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Gli anni dell'incubo atomico: mezzo secolo di minaccia nucleare




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Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo. Non farà più in tempo a dimostrarlo. Conflitti tra etnie, nazionalismi, genocidi, guerre civili, dittature e totalitarismi: le vittime del Novecento ammontano a circa 170 milioni di persone. Il secolo delle grandi rivoluzioni scientifiche e della definitiva affermazione della democrazia passerà alla storia come uno dei più sanguinosi nella vicenda dell'uomo.

Alla fine di questo millennio, che celebra i suoi successi scientifici e tecnologici, vige ancora, quindi, un tragico principio: quello secondo cui il fine giustifica i mezzi

Quaranta milioni di morti fu il tragico bilancio della seconda guerra mondiale: un carico di dolore che non ci ha insegnato assolutamente nulla. Il misterioso e atroce gioco dei potenti continua a svolgersi senza nessuna interruzione, usando come pedina la vita dell'uomo.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale l'umanità intera sperò che l'incubo dei conflitti armati fosse finalmente cancellato dalla faccia della terra. Fu un autentico errore di valutazione, perché l'istinto di combattere fa parte della stessa natura dell'uomo, il quale non esita a ricorrere alle armi ed alla violenza, dimostrando una volta di più di essere "ancora quello della lancia e della fionda": un uomo senza tempo, assetato di morte e di guerra.

Per questa ed altre più complesse ragioni, a circa cinquant'anni da quell'evento, osservando la realtà del pianeta, ci possiamo accorgere che la guerra è ancora tra noi, in tutti i suoi terribili aspetti.

Per nostra fortuna, la tensione internazionale che ha causato decenni di guerra fredda tra blocco occidentale e blocco orientale, tra "mondo americano" e "mondo sovietico" è stata in parte superata dai recenti eventi internazionali, quali la caduta del muro di Berlino, la riunificazione della Germania, la collaborazione per la ricerca di un autentico equilibrio nucleare. Purtroppo, però, i cannoni non hanno mai cessato di sparare; o meglio, le loro testate a corta gittata hanno ceduto il posto ad altri più sofisticati mezzi di morte, come i missili aria-aria o aria-terra. Non è dunque mai finita la guerra, neanche negli anni della cosiddetta "distensione", durante i quali le grandi potenze non hanno fatto altro che accumulare sempre più sofisticati mezzi militari, in una corsa agli armamenti senza precedenti La corsa al riarmo, quindi, aggravata dal continuo perfezionamento di tecnologie di guerra fondate sull'uso dell'energia nucleare, sta raggiungendo livelli incontrollabili. Una fiorente industria della guerra ci ha ormai assuefatto all'ideologia dell'equilibrio delle forze. Oggi, infatti, è fortemente radicata un'ideologia del potere che sa intendere la pace solo come equilibrio di forze contrapposte. In conformità a tale visione la bomba atomica può essere considerata, paradossalmente, una "benedizione" toccata all'umanità: solo grazie alla sua abissale potenza distruttrice e all'infinito orrore che essa ha suscitato, infatti, non si sono più combattute le guerre universali.

Il 6 agosto del 1945 per piegare la resistenza giapponese gli americani decisero di impiegare per la prima volta un ordigno atomico. Un nuovo, micidiale strumento di distruzione fece così il suo ingresso nella storia dell'uomo. Nei decenni successivi, Usa e Urss scatenarono una corsa al riarmo per dotare i propri arsenali di armi sempre più potenti. L'incubo di una guerra nucleare tenne il mondo intero con il fiato sospeso. Nel novembre del 1989 la caduta del muro di Berlino pose fine, tra l'altro, anche alla sfida nucleare tra le due superpotenze: una minaccia che ha ipotecato, quindi, le nostre vite per decenni. Ma quelle migliaia di testate che potevano distruggere il nostro pianeta sono rimaste nei silos: adesso rappresentano un'eredità costosa e difficile da gestire.

I primi accordi per la riduzione degli armamenti nucleari risalgono agli Anni 70. Le due superpotenze sembrarono impegnarsi seriamente sulla via del disarmo. Ma i problemi, ormai, erano altri: la decisione di alcune potenze regionali, come ad esempio l'India, di dotarsi di armi atomiche, il traffico di materiali fissili e le contaminazioni provocate dalle scorie radioattive rappresentarono i nuovi fattori di rischio e di instabilità.

