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Trattamento giuridico degli stranieri: le leggi sulla immigrazione




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TRATTAMENTO GIURIDICO DEGLI STRANIERI: LE LEGGI SULLa IMMIGRAZIONE


Il modo di combattere "la criminalità degli stranieri" (.) è quello di rendere i processi immigratori più corrispondenti al fabbisogno, più ampi, più prevedibili, più sicuri, sia per gli stranieri che per gli italiani. Il paradosso è che processi immigratori siffatti sarebbero, in ultima analisi, anche più "controllabili".

Dario Melossi



1 - L' "emergenza stranieri"



L'approccio italiano alla questione migratoria è stato contraddistinto più che altro da una logica dell'emergenza, mancando addirittura inizialmente una legislazione specifica sull'immigrazione. Prima del 1986 la disciplina relativa all'ingresso degli stranieri nel nostro paese era contenuta quasi esclusivamente nel Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 1931 (R.D. 773/1931) e nel relativo Regolamento di esecuzione (R.D. 635/1940). Il primo comma dell'art. 152 del T.U.P.S. attribuiva ai prefetti delle province di frontiera il potere di respingere, per motivi di ordine pubblico, gli stranieri non in grado di dimostrare la propria identità; in ogni caso dovevano essere allontanati gli stranieri "indigenti, dediti alla prostituzione o che svolgono mestieri dissimulanti l'ozio, il vagabondaggio o la questua". Per quanto riguarda l'istituto dell'espulsione, erano contemplate tre ipotesi: l'espulsione disposta dal prefetto nei confronti dello straniero clandestino che avesse violato le norme sul soggiorno; l'espulsione disposta dal Ministro dell'Interno, di concerto con il Ministro degli Esteri, per motivi di ordine pubblico; l'espulsione giurisdizionale nei confronti dello straniero condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a 10 anni o per taluni delitti, tra i quali quelli contro la personalità dello Stato. La dottrina, per diversi anni, escluse che il provvedimento di espulsione per ragioni di ordine pubblico dovesse essere motivato. La prima legge sull'immigrazione (L. 943/1986: 'Norme in materia di collocamento e trattamento di lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine') ebbe la funzione pressoché esclusiva di disciplinare le modalità per avviare al lavoro i cittadini stranieri extracomunitari. Essa garantiva formalmente a tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti nel territorio della Repubblica italiana il diritto alla parità di trattamento con i lavoratori italiani, il diritto alla disponibilità dell'abitazione e al ricongiungimento con il coniuge e i figli a carico ed il diritto alla tutela giurisdizionale. La legge conteneva altresì la prima regolarizzazione legislativa degli immigrati inseritisi nel mercato del lavoro in violazione delle leggi previgenti (c.d. sanatoria). Nel 1989, sotto la pressione di una spinta migratoria sempre più consistente ed in perfetta corrispondenza cronologica con il crollo del muro di Berlino, venne varato d'urgenza il D.L. 416/1989, poi convertito, con modifiche, nella L. 39/1990, recante "Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato". Nelle intenzioni dell'allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, esso avrebbe dovuto costituire il primo tassello di una normativa più articolata che dettasse una sorta di "statuto dello straniero". Ma - a parte la previsione di una nuova sanatoria e l'introduzione di una disciplina organica per i richiedenti l'asilo o lo status di rifugiato - la c.d. legge Martelli si limitò a sancire i criteri in base ai quali era consentito l'ingresso in Italia di un cittadino extracomunitario e i requisiti necessari per l'ottenimento del permesso di soggiorno . Sulla spinta delle discussioni che portarono, di lì a poco, all'Accordo di Schengen , la legge varò nuove norme sull'espulsione e disciplinò la materia relativa ai rifugiati politici, abolendo la riserva geografica che garantiva ai soli cittadini europei il diritto d'asilo politico. Essa introdusse inoltre la ''programmazione dei flussi'', in base alla quale venivano definiti, con cadenza annuale, i limiti all'ingresso di cittadini immigrati nel nostro paese. L'art. 3, quarto comma, della L. 39/1990 prevedeva infatti che "con uno o più decreti del presidente del Consiglio dei ministri, sentiti i ministri interessati e le competenti Commissioni parlamentari", fossero definite annualmente "le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato, per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale, o per lavoro autonomo, tenuto conto dei ricongiungimenti familiari e delle misure di protezione temporanea eventualmente disposte a norma dell'art. 18". La politica dei flussi si fondava dunque sulla indicazione di un "tetto annuo" di stranieri ammessi; le quote avrebbero dovuto svolgere, di volta in volta, una funzione stabilizzatrice oppure una funzione promozionale, facendosi così veicolo di chiusura o di apertura delle frontiere. Di fatto i decreti di "programmazione dei flussi", che seguirono alla c.d. legge Martelli, si preoccuparono unicamente di limitare le possibilità di ingresso regolare in Italia, peraltro sulla scia di una tendenza a livello europeo di sempre minor "tolleranza". Ne è scaturita una selezione "ad imbuto", restrittiva a tal punto da spingere gli aspiranti-regolari ad una condizione di clandestinità o irregolarità in attesa di successive sanatorie. Le norme si ponevano in aperto contrasto anche con alcuni articoli della "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo" del 1948: l'art. 13, ai sensi del quale "ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato", l'art. 14, secondo il quale "ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni", l'art. 29, che sancisce che "nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento ed il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica". Alla legge Martelli fecero seguito, a partire dal 1995, una serie di decreti legge non convertiti che segnarono il massimo livello di precarietà nella definizione dello status giuridico degli immigrati. Fu addirittura necessaria l'emanazione di un'apposita legge (L. 617/1996) per salvare gli effetti prodotti dai vari decreti ed evitare il proliferare di situazioni giuridiche inestricabili. In proposito, non si può che condividere il giudizio di Massimo Pastore, secondo il quale <<il ricorso alla decretazione d'urgenza per le norme di polizia dell'immigrazione ed il contestuale rinvio sine die della discussione sui diritti che dovrebbero essere garantiti agli stranieri extracomunitari in Italia, è purtroppo il segnale istituzionale di un approccio verso la questione migratoria ancora fortemente condizionato da una visione emergenziale, che continua a privilegiare gli aspetti dell'ordine pubblico e del controllo>> . Va rimarcato che le normative introdotte nel corso degli anni '90, per quanto confuse e precarie, si muovevano comunque lungo direttrici costanti: rigida distinzione tra la condizione dell'immigrato regolare e quella dell'irregolare ed esclusione della possibilità di regolarizzazione a regime (ossia, al di fuori delle frequenti sanatorie); programmazione delle quote di ingressi ed ammissione per motivi di lavoro imperniata sull'incontro tra domanda e offerta di lavoro; disciplina del soggiorno incentrata sull'attribuzione all'autorità di polizia di poteri incisivi e largamente discrezionali; espulsione come risposta a qualsiasi violazione della normativa in tema di ingresso o di soggiorno; previsione di strumenti esecutivi basati su istituti amministrativistici o penalistici in forte tensione - anche in punto di tutela giurisdizionale - con le garanzie costituzionali. Una menzione a parte merita - a tal proposito - il D.L. 187/1993 (c.d. decreto Conso, convertito nella L. 296/93). Varato con il chiaro intento di alleviare il problema del sovraffollamento carcerario, esso introdusse una forma di espulsione "a richiesta" dello straniero sottoposto a custodia cautelare per uno o più delitti diversi da quelli indicati nell'art. 275, terzo comma, del codice di procedura penale, ovvero condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena che, anche se residua, non superasse i tre anni di reclusione. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 62 del 1994, qualificando questa figura di espulsione quale ipotesi di "sospensione della detenzione", ne riconobbe la legittimità, attribuendo notevole rilievo alla volontà dell'interessato, la cui richiesta rappresentava un requisito essenziale della fattispecie. Tale istituto non è sopravvissuto alla puntuale abrogazione delle norme previgenti sanzionata dall'art. 46 L. 40/1998; ha fatto però la sua ricomparsa, sia pure con caratteristiche del tutto peculiari, a seguito della riforma ex L. 189/200



