morti sofferta.
Come conseguenza della peste vi fu un notevole calo demografico. Dopo
tre anni di malattia i dati disponibili suggerisco no una cifra dell'ordine dei
cinquanta milioni che non ebbe riprese fino alle soglie del '400.
Più terre e più salario: la morte nera ebbe importanti conseguenze sul piano
economico e sociale. Può sembrare strano, ma non tutte furono negative per i
sopravissuti. In primo luogo il gran numero di morti servì a riequilibrare il
rapporto tra le risorse e la popolazione, e ciò permise col tempo una graduale,
anche se lentissima, ripresa demografica. Inoltre i contadini egli operai
salariati in molti casi migliorarono la loro esistenza: i primi poterono
disporre di terre migliori da coltivare e furono spesso meno sfruttati dai loro
signori, che temevano di perderli; i secondi riuscirono, per la scarsità di
manodopera, ad ottenere salari più alti e vissero meglio, perché il prezzo dei
prodotti alimentari verso la fine del secolo si abbassò notevolmente.
Diminuisce la rendita dei signori: I grandi proprietari terrieri e i signori
feudali furono invece danneggiati dalla crisi, le loro rendite diminuirono,
pretesero quindi di più dai contadini soffocando le loro rivolte nel sangue
come avvenne in Francia, o come in Spagna sostituirono la coltivazione dei
cereali con la pastorizia, che rendeva di più con meno manodopera.
La presenza della peste in Europa rimase endemica nei tre secoli successivi, per poi scomparire gradualmente, da ultimo in Inghilterra, dopo la 'grande peste' del 1664-1666, per cause che rimangono senza spiegazione.
Con la fine dell'epidemia cessarono le violenze. Nelle città spopolate molti superstiti scoprirono di essere più ricchi: la peste aveva spazzato via soprattutto i poveri, ma anche molti benestanti i cui beni erano rimasti ai sopravvissuti, spesso in grande quantità. I cronisti dell'epoca raccontano, spesso scandalizzati, che dopo tanti morti una nuova gioia di vivere animò per breve tempo le città semivuote, con feste e banchetti spensierati:protagoniste le donne, che "le più care e delicate vivande voleano per la loro vita, e a piacere si maritavano, vestendo le fanti e le vili femmine (le donne del popolo) tutte belle e care robe delle onorevoli donne morte." Questo ritrovato gusto per la vita, nonostante il ripetersi di carestie e pestilenze, consentì una graduale ripresa della popolazione, che comunque fu lentissima.
L'ARTE E LA MEMORIA DELLA MORTE
Passate le pestilenze e le violenze popolari, la terribile tragedia della morte di massa attirò l'attenzione degli uomini di chiesa, degli scrittori, degli artisti:
".ed ecco da traverso
piena di morti tutta la campagna,
che comprender nol po'prosa né verso;
da India, dal Cataio, Marocco, Spagna
el mezzo aveva già pieno e le pendici
per molti tempi quella turba magna.
Ivi eran quei che fur detti felici,
pontefici, regnanti, imprendadori;
or son ignudi, miseri e mendici.
U' sono or le ricchezze? u' son gli onori
e le gemme e gli scettri e la corona
e le mitre e i purpurei colori?
Miser chi speme in cosa mortal pone
(ma chi ve lo pone?), e se si trova
a la fine ingannato è ben ragione.
O ciechi, e 'l tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica
e 'l vostro nome a pena si trova."
Così nella sua opera i Trionfi, il poeta Francesco Petrarca descrive l'arrivo
di quella morte che anni prima gli aveva sottratto Laura, la giovane donna di
cui era innamorato.
La peste (dall'introduzione alla I giornata)
L'introduzione del Decamerone si apre con la famosa descrizione della peste che
afflisse Firenze nel 1348.
'Erano già gli anni dalla
fruttifera incarnazione del figliolo di Dio al numero pervenuti di 1348,
quando, nell'egregia città di Firenze pervenne la mortifera pestilenza la quale
o per operazione dei corpi superiori, o per le nostre inique opere, da giusta
ira di Dio mandata d'un luogo in un altro continuandosi, verso l'occidente
s'era ampliata. Ed in quella non valevano nessun umano provvedimento, per lo
quale fu da molte immondizie purgata la città da 'uficiali' per ciò
ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascun infermo e dati molti consigli
per la conservazione della salute e fatte umili supplicazioni, molte volte, in
processioni e in altre guise a Dio dalle persone divote; quasi nel principio
della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi
effetti. E come in oriente aveva fatto dove, a chiunque usciva sangue dal naso,
era manifesto segno d'inevitabile morte, ma nel cominciamento di essa nascevano
ai maschi e alle femmine parimenti, o nell'inguinaia o sotto l'ascella, certe
enfiature delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come un
uovo, ed alcune più ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan gavòccioli. E
dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già
detto gavòcciolo mortifero a nascere e venire in ogni parte e appresso questo
si cominciò a permutare dalle predette infermità in macchie nere e livide, le
quali nelle braccia o per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo
apparivano a molti a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse. E come il
gavòcciolo primieramente era stato ed ancora era, certissimo indizio di futura
morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. Per le quali infermità né
consiglio di medico né vertù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse
profitto. E quasi tutti infra il terzo giorno dall'apparizione dé sopraddetti
segni, chi più tosto, chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente,
morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli
infermi s'avventava a' sani non altramente che faccia il fuoco alle cose secche
o unte quando molto vi sono avvicinate. E più ancora ebbe di morte perché non
solamente il parlare e l'usare con gli infermi dava ai sani infermità o cagione
di comune male, ma ancòra toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli
infermi tòcca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator
trasportare"..
Accanto alla famosissima descrizione della peste di Boccaccia, proemio del
Decamerone, esistono numerose altre descrizioni compilate dai cronisti
contemporanei. Nei paragrafi del Fiorentino Matteo Villani emerge un senso di
impotenza davanti l'inarrestabile epidemia, le cui cause vengono vanamente
ricercate nei castighi divini, nelle congiunzioni astrali e in fenomeni
spaventosi e lontani.
"Avendo per cominciamento nel
nostro principio a raccontare lo sterminio della generazione [razza] umana e
convenendone divisare [indicare] il tempo e il modo, la qualità e la quantità
di quella, stupidisce la mente appressandosi a scrivere la sentenzia che la
divina giustizia con molta misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la
corruzione del peccato di final giudizio. Ma pensando l'utilità salutevole che
di questa memoria puotte addivenire alle nazioni [generazioni] che dopo noi
seguiranno, con più sicurtà del nostro animo cosi cominciamo. Videsi negli anni
di Cristo, dalla sua salutevole incarnazione [il 25 marzo, giorno nel quale
cominciava l'anno a Firenze], 1346 la congiunzione di tre superiori pianeti nel
segno dell'Acquario, della quale congiunzione si disse per gli astrologhi che
Saturno fu signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi; ma
simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la
influenzia pealtri particulari accidenti non parve cagione di questa, ma
piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell'assoluta volontà di Dio.
Cominciossi nelle parti d'Oriente, nel detto anno, inverso il Cattai e l'India
superiore e nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell'Oceano, una
pestilenzia tra gli uomini d'ogni condizione di catuna età e sesso: che
cominciavano a sputare sangue e morivano chi di subito, chi in due o in tre dí,
e alquanti sostenevano più al morire. E avveniva che chi era a servire questi
malati, appiccandosi quella malattia, o infetti, di quella medesima corruzione
incontanente malavano, e morivano per somigliante modo; e a' più ingrossava
l'anguinaia [l'inguine], e a molti sotto le ditella [ascelle] delle braccia a
destra e a sinistra, e altri in altre parti del corpo, che quasi generalmente
alcuna enfiatura singulare nel corpo infetto si dimostrava. Questa pestilenzia
si venne di tempo in tempo e di gente in gente apprendendo: compresse infra il
termine d'uno anno la terza parte del mondo che si chiama Asia. E nell'ultimo
di questo tempo s'aggiunse alle nazioni del Mare Maggiore [mar Nero] e alle
ripe del Mare Tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso lo Egitto e la riviera
del Mar Rosso, e dalla parte settentrionale la Russia e la Grecia, e l'Erminia
[Armenia] e l'altre conseguenti provincie. E in quello tempo galee d'Italiani
si partirono del Mare Maggiore e della Soria e di Romania per fuggire la morte
e recare le loro mercatanzie in Italia: e' non poterono cansare [evitare] che
gran parte di loro non morisse in mare di quella infermità. E arrivati in
Cicilia conversaro co' paesani e lasciàrvi di loro malati, onde incontanente si
cominciò quella pestilenzia ne' Ciciliani. E venendo le dette galee a Pisa e
poi a Genova, per la conversazione di quegli uomini cominciò la mortalità ne'
detti luoghi, ma non generale. Poi conseguendo il tempo ordinato da Dio a'
paesi, la Cicilia tutta fu involta in questa mortale pestilenzia. E l'Africa
nelle marine e nelle sue provincie di verso levante, e le rive del nostro Mare
Tirreno. E venendo di tempo in tempo verso il ponente, comprese la Sardigna e
la Corsica e l'altre isole di questo mare; e dall'altra parte, ch'è detta
Europa, per simigliante modo aggiunse alle parti vicine verso il ponente,
volgendosi verso il mezzogiorno con più aspro assalimento che sotto le parti
settentrionali. E negli anni di Cristo 1348 ebbe infetta tutta Italia, salvo
che la città di Milano e certi [luoghi] circustanti all'Alpi che dividono
l'Italia dall'Alamagna, ove gravò poco. E in questo medesimo anno cominciò a
passare le montagne e stendersi in Proenza e in Savoia e nel Dalfinato e in
Borgogna e per la marina di Marsilia e d'Acquamorta [Marsiglia e
Aigues-Mortes], e per la Catalogna e nell'isola di Maiolica e in Ispagna e in
Granata. E nel 1339 ebbe compreso fino nel ponente, le rive del Mare Oceano,
d'Europa e d'Africa e d'Irlanda, e l'isola d'Inghilterra e di Scozia, e l'altre
isole di ponente e tutto infra terra [le regioni interne] con quasi eguale
mortalità, salvo in Brabante ove poco offese. E nel 1350 premette gli Alamanni
e gli Ungheri, Frigia [Frisia, cioè Paesi Bassi], Danesmarche, Gotti [abitanti
della Svezia meridionale] e Vandali e gli altri popoli e nazioni
settentrionali. E la successione di questa pestilenzia durava nel paese ove
s'apprendeva cinque mesi continovi, ovvero cinque lunari: e questo avemmo per
isperienza certa di molti paesi. Avvenne, perché parea che questa pestifera
infezione s'appiccasse per la veduta e per lo toccamento, che, come l'uomo o la
femmina o i fanciulli si conoscevano malati di quella enfiatura, molti
n'abbandonavano: e innumerabile quantità ne morirono che sarebbono campati se
fossono stati aiutati delle cose bisognevoli. Tra gl'infedeli cominciò questa
inumanità crudele, che le madri e' padri abbandonavano i figliuoli, e i
figliuoli le madri e' padri, e l'uno fratello l'altro e gli altri congiunti:
cosa crudele e maravigliosa [spaventosa] e molto strana [aliena] alla umana
natura, detestata tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le nazioni
barbare, questa crudeltà si trovò. Essendo cominciata nella nostra città di
Firenze, fu biasimata da' discreti [saggi] la sperienza veduta di molti, i
quali si provvidono e rinchiusono in luoghi solitari e di sana aria, forniti d'ogni
buona cosa da vivere, ove non era sospetto di gente infetta; in diverse
contrade il divino giudicio (a cui non si può serrare le porti) gli abbatté
come gli altri che non s'erano provveduti. E molti altri, i quali si dispuosero
alla morte per servire i loro parenti e amici malati, camparono avendo male, e
assai non l'ebbono continovando quello servigio; per la qual cosa ciascuno si
ravvide, e cominciarono senza sospetto ad aiutare e servire l'uno l'altro: onde
molti guarirono, ed erano più sicuri a servire gli altri. Nella nostra città
cominciò generale all'entrare del mese d'aprile gli anni Domini 1348, e durò
fino al cominciamento del mese di settembre del detto anno. E morì, tra nella
città, contado e distretto di Firenze, d'ogni sesso e di catuna età de' cinque
i tre e più, compensando il minuto popolo e i mezzani e' maggiori, perché
alquanto fu più menomato, perché cominciò prima ed ebbe meno aiuto e più disagi
e difetti. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana per
simigliante numero e modo, secondo le novelle che avemmo di molti paesi strani
e di molte provincie del mondo. Ben furono provincie nel Levante dove vie più
ne moriro. Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo,
per filosofia naturale o per fisica o per arte d'astrologia, non ebbono
argomento né vera cura. Alquanti per guadagnare andarono visitando e dando loro
argomenti, li quali per la loro morte mostrarono l'arte essere fitta [falsa] e
non vera: e assai per coscienza lasciarono a ristituire i danari che di ciò
aveano presi indebitamente. Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di
fede, che aveano avute novelle di què paesi, che alquanto tempo innanzi a
questa pestilenzia, nelle parti dell'Asia superiore uscì della terra ovvero
cadde dal cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente,
arse e consumò grandissimo [gran parte del] paese senza alcuno riparo. E
alquanti dissono che del puzzo di questo fuoco si generò la materia
corruttibile della generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare.