Mentre sto scrivendo questo tema, il pianeta terra brulica di bombardieri, sommergibili, rampe mobili sotterranee, gonfie di missili intercontinentali, che ci avvolgono in una ragnatela fittissima di armi nucleari.  Satelliti-spia, meccanismi di allarme elettronico, sistemi missilistici teleguidati e puntati sulle nostre città, sulle nostre scuole, sulle nostre case: un sinistro ronzio, silenzioso e docile, costan­temente sul punto di scattare e provocare stragi di dimensioni colossali. Un arsenale militare stima­to per difetto attorno ai 20.000 megatoni è come una gigantesca polveriera in grado di esplodere da un momento all'altro.

Si parla di "rischio calcolato", ma il calcolo è fat­to prevalentemente in termini di morte, una maca­bra ed agghiacciante contabilità di cadaveri poten­ziali. La macchina bellica nucleare sembra ormai avviata ad una crescita incontrollabile, a una corsa verso un traguardo cui in realtà nessuno vuole arrivare. L'assurdo, infatti, sembra proprio questo: la «superarma» nucleare è considerata il deterren­te indispensabile contro un eventuale attacco ne­mico. In una guerra atomica, infatti, i fattori impon­derabili sono ridotti al minimo rispetto alle guerre convenzionali: i missili non mancano mai il bersa­glio, la loro carica distruttiva è nota con buona ap­prossimazione. Calcolando le potenzialità di due arsenali nucleari, la natura dei sistemi di difesa e di risposta al «primo colpo», la guerra può, para­dossalmente, essere vinta a tavolino. Dunque è necessario disporre di bombe sempre più potenti e micidiali, per essere sicuri di non doverle mai usare. Come dire: produrre di più per essere sicuri di produrre inutilmente!

Nel frattempo però, se il principio è accolto da entrambe le «parti», diviene inevitabile una corsa a chi arriva per primo, per poter accumulare un vantaggio netto e consistente, e negoziare final­mente in una posizione di forza. Se questo divario non diventa mai per uno dei contendenti sufficientemente rassicurante e per l'altro sufficientemente deterrente, i due continueranno a correre, a corre­re in modo sconsiderato. Si arriva così al risultato incredibile che il potenziale distruttivo cresce sino a diventare eccedente, rispetto al numero ed alla consistenza delle forze in campo.

È quanto sta accadendo proprio oggi: alla generazione delle bombe A, a fissione, con un nu­cleo di uranio o plutonio, e H, a fissione e fu­sione, con due nuclei di isotopi di idrogeno, sta succedendo la bomba a neutroni (ERW), dove agli effetti esplosivi e termici s'aggiungono in misura ri­levante gli effetti dovuti alla radiazione di neutroni veloci. In quest'ultimo caso il raggio d'azione della bomba s'allarga considerevolmente; la tecnologia militare compie così un grosso «balzo in avanti», mentre già si considera come «prospettiva inte­ressante» il riuscire ad alloggiare altre bombe in orbite spaziali. La corsa continua, anche se le te­state nucleari attualmente esistenti bastano per distruggere ogni forma di vita umana sulla terra.

Oggi, quindi, mentre in ogni parte del mondo si ripropongono sempre più numerose le marce e le manifestazioni per la pace, c'è chi elabora e realizza sofisticatissime armi da guerra, c'è chi dedica un'intera vita allo stu­dio e alla realizzazione della 'bomba N', o al neutrone, un'altra, temibile arma nucleare. È questa forse la più micidiale arma inventata in questi ultimi anni, capa­ce di un enorme potere distruttivo e che, se usata in guerra, può pro­vocare lo spopolamento dell'intero globo. La caratteristica di questa bomba è, infatti, quella di colpire gli uomini, risparmiando le cose. Così, dove fosse sganciata la bomba al neutrone, la popolazione sarebbe distrutta nel giro di pochissimo tempo e resterebbero città e villaggi disabitati, perfettamente intatti e neppure inquinati, perché la bomba N possiede anche un bassissimo potere di inquinamento radioattivo.