2 - La c.d. legge Turco-Napolitano



Con la legge 40/1998 (c.d. Turco-Napolitano), successivamente confluita nel "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione" (varato con il D.Lgs. 286/1998), le linee direttrici che hanno ispirato la confusa normativa anteriore si sono tradotte, per la prima volta, in un testo organico. La logica binaria, cioè la creazione di un regime differenziato per gli immigrati entrati regolarmente in Italia rispetto a quelli entrati clandestinamente o soggiornanti senza un titolo valido, è radicalizzata dalla mancata previsione di meccanismi di regolarizzazione in itinere dello straniero che pure venga a trovarsi in condizioni (lavorative, familiari, economiche, ecc.) ottimali per la permanenza soltanto dopo un certo tempo ; l'ingresso e il soggiorno del migrante regolare sono subordinati al requisito della disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti, sia per la durata del soggiorno, sia per il ritorno nel paese di provenienza; inoltre la legge ha previsto una fitta ed incisiva rete di controlli affidati all'autorità di polizia, ciò che ha rafforzato la visione del migrante come un soggetto potenzialmente pericoloso per l'ordine pubblico. Dal lato dell'integrazione dell'immigrazione regolare l'attuazione della normativa del 1998, che segna un innegabile miglioramento qualitativo della condizione giuridica dello straniero "regolare", ha tuttavia rivelato alcune inadeguatezze: le politiche di accoglienza - previste dal titolo V della legge, dedicato alle "disposizioni in materia sanitaria, nonché di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale" - sono restate parzialmente inattuate. Ma è sul terreno della disciplina dell'irregolarità che la legge in questione ha fatto registrare le scelte più discutibili, scelte concretizzatesi nella previsione di figure di reato espressione di un vero e proprio diritto penale speciale, nella sterilizzazione del controllo giurisdizionale sulle procedure di allontanamento e, soprattutto, nell'introduzione di una misura di trattenimento degli irregolari pesantemente limitativa della libertà personale dei migranti. Tra le innovazioni introdotte dalla c.d. legge Turco-Napolitano e dal relativo Regolamento d'attuazione (D.P.R. 394/99), il cui numero e la cui importanza richiederebbero un'ampia disamina, vanno comunque ricordate:

il riconoscimento espresso dei "diritti fondamentali della persona umana" a tutti gli stranieri, e di alcuni diritti civili ai soli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato . In particolare: il diritto alla salute è tutelato assicurando anche agli irregolari e clandestini le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti, per malattia ed infortunio, e gli interventi di medicina preventiva; il diritto all'istruzione è garantito a tutti i ragazzi stranieri, anche se irregolari, fino ai 15 anni, ed agli stranieri adulti, purché regolarmente soggiornanti; il diritto alla difesa è garantito assicurando agli stranieri indagati od imputati la facoltà di rientrare in Italia, anche se espulsi, per il tempo necessario ad esercitare la difesa nonché l'accesso al patrocinio a spese dello Stato; il diritto all'unità familiare è tutelato garantendo allo straniero in possesso della carta di soggiorno, o del permesso di soggiorno valevole ancora 1 anno, la facoltà di proporre richiesta di ricongiungimento con il coniuge non legalmente separato, i figli minori a carico, i genitori a carico ed i parenti entro il terzo grado, "purché a carico ed inabili al lavoro"; in materia di alloggio e assistenza sociale, è disposta la predisposizione di centri di accoglienza da parte delle Regioni, in collaborazione con le Province e con i Comuni e con le associazioni e le organizzazioni di volontariato, riservando l'accesso "ad alloggi sociali" ai regolarmente soggiornanti e la fruizione delle prestazioni di assistenza sociale ai soli "stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno";

una disciplina organica dell'immigrazione sulla base del principio delle c.d. "quote d'ingresso" stabilite con il "documento programmatico relativo alla politica dell'immigrazione" (art. 3 del testo unico);

