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Il volto Oscuro dell'America
Spesso, ciò che si sente o si vede, non è la pura realtà. La verità è tutt'altro di ciò che ci danno ad intendere, la verità non è sempre ciò di cui ci vogliono convincere; la verità è una, e solo con un duro lavoro di analisi la si potrebbe scoprire!
La Storia
Il 3 novembre 1992 si tengono negli Stati Uniti le elezioni presidenziali: il candidato del partito democratico, Bill Clinton, sconfigge nettamente, con il 43% delle preferenze, il presidente uscente, il repubblicano George Bush, che ottiene il 38% dei voti. È la fine di un'epoca. Gli otto anni di permanenza di Ronald Reagan alla Casa Bianca (1980-1988) seguiti dai quattro anni di Bush (1988-1992) hanno davvero cambiato il volto degli Stati Uniti, rafforzandone il ruolo esterno a prezzo, però, di una grave recessione interna. Dopo la scomparsa della minaccia sovietica e la vittoriosa guerra del golfo, gli Usa rappresentano ormai l'unica superpotenza del mondo.
La guerra del Golfo: conseguenze in America
George Bush è stato l'uomo della vittoria contro il dittatore iracheno Saddam Hussein, ma la sua presidenza ha coinciso con il periodo di più lenta crescita economica attraversato dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale. Le ingenti spese militari hanno pesato enormemente sul debito pubblico. La politica economica decisamente liberista ha rilanciato la piccola e media impresa, ma ciò non si è tradotto in un miglioramento del tenore di vita della popolazione; il tasso di disoccupazione, anzi, ha raggiunto livelli preoccupanti. La criminalità, comune e organizzata, ha continuato a imperversare in tutte le grandi città statunitensi, dove si assiste spesso anche a conflitti razziali tra la popolazione bianca e quella immigrata: quest'ultima, infatti, incontra ancora oggi grandi difficoltà a inserirsi a pieno titolo nel tessuto sociale americano.
L'ascesa del partito democratico
Questa situazione ha alimentato nell'opinione pubblica un diffuso malcontento: mentre si riconosce alla lunga amministrazione repubblicana il merito di aver riaffermato la supremazia internazionale degli Stati Uniti, la si incolpa di aver eccessivamente trascurato i problemi interni. Per tutta la campagna elettorale, perciò, la popolarità di Bush subisce un calo progressivo e inesorabile, a tutto vantaggio del candidato del Partito democratico, l'ex governatore dell'Arkansas Bill Clinton. L'esito delle elezioni presidenziali appare dunque ampiamente scontato: tutti i sondaggi della vigilia danno per certa la vittoria di Clinton. E, una volta tanto, la storia darà ragione ai sondaggi: il 20 gennaio 1993 Bill Clinton si insedia alla Casa Bianca come 42° presidente degli Stati Uniti d'America.
La presidenza di Bill Clinton
Il programma del nuovo presidente è quasi completamente imperniato sull'esigenza di cambiamento della politica economica e sulla necessità di abbandonare gli eccessi provocati dallo sfrenato liberismo economico che hanno caratterizzato l'era repubblicana. L'obiettivo primario di Clinton è quello di rilanciare l'economia attraverso incentivi alla produzione industriale e alle esportazioni, oltre che con un ampio programma di spese pubbliche, in particolare nel settore della sanità. Un piano senza dubbio ambizioso, che però deve fare i conti con un pauroso disavanzo pubblico lasciato in eredità dalla precedente amministrazione. Di fronte alle difficoltà oggettive, tuttavia, l'atteggiamento di Clinton, sicuro e rassicurante in campagna elettorale, si fa via via più incerto e contraddittorio. Se vogliamo tentare un bilancio dei primi anni della presidenza Clinton, dobbiamo ammettere che una ripresa economica c'è stata, ma che nel complesso l'opinione pubblica non ne ha tratto beneficio. Il Pil (prodotto interno lordo) è aumentato, ma più nei settori che tradizionalmente 'consumano' la ricchezza (sanità, ristorazione ecc.) che non in quelli che la producono (industria).
Le questioni sociali
Quanto ai problemi sociali, permane irrisolto il grave nodo della riforma sanitaria, uno dei grandi cavalli di battaglia di Clinton durante la campagna elettorale. Inizialmente affidato a una commissione presieduta dalla Hillary Clinton, che è anche uno dei più brillanti e noti avvocati d'America, il progetto è stato accantonato nel settembre 1994 a causa dell'ostruzionismo svolto dal Congresso.
