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Il diabete




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Il diabete


Le malattie che colpiscono gli organi interni del nostro corpo sono moltissime e, come abbiamo già ricordato, in molti casi l'unica soluzione è il ricorso al trapianto dell'intero organo, con tutti i problemi connessi. Non sempre sarebbe necessario sostituire l'intero organo, ma finora non era possibile fare altrimenti. Le cellule staminali potrebbero essere di grandissima utilità in tutti

quei casi nei quali l'organo non è così danneggiato da non poter essere «riparato» in loco; e, in prospettiva futura, si profila addirittura la possibilità di creare interi organi in laboratorio.

Come nel caso delle malattie del sistema nervoso, anche qui prenderò ad esempio, in questo paragrafo, il caso di una malattia in cui le ricerche sono molto avanzate, il diabete; e nel prossimo darò conto di altre ricerche in corso, con particolare riguardo a quelle che riguardano le malattie del cuore.

Il diabete è una malattia molto nota e, purtroppo, molto diffusa. Se ne conoscono due tipi, chiamati diabete di tipo I, o giovanileo insulino-dipendente, e diabete di tipo II, non insulino-dipendente. Questa seconda forma è la meno grave e, come dice il suo nome, non richiede necessariamente di essere tenuta sotto controllo con iniezioni quotidiane di insulina. La forma più grave è la prima, sia perché colpisce in età giovanile (già intorno ai 13-15 anni) sia perché costringe chi ne è affetto

alla dipendenza da iniezioni quotidiane di insulina.

Questa forma di diabete è provocata dalla distruzione, in genere come conseguenza di un'infezione virale, di una regione del pancreas (nota come isole di Langerhans) le cui cellule producono l'insulina. A meno di complicanze, i diabetici possono condurre, attenendosi allo stile di vita consigliato dai medici, una normale vita attiva e pienamente soddisfacente, anche se, per il tipo I, non è piacevole vivere in costante dipendenza dall'insulina. Non è comunque una malattia mortale, o almeno non lo è più dal 1922, quando l'insulina cominciò ad essere estratta dal pancreas di maiale o di bue. Un grande passo in avanti è stato poi compiuto all'inizio degli anni Ottanta, grazie allo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante: inserendo il gene che codifica per l'insulina in un batterio è stato possibile produrre questo ormone non solo in gran quantità, ma soprattutto in condizioni di purezza, evitando così il rischio di trasmissioni all'uomo di virus animali. È stato il primo grande successo dell'ingegneria genetica, ma la ricerca biomedica non si è fermata. Sebbene, come si diceva, non sia una malattia mortale, le restrizioni che il diabete impone allo stile di vita sono severe e, nel caso di malattie concomitanti, non sempre facili da osservare. Possono generarsi complicanze, in genere a carico delle fibre nervose, dei reni e della retina, c'è un maggior rischio di aterosclerosi e di ipertensione con le relative conseguenze a carico del sistema cardiocircolatorio.

Una ventina di anni fa, in conseguenza dei successi ottenuti nel campo dei trapianti, si cominciò a sperimentare anche il trapianto di pancreas, inizialmente insieme al rene (e quindi quando il diabete aveva già causato una nefropatia grave) e poi da solo. I risultati sono stati buoni, ma è chiaro che questa strategia non poteva diventare di routine. A parte il problema generale della scarsità di organi, restava sempre la necessità di evitare il rigetto sottoponendosi per tutta la vita alla terapia immunosoppressiva. In sostanza, da una dipendenza dall'insulina, si passava a una dipendenza dai farmaci immunosoppressori, ma con una differenza importante: mentre l'insulina non ha effetti collaterali significativi, i farmaci immunosoppressori li hanno e sono molto gravi sia in generale, per il loro stesso meccanismo d'azione, sia in particolare in relazione al diabete perché danneggiano proprio le cellule beta che producono l'insulina. I farmaci immunosoppressori sono stati una grande conquista della farmacologia, poiché hanno reso più efficace la tecnica dei trapianti, ma solo nel caso in cui i rischi sono compensati dai vantaggi e cioè, in genere, quando è in gioco la vita. Questo non è certo il caso della stragrande maggioranza dei diabetici.

