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Tesina su "I diritti umani"




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Tesina su "I diritti umani"



INTRODUZIONE


'Proprio perché l'umanità è immersa in un oceano di sofferenza, è giusto ed è sano che,

senza perdere di realismo, tuttavia reagiamo vitalisticamente, che non ci consentiamo una

visione ideologicamente pessimista e conservatrice.'

Norberto Bobbio



'Ora possediamo una leva capace di sollevare e alleviare il peso dell'oppressione e

dell'iniquità: impariamo a servicene!'

Renè Cassin



Il l0 dicembre 1948 L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò e proclamò

la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo

In seguito l'Assemblea invitò tutti i paesi membri a pubblicizzare il testo della Dichiarazione e a fare in modo che fosse divulgato, letto e spiegato principalmente nelle scuole e nelle altre istituzioni educative, senza alcuna distinzione basata sullo stato politico dei paesi.

Purtroppo a distanza di cinquant'anni dalla sua approvazione è opinione di Amnesty International, - impegnata dal 1961 nella difesa e nella promozione dei diritti umani in tutto il mondo - che la Di­chiarazione Universale dei Diritti Umani sia ancora in gran parte ignorata e disattesa nella gran parte del mondo ed anche nel nostro paese Per colmare questo ritardo culturale Amnesty Internatio­nal ritiene importante che ci si impegni in un lavoro di educazione ai diritti umani. Il grande obbiet­tivo di questo impegno è indicato nell'articolo 26 della Dichiarazione Universale :


'L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana e al

rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve

promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le nazioni, gruppi razziali e

religiosi e deve favorire l'opera delle nazioni unite per il mantenimento della pace.'


Il lavoro che Amnesty International si propone di svolgere vuole essere di contributo all'afferma­zione di tale cultura e vuole essere un invito ad altri, individui, movimenti. istituzioni ad impe­gnarsi nello stesso senso.

Proprio grazie alle pubblicazioni di Amnesty International in occasione del 50° anniversario ho avuto la possibilità di conoscere il complesso lavoro che è stato fatto in questi ultimi anni a favore di una problematica, l'aspirazione universale alla dignità e ai diritti umani, con cui ci dobbiamo co­stantemente confrontare ancora oggi, dal momento che l'ingiustizia sociale e l'intolleranza stanno dilagando e che gli arresti arbitrari, la tortura e la morte inflitta dallo stato hanno minato la qualità di vita di molti paesi. Il fascino suscitatomi da tale tematica ha fatto sì che intuissi e delineassi fi­nalmente i miei interessi e le mie aspettative per il futuro e che scoprissi che 'non è possibile lavo­rare per i diritti umani senza lavorare a1 tempo stesso per la propria liberazione e la propria cre­scita personale'.

Oggetto del mio approfondimento, che ho sviluppato in maniera interdisciplinare essendo i diritti umani a mio parere una tematica multidisciplinare per eccellenza e che si presta sia a collegamenti con i contenuti disciplinari studiati in classe sia con il fatti d'attualità, vuol essere il tentativo di ri­spondere con un personale contributo e una dimostrazione di vivo interesse all'invito rivolto da Amnesty International alla divulgazione di una nuova sensibilità e di una nuova disponibilità a gesti concreti di solidarietà!