Segna il passo anche la lotta alla criminalità; anzi, per la prima volta l'opinione pubblica si trova a dover fare i conti, oltre che con la criminalità comune, anche con sanguinosi attentati terroristici, che non si limitano più a colpire soltanto gli interessi americani all'estero, come era avvenuto finora, ma che seminano morte e distruzione sul suolo stesso degli Stati Uniti. È il caso dell'attentato compiuto alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York, effettuato nel febbraio 1993 da estremisti islamici, e di quello dell'aprile 1995 a Oklahoma City, che ha provocato più di duecento morti; quest'ultimo attentato, il più grave mai avvenuto in tutti gli Stati Uniti, è opera di un gruppo paramilitare di orientamento neonazista.
La politica internazionale di Clinton
Se all'interno la ripresa si fa attendere, le cose non vanno molto meglio per gli Usa sul piano internazionale.
Dopo i fasti seguiti ai successi conseguiti nella guerra del golfo, gli Stati Uniti tendono ad abbandonare il ruolo di 'gendarmi' del pianeta e ad assumere invece quello di 'paladini' della pace nel mondo. La caduta del comunismo e il 'profondo rosso' del bilancio federale impongono una riduzione dell'impegno militare degli Usa: Clinton annuncia perciò che la sua linea di politica estera sarà limitata a missioni di pace nelle zone 'calde' del globo.
Il bilancio di tali azioni di pace, però, sarà, almeno nel primo biennio presidenziale di Clinton, alquanto fallimentare.
Inizia la guerra in Bosnia
In Bosnia, l'atteggiamento altalenante tenuto per anni da Clinton, incerto tra l'adozione delle 'maniere forti' e la tentazione di abbandonare il problema agli europei, non giova certo alla soluzione di una delle crisi più profonde del dopoguerra. Di fronte alla tragedia della guerra in Bosnia, le missioni diplomatiche dimostrano la loro inadeguatezza e, purtroppo, la loro inutilità, e soltanto nell'estate del 1995, quando gli Stati Uniti decidono di adottare la linea 'dura' appoggiando i massicci raid aerei della Nato su obiettivi militari serbi, la situazione sembra sbloccarsi.
Incongruenze nella politica estera
Nel complesso, tuttavia, la politica estera di Clinton sembra improntata a una certa improvvisazione, che lascia trasparire l'assenza di una vera regia. Mentre si usa, per esempio, il pugno di ferro contro Cuba, colpita da un embargo trentennale che ha ridotto la popolazione alla fame, viene ratificata alla Cina l'importante clausola commerciale di 'nazione più favorita', svincolando di fatto i rapporti economici dalla pregiudiziale del rispetto dei diritti umani.
Nelle elezioni presidenziali tenutesi il 5 novembre 1996 il presidente Clinton si vedrà riconfermato nel suo incarico con una netta maggioranza di voti.
La guerra del golfo
Alla fine del conflitto con l'Iran, l'Iraq vede rafforzata la sua potenza militare, ma fortemente compromessa la sua situazione economica. Da questo punto di vista, un'ulteriore e grave minaccia viene dalla decisione del piccolo ma ricchissimo emirato del Kuwait di incrementare la produzione di greggio, in palese violazione degli accordi assunti dall'Opec (l'organizzazione che riunisce gli stati produttori di petrolio). Il Kuwait comincia infatti a estrarre enormi quantità di petrolio dai giacimenti di Rumalia, una regione di confine sulla quale l'Iraq avanza da tempo rivendicazioni territoriali. Una tale politica da parte del Kuwait rischia davvero di dare il colpo di grazia alla già disastrata economia irachena, perché, aggravando la sovrapproduzione di petrolio, determina un ulteriore ribasso dei prezzi dei materiali energetici, che rappresentano il 90% delle risorse economiche dell'Iraq. Il 2 agosto 1990 Saddam Hussein invade il Kuwait, occupandone la capitale e i giacimenti petroliferi. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotta dapprima una serie di sanzioni economiche contro l'Iraq, che arrivano fino all'embargo totale; quindi, il 29 novembre, viene approvata (con i soli voti contrari dello Yemen e di Cuba, e con l'astensione della Cina) una risoluzione che legittima l'uso della forza se le truppe irachene non abbandoneranno il Kuwait entro il 15 gennaio 1991. Scaduto l'ultimatum senza che Saddam Hussein dia segno di voler recedere dal suo proposito di annessione dell'emirato, il presidente americano George Bush (successore ed erede politico di Ronald Reagan) dà il via all'operazione 'Tempesta nel deserto'. La forza multinazionale alleata, il cui comando militare è affidato agli Stati Uniti, sferra un violento attacco nella notte tra il 15 e il 16 