Appresso sapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di del
Regno, uomo degno di fede, che s'era trovato in quelle parti dov'è la città di
Lamech [la Mecca, in Arabia] ne' tempi della mortalità, che tre dí e tre notti
piovvono in quello paese biscie con sangue che appuzzarono e corruppono tutte
le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio di Maometto e
alquanto della sua sepoltura."
Nella seconda metà del trecento il ricordo della peste ispirò grandiose rappresentazione del trionfo della morte sugli uomini, come gli affreschi dipinti nel camposanto di pisa. In queste pitture la morte veniva dal cielo, spaventosa e inaspettata, lasciando dietro di sé solo cadaveri; ignorava poveri, vecchi e storpi che la imploravano, desiderosi di porre fine alle proprie sofferenze, colpisce invece giovani e fanciulle, cavalieri e belle dame, soldati armati, vescovi papi e imprendadori.
Fin dall'antichità, artisti e uomini di lettere hanno rappresentato la morte come persona: inizialmente come angelo o spirito demoniaco, poi come strega scarnificata o scheletro avvolto nel sudario. Nel medioevo la morte è raffigurata mentre giunge rapida in volo o a cavallo, recando con sé gli arnesi del suo lavoro: arco e frecce, una spada, o anche una falce (con le quali colpisce o "miete" le proprie vittime), una clessidra, che simboleggia il trascorrere del tempo.
Nella seconda metà del Trecento, il ricordo della peste ispirò grandiose rappresentazioni del trionfo della morte sugli uomini, come gli affreschi dipinti nel Camposanto di Pisa o nel Sacro Speco di Subiamo. In queste pitture, la morte arr5iva dal cielo, spaventosa e inaspettata, lasciando dietro di sé solo cadaveri; ignora poveri, vecchi storpi e malati che la invocano, desiderosi di porre fine alle proprie sofferenze, colpisce invece giovani e fanciulle, cavalieri e belle dame, soldati armati, vescovi, papi e imperatori. Come già ricordava
Petrarca, la morte ha dunque il potere di rendere vana ogni realizzazione umana, anche la più desiderabile e apparentemente invincibile.
Nell'antichità la peste fu sicuramente il
peggior male di cui gli uomini avessero esperienza. Forse è proprio per questo
motivo che si è andata sviluppando quella che si potrebbe definire una
'letteratura della peste', la quale prende le mosse dallo storico
greco Tucidide, che descrisse la peste di Atene del 431-430 a. C. e che diede
lo spunto al poeta latino Lucrezio, e a Virgilio, e che passando per Boccaccio
e Manzoni, giunge a Camus.
Tucidide parla della peste nelle sue due
opere:Storie e De rerum natura, in
cui egli si propone di scrivere la storia della guerra del Peloponneso (dal 431
a. C. al 404 a. C., cioè fino alla caduta di Atene. In realtà, a causa della
morte, giunge solo all'autunno del 411 a. C.) e la pestilenza è uno degli
avvenimenti piú gravi della prima fase di quella guerra e ha le sue
implicazioni nello sviluppo degli eventi. Dunque il motivo che spinge Tucidide
a descrivere il flagello della peste è puramente 'storico'. Infatti
nel testo tucidideo troviamo queste parole:
'Dica pure, riguardo a questo argomento, ognuno, medico o profano, in base alle proprie conoscenze, quale sia stata la probabile origine, e quali cause ritiene capaci di procurare un siffatto sconvolgimento; io descriverò come (la pestilenza) si sia manifestata, ed esporrò chiaramente quei sintomi dai quali la si possa riconoscere, essendone informati, se colpisse di nuovo, perché io stesso ho avuto la malattia e ho visto gli altri soffrirne'.
Tucidide, che ha sperimentato personalmente sulla propria pelle i sintomi della malattia, convinto che la storia sia "acquisto perenne", vuole che la sua opera sia utile ai posteri, perché questi possano in futuro riconoscere una tale epidemia e fare tesoro della sua esperienza. Ecco la "trama" di una parte dell'opera di Tucidide:
La strategia di Pericle escludeva uno scontro campale con l'esercito spartano: ogni anno, gli Spartani invadevano l'Attica e devastavano i campi; i contadini venivano sfollati ad Atene e ritornavano a casa in autunno; nel frattempo, la flotta ateniese compiva incursioni in territorio nemico. Pericle prevedeva che in questo modo le forze spartane si sarebbero logorate invano e gli Ateniesi avrebbero potuto sferrare il colpo decisivo. Forse il piano avrebbe avuto successo, se una calamità non si fosse abbattuta su Atene. Nella città sovraffollata di profughi si diffuse un'epidemia importata dall'Egitto. Di quale malattia si trattasse non è chiaro: generalmente si parla di peste, ma i sintomi che Tucidide descrive non sono quelli della peste bubbonica di epoca successiva; forse si trattava di vaiolo o di tifo o di una forma particolarmente virulenta di morbillo; era comunque una malattia contagiosissima e ignota ai medici dell'epoca. L'evento ebbe conseguenze fatali per la guerra: oltre alle gravi perdite umane (Tucidide parla di circa 4500 morti tra i cittadini liberi e adulti, in grado di prestare servizio militare, piú moltissimi altri tra la massa, il che impone di moltiplicare almeno per tre o per quattro il numero delle vittime), lo stesso Pericle fu ucciso dalla malattia cosicché ad Atene venne a mancare la mente politica che l'aveva guidata sino allora. In tal modo, al tema dell'ordinata coesistenza politica sviluppato nell'epitafio di Pericle, se ne affianca un altro caro a Tucidide, vale a dire l'imponderabile intervento della sorte che sopraggiunge a sconvolgere i piani degli uomini. La descrizione dell'epidemia è esemplare per precisione medica e tensione drammatica e Tucidide dimostra una perfetta conoscenza degli studi e della letteratura medica della sua epoca. Alla descrizione dei fatti storici corrisponde quella dei sintomi della malattia, alla previsione degli avvenimenti futuri, fondata sulla costanza della natura umana, corrisponde la prognosi medica, basata sulle analogie con episodi già noti. Ma le pagine sull'epidemia, tra le piú fosche delle Storie, sono notevoli soprattutto per un altro motivo: alla descrizione dei sintomi infatti Tucidide affianca quella degli effetti morali che l'epidemia produsse nella città.
. ln tale modo fu fatta la sepoltura quell'inverno.
Quando esso fu trascorso, terminò il primo anno di questa guerra. 2. Subito
all'inizio dell'estate (1) i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l'Attica con due
terzi delle loro forze, come avevano fatto prima (li comandava Archidamo,
figlio di Zeussidamo e re dei Lacedemoni), e dopo essersi accampati
cominciarono a devastare la terra. 3. Non erano nell'Attica ancora da molti
giorni quando la peste cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi:
si diceva che anche prima fosse scoppiata, sia dalle parti di Lemno (2) sia in altri luoghi, tuttavia non si ricordava che ci fosse
stata da nessuna parte una peste talmente estesa né una tale strage di uomini.
4. Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la
malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano piú di tutti, in
quanto piú di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun'altra arte
umana. Tutte le suppliche che facevano nei templi o l'uso che facevano di
oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e alla fine essi se ne astennero,
sgominati dal male.
1. Il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi
fu, a quel che si dice, l'Etiopia, nella parte al di là dell'Egitto (3), poi scese anche nell'Egitto, nella Libia e nella maggior
parte del territorio del re. 2. Nella città di Atene piombò improvvisamente, e
i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e cosí tra essi si disse
anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non
c'erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta (4), e da allora i morti aumentarono di molto. 3. Ora, sulla
peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le sue
conoscenze, dicendo da che cosa essa probabilmente abbia avuto origine e quali
siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare
sufficienti a effettuare il mutamento di salute: io invece dirò in che modo si
è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse
un'altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in
precedenza qualche cosa: io stesso ho avuto la malattia e io stesso ho visto
altri che ne soffrivano.
1. Quell'anno, come era riconosciuto da tutti, era
stato, in misura eccezionale, immune da altre malattie: ma se qualcuno aveva
già qualche indisposizione, in tutti i casi essa finiva in questa. 2. Gli altri
invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e
infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano
subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. 3. Poi, dopo
questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo
il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si
fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti
i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande
sofferenza. 4. Alla maggior parte dei malati vennero conati di vomito che non
avevano esito, ma producevano violente convulsioni: per alcuni ciò si verificò
dopo che i sintomi precedenti erano diminuiti, per altri invece dopo che era
trascorso molto tempo (5). 5. Esternamente il corpo non era troppo caldo a toccarlo,
né era pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e di
ulcere. L'interno invece bruciava in modo tale che i malati non sopportavano di
esser coperti da vesti o tele di lino leggerissime, né sopportavano altro che
l'esser nudi; e ciò che avrebbero fatto con il piú gran piacere sarebbe stato
gettarsi nell'acqua fredda: questo in realtà lo fecero molti dei malati
trascurati, che si precipitavano alle cisterne in preda a una sete
inestinguibile; eppure il bere di piú o di meno non faceva differenza. 6. E la
difficoltà di riposare e l'insonnia li affliggevano continuamente. Il corpo per
tutto il tempo in cui la malattia era acuta non deperiva, ma resisteva inaspettatamente
alla sofferenza; e cosí la maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo
giorno a causa del calore interno, ma aveva ancora un po' di forza; oppure, se
si salvavano, la malattia scendeva ancora nell'intestino, si produceva in esso
una ulcerazione violenta, e insieme sopraggiungeva un attacco di diarrea
completamente liquida, e a causa della debolezza che essa provocava i piú in
seguito decedevano. 7. Infatti il male percorreva tutto il corpo partendo
dall'alto, dopo essersi prima stabilito nella testa, e se uno si salvava dai
pericoli piú gravi, il fatto che la malattia intaccava le sue estremità era un
indizio di questa. 8. Colpiva infatti anche gli organi sessuali e le punte
delle mani e dei piedi; e molti scampavano con la perdita di queste parti,
alcuni anche perdendo gli occhi. Altri, quando si ristabilivano, sul momento
furono anche colti da amnesia, che riguardava tutto, senza distinzioni, e
perdettero la conoscenza di se stessi e dei loro familiari.
1. La natura della malattia era inspiegabile, e ci
furono vari modi in cui essa si abbatté sui singoli individui con troppa
violenza perché la natura umana potesse sopportarla: ma fu questo l'aspetto in
cui piú chiaramente si manifestò come un male diverso dalle solite malattie:
gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di carne umana, benché molte persone
giacessero insepolte, non si avvicinavano a loro, oppure, se se ne cibavano,
morivano. 2. Ecco una prova di questo: avvenne chiaramente la scomparsa di tali
uccelli, e non si vedevano né vicino a un cadavere né altrove. Ma i cani
rendevano piú facile l'osservazione dell'effetto della peste, per il fatto che
vivono insieme all'uomo.
1. Tale dunque era, in generale, l'aspetto della
malattia, se si tralasciano molti altri fenomeni straordinari, secondo il modo
in cui essa si manifestava in ciascuno, diversamente da una persona all'altra.
In quel periodo nessuna delle solite malattie li affliggeva contemporaneamente
a questa; e se anche c'era, finiva in questa. 2. Alcuni morivano per mancanza
di cure, altri anche curati con molta attenzione. Non si affermò nemmeno un
solo rimedio, per cosí dire, che si dovesse applicare per portare a un
miglioramento: infatti proprio quello che giovava a uno era dannoso a un altro.
3. Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse
robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati
con ogni genere di dieta. 4. Ma la cosa piú terribile di tutte nella malattia
era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i
malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di piú e non
resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall'altro mentre
si curavano, morivano come le pecore: questo provocava il maggior numero di
morti. 5. Da una parte, se non erano disposti a far visita gli uni agli altri,
per paura, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per mancanza di
qualcuno che potesse venire a curare i malati che vi abitavano; d'altra parte,
quelli che si recavano dai malati perivano, soprattutto coloro che cercavano di
praticare la bontà. Grazie al loro senso dell'onore non si risparmiavano
nell'entrare nelle case degli amici, dato che alla fine addirittura i familiari
interrompevano per la stanchezza anche i lamenti per quelli che morivano, vinti
come erano dall'immensità del male. 6. Tuttavia, piú degli altri coloro che
erano scampati avevano compassione per chi stava morendo o era malato, perché
avevano già avuto l'esperienza della malattia e perché loro ormai erano in uno
stato d'animo tranquillo. Il morbo infatti non coglieva due volte la stessa
persona in modo da ucciderla. E gli altri si congratulavano con loro: ed essi
stessi, nella gran gioia del momento, avevano un po' di vana speranza che anche
in futuro nessuna malattia li avrebbe mai piú potuti uccidere.
1. Oltre al male già esistente li opprimeva
anche l'afflusso di gente dalla campagna nella città: ciò affliggeva
maggiormente coloro che erano arrivati da fuori. 2. Poiché non c'erano case
disponibili, ma essi abitavano in capanne soffocanti per la stagione dell'anno,
la strage avveniva con grande confusione: corpi di moribondi giacevano uno
sopra l'altro, e persone mezze morte si muovevano barcollando nelle strade e
intorno a tutte le fontane per il desiderio d'acqua. 3. I templi nei quali si
erano sistemati erano pieni di cadaveri (6), dato che la gente vi moriva: infatti, poiché il male
imperversava, gli uomini non sapendo che cosa sarebbe stato di loro si
volgevano al disprezzo cosí delle cose sacre come delle profane. 4. Tutte le
usanze che avevano seguito in precedenza per le sepolture furono sconvolte; e
seppellivano i corpi ciascuno come poteva. E molti ricorrevano a modi
vergognosi di sepoltura, per mancanza delle attrezzature necessarie, poiché
avevano già avuto parecchi morti in famiglia: mettevano il cadavere del proprio
morto su una pira altrui, anticipando quelli che l'avevano costruita, e poi
l'accendevano. Altri gettavano il morto che stavano portando sopra un altro che
bruciava, e poi se ne andavano.
[53] 1. Anche per altri
aspetti la malattia segnò nella città l'inizio di un periodo in cui il
disprezzo delle leggi era piú diffuso. Infatti piú facilmente si osava fare
cose che prima di allora si facevano di nascosto, senza mostrare che si seguiva
il proprio piacere: vedevano che era rapido il mutamento di sorte dei ricchi,
che morivano improvvisamente, e di coloro che prima non possedevano nulla, ma
che subito divenivano padroni dei beni dei morti. 2. Cosí pensavano di dover
godere rapidamente di ciò che avevano e di servirsene a lor piacere,
considerando le loro vite e le loro ricchezze ugualmente effimere. 3. E nessuno
era pronto a sopportare fatiche per ciò che era considerato onesto, poiché
pensava che non vi era certezza di non perire prima: ciò che al momento
presente era piacevole, e che in qualunque modo era vantaggioso ai fini del
piacere, questo divenne onesto e utile. 4. Nessun timore degli dèi e nessuna
legge degli uomini li tratteneva: da una parte (7) giudicavano che fosse la stessa cosa esser religiosi o meno,
dal momento che vedevano tutti morire egualmente, e dall'altra nessuno si
aspettava di vivere fino a quando ci sarebbe stato un giudizio sulle sue colpe
e di scontarne la pena: pensavano che molto maggiore fosse l'incombente
punizione già decretata contro di loro, e che prima che si abbattesse fosse
ragionevole godersi un po' la vita.
[54] 1. Tale era la sciagura in cui gli Ateniesi erano piombati e da cui
erano afflitti; e mentre all'interno della città la popolazione moriva, fuori
la terra veniva devastata. 2. E nella loro afflizione, come era naturale, si
ricordarono anche di questo verso, che i vecchi dicevano fosse stato recitato
molto tempo prima: «Verrà una guerra dorica e insieme a essa la peste» 3 . Ci
fu dunque una disputa tra la gente, perché alcuni pensavano che la parola detta
nel verso dagli antichi non fosse stata «peste» ma «carestia», e nella
situazione attuale prevalse naturalmente l'opinione che fosse stato detto
«peste»: gli uomini infatti adeguavano la memoria ai mali che soffrivano. Credo
però che se, un giorno, coglierà gli Ateniesi dopo questa un'altra guerra
dorica, e capiterà una carestia, probabilmente essi reciteranno il verso in
questo senso. 4. A coloro che ne erano a conoscenza, venne anche il ricordo
dell'oracolo dato ai Lacedemoni, quando avevano chiesto al dio se dovevano fare
la guerra, ed egli aveva dichiarato che se avessero fatto la guerra con tutte
le loro forze avrebbero avuto la vittoria, e aveva detto che lui stesso li
avrebbe aiutati. 5. Riguardo a questo oracolo, dunque, arguivano che i fatti si
stavano svolgendo in modo conforme alle previsioni: la peste infatti era
cominciata subito dopo che i Peloponnesiaci avevano effettuato l'invasione; e
non entrò nel Peloponneso (almeno non in misura che valga la pena indicare), ma
si diffuse soprattutto ad Atene, e poi nelle parti piú popolose delle altre
regioni. Questi furono gli avvenimenti relativi alla peste.
[]
Note
(1)
È l'estate del 430 a.C.
(2) Lemno è un'isola dell'Egeo che faceva parte dell'impero ateniese
(3) I Greci chiamavano Etiopia tutta l'Africa a sud dell'Egitto
e l'India, benché qui Tucidide intenda il significato preciso di regione a sud
dell'Egitto.
(4) La città alta è l'Atene vera e propria, posta alcuni chilometri
nell'interno, in posizione rialzata rispetto al mare.
(5) A quanto sembra di dedurre dalla
descrizione che Tucidide fa dei primi sintomi con i quali la malattia si
manifestava, essa aveva un'origine polmonare; tuttavia è impossibile che si
trattasse di peste polmonare (diversa da quella bubbonica) perché questa è
quasi sempre mortale, mentre in Atene molti malati riuscirono comunque a
guarire.
(6) La presenza di cadaveri
abbandonati nei luoghi sacri indica l'eccezionalità della situazione e segnala
il crollo di ogni freno morale. Di norma, infatti, si evitava nel modo più
accurato che i morti contaminassero con la loro presenza templi, altari e
santuari.
(7) L'infuriare dell'epidemia
produce un altro effetto caratteristico di queste situazioni, vale a dire il
sovvertimento dei valori religiosi. La pestilenza convinse molti dell'inutilità
della religione, dato che nessuna preghiera e nessun rito valevano ad
allontanarla per converso, altri si abbandonarono a forme estreme di devozione.
Sappiamo da varie testimonianze che la psicosi della peste e, piú in generale,
della guerra generò negli ultimi decenni del secolo V a.C. fenomeni di
esaltazione superstiziosa e stimolò nuove forme di culti religiosi, soprattutto
di derivazione orientale.
Anche Lucrezio come il suo predecessore Tucidide parla della peste nell'ultimo libro del De rerum natura, che continua e conclude la cosmologia del V, trattando dei fenomeni atmosferici (tuoni, lampi, fulmini, piogge, ecc.) e dei fenomeni terrestri (terremoti, vulcani, esalazioni, epidemie). L'obiettivo rimane quello di spiegare razionalmente aspetti della vita che si prestano a deviazioni superstiziose. In particolare, le malattie sono dovute a una concentrazione di germi nocivi che si raccolgono nell'aria e si diffondono attraverso l'acqua, i cibi e l'aria stessa, che si sposta da un luogo all'altro portando le epidemie: trova così spiegazione un evento straordinario quale la peste di Atene del 430 a.C. per la cui descrizione Lucrezio si è ispirato al racconto lasciato dallo storico greco Tucidide che ne fu testimone oculare.
Il contenuto: Lucrezio tratteggia il quadro ampio e cupo della storica peste di Atene. Descrive i sintomi del male, l'abbattimento fisico e lo sgomento morale in un crescendo che culmina in una serie di quadri di morte in cui il realismo si mescola con il macabro, il raccapricciante con il patetico. Alla fine gli uomini perdono il rispetto di sé e degli altri e si abbandonano a gesti allucinati, in un'esistenza da incubo.
Questa forma (1)
di morbo ed effluvio datore di morte
seminò di cadaveri i campi nella terra di Cecrope ( )
desolò le contrade ( ) e vuotò la città di abitanti.
Sorto e venuto dalle estreme regioni dell'Egitto ( ),
varcando gran tratto di cielo e fluttuando sulle pianure,
infine gravò sopra tutta la gente di Pandione ( ).
E allora cadevano a mucchi in preda al contagio e alla morte.
Dapprima ( ) avevano il capo bruciante di un ardore
infocato,
gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.
E dentro le livide fauci sudavano sangue,
si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,
e la lingua,interprete dell'animo, stillava di umore sanguigno,
fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.
Quando poi il violento contagio attraverso le fauci
invadeva il petto ( ), e affluiva per intero al cuore dolente
dei malati,
tutte davvero le barriere della vita vacillavano.
L'alito effondeva dalla bocca un orribile lezzo ( )
come quello che emanano le marce carogne insepolte.
Le forze dell'animo intero e tutta la fibra
del corpo languiva sulla soglia stessa della morte.
Agli atroci dolori era assidua compagna un'ansiosa
angoscia ( ), e un pianto mischiato a continui
lamenti.
E spesso un singulto continuo di giorno e di notte,
costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,
tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.
Né avresti potuto notare alla superficie del corpo
la parte esteriore bruciare di ardore eccessivo,
ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto
e insieme tutto il corpo arrossato di ulcere simili a ustioni,
come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.
Ma l'intima parte dell'uomo ardeva fino al fondo delle ossa,
una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.
Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra dei malati,
ma questi cercavano sempre vento e frescura.
Parte, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo
ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.
Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,
protesi verso di essi con la bocca anelante:
un'arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,
uguagliava gran copia di liquido a povere stille.
Né v'era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.
In silenzioso timore esitava l'arte dei medici ( ),
e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo
degli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.
Allora apparivano numerosi presagi di morte ( ):
la mente sconvolta e in preda al terrore e all'affanno
il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,
e inoltre l'udito assillato da una folla di suoni,
il respiro affrettato, oppure lento e profondo,
il collo bagnato dal liquido di un sudore lucente,
rari e sottili gli sputi, amari, d'un giallo rossastro,
espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.
I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti a tremare,
e man mano a succedere un gelo dalla pianta
dei piedi. E infine, nell'ora suprema, le nari sottili,
la punta del naso affilata, gli occhi infossati,
le concave tempie, la gelida pelle indurita,
sul volto un'immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.
Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte.
Di solito all'ottavo apparire della fulgida luce del sole,
o al nono splendore del giorno, gli infermi rendevano la vita.
E se alcuno di loro, come accade, aveva evitato la morte ( ),
per le orribili piaghe e il nero profluvio del ventre
anche a lui era serbata più tardi la consunzione e la morte,
o anche sgorgava sovente, con dolori di capo,
gran copia di sangue corrotto dalle nari ricolme:
qui fluivano tutte le forze e la fibra dell'uomo.
E inoltre chi fosse scampato a quell'acre profluvio
di orribile sangue, a lui il morbo scendeva
nei nervi, negli arti e nelle parti genitali del corpo.
Alcuni, atterriti di giungere alle soglie della morte,
vivevano mutilandosi col ferro degli organi virili,
altri, amputati delle mani e dei piedi, tuttavia rimanevano
in vita, e altri perdevano il lume della vista.
A tal punto il timore della morte ( )
era penetrato in costoro.
E anche taluno fu preso dall'oblio di ogni cosa,
così da non poter riconoscere nemmeno se stesso.
Benché molti cadaveri insepolti giacessero gli uni sugli altri,
le razze degli uccelli e delle bestie selvagge
balzavano lontano da essi per fuggirne il fetore,
oppure, dopo averne gustato, languivano di una prossima morte.