la possibilità riconosciuta al cittadino italiano o straniero regolarmente residente, nonché alle Regioni, agli Enti Locali e ad alcuni enti ed associazioni che rispondano a particolari caratteristiche, di garantire l'entrata per la ricerca di lavoro di uno, massimo due stranieri l'anno (c.d. sponsorizzazione);

il rilascio a tempo indeterminato, su richiesta dello straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno cinque anni e che soddisfi alcuni requisiti, della carta di soggiorno per sé, per il coniuge e per i figli minori conviventi

la nuova disciplina del "respingimento" e di tre tipi di espulsione: amministrativa (disposta dal Prefetto o dal Ministro dell'Interno); a titolo di misura di sicurezza (comminata dal giudice nei casi in cui lo straniero sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p., subordinatamente ad una valutazione di pericolosità sociale del soggetto condannato); a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione (nei casi di condanna o di patteggiamento ex art 444 c.p.p., dello straniero che si trovi in condizioni di irregolarità, sempre che il giudice ritenga di dover irrogare una pena detentiva non superiore a due anni);

l'istituzione dei "centri di permanenza temporanea", per le ipotesi in cui, come recita l'art. 23 del T.U. 286/98, "non é possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo";

la prima disciplina specifica del lavoro stagionale e del lavoro autonomo (artt. 22 e 24 T.U. 286/98);

la previsione di misure di protezione sociale per gli stranieri vittime di violenza o di sfruttamento (in buona parte donne e minori);

l'istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, di un Comitato per i minori stranieri, di una Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, di un Fondo nazionale per le politiche migratorie e della Commissione per le politiche di integrazione.

Quasi a volere ulteriormente sottolineare l'attenzione posta al tema dell'integrazione, la rubrica del capo IV del titolo V del T.U. 286/1998 è intitolata "Disposizioni sull'integrazione sociale e sulle discriminazioni". Il disposto del primo comma dell'art 42 individua le attività di integrazione che Stato, Regioni, Province e Comuni, in collaborazione con le associazioni di stranieri o le organizzazioni che operano in loro favore, devono favorire al fine di "rimuovere gli ostacoli che impediscono l'effettivo esercizio dei diritti e dei doveri dello straniero". Quanto alle discriminazioni razziali, l'art 43 condanna "ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza, l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose (.)", mentre l'art. 44 disciplina una speciale "Azione civile contro la discriminazione" intesa a garantire una tempestiva cessazione di ogni comportamento discriminatorio e la rimozione degli effetti di tale comportamento. Le norme antidiscriminatorie sono state recentemente modificate con i D.Lgs. 215-216/2003, emanati in attuazione della delega contenuta nella c.d. legge comunitaria del 2002 (L. 39/2002).



3 - Le modifiche al T.U. 286/98 apportate dalla c.d. legge Bossi-Fini



La legge 189/2002 (c.d. Bossi-Fini), attraverso la tecnica della novellazione di larga parte del T.U. 286/98, ha modificato profondamente la previgente disciplina della condizione dello straniero. Essa per un verso sembra voler proiettare la politica immigratoria verso l'opzione "immigrazione zero" , ripudiando la logica binaria sottesa alle politiche dei flussi e mirando viceversa a precarizzare la condizione dello straniero, ostacolandone il progetto di un inserimento stabile nella società di elezione. Per altro verso, anche per effetto delle mediazioni politiche che ne hanno segnato l'iter parlamentare, essa non sembra avere rinnegato radicalmente l'impianto precedente, limitandosi - per lo più - ad irrigidire i meccanismi regolatori dell'ingresso e del soggiorno in Italia. Come per la c.d. legge Turco-Napolitano, mi limiterò ad una sintetica rassegna delle principali innovazioni introdotte dalla novella, concedendo uno spazio maggiore soltanto alla nuova disciplina delle espulsioni:

  • il meccanismo fondamentale che regola l'ingresso in Italia resta quello dei flussi, attraverso la predisposizione annuale di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che definisce le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato. Ma, in caso di mancata pubblicazione del decreto annuale, il Presidente del Consiglio ha la facoltà (e non l'obbligo) di provvedere in via transitoria, con proprio decreto, nel limite delle quote stabilite per l'anno precedente; grande importanza viene formalmente riconosciuta al c.d. principio di condizionalità: già nel primo articolo della legge 189, al comma 2, si dice testualmente che "nella elaborazione, nella eventuale revisione dei programmi bilaterali di cooperazione e di aiuto per lo sviluppo, il Governo tiene conto anche della collaborazione prestata dai Paesi interessati alla prevenzione dei flussi migratori legali, al contrasto delle organizzazioni criminali, agli accordi di riammissione, agli accordi giudiziali", e così via. Se ne è avuta conferma nei decreti flussi del 2003, che hanno consentito 3.800 nuovi ingressi regolari per quote privilegiate, alcune delle quali sono state riservate a Paesi che hanno mostrato di recente una collaborazione attiva nella riammissione dei propri cittadini destinatari di provvedimenti di rimpatrio. In passato queste quote privilegiate erano state riservate esclusivamente a Tunisia, Marocco e Albania, ma la loro efficacia era stata maggiore in considerazione della loro consistenza (18.000 quote privilegiate totali nel 2000, 16.500 nel 2001) ; forse è questa la ragione per la quale, con un repentino cambio di strategia, nel 2004 tali quote sono state portate a 20.400, il 25,6% del totale;
  • non è ammesso in Italia lo straniero che risulti condannato, anche a seguito di patteggiamento, per reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza ovvero "per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite"; restano ferme le previgenti cause impeditive del rilascio del visto di ingresso;
  • allo straniero che richiede o rinnova il permesso di soggiorno sono rilevate le impronte digitali; l'opposizione parlamentare aveva chiesto che ai rilievi fotodattiloscopici fossero sottoposti solo quei cittadini extracomunitari per i quali non è possibile accertare altrimenti l'identità; ma, in attesa che la schedatura riguardi ogni cittadino, si è preferito partire da chi, evidentemente, si presume più incline al crimine;
  • viene introdotto il "contratto di soggiorno per lavoro subordinato", presupposto indispensabile al conseguimento del permesso di soggiorno per motivi di lavoro non autonomo. Tale contratto deve contenere la garanzia da parte del datore di lavoro di una adeguata sistemazione alloggiativa per il lavoratore nonché l'impegno al pagamento delle spese di viaggio per il suo rientro nel Paese di provenienza. La precarizzazione del soggiorno è realizzata attraverso la previsione di cui all'art. 5 comma 3-bis del testo unico: anche se assunto a tempo indeterminato, lo straniero dovrà comunque rinnovare, ogni 2 anni, il suo permesso di soggiorno almeno fino a quando non abbia maturato l'anzianità di soggiorno richiesta per il rilascio della carta di soggiorno (portata da 5 a 6 anni) . Da notare, inoltre, che in sede di programmazione, le quote annuali di lavoratori hanno ignorato la forte domanda di manodopera degli imprenditori  (nel 2004, per il terzo anno di fila, il Governo ha stabilito quote totali pari a 79.500 lavoratori stranieri), ed hanno segnato un forte incremento delle quote riservate ai lavoratori stagionali (passate dalle 33.000 del 2001 alle 68.500 del 2003), a discapito di quelle per i lavoratori non stagionali;
  • in ogni provincia è istituito, presso la Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo, uno sportello unico per l'immigrazione, responsabile dell'intero procedimento relativo all'assunzione di lavoratori subordinati stranieri a tempo determinato ed indeterminato; l'istituzione dello sportello unico è subordinata all'entrata in vigore del "Regolamento recante modifiche ed integrazioni al D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 in materia di immigrazione", ancora in attesa di approvazione;
  • viene reintrodotta la verifica preventiva dell'indisponibilità di altri lavoratori - italiani o comunitari - ad aderire alle offerte di lavoro relative ad extracomunitari; tale verifica, già prevista dalla legge 943/1986, era stata superata dalla legge Turco-Napolitano per le disfunzioni che aveva prodotto;
  • il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi (anziché un anno);
  • il nuovo istituto dei "titoli di prelazione", del quale non è difficile preconizzare un infimo tasso di effettività, prende il posto della prestazione di garanzia per l'accesso al lavoro (c.d. sponsorizzazione), strumento che faceva leva, per un verso, sul richiamo esercitato da stranieri già integrati nel nostro Paese (c.d. catena migratoria) e, per altro verso, sul ruolo del volontariato; in base alla nuova disciplina, le organizzazioni nazionali degli imprenditori e dei lavoratori, gli enti e le associazioni operanti nel settore dell'immigrazione da almeno tre anni, nonché determinate organizzazioni internazionali, possono, nell'ambito di programmi approvati dal Ministero del lavoro e da quello dell'Istruzione, prevedere attività di istruzione e formazione professionale nei paesi d'origine. Secondo quanto prevede il "Regolamento recante modifiche ed integrazioni al D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 in materia di immigrazione", ancora in attesa di approvazione, gli stranieri che abbiano partecipato a tali attività sono inseriti in apposite liste istituite presso il Ministero del lavoro; i dati inseriti in tali liste sono posti a disposizione dei datori di lavoro, che "possono procedere con la richiesta di nulla osta al lavoro ai sensi dell'articolo 22, commi 3, 4 e 5, del testo unico, oppure nei casi in cui abbiano conoscenza diretta degli stranieri, con la richiesta nominativa di nulla osta di cui all' articolo 22, comma 2, del testo unico". I lavoratori inseriti nell'elenco hanno un diritto di priorità, rispetto ai cittadini del loro stesso Paese, secondo l'ordine di iscrizione nelle liste, ai fini della chiamata numerica di cui all' articolo 22, comma 3, del testo unico. Ad essi, se mai ve ne saranno, è riservata una quota di ingressi per lavoro subordinato non stagionale;
  • viene ristretta l'area del ricongiungimento familiare, escludendo i parenti entro il terzo grado e limitando ad alcuni casi l'ingresso dei genitori; la stretta sul ricongiungimento familiare, uno degli istituti più significativi nella prospettiva dell'integrazione dei migranti, rappresenta un sintomo inequivoco della ratio complessiva della nuova legge;
  • aumentano le pene pecuniarie e detentive per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, ed è previsto, quale nuovo reato, il favoreggiamento dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso un Paese nel quale lo straniero non ha titolo di soggiorno;
  • le navi militari italiane, e le navi in servizio di polizia, che incontrino nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, possono fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato.


4 - Le nuove regole sull'espulsione dei cittadini stranieri dal territorio dello Stato



La riscrittura complessiva della disciplina delle espulsioni rappresenta un passaggio essenziale della legge Bossi-Fini. Essa ridefinisce i contorni di istituti già esistenti (quali l'espulsione amministrativa e giudiziaria), introduce fattispecie del tutto originali, (in particolare l'espulsione a titolo di "sanzione alternativa alla detenzione") e conferma l'espungimento di ipotesi un tempo presenti nell'ordinamento (espulsione c.d. " a richiesta" ed espulsione quale misura di prevenzione). Analizziamola in dettaglio:

a)     quanto all'espulsione amministrativa, i motivi per cui può essere disposta restano invariati ; le novità riguardano, innanzi tutto, le connessioni tra procedimento di espulsione e procedimento penale (art. 13, commi da 3 a 3-sexies del testo unico). "L'espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato immediatamente esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell'interessato. Quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale e non si trova in stato di custodia cautelare in carcere, il questore, prima di eseguire l'espulsione, richiede il nulla osta all'autorità giudiziaria, che può negarlo solo in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all'accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all'interesse della persona offesa. In tal caso l'esecuzione del provvedimento è sospesa fino a quando l'autorità giudiziaria comunica la cessazione delle esigenze processuali. (.). Il nulla osta si intende concesso qualora l'autorità giudiziaria non provveda entro quindici giorni dalla data di ricevimento della richiesta. In attesa della decisione sulla richiesta di nulla osta, il questore può adottare la misura del trattenimento presso un centro di permanenza temporanea, ai sensi dell'articolo 14" . Dunque è prevista una procedura di silenzio-assenso per il rilascio del nulla osta dell'autorità giudiziaria all'espulsione assai più incisiva di quella prevista dal testo originale dell'articolo in discussione, soprattutto in virtù del termine assai breve (quindici giorni) entro il quale l'autorità giudiziaria è chiamata a provvedere. Essa non trova applicazione solo per l'espulsione dello straniero in stato di custodia cautelare in carcere e nel caso di cui al comma 3-sexies (che esclude la concedibilità del nulla osta qualora si proceda per i reati di cui all'art. 407, comma 2, lettera a) del c.p.p. e per quelli di cui all'art. 12 del testo unico). Nel caso di misura "precautelare" (arresto in flagranza o fermo), il giudice rilascia il nulla osta all'atto della convalida, salvo che applichi la misura della custodia cautelare in carcere o che ricorra una delle menzionate ragioni per le quali il nulla osta debba essere negato. L'espulsione amministrativa si applica anche allo straniero, sottoposto a procedimento penale, per il quale sia stata revocata o dichiarata estinta la misura della custodia cautelare in carcere. "Il giudice, acquisita la prova dell'avvenuta espulsione, se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere". Lo Stato, cioè, rinuncia all'accertamento della responsabilità penale ritenendo prevalente l'interesse all'espulsione immediata dell'indesiderato ospite, fermo che, in caso di rientro illegale dello straniero espulso, troverà applicazione l'art. 345 c.p.p., con un nuovo esercizio dell'azione penale. Nel caso sia invece disposto un rinvio a giudizio, lo straniero espulso "parte offesa, ovvero sottoposto a procedimento penale, é autorizzato a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali é necessaria la sua presenza. L'autorizzazione é rilasciata dal questore anche per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare su documentata richiesta della parte offesa o dell'imputato o del difensore". Ma è nella fase dell'esecuzione dell'espulsione che la c.d. legge Bossi-Fini presenta il suo profilo più discusso: il novellato comma 4 dell' art. 13 del testo unico sancisce la modalità dell'accompagnamento coattivo alla frontiera quale procedura ordinaria per l'esecuzione dell'espulsione, con l'eccezione dei casi di cui al successivo comma 5, ai sensi del quale "nei confronti dello straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato quando il permesso di soggiorno è scaduto di validità da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo, l'espulsione contiene l'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di quindici giorni". Tuttavia il questore deve disporre l'accompagnamento immediato alla frontiera dello straniero nei casi in cui il prefetto rilevi il "concreto pericolo che quest'ultimo si sottragga all'esecuzione del provvedimento", ciò che rende l'eccezione quasi scolastica, tenuto conto che, nell'applicazione pratica, è verosimile ritenere che il prefetto riconoscerà nella quasi totalità dei casi la ricorrenza del pericolo indicato dalla norma in commento. Quindi si può ben dire che l'accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica è divenuto lo strumento ordinario di esecuzione dell'espulsione amministrativa. Solo in casi eccezionali continuerà ad operare il meccanismo dell'intimazione penalmente sanzionata. Sennonché la Corte costituzionale, con sentenza n. 105/2001, ha ritenuto l'accompagnamento coatto alla frontiera una misura limitativa della libertà personale e, come tale, soggetta alla riserva di giurisdizione di cui all'art. 13 della Costituzione : se disposta insieme con la detenzione amministrativa, tale misura è conforme alla Costituzione in virtù dell'allargamento dell'area del sindacato giurisdizionale sancito, in via interpretativa, dalla Corte con la sentenza citata; altrimenti, mancando la comunicazione del provvedimento espulsivo entro le quarantotto ore, ai fini della successiva convalida, all'autorità giudiziaria, l'accompagnamento coattivo alla frontiera deve ritenersi illegittimo . Sotto il profilo della tutela giurisdizionale, il novellato comma 8 dell'art. 13 del testo unico prevede, quale unica istanza attivabile contro l'espulsione prefettizia, "il ricorso al tribunale in composizione monocratica del luogo in cui ha sede l'autorità che ha disposto l'espulsione", nel termine di "sessanta giorni dalla data del provvedimento di espulsione", anziché, come nel testo previgente, di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento. Ciò che fa discendere la possibilità per l'interessato di esercitare il proprio diritto di difesa non già dalla conoscenza (effettiva o legale) dell'atto a lui diretto, bensì dalla data di emissione del provvedimento, con conseguenti dubbi di legittimità costituzionale della norma. Il diritto di difesa sembra leso anche dalla abrogazione del comma 9 dell'art. 13, che imponeva al giudice di sentire l'interessato prima di decidere sul ricorso. In linea con l'impostazione di fondo della legge, il divieto di rientrare nel territorio dello Stato opera per un periodo di dieci anni, salvo che sia diversamente disposto. Nel decreto di espulsione può essere previsto un termine più breve, in ogni caso non inferiore a cinque anni (anziché tre, come nel testo previgente). Lo straniero che contravviene alle disposizioni in materia di espulsione è punibile secondo un'articolata serie di ipotesi introdotte ex novo dalla legge "Bossi-Fini". Il novellato comma 13 dell'art. 13 del testo unico, punisce con la pena dell'arresto da 6 mesi ad un anno (in precedenza era da 2 a 6 mesi) e una nuova espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera chi - dopo l'espulsione - rientri in Italia "senza una speciale autorizzazione del Ministro dell'interno", mentre il comma 13-ter del medesimo articolo - nonostante la natura contravvenzionale del reato - consente l'arresto in flagranza dell'autore del fatto ed impone che il procedimento penale segua il rito direttissimo. Trattandosi di un reato istantaneo (in quanto la condotta sanzionata è il reingresso e non la mera presenza), l'arresto in flagranza è da intendersi consentito esclusivamente quando lo straniero venga colto nell'atto di reintrodursi nello Stato, o nelle fasi immediatamente successive; ciò che non rende meno discutibile la disposizione, dal momento che il Pubblico Ministero si troverà di fronte ad un arresto per il quale non potrà chiedere la misura coercitiva, non sussistendo i limiti edittali. Il comma 13-bis dell'art. 13, tratta due nuove ipotesi delittuose, distinte ma entrambe punite con la reclusione da 1 a 4 anni. Con la prima si sanziona il reingresso effettuato trasgredendo il provvedimento di espulsione disposto dal giudice. Con la seconda, si sanziona il secondo ingresso operato dallo straniero espulso a seguito della commissione del reato di cui al comma 13 dell'art. 13. In entrambi i casi è consentito - in deroga ai limiti edittali di cui al comma 6 dell'art 384 c.p.p. - il fermo dell'autore del fatto, ed è imposto il rito direttissimo.