gennaio, bombardando massicciamente e a più riprese la capitale Bagdad. Saddam Hussein tenta di legare la sua invasione del Kuwait alla questione palestinese e lancia ripetutamente missili contro Israele, sperando in una reazione dello stato ebraico. Egli mira a provocare il distacco dei paesi arabi dalla compagine antirachena, chiamandoli a una sorta di guerra santa contro l'Occidente. Israele, però, su sollecitazione di Bush, non reagisce. L'offensiva degli alleati prosegue incessantemente fino alla fine di febbraio, quando Saddam Hussein abbandona il Kuwait e firma la resa dell'Iraq. La violenza con cui Saddam Hussein perseguita gli sciiti, e soprattutto i curdi, spinge l'Onu, nell'estate 1992, a creare due zone aeree protette, corrispondenti ai territori abitati da queste popolazioni, dove l'aviazione irachena non potrà volare: lo scopo è quello di impedire i continui e feroci bombardamenti di quelle regioni. Saddam Hussein, però, vìola ripetutamente queste e altre risoluzioni prese dell'Onu, impedendo, per esempio, agli osservatori internazionali di compiere le ispezioni previste dal trattato di pace e minacciando nuovi tentativi militari di annessione del Kuwait. Il perdurare di questa situazione determina, nel corso del 1993, nuovi scontri armati: Usa, Gran Bretagna e Francia bombardano a più riprese alcuni obiettivi militari posti nel sud del paese, mentre l'aviazione americana colpisce la sede dei servizi segreti a Bagdad. È la popolazione irachena, intanto, a pagare lo scotto più pesante della guerra: l'embargo internazionale ha ormai messo in ginocchio l'economia dello Stato e la propaganda del regime serve sempre meno a far dimenticare al popolo problemi gravi come la carenza di generi alimentari e di medicine.
Israeliani e palestinesi: una terra, due popoli
L'inizio degli anni Novanta porta nell'annosa guerra tra israeliani e palestinesi una ventata di ottimismo. Le due parti in conflitto sembrano infatti ammorbidire le loro reciproche posizioni e voler finalmente giungere a una seria trattativa di pace. Nel giugno 1992 le elezioni politiche israeliane sono vinte dal Partito laburista. Il nuovo primo ministro, Yitzhak Rabin, si mostra subito più disponibile del suo predecessore Shamir: vista l'impossibilità di reprimere l' intifadah (la cosiddetta 'rivolta delle pietre' messa in atto dalla popolazione palestinese dei territori occupati) che infuria dal 1987 a Gaza e in Cisgiordania, Rabin si rende conto che non è più possibile negare il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e che, per giungere un accordo, occorre riconoscere l'Olp e ammetterla ai negoziati di pace.
Yasser Arafat capo dell'Olp
Il leader dell'Olp Yasser Arafat, da parte sua, professa l'abbandono della pratica terroristica e limita i suoi obiettivi politici all'instaurazione di uno stato palestinese indipendente nei territori di Gaza e Cisgiordania. E così, dopo lunghe trattative segrete svoltesi in Norvegia, il 13 settembre 1993 le due parti firmano a Washington, alla presenza del presidente americano Bill Clinton, una storica 'Dichiarazione di principio sull'autogoverno palestinese'. Essa prevede il ritiro dai territori occupati di Gaza e Gerico dell'esercito israeliano, che continuerà comunque a essere responsabile della sicurezza della zona, e soprattutto degli insediamenti ebraici che vi sono collocati.
La questione palestinese
Il trattato prevede inoltre l'elezione di un Consiglio palestinese e il passaggio graduale di tutti i poteri civili (fisco, sanità, istruzione, servizi sociali) all'amministrazione autonoma palestinese. Quest'ultima viene poi estesa anche alla Cisgiordania dall'accordo firmato da Peres e Arafat il 24 settembre 1995.
Palestina tra pace e guerra
Le fazioni estremistiche sia israeliane sia palestinesi si oppongono tuttavia a questi accordi, che considerano una sorta di 'tradimento' degli ideali palestinesi: si susseguono, perciò, numerosi e sanguinosi attentati terroristici, che rischiano spesso di vanificare tutti gli sforzi compiuti sulla strada della pace. Il 1° luglio 1994 Yasser Arafat rientra a Gaza dopo ventisette anni di esilio a Tunisi e viene acclamato presidente del nuovo stato palestinese. Si trova 'tra l'incudine e il martello': viene contestato dagli integralisti del potente movimento Hamas, e deve rassicurare le autorità israeliane sulla sua capacità di rispettare gli accordi e di impedire il riacutizzarsi del terrorismo. La pace in Medio Oriente è ancora incerta, ma il trattato del settembre 1993, perfezionato da quello del settembre 1995, rappresenta una svolta storica.