Ma la ricerca biomedica non si ferma mai: perché espiantare e trapiantare un organo intero (che tra l'altro espleta altre funzioni oltre a quella di produrre insulina) quando solo una parte, ben individuata, non funziona? Perché non innestare solo la parte non funzionante e cioè le isole di Langerhans? Qualche anno fa un gruppo di ricerca presso l'Università di Alberta in Canada ha elaborato e applicato una sperimentazione, nota come «protocollo di Edmonton», che contiene due importanti novità. In primo luogo, non è richiesta un'operazione chirurgica, poiché l'innesto avviene non nel pancreas, ma nel fegato, con un'infusione di circa 20 minuti attraverso una vena: in sostanza, l'equivalente di una normale trasfusione di sangue. Questo è un punto importante, come abbiamo già rilevato, per tutta la tematica dell'uso di cellule staminali: se quest'uso deve avere un' applicazione estensiva nella pratica clinica, bisogna che i metodi di somministrazione siano semplificati al massimo e purtroppo questo del diabete è attualmente l'unico caso in cui siamo in grado di farlo. La seconda novità è che il problema del rigetto viene affrontato non con gli usuali immunosoppressori, ma con mezzi meno tossici. Gli otto pazienti trattati non hanno più avuto bisogno di insulina per 15mesi e questo incoraggiante risultato ha indotto il presidente Clinton, nel luglio 2000, in una pausa delle trattative di pace tra israeliani e palestinesi, ad annunciare uno stanziamento di 5 milioni di dollari a favore di questa sperimentazione che ha quindi potuto coinvolgere un maggior numero di pazienti in dieci centri del Nord America e dell'Europa.

Tuttavia, resta gravissimo il problema della reperibilità di tessuto pancreatico da cui ricavare cellule. Per comprenderne l'entità, bastano pochi dati. Secondo le stime della Juvenile Diabetes Foundation (un' organizzazione tra le prime a schierarsi in USA per il finanziamento pubblico della ricerca sulle cellule embrionali), ogni anno solo negli Stati Uniti vengono diagnosticati circa 30.000 nuovi casi di diabete di tipo I e i pancreas utilizzabili per trarne le isole di Langerhans sono solo 6.000. Inoltre, queste isole sono molto fragili e occorrono almeno due pancreas per un solo trapianto. Si comprende dunque come i ricercatori operanti in questo campo abbiano accolto con entusiasmo le possibilità aperte dalla ricerca sulle cellule staminali: se il loro progetto continuerà a dare buoni risultati terapeutici, la ricerca sulle cellule staminali potrà risolvere il problema della quantità di cellule occorrenti per far diventare questo trattamento la terapia principale per il diabete di tipo I. Perché infatti innestare tutto il complesso delle isole di Langerhans quando ci servono solo le cellule beta, che sono quelle che effettivamente producono insulina e sono facilmente coltivabili in gran quantità in laboratorio? È iniziata così una nuova stagione di ricerche sperimentali in molte direzioni: cellule beta sono state isolate nel dotto pancreatico e c'è persino una ricerca che tenta di convertire cellule del fegato in cellule produttrici di insulina, sfruttando il fatto che fegato e pancreas provengono dallo stesso foglietto germinativo, l'endoderma. La ricerca attualmente più avanzata è stata portata avanti in Spagna, presso l'Istituto di bioingegneria dell'Università di San Juan, da un gruppo diretto da Bernat Soria. Il lavoro è stato svolto sui topi, ma è utile darne conto perché sintetizza tutte le aspettative e tutti i problemi (anche etici, quando la procedura viene trasferita nell'uomo) legati alla ricerca sulle cellule staminali. Soria ha tratto dalla massa interna di una blastocisti di topo alcune cellule e le ha coltivate in vitro inducendole, con i necessari fattori di differenziazione, a diventare cellule beta, cioè quelle che producono insulina. Dopo averne ottenuto una certa quantità (ricordiamo che queste cellule possono moltiplicarsi indefinitamente senza perdere le loro proprietà), le ha trapiantate in un topo, alterato geneticamente in modo da riprodurre la condizione del diabete. Queste cellule hanno prodotto normalmente insulina, nella quantità necessaria, per più di un anno. Se le ulteriori ricerche (dirette soprattutto a purificare le cellule staminali e a controllarne la proliferazione) daranno i frutti sperati, avremo a disposizione una quantità illimitata di cellule beta da utilizzare eventualmente col protocollo di Edmonton. Resta da risolvere il problema della compatibilità: ma se questa strada si rivelerà preferibile a quella che usa le cellule adulte, il problema potrà essere risolto ricorrendo all'ingegneria genetica oppure inserendo le cellule in una capsula che farebbe passare l'insulina, ma non interagirebbe col sistema immunitario. Il professor Soria ha anche ottenuto un finanziamento europeo e, insieme a un gruppo inglese e uno tedesco ha programmato il passaggio alla prima sperimentazione clinica su esseri umani. Certo, il diabete di tipo I non è una minaccia per la vita. Ma proviamo a pensare a questa tecnologia di innesti per malattie che invece, come nel caso dell'infarto miocardico, quando non provocano subito la morte, lasciano comunque conseguenze gravissime e a lungo andare letali.



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