Del resto per nulla in quei giorni gli uccelli azzardavano
di mostrarsi o le feroci famiglie delle belve uscivano
dai covi silvestri. Languivano i più in preda al morbo
e morivano. Soprattutto la fedele muta dei cani
esalavano miseri l'anima distesi per tutte le strade;
la violenza del male strappava la vita alle membra.
Funerali desolati e deserti ( )
si contendevano il passo.
Né era data una forma sicura di comune rimedio;
infatti ciò che a uno aveva permesso di respirare
il soffio vitale dell'aria, e mirare gli spazi del cielo,
ciò stesso era rovina di altri e ne causava la morte.
Ma in tale frangente, questo era più miserabile
e doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso
avvinto dal male, da esserne votato alla fine,
perdutosi d'animo, giaceva col cuore dolente,
e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.
Infatti davvero non cessavano mai di raccogliere
gli uni dagli altri il contagio dell'avido morbo,
come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.
Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.
Quanti infatti rifuggivano dal visitare i parenti malati,
troppo cupidi della vita e timorosi della morte,
poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,
derelitti e privi di aiuto, con una morte vergognosa e infame.
Chi invece era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio
e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,
tra le fievoli voci degli infermi, miste a lamenti.
Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.
gli uni sugli altri (15) lottando per seppellire la turba dei
loro defunti,
e infine tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti;
e gran parte di essi cadevano affranti sui letti.
Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente
non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.
Inoltre già il pastore e il guardiano di armenti ( )
e il robusto guidatore di ricurvo aratro
languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi
i corpi dati alla morte dalla miseria e dal male.
Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi
dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,
e al contrario spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.
Il contagio in gran parte si diffuse dai campi
nella grande città ( ), portato da una folla sfinita
di bifolchi affluiti da tutte le zone già infette.
Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte
più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.
Molti, prostrati per la via dalla sete giacevano
riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti ( ),
il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,
e molti ne avresti veduti qua e là per le strade
e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,
e squallidi e lerci perire, coperti di cenci
e lordure del corpo; sulle ossa soltanto la pelle
quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.
La morte aveva colmato persino i santuari degli dèi
di corpi inerti, e tutti i templi dei celesti
restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,
luoghi che i custodi avevano affollato di ospiti.
Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino ( )
e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.
Né più resisteva in città quel costume di funebri riti
che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;
infatti tutti si affannavano in preda al disordine,
e ognuno angosciato inumava i suoi cari composti come poteva.
La miseria e l'evento improvviso indussero a orribili cose.
Con alto clamore ponevano i loro congiunti
sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,
appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro
in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri.
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Note
(1)
Haec ratio: il dimostrativo di prima
persona presuppone il v. 1090 e ss., nei quali si è trattato in generale delle
epidemie.
(2) Cecropis: Cecrope era, secondo il mito, il primo re di Atene.
(3) Vastavitque vias: «desolò le contrade». Lucrezio non accenna alla
guerra del Peloponneso che infuriava da un anno e sembra pensare che le strade
siano state spopolate dalla malattia e non perché i Peloponnesiaci avevano
invaso l'Attica, come si legge in Tucidide II, 47. A Lucrezio non sta a cuore
l'elemento storico, ma solo la funzionalità della peste a illustrare il suo
assunto di spiegazione razionale delle epidemie.
(4) Aegypti finibus ortus: Tucidide II, 48 afferma che la peste
«cominciò dapprima, come si dice, in Etiopia oltre l'Egitto, poi scese
nell'Egitto e nella Libia e nella maggior parte della Persia. Piombò
all'improvviso sulla città di Atene e dapprima si attaccò agli abitanti del
Pireo». Suggerisce dunque l'ipotesi che sia stata portata in città dai marinai,
anche se di seguito precisa che si accusavano i nemici di avere avvelenato i
pozzi. Lucrezio invece presenta il diffondersi del contagio come se fosse stato
portato dall'aria (v. 1142), in accordo con il suo principio generale di
spiegazione delle epidemie.
(5) Populo Pandionis: designazione poetica di Atene: Pandione è un
mitico re della città.
(6) Principio: ha inizio la descrizione delle fasi della malattia sulla
scorta del testo di Tucidide. In particolare, i vv. 1145-1150 (introdotti da principio che trova corrispondenza
nell'analogo avverbio greco ed è correlativo a inde al v. 1151) seguono Tucidide II, 49, 2, mentre i vv. 1151-1159 si riferiscono a Tucidide II, 49, 3. La
parafrasi continua con maggiore o minore fedeltà fino al v. 1181.
(7) Morbida vis in cor maestum confluxerat: «la forza della malattia
era giunta fino al cuore afflitto». L'immagine introduce la contaminazione di
aspetti fisici con aspetti psichici, che avrà poi corso anche nel seguito (anxius angor, «ansiosa angoscia», v.
1158). In realtà essa si regge su un fraintendimento letterale del testo
tucidideo: Lucrezio ha tradotto cor, «cuore»,
il termine greco kardía che in realtà
significa «bocca dello stomaco, petto» e, conseguentemente, quello che
nell'originale è un rivolgimento dello stomaco diventa qui un turbamento di
tutto il corpo, assai più patetico.
(8) Taetrum odorem: i vv. 1154-1155 rappresentano con realismo
macabro la dissoluzione dei corpi, sfatti dalla malattia.
(9) Anxius angor: la medesima clausola è già comparsa in III, v. 993 a
indicare il tormento degli innamorati. Angor
si riferisce alle sofferenze dell'animo, mentre intolerabilibusque malis è detto di quelle del corpo e le otto
sillabe dell'aggetivo all'inizio del verso vi richiamano vistosamente
l'attenzione.
(10) Mussabat tacito medicina timore: «la medicina (cioè i medici)
balbettava per silenzioso timore» I vv. 1177-1181 sono un'amplificazione
poetica di quanto Tucidide ha anticipato fin da II, 47, 4: «né infatti i medici
erano in grado di curare il male che per la prima volta affrontavano, perché
non lo conoscevano, anzi essi stessi morivano quanto più erano esposti».
L'accurata costruzione fonica del periodo ha un'evidente ambizione
onomatopeica: le allitterazioni in nasale si intrecciano con quelle in dentale
suggerendo l'impaccio dei medici che non sanno pronunciarsi.
(11) Mortis signa: per i vv. 1182-1198, relativi ai sintomi di
morte, viene a mancare il supporto di Tucidide, che in II, 49, 6 si limita a
informare che la morte sopravveniva nel nono o nel settimo giorno (vv.
1197-1198). Si ritiene che per questi versi la fonte sia rappresentata dai
testi di Ippocrate, medico greco del V-IV secolo a.C., per cui aveva un ruolo
importante la sintomatologia.
(12) Siquis vitarat funera leti: «se qualcuno aveva evitato la
morte». ln realtà Lucrezio asserisce, sulla scorta di Tucidide II, 49, 6, che
non vi era scampo alla morte e se anche qualcuno riusciva a superare la fase
acuta della malattia, moriva poi per sopraggiunte complicazioni.
(13) Metuentes limina leti mortis metus: le gravi mutilazioni
descritte ai vv. 1208-1212 sono presentate con parole di disprezzo perché
dimostrano un eccessivo attaccamento alla vita. Così, anche al v. 1239 e ss.,
coloro che per eccessivo attaccamento alla vita rifuggono dal visitare i
parenti malati sono puniti dalla medesima incuria.
(14) Funera vasta: i vv. 1225-1246 illustrano la violenza del contagio
(funerali continui, assenza di rimedi, stato di disperazione) in riferimento a
Tucidide II, 51.
(15) Inque aliis alium: prima del v.1247 quasi tutti gli editori segnano
una lacuna, invero di dubbia necessità, visto che il testo si regge benissimo
con opportuna interpunzione.
(16) Pastor et armentarius omnis: i vv. 1252-1258 seguono la diffusione
della peste nelle campagne: l'interno di un'umile capanna presenta un quadro
raccapricciante e patetico.
(17) In urbem: il contagio passa dalla campagna in città L'inurbamento
dei contadini, attribuito da Tucidide II, 52 all'invasione dell'Attica da parte
dei nemici peloponnesiaci, è dovuto, secondo Lucrezio, all'infuriare della
peste nella campagna. Per il resto, dal v. 1259 alla fine del poema, Lucrezio
segue abbastanza fedelmente Tucidide.
(18) Silanos : le fontane pubbliche, così dette dalle maschere di Sileno
(il termine latino è un calco della forma greca dorica) da cui sgorgava
l'acqua.
(19) Religio divum: di fronte alla tragica realtà dell'epidemia, persino
la pervicacia della superstizione si indebolisce.
Un altro autore dell'antichità che prende spunto da questa epidemia quale la peste è Virgilio, che, pur tenendo conto dei modelli, in particolare di quello lucreziano, non ricerca scientificamente le cause del morbo né i possibili rimedi, ma si sofferma sulla tragedia del dolore che accomuna uomini e animali.
"Il turbine che si precipita
sulla distesa marina portando tempesta non è fitto quanto le molte epidemie del
bestiame. E i morbi non prendono le bestie una per una, ma interi pascoli
estivi tutt'a un tratto, il gregge e la sua speranza e tutta la razza sino al
ceppo.
Lo può sapere chi veda le Alpi aeree e i castelli sulle alture del Norico (1) e i campi dello iapide Timavo (2): anche oggi, dopo tanto tempo, regni deserti dei pastori e
balze svuotate in lungo e in largo.
Qui un tempo per infezione del cielo nacque una stagione miserevole, e avvampò
di tutto il calore del primo autunno: fece morire ogni specie di animali
domestici e di fiere, infettò le pozze, impestò i pascoli di putridume. Ma non
era semplice il cammino della morte; quando infuocata la sete, penetrando in
tutte le vene, aveva rattrappito le misere membra, poi di contro un umore
fluido prendeva a colare in abbondanza e assorbiva in sé un poco alla volta
tutte le ossa sgretolate dal male. Spesso durante una cerimonia in onore degli
dèi la vittima, ritta davanti all'altare, mentre la benda di lana le viene
fissata col nastro bianchissimo, si abbatté morente fra l'esitare dei
celebranti; o, se il sacerdote ne immolava qualcuna per tempo, di quella
vittima non ardevano le fibre poste sugli altari e l'indovino interrogato non
poteva trarne i responsi, e a mala pena i coltelli piantati da sotto nella gola
si tingevano di sangue, la superficie del terreno si colorava appena di un
marciume quasi secco. Perciò i vitelli muoiono da ogni parte in mezzo all'erba
rigogliosa ed esalano le care anime davanti alla greppia ricolma; perciò ai
cani festosi viene la rabbia, scuote i porci sofferenti una tosse affannosa, e
li strangola con il gonfiore delle fauci. Scivola giù, infelice, immemore della
passione di correre e dell'erba, il cavallo vincitore nelle corse, rifugge
dalle fonti e con lo zoccolo picchia frequentemente sul terreno; abbassate le
orecchie; intermittente lì intorno il sudore e indubbiamente quello freddo dei
moribondi, la pelle è secca, resiste dura al tatto se uno la palpeggia.
Questi sintomi mostrano nei primi giorni, prima della morte. Quando poi il male
comincia a infierire nel suo decorso, allora gli occhi sono infiammati e il
respiro tratto su dal profondo, talora appesantito da un gemito, e tendono con
un lungo singulto il basso ventre; esce per le narici nero sangue e la lingua
scabra comprime le fauci otturandole. Fu di giovamento versare del liquore
lenéo (3) in bocca ai cavalli, per mezzo
di un corno; quella sembrò l'unica salvezza per i cavalli moribondi; ben presto
quello stesso rimedio era la morte, e, rianimati, erano ardenti di rabbia e da
sé, sulla soglia della morte straziante - diano gli dèi miglior sorte ai buoni
e quel delirio ai nemici! - dilaniavano le loro membra squarciandole coi denti
scoperti. Ed ecco fumante sotto il duro aratro abbattersi il toro: dalla bocca
emette sangue misto a bave e lancia i suoi ultimi gemiti. Va triste l'aratore,
sciogliendo il giovenco afflitto per la morte del fratello, e l'aratro è
rimasto conficcato in terra, il lavoro a metà. Non possono carezzare l'animo le
ombre degli alti boschi né i molli prati né il fiume che cerca la pianura
scorrendo tra i sassi, più puro dell'ambra; ma i fianchi cadono giù allentati e
uno stupore preme sugli occhi immoti e la testa si piega al suolo, inclinata
dal suo stesso peso. A che giovano lavoro e meriti? a che scopo aver rovesciato
col vomere i terreni pesanti? Eppure non fu il màssico dono di Bacco (4), né il banchetto ricercato, a rovinarli; si cibano di
fronde, di un vitto di semplice erba i loro bicchieri sono fonti limpide e
fiumi perpetuamente in corsa, e l'affanno non spezza i sonni benefici. In tempo
non diverso, dicono, si cercarono in quelle contrade giovenche per il rito in
onore di Giunone, e da bufali male accozzati fu trascinato il carro (5) fino agli alti santuari della dea. Perciò penosamente
grattano la terra coi rastri e persino con le unghie interrano i semi della
messe e trascinano, il collo teso nella fatica, carri cigolanti su per montagne
scoscese.