(Una strage calcolata) Proviamo ad analizzare alcuni dati. Uno studio portato a termine dall'Office of Technology Asses­sment contiene esemplificazioni dettagliate sugli effetti civili di un conflitto nucleare. Vi si ipotizza, fra l'altro, che una bomba A da un megaton, equi­valente a un milione di tonnellate di tritolo, cento volte più grande della bomba esplosa a Hiroshima, esploda nel centro della città americana di Detroit. L'esplosione aprirebbe nel suolo un cratere profon­do sessanta metri e largo trecento. Nel raggio di due chilometri ci sarebbe distruzione totale, con la morte di circa settantamila persone (di giorno il numero potrebbe addirittura triplicarsi). Sino ad un raggio di circa quattro chilometri, me­tà della popolazione residente, vale a dire centoventimila persone, morirebbe schiacciata dalle ma­cerie, bruciata viva, intossicata dalla radioattività, mentre l'altra metà si troverebbe a soffrire ustioni gravissime, dispersa fra le macerie, contaminata e difficilmente curabile. Fino a sette o otto chilometri gran parte degli edifici risulterebbe gravemente danneggiata: altri ustionati, altri incendi, altre rovi­ne.

Alfred Kastler, premio Nobel per la fisica nel 1966, affermò che una guerra fra gli Stati Uniti e la Russia potrebbe arrivare a distruggere completamente circa due milioni di chilometri qua­drati di territorio abitato (quasi sette volte l'Italia), contaminando gravemente una zona circostante dieci volte più estesa, dove perirebbe sicuramente almeno la metà della popolazione. Ciò non significherebbe la distruzione immediata della razza umana, ma una devastazione gigantesca di strutture sanitarie, di mezzi di trasporto e comunicazione, di ogni forma di organizzazione sociale. La conclusione di Kastler fu ge­lida: «I sopravvissuti invidieranno il destino dei morti». D'altra parte, egli aggiunse, con il ritmo che è proprio dell'attuale corsa agli armamenti l'uomo è in grado di cancellare completamente, con un conflitto nucleare generalizzato, ogni traccia della sua presen­za sulla terra.

Se tutto questo è vero, s'impone una considera­zione piuttosto amara: la guerra atomica è ormai parte integrante delle principali strategie militari. Essa è molto di più che un'ipotesi remota: è un principio e una dottrina, che orienta scelte di fon­do, determina bilanci, impone una escalation irre­versibile degli armamenti, condizionando in maniera sempre più pesante la politica interna e la politica estera degli Stati più potenti e indirettamente di tutti gli altri. E se un conflitto nucleare può es­sere vinto senza combattere (proprio questo sem­bra l'unico modo per vincerlo completamente), è troppo dire che questa guerra di fatto è già co­minciata?

(Ideologia della forza e cultura della pace) A questa analisi, che qualcuno potrà giudicare allarmistica, si può obiettare che realisticamente, finché permane un vero equilibrio delle forze, un conflitto atomico non ci sarà, come finora non c'è stato, poiché esso non rientra negli interessi immediati dei contendenti. Vi sono però, innegabili, dei fattori di rischio che stanno crescendo e sui quali vale la pena di riflettere.

Ancora Kastler ricordò i pericoli legati al continuo perfezionamento degli ordigni nucleari ed al fenomeno, addirittura più grave, della cosiddetta «proliferazione orizzontale», vale a dire dell'au­mento, spesso incontrollabile a livello internazio­nale, degli Stati che riescono a «fabbricare l'atomi­ca». Su questo campo è davvero guerra aperta: fughe di notizie, spionaggio sfrenato, interessi oc­culti da parte delle superpotenze stanno favorendo la costruzione di armi nucleari da parte di Stati ap­parentemente insospettabili e che non sembrereb­bero avere urgenti problemi di difesa militare.

Di questo passo può accadere di tutto, come ha affermato il fi­sico americano Edward Teller: è impossibile, egli ha detto, che un gruppo di terroristi riesca a co­struire l'atomica eludendo ogni controllo internazio­nale, ma è possibilissimo che un governo che di­spone di tale ordigno possa in segreto consegnarlo loro per scopi destabilizzanti. D'altra parte occorre arrivare proprio così lontano per ipotizzare situazioni concrete di rischio? Se un go­verno è in grado di provocare un'esplosione nuclea­re per delega, le garanzie politiche che esso offre sull'uso dei suoi stessi armamenti sono davvero tanto alte? È per di più giusto, oltre che sicuro, concentrare nelle mani di poche persone la pos­sibilità di prendere, nel giro di pochi secondi, deci­sioni che sono fatali per l'intera umanità?