Shimon Peres
Il premio Nobel per la pace 1994 viene attribuito alle tre personalità che hanno reso possibile questa svolta: Itzhak Rabin, premier di Israele, Shimon Peres, ministro degli esteri israeliano, e Yasser Arafat. Il 4 novembre 1995 Itzhak Rabin è assassinato da Yigal Amir e il giorno successivo Shimon Peres è nominato premier. Nel maggio 1996 è eletto Benjamin Netanyahu, che congela il processo di pace dei predecessori.
Le sette "sorelle"
Grandi compagnie petrolifere che fino agli anni Settanta detennero il monopolio del mercato petrolifero. Si tratta di: British Petroleum, Exxon, Gulf, Mobil, Royal, Dutch, Shell, Standard Oil of California, Texaco. Queste, essendo delle grandi società, possiedono un forte potere nell'ambito dell'economia globale, possono quindi imporre forti decisioni politiche, in modo da accrescere sempre più la loro egemonia. Rappresentano un ostacolo alla libertà umana. L'Italia infatti è costretta a comprare, tramite queste, il petrolio; di conseguenza, passando dal produttore al primo fornitore, e poi acquistandoo noi, si verifica un aumento dei prezzi. Si tentò, grazie alcune azioni politiche, a sottrarre il monopolio alle suddette compagnie per acquistare direttamente dai paesi produttori, ma i rappresentanti di tale movimento pagarono con la morte la "folle" ricerca di libertà.
Il Presente
George W. Bush decide, nel primo periodo della sua elezione a presidente di dare un segnale del suo arrivo con un bombardamento le cui motivazioni sono a me poco chiare. Come risposta al suo atteggiamento violento, in un clima di odio profondo e storico, circa 50 terroristi a noi sconosciuti hanno deciso di colpire i simboli maggiori dell'economia e della politica Americana. Obbiettivo raggiunto è stato l'abbattimento delle 2 torri gemelle e del pentagono, un 4° bersaglio non è stato colpito perché intercettato l'aereo dirottato, l'esercito americano ha deciso di abbatterlo nonostante a bordo c'erano dei civili. Quest'ultima notizia non è stata divulgata. L'aereo era diretto verso l'abitazione estiva di George Bush. L'FBI è da ritenersi sconfitta, e consapevole di ciò risponde che continuerà a svolgere azioni segrete, ma a questo punto mi domando, ma sarà dalla nostra parte? Non vorrei sentir discorsi studiati ed elaborati poco coerenti con la verità.
Ancor presto per trovare la verità, per ora possiamo leggere varie informazioni le cui fonti non sono sempre sicure.
(ASCA) - Roma, 13 set - Il presidente degli Stati Uniti George
Bush non ha fatto alcun commento sulle notizie che
sarebbe Osama Bin Laden il mandante degli attacchi agli USA dell'altro ieri. Bush ha detto che qualsiasi commento comprometterebbe gli
sforzi dell'intelligence americana nelle operazioni di ricerca dei colpevoli.
''Ogni fonte e ogni metodo di indagine sara' coperto
dal massimo segreto - ha detto - per la protezione della popolazione americana''. Bush ha detto che e'
una mossa prudente quella dell'FAA di riaprire lo spazio aereo americano.
''Abbiamo preso ogni precauzione per la sicurezza dei voli in America. Se un
mio familiare mi chiedesse se possa volare gli direi di si'''.
(infatti lui è stato il primo a scappare sul suo aereo personale protetto da
altri aerei di guerra)
Alla violenza come risponderemo? (1° parte)
L'ipotesi di una rappresaglia della Nato contro l'Afghanistan,
come conseguenza degli attacchi agli Usa, aleggia nei corridoi della diplomazia
internazionale. L'Alleanza atlantica ha seccamente smentito la notizia
pubblicata oggi dal quotidiano britannico 'Guardian',
secondo cui gli strateghi di Bruxelles starebbero studiando un piano che
prevede l'impiego di decine di migliaia di soldati per attaccare il Paese
asiatico, nel caso fosse provato un coinvolgimento di Osama
Bin Laden negli attentati
di martedì. Ma una fonte anonima della Nato ha ammesso che questa è una delle
opzioni aperte, e non del tutto inverosimile.