Non esplora agguati il lupo intorno agli ovili e non vaga immerso nella notte
presso le greggi: una necessità più aspra lo vince; timidi daini e cervi sempre
in fuga ora si aggirano in mezzo ai cani e intorno alle case. Ormai la prole
del mare sconfinato e tutta la stirpe che nuota è bagnata dal flutto sul bordo
della spiaggia, come corpi di naufraghi; inattese, cercano riparo nei fiumi le
foche. Muore anche la vipera, difesa invano dal suo nascondiglio tortuoso, e
così anche i serpenti d'acqua, storditi entro le loro scaglie irte. Persino
agli uccelli l'aria non è giusta, ed essi lasciano la vita sotto un'alta nube,
piombando giù.
Del resto ormai non serve mutare pascoli, i rimedi tanto ricercati fanno male;
hanno rinunziato i grandi medici, il Filliride Chirone e l'Amitaonio Melampo (6). Infuria e alla luce, inviata dalle tenebre stigie (7), la pallida Tisifone (8) fa avanzare i Morbi e la Paura e di giorno in giorno
innalzandosi sporge più in alto la testa insaziabile; echeggiano di belato di
pecore e di fitti muggiti i fiumi, le sponde inaridite, i colli supini. E ormai
fa strage a mucchi e anche nelle stalle accumula cadaveri disfatti dalla
putredine ripugnante, finché non s'impara a coprirli di terra, a nasconderli
nelle fosse. Non era più buono il cuoio, nessuno poteva ripulire le carni
nell'acqua corrente o cuocerle alla fiamma; e nemmeno tosare i velli corrosi
dal male e dal sudiciume è possibile, né, se sono tessuti, toccare quelle tele
putride; ma se anche qualcuno provava quei panni repellenti, pustole brucianti
e un immondo sudore copriva le sue membra fetide, e senza attendere molto tempo
il fuoco sacro (9) mangiava gli arti infetti."
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Note
Norica castella: «le fattorie del Norico».
Il Norico corrisponde a una parte dell'Austria.
(2) Timavi:il fiume Timavo, che sfocia presso Trieste, è detto
impropriamente «iapide», dal nome di una popolazione (gli Iapidi) che risiedeva
nella Dalmazia settentrionale.
(3) Latices Lenaeos: «liquore lenéo», cioè vino. Bacco è detto in
questo caso Lenaeus, ossia «dio del
torchio».
(4) Massica Bacchi munera: «i màssici doni di Bacco», perifrasi per
indicare il vino buono, qui connotato da un epiteto esornativo. Il vino dei
colli Massici, in Campania, era particolarmente pregiato.
(5) Tempore currus: la pestilenza non colpisce solo gli animali,
ma comporta violazioni dello stesso diritto sacrificale, che imponeva l'impiego
di determinati animali.
(6) Chiron Melampus: Chirone, figlio di Crono e di Filira, e
Melampo, figlio di Amitáone, sono i mitici fondatori della medicina, qui
menzionati per antonomasia.
(7) Stygiis tenebris: lo stige è un fiume che scorre nell'Inferno.
(8) Tisiphone: etimologicamente «vendicatrice del delitto»: è la più
violenta tra le Erinni e il suo intervento indica il culmine dello sconvolgimento
e dell'orrore.
(9) Sacer ignis: il «fuoco sacro» è una malattia della pelle, segno di
contagio e di consunzione.
LA PESTE NELLA LETTERATURA MODERNA
Ad interessarsi della peste saranno anche alcuni scrittori "moderni" come Daniel Defoe ( 1660 ca.-1731),Edgar Allan Poe ( Boston 1809-Baltimora 1849), il poeta, regista, teorico del teatro e attore francese Artaud Antonin ( Marsiglia 1896- Ivry-sur-Seine 1948), il romanziere e critico tedesco Thomas Mann ( Lubecca 1875- kilchberg, Zurigo 1955),lo scrittore Alber Camus ( Drean, Algeria 1913- Villeblevin, Yonne 1970), e lo scrittore brasiliano Amado Jorge ( Pirangi, Bahìa-1912).
Lo scrittore Inglese Daniel Defoe, dedicò alla peste londinese del 1665 un' opera intitolata appunto: 'LA PESTE A LONDRA'.
La cronaca dell'anno 1665 inizia con una descrizione sui primi casi di peste. Il protagonista, un sellaio, benché assista alla partenza di molti ricchi concittadini, decide di non abbandonare la città per non lasciare i suoi affari. Egli, come tutti, s'interroga sui possibili motivi dell'epidemia e mentre lui riesce a darsi una spiegazione basandosi su eventi naturali, la popolazione attribuisce il fenomeno al passaggio di una cometa, portatrice di sventura. Il sellaio, durante le sue uscite lungo le vie di Londra, vede molte persone che vagano per la città predicendo morte e distruzione e si ferma accanto ad alcuni visionari che dicono di scorgere un angelo che impugna una spada di fuoco. ed ecco, una sera, il sellaio, incurante dei severi divieti e del pericolo di contagio, s'intrufola nel cimitero con la complicità di un sagrestano suo amico: assiste al macabro lavoro dei monatti e alla disperazione di un uomo la cui famiglia è scaricata in quella fossa. Sulla strada del ritorno una serie di tristi pensieri accompagna il protagonista fino a casa, dove l'immagine di quell' infelice gentiluomo gli torna alla mente causandogli un pianto accorato. Nonostante rincasi ogni volta sempre più affranto, il sellaio non resiste alla tentazione di vagare per le strade, dove le scene raccapriccianti sono sempre più frequenti. Per le vie di Londra non si sentono solo storie tristi ma anche racconti singolari come quella del suonatore di piffero che, addormentatosi per strada, viene scambiato per un cadavere e raccolto dai monatti, i quali, al suo risveglio, si rendono conto dell'errore commesso. Nel momento in cui la peste infuria maggiormente, il protagonista non condivide appieno l'opinione comune secondo cui le persone infette, spinte dall'odio, desiderano contagiare gli altri per farli soffrire come loro; egli pensa piuttosto che quest'idea venga diffusa dagli abitanti delle campagne estremamente diffidenti verso gli abitanti della città. La verità oggettiva è che gli appestati diventano pericolosi nel momento del delirio; per questo il sellaio ritiene giusto confinare nelle abitazioni le persone contagiate per evitare episodi come quello della nobildonna infettata e uccisa da un appestato.
Lo scrittore americano Edgar Allan Poe dedicò due racconti alla tematica della peste:'La mascherata della morte rossa ' e 'Re peste '. Il primo più drammatico e inquietante, il secondo più grottesco e comico.
'La mascherata della morte rossa' ha per oggetto la tragicità del destino umano (l' impossibilità di ignorare la morte) ed è quindi costruito attraverso gli elementi propri della letteratura 'alta' e 'tragica'.
'Re peste', invece, è un racconto fondato sulla deformazione visionaria della realtà (noi non sappiamo se ciò che accade è vero o è piuttosto l' effetto della sbornia dei due protagonisti principali). Non c'è quindi una riflessione sulla condizione o sul destino umano, ma piuttosto un divertentissimo gioco stilistico evidente nella rappresentazione grottesca dei personaggi, fondata sull' iperbole e la caricatura. Infatti il finale del racconto, a differenza de 'La mascherata della morte rossa', è lieto: i due incauti marinai riescono a sfuggire a Re Peste e a tutto il suo nobile seguito.
'La mascherata della morte rossa' incomincia, più o meno come il Decamerone, con un gruppo di giovani 'sani e spensierati' che si rifugiano in un' Abbazia, lontano dalla regione in cui sta imperversando una pestilenza. Il loro tentativo di sottrarsi al destino di contagio e di morte è però destinato a fallire quando, a mezzanotte, al culmine di una festa mascherata, compare, appunto, la maschera della morte rossa che inseguirà anche il principe Prospero, capo del- l'allegra brigata, nelle sale dell' Abbazia, per raggiungerlo e ucciderlo nella inquietante sala nera.
A differenza del Decameron, però, si infittiscono sin dall' inizio elementi che contraddicono qualsiasi tentazione di svolgimento realistico, attraendo prepotentemente il lettore nella dimensione del racconto fantastico. Non è quindi possibile spiegare razionalisticamente ciò che accade ed anche la impari lotta dell' uomo con la morte assume quelle caratteristiche di assurdità e nichilismo che hanno reso così novecentesca la narrativa di Poe.
'Re peste': Due marinai ubriaconi, Tarpaulin e Legs (il primo grasso ed il secondo magro, forse antesignani di coppie comiche più celebri), fuggendo da una bettola per non pagare il conto della troppa birra bevuta, si rifugiano nei quartieri abbandonati e fatiscenti dell' antica Londra. Qui in una cantina, che visitano per bere, si imbattono in uno strano banchetto. A capotavola spicca la figura di 'Re Peste', un uomo più magro di Legs, dal viso giallo come lo zafferano e dalla fronte orribilmente ed eccezionalmente alta, che fa le presentazioni:
' la nobile dama che sta seduta dinanzi a voi è la Regina Peste, nostra serenissima consorte. Gli altri personaggi che voi vedete sono tutti prìncipi del sangue e portan il segno della regale origine nei rispettivi nomi di Sua Grazia l' Arciduca Pest-Iferus, Sua Grazia il Duca Pest-Ilenzial, Sua Grazia il duca Temp-Pest e sua Altezza Serenissima l' Arciduchessa Ana-pest.'
Tarpaulin offende i convitati e per questo viene scagliato in una botte di vino, dalla quale sarà liberato da Legs. I due se la daranno poi a gambe dopo aver abbattuto lo scheletro che danzava al di sopra della tavola.
Artaud Antonin è un attore, regista e, soprattutto, teorico del teatro, che pubblicò nel 1938 'Il teatro e il suo doppio', un testo che influenzerà moltissimo la pratica teatrale, soprattutto delle esperienze di ricerca teatrale più significative degli ultimi decenni (Living Theatre, Tadeusz Cantor, Peter Brook, Jerzy Grotowski).
In quel testo Artaud dà un ' interpretazione molto originale e 'positiva' della peste, perché 'la peste coglie immagini assopite, un disordine latente e spinge d' improvviso fino a gesti estremi'. La peste, per Artaud, non è una vera e propria malattia, ma un' entità psichica non provocata da un virus: egli rifugge quindi ogni spiegazione medica che tenda a definire scientificamente o a circoscrivere geograficamente questo fenomeno.
Infine, egli afferma che ' il teatro, come la peste, scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita'.