b)     La durata massima della detenzione amministrativa nei centri di permanenza temporanea è raddoppiata, passando da trenta a sessanta giorni. Più precisamente, il termine massimo di trattenimento nei centri di permanenza nel caso di convalida del provvedimento del questore da parte del giudice, è innalzato a trenta giorni rispetto ai venti dell'originaria previsione della c.d. legge Turco-Napolitano. Qualora poi l'accertamento dell'identità e della nazionalità dello straniero, ovvero l'acquisizione di documenti per il viaggio presenti "gravi difficoltà", il giudice, su richiesta del questore, può prorogare il termine di ulteriori trenta giorni, fermo restando che anche prima della scadenza del termine - originario o prorogato iussu iudicis - in ogni caso, il questore esegue l'espulsione o il respingimento, quando sia in possesso di tutti i dati e dei documenti necessari dandone comunicazione senza ritardo al giudice. Quando non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, ad esempio perché i centri non hanno posti disponibili, ovvero siano trascorsi i termini di permanenza senza aver eseguito l'espulsione o il respingimento, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. Lo straniero che "senza giustificato motivo" si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore è punito con l'arresto da sei mesi ad un anno e, nei suoi confronti, si procede a nuova espulsione coatta (art. 14 comma 5-ter del testo unico). Allo straniero che, così espulso, venga nuovamente trovato nel territorio dello Stato, è comminata la pena della reclusione da uno a quattro anni (art. 14 comma 5-quater del testo unico). Sono dunque introdotte due nuove fattispecie di reato, per le quali, oltretutto, è obbligatorio l'arresto dell'autore del fatto e si procede con il rito direttissimo . La prima di tali fattispecie ha determinato un rilevante numero di ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale per violazione del principio di determinatezza, in particolare in rapporto alla clausola negativa, a carattere elastico, «senza giustificato motivo», che figura nella descrizione dell'ipotesi criminosa. Sul punto la Consulta si è espressa con la sentenza n. 5 del 2004, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-ter del testo unico, ma precisando contestualmente che <<i motivi che a mente dell'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 286/1998 legittimano la pubblica amministrazione a non procedere, in deroga al drastico imperativo di cui all'art. 13, comma 4, all'accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera - necessità di soccorso; difficoltà nell'ottenimento dei documenti per il viaggio; indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo (non, però, ovviamente, la mera difficoltà di accertare l'identità o la nazionalità dello straniero, che debbono presumersi a lui ben note) - non possono non costituire sicuri indici di riconoscimento di situazioni nelle quali può ravvisarsi, per lo straniero, la sussistenza di "giustificati motivi" per non ottemperare all'ordine del questore. E ciò in specie (ad impossibilia nemo tenetur) quando l'inadempienza dipenda dalla condizione di assoluta impossidenza dello straniero, che non gli consenta di recarsi nel termine alla frontiera (in particolare aerea o marittima) e di acquistare il biglietto di viaggio; ovvero dipenda dal mancato rilascio, da parte della competente autorità diplomatica o consolare, dei documenti necessari, pure sollecitamente e diligentemente richiesti (conclusioni, queste, sulle quali concorda, in effetti, la giurisprudenza di merito largamente maggioritaria)>>. Di ciò, sottolineano ancora i giudici della Consulta, dovrà tenere conto anche la polizia giudiziaria prima di procedere all'arresto dello straniero per il reato in esame.

c)     La rubrica dell'art. 15 del testo unico recita ora 'Espulsione a titolo di misura di sicurezza e disposizioni per l'esecuzione dell'espulsione'. Non mutano i presupposti dell'espulsione a titolo di misura di sicurezza; viene però aggiunto un comma 1-bis, contenente disposizioni di raccordo tra le autorità giudiziarie ed amministrative, al fine di rendere tempestivo il provvedimento di espulsione dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o l'espiazione della pena detentiva.

d)     L'art. 16 del testo unico, nel suo testo originario, prevedeva una forma di espulsione "a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione" che poteva essere disposta, a discrezione del giudice, quando questi avesse dovuto pronunciare sentenza di condanna o patteggiamento, per un reato non colposo, a una pena detentiva non superiore a due anni. In tali casi, ove lo straniero si trovasse in taluna delle situazioni indicate per l'espulsione prefettizia, il giudice poteva sostituire la pena detentiva con l'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni, sempre che non ricorressero le condizioni "ostative" previste dal comma 1 dell'art 14, impeditive di un'esecuzione immediata dell'espulsione, e sempre che non ricorressero le condizioni per ordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena. Questo istituto sostituiva quello dell'espulsione "a richiesta" introdotto dall'art. 8 del c.d. decreto Conso (D.L. 187/1993) , dal quale si distingueva, in particolare, sotto due profili: in primo luogo, non era contemplata la possibilità di disporre la misura su richiesta di parte; in secondo luogo, l'espulsione poteva essere disposta dal giudice esclusivamente nel corso del processo e non anche nella fase della esecuzione della pena. Le novità apportate dalla legge 189/2002 alla disciplina dell'espulsione "a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione" riguardano, anzitutto, la previsione dell'inapplicabilità in relazione alle imputazioni per i delitti previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero per quelli previsti nelle altre disposizioni del testo unico, puniti con pena edittale superiore nel massimo a due anni; secondariamente, la revocabilità del provvedimento, da parte del giudice competente, in caso di 'reingresso' non autorizzato dello straniero prima del termine previsto dall'art. 13, comma 14, del testo unico. L'espulsione è eseguita dal questore anche se la sentenza non è irrevocabile. Quanto alla natura giuridica dell'istituto, la Corte Costituzionale, nell'ordinanza di rigetto n. 369 del 1999, ha affermato trattarsi di una misura amministrativa indipendente, e non di una sanzione penale, per di più <<altamente educativa, perché induce il soggetto a non abbandonare la sua patria, consentendogli il reinserimento nel contesto sociale del suo Paese>>.