La strada di una rappresaglia passa
comunque attraverso una richiesta degli Stati Uniti. Sono loro, si ricorda alla
Nato, che dovranno riferire se abbiano raccolto prove sui responsabili degli
attentati e quale assistenza richiedano eventualmente agli alleati sulla base
dell'articolo 5 del Trattato atlantico. Prima di questa richiesta, si osserva,
non può neppure essere attivata una pianificazione militare.
In ogni caso, l'ipotesi di un intervento
militare è ritenuta poco probabile dal nostro ministro della Difesa, Antonio
Martino, secondo cui al momento questa possibilità 'non è nemmeno presa in
considerazione. Perché un'azione di questo tipo viene rivolta normalmente
contro uno Stato e finora non risulta che ci sia uno Stato dietro questo atto
di vergognoso terrorismo'.
In questa girandola di indiscrezioni e
smentite, a prendere sul serio l'eventualità di un attacco in Afghanistan sono
le persone che risiedono nel Paese. E infatti oggi i Talebani
al potere hanno detto ancora una volta che, a quanto risulta loro, Osama Bin Laden
(lo sceicco dissidente saudita nascosto e protetto dal regime afghano) non è coinvolto negli attentati.(interessante
l'articolo seguente)
(13 settembre 2001)
Alla violenza come risponderemo? (2° parte)
'Un nuovo tipo di guerra, per la quale noi chiameremo gli
altri paesi ad unirsi a noi: ci è stata dichiarata guerra e noi guideremo il
mondo alla vittoria'. Così George Bush, durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, ha
annunciato che si sta rafforzando una coalizione internazionale per far sì
'che le persone che hanno compiuto queste azioni e quelli che gli danno
rifugio' siano punite.
Spiegando di essere in continuo contatto
con i leader dei paesi alleati ed amici, Bush ha
detto di aver ricevuto 'approvazione universale' per le sue
dichiarazioni e per le azioni che gli Stati Uniti adotteranno. Frasi, queste,
che indicano come un intervento militare di qualche tipo sia in programma, per
rispondere agli attacchi terroristici compiuti l'altro ieri in territorio
americano: attacchi che l'inquilino della Casa Bianca ha definito come 'la
prima guerra del XXI secolo'.
Parlando al telefono con il sindaco di
New York e il governatore dello Stato, Bush ha
rilevato 'la composta rabbia' del popolo americano per quanto
accaduto, e 'la forte determinazione' a vincere questa guerra.
(l'articolo di prima parlava di una risposta non violenta e quindi, non a una
guerra, al massimo ad una caccia al terrorismo, Bush
invece, sembra proprio intenzionato a "giocare" nel ruolo dell'eroe vigliacco
scatenando una nuova e potente guerra. La verità è che la dovremo affrontare
noi, grande popolo e ne subiremo le conseguenze con la stessa vita. Lui di
certo continuerà a vivere, con i suoi relativi problemi da presidente, ma
continuerà a vivere!)
(13 settembre 2001)
Le mie considerazioni
Si possono leggere in questa relazione alcune informazioni riguardanti l'America nel passato e nel presente. La presenza di alcuni attentati in america non mi sorprende. Si sa che imponendo la propria supremazia, o con le armi (aprendo uno scenario di massa) o con la diplomazia (scenario ristretto) si finisce con l'accumulare odio all'interno di coloro che si sentono privati di un diritto che è presente in natura, ma spesso viene violato, tale diritto è la libertà. Dando per scontato la definizione di libertà, definisco l'U.S.A una mia nemica diplomatica in quanto attua una politica a mio parere sbagliata. Il popolo italiano è visto dall'America come un bambino, incapace di essere libero ed autonomo, costretto ad essere sottomesso ma nello stesso tempo ci da la sua protezione in cambio. Protezione non da lei, dall'America, ma da altri stati che potrebbero portar via una preziosa zona geografica, la penisola italiana. Credo che se non verranno cambiate le opinioni degli americani nei confronti dell'intera umanità, se non inizieranno ad interessarsi realmente, senza doppi fini, riparando e non distruggendo, impegnandosi a risolvere quei problemi che da anni stanno lacerando milioni di persone, come il problema salute, inquinamento, povertà, ecc., allora questi attacchi simbolici continueranno. L'uomo necessità di motivazioni, sincerità e sicurezza; quindi se lasciato in un clima di povertà ed ignoranza al fine di non "intralciare" affari economici, questi, come è stato dimostrato in questi giorni, si ribellerà al capitalismo, alla globalizzazione, ad ogni tipo di cambiamento, sconfitto e senza speranze, con la sola paura, non di morire, ma di continuare a soffrire ingiustamente per colpa del DIO denaro!
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