Thomas Mann è un romanziere e critico tedesco, fratello dello scrittore Heinrich Mann,nacque in una famiglia altoborghese.Tra le sue opere, c'è "La morte a Venezia (1912) in cui viene affrontato il tema del conflitto fra vocazione artistica ed esigenze della società borghese, quest'opera è stata immortalata per il cinema da Luchino Visconti e trasformata in opera dal compositore Benjamin Britten. Anche qui è trattata come argomento l'epidemia di peste:
' .. Già da diversi anni il colera asiatico aveva dato segni di una spiccata tendenza a diffondersi migrando da un paese all'altro. Prodotto dai caldi acquitrini del delta del Gange, alimentato dal soffio mefitico di quel mondo primevo di isole fuggite dall'uomo, di foreste inutilmente sontuose nelle cui macchie di bambù si acquatta la tigre, il morbo aveva imperversato con tenacia e violenza eccezionali in tutto l'Hindostan, era poi dilagato a oriente in Cina, a occidente in Persia e nell'Afganistan, e, seguendo le direttrici delle grandi carovaniere, aveva portato i suoi orrori fino ad Astrachan, anzi fino a Mosca. E, mentre l'Europa tremava che di qui, per via di terra, ne scavalcasse le frontiere, lo spettro, trasportato su navi mercantili della Siria, era quasi contemporaneamente riapparso in numerosi porti del Mediterraneo, aveva sollevato la testa a Malaga e Tolone, aveva mostrato più volte l'orribile ceffo a Napoli e Palermo, e sembrava non voler più abbandonare l'intera Calabria e le Puglie. Il Nord della penisola ne era stato risparmiato; ma, intorno alla metà di maggio, a Venezia i terribili vibrioni furono scoperti lo stesso giorno nei cadaveri nerastri e ischeletriti di un mozzo e di una fruttivendola. I casi furono tenuti nascosti; ma una settimana dopo salirono a dieci, a venti, a trenta, e in diversi sestieri. Un provinciale austriaco, trattenutosi qualche giorno a Venezia per diporto, appena tornato in patria morì con sintomi che non lasciavano dubbi, e così fu che le prime dicerie sulla peste nella città lagunare raggiunsero i giornali tedeschi. La risposta delle autorità veneziane fu che le condizioni sanitarie della città non erano mai state più soddisfacenti; e si presero tutte le precauzioni necessarie in casi simili. Ma, probabilmente, generi alimentari come le verdure, la carne e il latte, erano già contaminati, perché, smentita, tenuta nascosta, la moria dilagava implacabile nel fitto delle calli, e l'afa prematura, che intiepidiva l'acqua dei canali, accresceva di giorno in giorno le probabilità di contagio. In verità, era come se il morbo avesse guadagnato in virulenza, come se la tenacia e prolificità degli agenti patogeni si fosse rinvigorita a dismisura. I casi di guarigione si contavano ormai sulle dita: l'ottanta per cento dei colpiti moriva, e in modo atroce, perché il male toccava gli estremi della violenza, e spesso assumeva la forma più minacciosa, quella del 'colera secco'. In tal caso, il corpo non riusciva nemmeno ad espellere il liquido secreto in gran copia dai vasi sanguigni, nel giro di poche ore l'infermo si prosciugava e, soffocato da un sangue fattosi denso come pece, moriva fra spasimi acuti e flebili sospiri. Buon per lui se, come accadeva talvolta, il morbo, dopo un lieve malessere, prendeva la forma di un profondo deliquio, dal quale non ci si svegliava più, o ci si svegliava solo a tratti. Sui primi di giugno, i padiglioni d'isolamento dell'Ospedale Civico si erano silenziosamente riempiti, nei due orfanotrofi lo spazio mancava già, e un sinistro viavai si svolgeva tra le Fondamenta Nuove e l'isola del cimitero, San Michele. In città, tuttavia, il timore di un danno generale, l'ansia per l'esposizione d'arte da poco inaugurata ai Giardini Pubblici e le perdite ingenti che, in caso di panico o di discredito, minacciavano gli alberghi, i negozi, l'intera e complicata macchina del turismo, si mostrarono più forti dell'amore della verità e del rispetto delle convenzioni internazionali, e indussero le autorità a persistere cocciutamente in una politica di silenzio e di smentite. L'ufficiale sanitario, uomo di grandi meriti, si era dimesso con sdegno dalla carica, ed era stato sostituito sottomano con una personalità più malleabile. Il popolo ne ebbe sentore; e la corruzione al vertice, unita alla diffusa insicurezza, allo stato di emergenza in cui la moria aveva precipitato la città, generò un rilassamento di costumi nelle classi inferiori, un'eccitazione di oscuri istinti antisociali, che si tradussero in forme di crescente intemperanza, impudicizia, perfino criminalità. Diversamente dal solito, di sera si vedevano molti ubriachi; di notte, brutti ceffi - si narrava - rendevano malsicure le calli; rapine ed anche omicidi si ripetevano; già due volte si era potuto constatare che sedicenti vittime dell'epidemia erano state tolte di mezzo col veleno propinato loro dai parenti, e la dissolutezza professionale aveva assunto forme moleste e depravate come da quelle parti non se n'erano mal conosciute, avendo corso solo nel Meridione o nell'Oriente.
Di queste cose, il funzionario britannico narrò l'essenziale.
- Lei farebbe bene, - concluse -, a partire piuttosto in fretta ...'
da : 'La morte a Venezia' di Thomas Mann, cap. V°
Nella 'Peste' Albert Camus affronta il grande problema dell'assurdo, cioè dell'impossibilità di trovare senso e giustificazione all'esistenza umana e al dolore che essa contiene. L'antichissima domanda sul significato del male (inconciliabile con la presenza di un Dio giusto e buono) viene riformulata in termini laici e si risolve nella constatazione lucida e senza speranza dell'ineluttabilità del male e della sua insensata gratuità. L'unica salvezza dalla disperazione può essere nella solidarietà fra gli uomini; l'unica rivolta possibile, il rifiuto di portare altro male nel mondo. Gran parte del romanzo è dedicata alle conversazioni tra i personaggi, che si confrontano incessantemente, senza risposta, con la presenza del dolore: ogni giorno essi vedono agonia e morte, ma nessuno, nemmeno il sacerdote Paneloux (uno dei personaggi principali), riesce a trovare una giustificazione accettabile alla ragione umana. L'unico sollievo all'angoscia è l'azione: tutti infatti entrano nelle formazioni sanitarie volute da Tarrou. il romanzo si chiude sotto il segno della testarda necessità di lottare da parte di quegli uomini che si rifiutano di ammettere i flagelli. Quando il romanzo uscì fu subito chiaro ai lettori che la peste era una metafora del nazismo: la lettura in chiave storica, autorizzata da Camus stesso, era confrontata dalle numerosi allusioni alla oppressione della dittatura e alla resistenza. La peste è metafora del male: dell'assurdità del dolore inflitto agli uomini, dell'insensatezza del loro esistere. Ecco qui di seguito alcuni passi tratti da "la Peste" di Camus:
[ . ] 'Abbiamo ben altre gatte da pelare, da quando si parla di questa febbre'
Domandò al dottore se la cosa era seria, e Rieux disse di non saperne niente.
'È il tempo, ecco tutto', concluse il commissario.
Sì certo, era il tempo; tutto era attaccaticcio alle mani via via che il giorno avanzava; e Rieux sentiva crescere, a ogni visita, la sua apprensione. La sera di quello stesso giorno, nel sobborgo, un vicino del vecchio malato si comprimeva gli inguini e vomitava tra il delirio. I gangli erano molto più ingrossati di quelli del portiere, ne cominciava a suppurare uno, che presto si aperse come un frutto marcio. Tornato a casa, Rieux telefonò al deposito di prodotti farmaceutici del distretto. I suoi appunti professionali recano soltanto, a questa data: 'Risposta negativa'. E ormai lo chiamavano altrove per casi simili. Bisognava aprire gli ascessi, era chiaro; due colpi di bisturi, a croce, e i gangli riversavano una materia sanguinolenta. I malati, irrigiditi, perdevano sangue. Ma altre macchie comparivano sul ventre e sulle gambe; un ganglio cessava di suppurare, poi si gonfiava di nuovo. Nella maggior parte dei casi il malato moriva, in uno spaventevole fetore.
La stampa, sì pettegola nella faccenda dei sorci, non parlava più di nulla. Gli è che i sorci morivano per la strada e gli uomini nella loro camera; e i giornali non si occupano che della strada. Ma la prefettura e il municipio cominciarono a consultarsi. Per tutto il tempo che ogni medico non aveva avuto conoscenza di più di due o tre casi, nessuno aveva pensato di muoversi. Ma infine, bastò che qualcuno pensasse a far la somma. La somma era paurosa. In pochi giorni appena i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava d'una vera epidemia. Fu il momento scelto da Castel, un collega di Rieux molto più anziano di lui, per andare a trovarlo.
'Naturalmente', gli disse, 'lei sa che cos'é, RieuX?'
'Aspetto il risultato delle analisi'.
'Io, lo so. E non ho bisogno d'analisi. Ho fatto una parte della mia carriera in Cina, e ho veduto alcuni casi a Parigi, una ventina d'anni or sono. Soltanto, non si é osato darle un nome, al momento. L'opinione pubblica è cosa sacra: niente terrore, soprattutto niente terrore. E poi, come diceva un collega: 'è impossibile, tutti sanno che é scomparsa dall'Occidente'. Sì, tutti lo sapevano, all'infuori dei morti. Suvvia, Rieux, lei lo sa bene quanto me di che si tratta'.
Rieux rifletteva. Dalla finestra dell'ufficio guardava il dorso petroso della scogliera chiudersi sulla baia, in lontananza; il cielo, sebbene azzurro, aveva uno splendore opaco che si addolciva via via, col progredire del pomeriggio.
'sì, Castel', egli disse, 'è appena credibile, ma pare proprio che sia la peste'.
Alzatosi, Castel si diresse alla porta.
'Lei sa cosa ci risponderanno', disse il vecchio dottore. 'È scomparsa da anni dai climi temperati' ' 'Cosa significa sparire?' rispose Rieux alzando le spalle.
'Sì. E ricordi: anche a Parigi, quasi vent'anni or sono'.
'Bene. Speriamo che oggi non sia più grave d'allora. Ma è davvero incredibile'.
La parola 'peste' era stata pronunciata per la prima volta. A questo punto del racconto, che lascia Bernard Rieux dietro la sua finestra, si concederà al narratore di giustificare l'incertezza e la meraviglia del dottore: la sua reazione, infatti, con qualche sfumatura, fu la stessa nella maggior parte dei nostri concittadini. I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come Io erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com'egli sia stato diviso tra l'inquietudine e la speranza. Quando scoppia una guerra, la gente dice: 'Non durerà, è cosa troppo stupida'. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n'accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano si flagelli. Il flagello non è commisurato all'uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. I nostri concittadini non erano più colpevoli d'altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora
possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli.
E persino dopo che il dottor Rieux ebbe riconosciuto davanti all'amico suo che un gruppo di malati, senza preavviso, era morto di peste, il pericolo rimaneva irreale per lui. Semplicemente, quando si è medici, ci si è fatta un'idea del dolore e si ha un po' più di fantasia. Guardando dalla finestra la sua città che non era mutata, appena appena il dottore sentiva nascere in sé quel lieve scoramento davanti al futuro che si chiama inquietudine. Cercava di radunarsi in mente quello che sapeva della malattia. Delle cifre gli ondeggiavano nella memoria, e si diceva che la trentina di grandi pestilenze conosciute dalla storia aveva fatto quasi cento milioni di morti. Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando si fa la guerra, appena appena si sa che cosa sia un morto. E siccome un uomo morto non ha peso che quando lo si è veduto, cento milioni di cadaveri sparsi traverso la storia non sono che una nebbia nella fantasia. II dottore ricordava la peste di Costantinopoli che, secondo Procopio, aveva fatto diecimila vittime in un giorno. Diecimila morti fanno cinque volte il pubblico di un grande cinematografo. Ecco, bisognerebbe far questo: radunare le persone all'uscita di cinque cinematografi, condurle in una piazza della città e farle morire in mucchio per vederci un po' chiaro. Almeno, si potrebbero allora mettere dei visi noti su quel cumulo anonimo. Ma, naturalmente, è impossibile far questo; e poi, chi conosce diecimila visi? D'altronde, uomini come Procopio non sapevano contare, la cosa è notoria. A Canton, settanta anni or sono, quarantamila topi erano morti di peste prima che il flagello s'interessasse degli abitanti. Ma nel 1871 non c'era il modo di conta
; re topi. Si facevano i calcoli approssimativamente, al1'ingrosso, e con evidenti probabilità d'errore. Intanto, se un sorcio è lungo trenta centimetri, quarantamila sorci allineati farebbero
Ma il dottore si spazientiva; si lasciava andare, ed era male. Pochi casi non fanno un'epidemia, e basta prendere delle precauzioni. Bisogna attenersi a quel che si sapeva, lo stupore e la prostrazione, gli occhi rossi, la bocca cattiva, i mali di testa, i bubboni, la terribile sete, il delirio, le macchie sul corpo, l'irrigidimento interno, e dopo tutto questo Dopo tutto questo, una frase tornava in mente al dottor Rieux, una frase che appunto terminava, nel suo manuale, l'enumerazione dei sintomi: 'Il polso diventa filiforme e la morte sopraggiunge in occasione d'un movimento insignificante'. Sì, dopo tutto questo, si era appesi a un filo e i tre quarti dei malati, era la cifra esatta, erano tanto impazienti da fare quel movimento impercettibile che li rovinava.