e)     Con i commi 5 e ss. del nuovo art. 16 del testo unico, la c.d. legge Bossi-Fini ha introdotto una nuova figura di espulsione, "a titolo di sanzione alternativa alla detenzione". Disposta dal magistrato di sorveglianza, essa si applica allo straniero, identificato e detenuto che, per un verso, debba scontare una pena detentiva anche residua non superiore ai due anni e, per altro verso, si trovi in una delle situazioni individuate dall'art. 13 comma 2 del testo unico quali presupposto dell'espulsione prefettizia. L'obiettivo perseguito dal legislatore è - evidentemente - quello di deflazionare le carceri dalla presenza di detenuti stranieri, a prescindere dal loro consenso. Sono peraltro fatti salvi i casi di condanne per i delitti previsti dal comma 2 lett. a) dell'art. 407 c.p.p. e per quelli previsti dallo stesso testo unico. Il magistrato di sorveglianza, "acquisite le informazioni degli organi di polizia sull'identità e sulla nazionalità dello straniero", dispone l'espulsione "con decreto motivato e senza formalità", cioè senza alcun contraddittorio. Il provvedimento è comunicato all'interessato che può proporre opposizione, nel termine di dieci giorni, al Tribunale di sorveglianza, che decide nel termine (ordinatorio) di venti giorni. Il provvedimento impugnato, benché sicuramente ricorribile per Cassazione per violazione di legge, è immediatamente esecutivo dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza. Lo stato di detenzione prosegue comunque fino a che 'non siano acquisiti i documenti di viaggio'. L'espulsione, la cui esecuzione rientra nella competenza del questore del luogo di detenzione dello straniero, è eseguita con la modalità dell'accompagnamento alla frontiera per mezzo della forza pubblica, sempre allo scopo di evitare qualunque soluzione di continuità con lo stato di detenzione. La pena è estinta dal decorso del termine di dieci anni dalla esecuzione dell'espulsione, sempre che lo straniero non contravvenga al divieto di reingresso in Italia; nel qual caso la detenzione è ripristinata e "riprende l'esecuzione della pena". Inoltre, la violazione al divieto di 'reingresso' è sanzionata penalmente ai sensi dei commi 13-bis e 13-ter dell'art. 13 del testo unico. In sede di prima applicazione la norma ha suscitato numerosi dubbi interpretativi ed amletici interrogativi sulla natura giuridica dell'istituto, sulle caratteristiche del procedimento dinanzi al Magistrato di sorveglianza e di quello di opposizione dinanzi al Tribunale di sorveglianza e, soprattutto, sull'automatismo o meno dell'espulsione in presenza dei requisiti previsti dalla norma in questione. Quanto al primo problema, l'istituto in questione, nonostante l'assonanza semantica, non sembra avvicinabile alle "misure alternative alla detenzione" previste dall'ordinamento penitenziario: l'espulsione, per sua intrinseca natura, è intesa a produrre l'esclusione sociale più o meno definitiva - almeno dalla società di elezione - di chi vi è assoggettato; viceversa, la funzione assegnata dall'ordinamento alle "misure alternative alla detenzione" é quella di favorire la graduale risocializzazione del condannato. Inoltre l'applicazione della nuova figura di espulsione si configura quale potere-dovere del giudice assumendo quel carattere necessitato, tipico dell'applicazione della pena, che è tutt'affatto estraneo all'istituto delle misure alternative alla detenzione, tipicamente connotato da eventualità e discrezionalità. Tanto meno la figura de qua può assimilarsi alle "sanzioni sostitutive della pene detentive", introdotte per la prima volta nel nostro ordinamento dalla legge 689/81, come risulta evidente dalla distinzione operata, al riguardo, dallo stesso legislatore, nella rubrica del nuovo art. 16 . Si deve piuttosto concludere che il legislatore abbia creato un ibrido di difficile collocazione sistematica. Quanto al procedimento preordinato a questo tipo di espulsione, esso ha carattere giurisdizionale esclusivamente perché la decisione è assunta da un Magistrato di sorveglianza, ma la decisione è da lui adottata "senza formalità", cioè senza garantire neppure un minimo di contraddittorio; l'unica garanzia offerta al destinatario del provvedimento è data dalla facoltà di proporre opposizione innanzi al Tribunale di Sorveglianza avverso il decreto motivato di espulsione. Con riferimento al carattere automatico o meno dell'espulsione in discorso, una volta che siano soddisfatti i presupposti giuridici come sopra definiti, l'interpretazione letterale del testo introdotto dalla c.d. legge Bossi-Fini non lascia al Magistrato di sorveglianza alcun margine di discrezionalità: egli dovrà disporre l'espulsione d'ufficio e a prescindere dall'eventuale percorso rieducativo del condannato. Questa interpretazione ha spinto numerosi magistrati di sorveglianza a sollevare, con ordinanza, diverse questioni di legittimità costituzionale della norma in commento, con contestazioni focalizzate principalmente sulla violazione del principio della finalità rieducativa della pena (ex art. 27, terzo comma, della Costituzione) e del principio del giusto processo (ex art. 111 della Costituzione ). Su di esse la Corte Costituzionale non si è ancora pronunciata.




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L'ingresso era consentito ai cittadini stranieri extracomunitari "per motivi di turismo, studio, lavoro subordinato o lavoro autonomo, cura, familiari e di culto".