Oltre ai limiti del fattore umano, poi, occorre te­ner ben presenti i limiti, spesso esorcizzati dagli scienziati, delle macchine. È proprio vero che l'u­nica tecnologia invulnerabile sia quella che presie­de ad un allarme atomico? Abbiamo dinanzi innu­merevoli prodotti della tecnica e non ci è difficile accorgerci, molto semplicemente, che essi posso­no rompersi, possono impazzire. Non solo il dito dell'uomo su un bottone, ma anche il programma di un computer sono riusciti più di una volta a combi­nare grossi guai.  Perché nasconderci che una guer­ra atomica potrebbe scoppiare un giorno all'insapu­ta di tutti?

Il problema di fondo, comunque, non è tecnico né politico, ma, prima di tutto, morale e culturale:­ ogni protesta contro i rischi di un conflitto atomi­co sarà respinta come un'ingenuità utopistica, fin­ché continuerà a dominare un'ideologia del potere che sa intendere la pace solo come equilibrio di forze contrapposte. Quando nei rapporti tra i po­poli trionfa la logica del possesso e del dominio, la politica rischia di diventare una sublimazione re­torica posta sotto tutela militare. Allora da questo tunnel davvero non si esce, e non rimane altro da fare che essere sempre un po' più armati degli altri. Ma la ricerca di una pace che arrivi solo a san­cire la nostra superiorità è spudoratamente in ma­lafede. Una società che vuol far credere di lavora­re per la pace accumulando solo ordigni di morte e rifugi antiatomici, senza preoccuparsi piuttosto e in primo luogo di praticare la giustizia e di edu­care i suoi giovani alla generosità, al sacrificio, al­la disponibilità, al servizio, all'amore degli altri, può riprodurre solo e sempre violenza. In fondo, un'umanità del genere crede ancora che l'unico baluardo contro la pace sia la paura; per questo, nonostante le sue terribili e avanzatissime tec­nologie, resta una società primitiva.

La guerra atomica equivale ad una vera e propria intenzione di farla finita con la specie umana: risponde, cioè, ad una volontà di sovvertire l'ordine delle cose e il corso della storia e quindi significa una sorta di negazione della dignità dell'uomo, una sopraffazione dei suoi diritti all'esistenza e alla piena realizzazione. Ciò che resta da fare pertanto è solo evitare con tutti i mezzi possibili che essa scoppi. Ma, a tal fine, non sono sufficienti le marce della pace: occorre contribuire a rimuovere le cause della conflittualità.

Quasi in contrapposizione a quanto detto, peraltro, si muove la medicina e la ricerca scientifica in generale. Infatti, oltre a far luce su aspetti sempre più particolari della vita umana e della realtà fisica in cui è inserita, mettono a fuoco le condizioni che consentirebbero all'uomo di condurre meglio la sua esistenza. Si tratta pertanto, anche ai fini dell'allontanamento definitivo della minaccia della guerra atomica, di far sì che le scoperte della scienza siano effettivamente rivolte e destinate al miglioramento della vita umana e non già a favorire una tecnologia di sfruttamento e di morte.

Essere pacifisti è un dovere civile e un atto di intelligenza, di razionalità; ma ogni tanto, regolarmente, disperatamente, specie di fronte ad avvenimenti recenti quali la tragedia balcanica, ci si chiede che cosa conti la ragione, che cosa contino le lezioni della storia se non sono bastati i quaranta milioni di morti dell'ultimo conflitto mondiale a toglierci il gusto di uccidere per una differenza di etnia o di religione.

Occorre fare in modo che la pace non rimanga soltanto un valido argo­mento per discussioni, tavole roton­de, interviste, marce o altre simili manifestazioni, ma diventi una profonda esigenza, sentita da tutti e condivisa anche e soprattutto da chi ancora fabbrica e realizza armi, con la stessa tranquillità con cui costrui­rebbe un giocattolo.




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