Il dottore guardava sempre dalla finestra. Da una parte del vetro il fresco cielo primaverile e dall'altra la parola che ancora risuonava nella stanza: la peste. La parola non conteneva soltanto quello che la scienza ci voleva mettere, ma anche una lunga serie d'immagini straordinarie che mal si accordavano con quella città gialla e grigia, moderatamente animata a quell'ora, ronzante piuttosto che rumorosa, felice insomma, se è possibile essere insieme felici e tetri. E una tranquillità sì pacifica e indifferente negava quasi senza sforzo le vecchie immagini del flagello, Atene contagiata e disertata dagli uccelli, le città cinesi piene di moribondi silenziosi, gli ergastolani di Marsiglia che accatastavano nelle buche i corpi grondanti, la costruzione in Provenza d'un gran muro che doveva fermare il vento furioso della peste, Giaffa e i suoi orribili mendicanti, i letti umidi e putridi stesi sulla terra battuta dell'ospedale di Costantinopoli, i malati trascinati con gli uncini, il carnevale dei medici mascherati durante la peste nera, gli accoppiamenti dei vivi nei cimiteri di Milano, le carrette di morti in Londra atterrita, e le notti e i giorni pieni dappertutto e sempre dell'interminabile grido degli uomini. No, questo non era ancora sì forte da uccidere la pace di quella giornata. Dall'altra parte del vetro, la campana d'un tram invisibile respingeva in un attimo la crudeltà e il dolore. Soltanto il mare, oltre la cupa scacchiera dei caseggiati, testimoniava di quello che vi è d'inquietante e di mai stabile nel mondo. E il dottor Rieux, guardando il golfo, pensava ai roghi di cui parla Lucrezio, innalzati davanti al mare dagli Ateniesi, ai tempi del morbo. Vi si portavano i morti durante la notte, ma il posto mancava e i vivi si battevano a colpi di torce per mettervi coloro che gli erano stati cari, sostenendo lotte sanguinose piuttosto che abbandonare i cadaveri. Si potevano immaginare i roghi rosseggianti davanti all'acqua tranquilla e scura, i combattimenti di torce nella notte crepitante di scintille e gli spessi vapori velenosi che salivano verso il cielo intento. Si poteva temere
Ma una tale vertigine non reggeva davanti alla ragione. È vero che la parola 'peste' era stata pronunciata, è vero che in quello stesso minuto il flagello scuoteva o abbatteva una o due vittime. Ma insomma, lo si poteva fermare. Quello che bisognava fare era riconoscere chiaramente quello che doveva essere riconosciuto, cacciare infine le ombre inutili e prendere le misure necessarie. Poi la peste si sarebbe fermata, in quanto la peste non la si concepiva o la si concepiva falsamente. Se si fermava, ed era la cosa più probabile, tutto sarebbe andato bene. Nel caso contrario, si sarebbe saputo che cosa fosse, e se non vi fosse modo di adattarvisi prima per vincerla poi.
Il dottore aprì la finestra, il brusio della città si accrebbe all'improvviso. Da un'officina poco distante saliva il sibilo breve e ripetuto d'una sega meccanica, Rieux si scosse: là era la certezza, nel lavoro d'ogni giorno. II resto era appeso a fili e a movimenti insignificanti, non ci si poteva fermare. L'essenziale era far bene il proprio mestiere.
Il giorno dopo, grazie a un'insistenza giudicata fuori posto, Rieux ottenne che si convocasse in prefettura un comitato sanitario.
'È vero che la popolazione si preoccupa', aveva riconosciuto Richard, 'e poi le chiacchiere esagerano tutto. Il prefetto mi ha detto: `Facciamo presto, se lei vuole; ma in silenzio'. D'altronde, è persuaso che si tratta d'un falso allarme'.
Bernard Rieux prese Castel nella sua automobile per raggiungere la prefettura. .
'Lei Sa', gli disse quest'ultimo, 'che il distretto non ha siero? '
'Lo so. Ho telefonato al deposito, e il direttore é caduto dalle nuvole. Bisogna farlo venire da Parigi'. 'Spero che non vada troppo per le lunghe'.
'Ho bell'e telegrafato', rispose Rieux.
Il prefetto era gentile, ma nervoso.
'Cominciamo, signori', diceva. 'Debbo riassumere la situazione? '
Richard pensava ch'era inutile, i medici la conoscevano. La questione era soltanto di sapere quali misure convenisse prendere.
'La questione' disse brutalmente il vecchio Castel 'è di sapere se si tratta di peste o no'.
Due o tre medici protestarono, gli altri sembravano incerti. Quanto al prefetto, ebbe un sussulto e si voltò istintivamente verso la porta, come per assicurarsi d'avere impedito a quell'enormità di spandersi nei corridoi. Richard dichiarò che, secondo lui, non bisognava cedere alla paura: si trattava d'una febbre con complicazioni inguinali, era tutto quello che si poteva dire, essendo le ipotesi, nella scienza come nella vita, sempre pericolose.
Il vecchio Castel, che si mordicchiava tranquillamente i mustacchi ingialliti, alzò su Rieux gli occhi chiari, poi rivolse un benevolo sguardo sull'assemblea e fece notare che lui sapeva benissimo ch'era la peste, ma che, beninteso, il riconoscimento ufficiale avrebbe costretto a prendere misure spietate. Egli sapeva che, in fondo, era questo a far indietreggiare i colleghi e, pertanto, voleva ben credere, per la loro tranquillità, che non fosse peste.
Il prefetto, agitato, dichiarò che in ogni caso non era un bel modo di ragionare.
' L'importante' disse Castel 'non è che sia un bel modo di ragionare, ma che faccia riflettere'.
Siccome Rieux taceva, gli domandarono la sua idea:
'Si tratta d'una febbre a carattere tifoide, ma accompagnata da bubboni e da vomiti. Ho praticato 1'incisione dei bubboni, sì che ho potuto far eseguire delle analisi in cui il laboratorio crede di riconoscere il tozzo microbo della peste. Per dire tutto, aggiungo che certe modificazioni specifiche del microbo non coincidono con la descrizione classica'.
Richard fece rilevare che questo autorizzava le esitazioni, e che almeno bisognava aspettare il risultato statistico della serie d'analisi cominciata da qualche giorno.
'Quando un microbo' disse Rieux dopo un breve silenzio 'è capace in tre giorni di tempo di quadruplicare il volume della milza, di dare ai gangli mesenterici il volume di un'arancia e la consistenza della pappa, non autorizza davvero le indecisioni. I focolai infettivi sono in crescente diffusione. Al passo con cui la malattia si spande, se non è bloccata, rischia di uccidere mezza città prima di due mesi. Di conseguenza, poco importa che voi la chiamiate peste o febbre di crescenza. Importa soltanto che voi le impediate di uccidere mezza città'.
Richard riteneva che non bisognava veder troppo nero e che, d'altronde, il contagio non era provato se i parenti dei malati erano ancora immuni.
'Ma altri sono morti', fece notare Rieux. 'E poi, beninteso, il contagio non è mai assoluto, altrimenti si avrebbero un aumento matematico all'infinito e uno spopolamento fulmineo. Non si tratta di veder troppo nero. Si tratta di prendere delle precauzioni'.
Richard, tuttavia, pensava di riassumere la situazione ricordando che per fermare la malattia, se non si fermava da sola, bisognava applicare le gravi misure di profilassi stabilite dalla legge; che, per farlo, bisognava riconoscere uf6cialmente trattarsi di peste; che la certezza non era assoluta al riguardo, e che di conseguenza la cosa richiedeva riflessione.
'La questione' insisteva Rieux 'non è di sapere se le misure stabilite dalla legge sono gravi, ma se sono necessarie per impedire a mezza città di essere uccisa. Il resto è faccenda amministrativa, e giust'appunto le nostre istituzioni prevedono un prefetto per sistemare le cose del genere'.
'Certamente', disse il prefetto, 'ma ho bisogno che loro riconoscano ufficialmente che si tratta d'una epidemia di peste'.
'Se noi non lo riconosciamo', disse Rieux, 'rischia lo stesso di uccidere mezza città'.
Richard intervenne con qualche nervosismo.
'La verità è che il nostro collega crede alla peste. La sua descrizione della sindrome lo prova'.
Rieux rispose che non aveva descritto una sindrome, ma quello che aveva veduto. E aveva veduto bubboni, macchie, febbri deliranti, fatali in quarantott'ore. Forse che Richard poteva prendersi la responsabilità di affermare che 1'epidemia si sarebbe fermata senza rigorose misure di profilassi?
Richard, incerto, guardò Rieux:.
'Sinceramente, mi dica il suo pensiero, lei ha la certezza che si tratti di peste? '
'Lei pone male il problema: non è una questione di vocabolario, è una questione di tempo'.
' Il suo pensiero' disse il prefetto, 'sarebbe che, anche se non si trattasse di peste, le misure profilattiche indicate in periodi di peste dovrebbero essere applicate?'
'Se assolutamente bisogna che io abbia un pensiero, sarebbe infatti questo'.
I medici si consultarono, e Richard concluse: 'Insomma, bisogna che noi assumiamo la responsabilità di agire come se la malattia fosse la peste'.
La formula fu calorosamente approvata.
'È anche la sua idea, mio caro collega?' domandò , Richard.
'La formula mi è indifferente', disse Rieux. 'Diciamo soltanto che non dobbiamo agire come se mezza città non rischiasse di essere uccisa: in tal caso, lo sarebbe'.
In mezzo al disagio generale, Rieux se ne andò. Alcuni minuti dopo, nel sobborgo che sapeva di fritto e d'orina, una donna che urlava a morte, con gli inguini insanguinati, si voltava verso di lui.
Il giorno dopo la seduta, la febbre fece un altro lieve balzo; la notizia passò anche nei giornali, ma sotto una forma benevola: si accontentarono di qualche allusione. In ogni caso, due giorni dopo la seduta, Rieux poteva leggere certi manifestini bianchi che la prefettura aveva fatto rapidamente incollare negli angoli più discreti della città. Era difficile ricavare da tali avvisi la prova che le autorità guardavano in faccia la situazione. Le misure non erano draconiane e sembrava che si fosse molto sacrificato al desiderio di non preoccupare l'opinione pubblica. L'esordio del decreto annunciava, infatti, che alcuni casi d'una febbre perniciosa, di cui non si poteva ancora dire se fosse infettiva, si erano manifestati neI comune di Orano. Non erano caratterizzati sino a essere davvero preoccupanti e non vi era dubbio che Ia popolazione avrebbe saputo mantenere il suo sangue freddo. Ciononostante, e in uno spirito di prudenza che poteva essere inteso da tutti, il prefetto prendeva alcune misure preventive; capite e applicate come dovevano essere, queste misure erano tali da fermare di colpo ogni minaccia d'epidemia. Di conseguenza, il prefetto non dubitava minimamente che i suoi amministrati avrebbero recato la più devota collaborazione al suo sforzo personale.
Amado Jeorge è uno scrittore brasiliano, che annovera, tra i suoi romanzi, 'Teresa Batista stanca di guerra', pubblicato nel 1972, in cui si narrano le vicende di una bellissima mulatta, Teresa appunto, che passa attraverso innumerevoli peripezie (orfana, venduta bambina ad un crudele padrone, diventa ballerina e prostituta, si innamora e viene tradita) dalle quali esce sempre vincitrice, con la sua vitalità e voglia di vivere.
Quando a Buquìm, una cittadella isolata e povera, si diffonde la pestilenza del 'vaiolo nero', Teresa sarà tra i pochi a non fuggire e a curare i poveri e vaccinarli, correndo il rischio di contagiarsi. L' episodio si conclude con le seguenti parole:
'lo creda chi vuole: a por fine al vaiolo nero che imperversava nelle vie di Buquìm sono state le puttane di Muricapeba capeggiate da Teresa. Coi suoi denti limati e col suo dente d'oro Teresa Batista ha masticato il vaiolo e lo ha sputato fuoriNascosto in una grotta il vaiolo aspetta una nuova occasione. Ah, se nessuno provvede, un giorno ritornerà per farla finita, e allora poveri noi! Dove trovare un'altra Teresa-del-vaiolo-nero per dirigere le operazioni?"