L'accordo di Schengen, stipulato il 19 giugno 1990, si poneva diversi obiettivi: la soppressione dei controlli alle frontiere tra gli Stati firmatari e la libera circolazione di merci e persone; la cooperazione tra la polizia e l'autorità giudiziaria dei paesi aderenti in materia penale e di estradizione; la creazione del SIS (Sistema d'Informazione Schengen), volto alla protezione dei dati personali ed allo scambio di informazioni. Esso introdusse una serie di novità per riuscire a gestire in modo uniforme lo spazio costituito dall'insieme dei territori degli Stati contraenti (definito "Spazio Schengen) e rafforzare le frontiere esterne, in relazione all'avvenuta abolizione delle frontiere interne. Vengono chiamate "frontiere interne" quelle esistenti fra i vari Stati contraenti, mentre sono indicate come "frontiere esterne" quelle con gli Stati terzi, dai quali lo straniero può entrare nello "Spazio Schengen" attraverso i valichi terrestri, marittimi ed aeroportuali. Inoltre i cittadini provenienti da altri paesi vengono distinti in due categorie: i "non stranieri" (cittadini provenienti dai paesi contraenti, dall'Irlanda, dal Regno Unito e dal Liechtenstein) e gli "stranieri" (cittadini provenienti da tutti gli altri paesi). L'ingresso effettivo dell'Italia nell'area di Schengen è avvenuto soltanto il 31 marzo 1998, ed ha richiesto un articolato processo di adattamento delle norme interne, delle procedure amministrative e delle strutture organizzative italiane al quadro di Schengen.



Massimo Pastore, Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e criminalità tra gli immigrati, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, 1995.

Si tratta di una esplicita scelta del legislatore, come testimoniato dalla relazione di accompagnamento della legge, nella quale si afferma: <<se si vuole un impatto morbido della immigrazione, con riduzione di conflitti e di atteggiamenti xenofobi, occorre governare gli ingressi ed essere assolutamente fermi nell'impedire vie alternative di inserimento: ogni concessione all'irregolarità farebbe saltare il sistema>>.

E' opportuno osservare che, secondo un principio di civiltà più volte ribadito dalle pronunce della Corte Costituzionale, i c.d. "diritti fondamentali della personalità" quali diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Cost.) devono essere assicurati dal nostro ordinamento agli stranieri, anche se in posizione di irregolarità o clandestinità.

Al 10/01/2003, dei 300mila immigrati residenti da più di cinque anni in Italia e, quindi, potenziali titolari della carta di soggiorno solo poco più del 5% l'avevano ricevuta. E' uno dei dati che emerge dal libro I confini del patto. Il governo dell'immigrazione in Italia, Einaudi, scritto da Guido Bolaffi, dal '96 capo di gabinetto del ministro per la Solidarietà sociale.

Cfr. A. Caputo, La condizione giuridica dei migranti dopo la legge Bossi-Fini, in Questione giustizia, n. 5, 2002, pag. 971.

Fonte: Libro Bianco sulla Bossi-Fini, a cura di Giulio Calvisi e Aly Baba Faye, Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A., Roma, 2004.

Il modello di approccio al fenomeno dell'immigrazione al quale questa norma pare ispirarsi è quello, prevalso a lungo in Germania, dell'immigrato come "Gastarbeiter" (lavoratore ospite). Lo straniero era considerato un semplice prestatore d'opera cui si concedeva una permanenza sul posto a tempo e per scopi definiti. Le politiche dell'immigrazione si basavano sulla regolazione dei flussi in ingresso, sull'integrazione professionale, sull'incentivazione dei rimpatri (in particolare per i soggetti disoccupati) ed eventualmente sulla rotazione delle presenze per prevenire l'insediamento stabile dell'immigrato.

In particolare è confermata la distinzione tra espulsione "ministeriale" e "prefettizia" e, dopo ampio dibattito, è stata accantonata l'ipotesi dell'espulsione coattiva per le ipotesi di mancato rinnovo del permesso. Per l'espulsione prefettizia la giurisdizione, in caso di impugnazione, resta attribuita alla magistratura amministrativa (la competenza, in primo grado, è individuata nel Tar del Lazio).

Fatti salvi i divieti di espulsione e di respingimento tipizzati dall'art. 19 del testo unico.

Così il novellato comma 3 dell'art. 13 del testo unico.

Questo il passaggio della sentenza citata al quale ci si riferisce: <<Per eliminare ogni eventuale residuo dubbio basta considerare che l'accompagnamento inerisce alla materia regolata dall'art. 13 della Costituzione, in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti solo sulla libertà di circolazione. E' proprio muovendo da simili premesse che questa Corte, fin dalla sentenza n. 2 del 1956, ha affermato che la traduzione del rimpatriando con foglio di via obbligatorio é misura incidente sulla libertà personale e, nella più recente sentenza n. 210 del 1995, ha negato che l'ordine di rimpatrio comporti lesione dei beni protetti dall'art. 13 della Costituzione, in considerazione del carattere obbligatorio, ma non coercitivo, che tale ordine presenta>>.

Il silenzio sul punto della sentenza 105/2001 della Corte costituzionale è riconducibile esclusivamente al difetto di rilevanza della questione nei casi oggetto delle ordinanze di rimessione. Nella disciplina di cui ai comma 4 e 5 del testo originario dell'art. 13 ed in quella di cui al comma 4 del testo novellato - norme che non contemplano alcun intervento dell'autorità giudiziaria - l'accompagnamento coatto alla frontiera deve dunque ritenersi incostituzionale, a meno di non integrarlo in via interpretativa.

Inoltre il questore, al fine di assicurare l'esecuzione dell'espulsione, può nuovamente disporre che lo straniero sia trattenuto in un centro di permanenza temporanea.

Se ne fa cenno nel cap.

La rubrica del nuovo art. 16 recita "Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione". L'istituto della "espulsione a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione" è certamente inquadrabile tra le sanzioni sostitutive alle pene detentive. Non così la "espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione", la cui collocazione sistemica è un vero rebus.

Ciò non solo per il mancato coinvolgimento delle parti nella fase procedimentale davanti al Magistrato di sorveglianza, ma anche per il riconoscimento ad una sola delle parti (lo straniero) del potere di proporre l'opposizione innanzi al Tribunale di sorveglianza (precluso dalla lettera della norma al Pubblico Ministero).

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