LA PESTE IN MANZONI
Nel XXXI capitolo
Il capitolo è interamente dedicato alla peste: un morbo che nei secoli passati ha falciato milioni di vittime e, come abbiamo già visto, fin dall'antichità ha avuto celebri descrizioni: quella di Tucidide nella Guerra del Peloponneso(II,48-53); di Lucrezio nel De rerum Natura (VI, 1145-1250); di Paolo Diacono nella Historia Langobardorum (II,4-5); di Boccaccia nel Decameron (Introd, 8-48), di Defoe nel Diario dell'anno della peste (1722) e, infine, ai giorni nostri, la descrizione della La peste (1947) di Camus. Tutte le descrizioni obbediscono, in diversa misura, al seguente schema: 1) individualizzazione dei sintomi e delle cause del morbo; 2 ) descrizione del suo sviluppo ed effetti sulla gente;3 ) motivi della scomparsa della malattia.
Anche il Manzoni, grosso modo, segue lo stesso schema, tuttavia la narrazione è diluita in più tronconi dove la descrizione della malattia si alterna al resoconto dei pareri e provvedimenti delle autorità scientifiche e politiche, nonché a diverse considerazioni e commenti dell'autore;secondo il Manzoni la peste come malattia era inevitabile, ma i suoi effetti avrebbero potuto essere contenuti e limitati se non avessero prevalso la stupidità e l'irrazionalità di tutte le componenti delle forze sociali.
RIASSUNTO:
Dai paesi che circondano Milano, giungono le notizie delle prime morti, ma, solo dopo una visita sui luoghi della malattia, si stabilisce che si tratta di peste. Le autorità, ed in particolare il governatore Ambrogio Spinola, rimangono piuttosto indifferenti al problema; ma anche la popolazione rifiuta l'idea del contagio. Finalmente, il 29 novembre 1629 viene pubblicata una grida che vieta l'ingresso in città di coloro che provengono da paesi ove si è verificata l'epidemia: ma ormai la peste è già entrata in Milano. Vengono prese misure per evitare il contagio, ma la gente, per avidità e paura, riesce ad eluderle. L'epidemia si diffonde, ma in modo non rapido: la gente rimane scettica e si scaglia contro i medici che mettono in guardia contro la peste, giungendo ad aggredire il medico Lodovico Settala. Si moltiplicano le morti e diviene impossibile negare l'esistenza del morbo. Invece di dichiarare la presenza della peste, si parla però di febbri pestilenti: ciò induce a trascurare i pericoli del contagio. I malati trasportati al lazzaretto si fanno sempre più numerosi, tanto che il lazzaretto stesso diventa ingovernabile: solo l'intervento e il sacrificio di alcuni frati riuscirà a riportare l'ordine in quel luogo.
Si parla finalmente di peste, ma si diffonde al tempo stesso l'idea che all'origine del male non vi sia il contatto con gli ammalati, bensì quello con unguenti velenosi. A rafforzare la psicosi dell'untore concorrono due episodi di presunta unzione: l'uno verificatosi in duomo, l'altro lungo le strade cittadine. Malgrado il tribunale di Sanità non creda allo spargimento di veleni, le autorità non smentiscono pubblicamente l'esistenza delle unzioni; mentre vi è addirittura chi continua a negare la pestilenza: l'esposizione di alcuni cadaveri nel corso di una processione convincerà tutti del contrario. Il Manzoni riflette infine sulle mistificazioni di fatti e di parole che hanno condotto ad uno sviluppo così ampio del contagio.
Nel XXXII capitolo
Prosegue dal capitolo precedente la descrizione della peste nella sua "verità" storica, ma viene evidenziata, in particolare, la reazione della gente e anticipata, per certi aspetti, quella metodologia di indagine storico-sociale che oggi va sotto la denominazione di "storia della mentalità".
RIASSUNTO:
L'Autorità cittadina si rivolge nuovamente al governatore Ambrogio Spinola, ma questi, impegnato nell'assedio di Casale, nega ogni aiuto. Si anticipano le notizie circa l'esito della guerra: il duca di Nevers rimane signore di Mantova, ma la città viene saccheggiata dai lanzichenecchi.
Gli amministratori cittadini chiedono al cardinale Federigo di far svolgere una processione per assicurarsi la protezione divina, ma Federigo rifiuta. Intanto crescono i sospetti sulle unzioni e si verificano episodi di linciaggio come quelli ai danni di un vecchio e di tre francesi. Dopo nuove pressioni del governo milanese, il vescovo acconsente a far svolgere la processione e a far venerare la reliquia di san Carlo. Il lungo corteo vede la partecipazione di popolani, di borghesi, di nobili e di ecclesiastici.
Il giorno successivo alla processione si moltiplicano i casi di peste, ma invece di cercare la causa nel contatto tra tanta gente, si dà la colpa agli untori. I lazzaretti si affollano al limite della loro capacità e cominciano a fare la loro comparsa i monatti (il Manzoni apre una parentesi etimologica sul termine monatto). Solo con l'opera dei cappuccini, dei sacerdoti, del vescovo e delle poche persone di buona volontà, si riesce a far fronte, fuori e dentro i lazzaretti, alla terribile situazione sanitaria. Nella confusione generale si moltiplicano le violenze commesse dai birri e dai monatti.
Cresce anche la pazzia generale e la psicosi dell'unzione. Si sospetta di tutti, e vi è persino chi, magari delirando, dice di essere untore. Vengono inventate storie diaboliche e fantasiose cui anche i medici sembrano dar credito. I dotti chiamano poi in causa congiunzioni di astri ed altre teorie pseudo-scientifiche. Anche il cardinale comincia a credere alle unzioni, e gli scettici sono ormai pochi e silenziosi.
I magistrati iniziano a cercare e a processare i presunti untori: si eseguiranno molte condanne atroci e ingiuste di cui il Manzoni parlerà più diffusamente in "Storia della colonna infame".
DA: "STORIA DELLA COLONNA INFAME"
Le cognizioni mediche del Seicento non sapevano interpretare le cause del contagio delle epidemie e spesso questa ignoranza portava a credere nell'origine dolosa della pestilenza. Così avvenne nella Milano del 1630 quando, per le voci nate dalla forsennata fantasia di alcuni, innocenti vennero accusati di essere i responsabili della diffusione della peste nella città, contaminata da un misterioso unguento con il quale si riteneva che avessero unto (da cui il termine 'untore') muri e portoni. Da qui prende le mosse La storia della colonna infame (1842), la ricostruzione che Alessandro Manzoni fece del processo agli untori negli anni della terribile pestilenza che fa da sfondo alle vicende del romanzo I promessi sposi. Uno di questi imputati, Gian Giacomo Mora, venne giustiziato insieme a tutta la sua famiglia e la sua casa, nel popolare quartiere Ticinese a Milano, venne rasa al suolo. In quello stesso
punto venne eretta a monito di tanta presunta efferatezza una colonna, da cui prende il titolo l'opera.
L' UNTORE
"La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa,
trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani.
C'era alla finestra d'una casa della strada medesima un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin dal momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. Viddi, dice, che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scriuere; et poi viddi che, leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, doue era un poco di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d'inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero. Infatti, nell'esame che gli fu fatto il giorno dopo, interrogato, se l'attioni che fece quella mattina, ricercorno scrittura, risponde: signor sì. E in quanto all'andar rasente al muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno d'un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione di questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceua questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo piovoso, perché più persone potessero imbrattarsi li panni nell'andar in volta, per andar al coperto. Dopo quella fermata, costui tornò indietro, rifece la medesima strada, arrivò alla cantonata, ed era per isparire; quando, per un'altra disgrazia, fu rintoppato da uno ch'entrava nella strada, e che lo salutò. Quella Caterina, che, per tener dietro all'untore, fin che poteva, era tornata alla finestra di prima, domandò all'altro chi fosse quello che haueua salutato. L'altro, che, come depose poi, lo conosceva di vista, e non ne sapeva il nome, disse quel che sapeva, ch'era un commissario della Sanità. Et io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi piaccino niente. Subito puoi si diuulgò questo negotio, cioè fu essa, almeno principalmente, che lo divolgò; et uscirno dalle porte, et si vidde imbrattate le muraglie d'un certo ontume che pare grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero che haueuano trouato tutto imbrattato li muri dell'andito della loro porta. L'altra donna depone il medesimo. Interrogata, se sa a che effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde: dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate.
E, cose che in un romanzo sarebbero tacciate d'inverisimili, ma che pur troppo l'accecamento della passione basta a spiegare, non venne in mente né all'una né all'altra, che, descrivendo passo per passo, specialmente la prima, il giro che questo tale aveva fatto nella strada, non avevan però potuto dire che fosse entrato in quell'andito: non parve loro una gran cosa davvero, che costui, giacché, per fare un lavoro simile, aveva voluto aspettare che fosse levato il sole, non ci andasse almeno guardingo, non desse almeno un'occhiata alle finestre; né che tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se fosse usanza de' malfattori di trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto; né che maneggiasse impunemente una materia che doveva uccider quelli che se ne imbrattassero i panni; né troppe altre ugualmente strane inverisimiglianze. Ma il più strano e il più atroce si è che non paressero tali neppure all'interrogante, e che non ne chiedesse spiegazione nessuna. O se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo.
I vicini, a cui lo spavento fece scoprire chi sa quante sudicerie che avevan probabilmente davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci, si misero in fretta e in furia a abbruciacchiarle con della paglia accesa. A Giangiacomo Mora, barbiere, che stava sulla cantonata, parve, come agli altri, che fossero stati unti i muri della sua casa. E non sapeva, l'infelice, qual altro pericolo gli sovrastava, e da quel commissario medesimo, ben infelice anche lui.
Il racconto delle donne fu subito arricchito di nuove circostanze; o fors'anche quello che fecero subito ai vicini non fu in tutto uguale a quello che fecero poi al capitano di giustizia. Il figlio di quel povero Mora, essendo interrogato più tardi se sa o ha inteso dire in che modo il detto commissario ongesse le dette muraglie et case, risponde: sentei che una donna di quelle che stanno sopra il portico che trauersa la detta Vedra, quale non so come habbi nome, disse che detto commissario ongeua con una penna, hauendo un vasetto in mano. Potrebb'esser benissimo che quella Caterina avesse parlato d'una penna da lei vista davvero in mano dello sconosciuto; e ognuno indovina troppo facilmente qual altra cosa poté esser da lei battezzata per vasetto; ché, in una mente la qual non vedeva che unzioni, una penna doveva avere una relazione più immediata e più stretta con un vasetto, che con un calamaio.
Ma pur troppo, in quel tumulto di chiacchiere, non andò persa una circostanza vera, che l'uomo era un commissario della Sanità; e, con quest'indizio, si trovò anche subito ch'era un Guglielmo Piazza, genero della comar Paola, la quale doveva essere una levatrice molto nota in que' contorni. La notizia si sparse via via negli altri quartieri, e ci fu anche portata da qualcheduno che s'era abbattuto a passar di lì nel momento del sottosopra. Uno di questi discorsi fu riferito al senato, che ordinò al capitano di giustizia, d'andar subito a prendere informazioni, e di procedere secondo il caso.
È stato significato al Senato che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de' Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole, già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre il processo.
Al veder questa ferma persuasione, questa pazza paura d'un attentato chimerico, non si può far a meno di non rammentarsi ciò che accadde di simile in varie parti d'Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera. Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che stendesse la mano sopra imputati di quella sorte, quando non fosse stato per sottrarli al furore della moltitudine. È, certo, un gran miglioramento; ma se fosse anche più grande, se si potesse esser certi che, in un'occasion dello stesso genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse attentati dello stesso genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo d'errori somiglianti nel modo, se non nell'oggetto. Pur troppo, l'uomo può ingannarsi, e ingannarsi terribilmente, con molto minore stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono ugualmente all'occasion di mali che possono esser benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni. Per citarne un esempio anch'esso non lontano, anteriore di poco al colera; quando gl'incendi eran divenuti così frequenti nella Normandia, cosa ci voleva perché un uomo ne fosse subito subito creduto autore da una moltitudine? L'essere il primo che trovavan lì, o nelle vicinanze; l'essere sconosciuto, e non dar di sé un conto soddisfacente: cosa doppiamente difficile quando chi risponde è spaventato, e furiosi quelli che interrogano; l'essere indicato da una donna che poteva essere una Caterina Rosa, da un ragazzo che, preso in sospetto esso medesimo per uno strumento della malvagità altrui, e messo alle strette di dire chi l'avesse mandato a dar fuoco, diceva un nome a caso.
Felici que' giurati davanti a cui tali imputati comparvero (ché più d'una volta la moltitudine eseguì da sé la sua propria sentenza); felici que' giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio e essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma ch'eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti."
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