Il percorso multidisciplinare


Il percorso multidisciplinare della mia ricerca ha tratto il suo spunto dalla ricorrenza del de­cimo anniversario degli eventi tragici di piazza Tien an men che cade proprio in questi giorni. Ciò mi ha indotto a ricostruire il quadro storico della nascita della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo e ad analizzare la struttura della Dichiarazione mettendo in luce le differenti caratteristi­che dei diritti in essa contenuta. Questo studio mi ha permesso di approfondire, attraverso i testi di N.. Bobbio, le tematiche dell'universalità e storicità dei diritti e del loro fondamento ed analizzare come essi non vadano considerati come qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio ma come si modifi­chino nel tempo a seconda delle nuove problematiche socio- economiche che emergono nel corso dello storia ( diritti della terza e quarta generazione).Da qui la necessità di considerare i 30 articoli della Dichiarazione non come semplici principi astratti ed ideali, genericamente enunciati, che gli stati di fatto non ritengono di dover rispettare, ma come norme etiche fondamentali che vanno di­vulgate e protette e fatte rispettare anche dagli altri. Questa considerazione mi ha dato lo spunto di sviluppare le odierne problematiche relative al dibattito sull'impegno concreto della loro difesa e sulle difficoltà che ne limitano l'azione, nonostante l'impegno delle organizzazioni internazionali che pongono alla base del loro statuto il principio del rispetto. L'analisi del ruolo di queste organiz­zazioni e dei principali trattati internazionali mi ha permesso di affrontare nella loro complessità le problematiche giuridico-politiche legate alla Dichiarazione. Lo studio dei diritti umani mi ha in­dotto a collegare in maniera viva e attuale le dinamiche profonde del mondo contemporaneo, dal ruolo dell'ONU nel panorama geopolitico internazionale fino al problema scottante dell'abolizione della pena capitale, estendendo la mia indagine al percorso della storia, dell'arte, della filosofia e della letteratura studiate in classe. Si spiegano così i collegamenti che ho inteso instaurare con il ca­polavoro Guernica di Picasso nel contesto della guerra civile spagnola, con le tematiche del liberali­smo come dottrina che difende i diritti inalienabili dell'individuo contro le invadenze del potere statale o con le teorie del marxismo che protegge i diritti legati al mondo del

lavoro e, infine, con il documento agghiacciante di denuncia contro le violenze naziste sulla dignità umana che P. Levi ci ha consegnato attraverso le pagine autobiografiche di 'Se questo è un uomo'. Mi ha fatto molto riflettere, tuttavia, la considerazione che questo cinquantennio, seguito alla ap­provazione della Dichiarazione, abbia visto l'esplodere di circa duecento guerre in una successione ininterrotta di violazioni dei diritti umani. Da qui la consapevolezza sull'enorme quantità di lavoro ancora necessaria per formare le coscienza verso una cultura della pace e della tolleranza autentica e viva. Sotto questo profilo mi è parso significativo inserire nella mia trattazione uno spazio dedicato alla cultura multietnica finalizzata all'intento di appianare razionalmente i conflitti pur nel rispetto delle diversità: conciliare non significa assimilare ed appiattire, ma trarre ricchezza dalla molteplice diversità delle culture, rivendicando all'educazione dei diritti dell'uomo un ruolo fondamentale nella formazione della persona libera, responsabile e solidale.


'Le guerre nascono dal cuore degli uomini, è nel cuore degli uomini che devono essere

elevate le difese della pace ' - così recita l'UNESCO.


Tienanmen: la primavera della libertà



L'immagine in copertina che ho scelto a simbolo del mio lavoro sui diritti umani si riferisce alla violenta re­pressione di Tien An Men: un giovane studente Wang Weilin di 19 anni sfida da solo una co­lonna di carri armati di soldati cinesi che puntano le armi contro la propria gente per repri­mere la civile protesta contro il malgoverno. Essa non vuole rammentare unicamente l'essersi veri­ficato di un tale evento storico per rafforzarne, a distanza di 10 anni, la memoria storica, ma porta con sé almeno altri due pregnanti significati :


L'immagine in copertina evoca in maniera altamente simbolica il contrasto tra il potere tota­lita­rio e bru­tale (rappresentato nella sequenza dei carri - armati che opprimono con la forza le ri­chieste e le speranze di libertà e democrazia della gioventù cinese) e la forza morale del sin­golo individuo disposto a resistere anche a costo della sua vita per difendere i diritti fondamen­tali della persona. ( lo studente è stato poi condannato a morte). Quella che sembra una debo­lezza e una fragilità, il corpo e la volontà di un giovane, contro l'acciaio e la forza delle armi pe­santi, si dimostra in realtà uno strumento potente capace di cambiare non solo la corsa dei carri ma anche il corso della storia di un paese.


Essa è anche il simbolo politico di un impegno morale e civile che è ancora vivo nel difendere e nel pro­muovere la libertà e la democrazia in un Cina che ancora oggigiorno viola sistematica­mente i diritti dell'uomo. La lotta ideale del movimento degli studenti nato nell'aprile 1989 che chiedeva la fine della corruzione governativa e una serie di riforme politiche e in materia di ri­spetto dei diritti umani è ancora vivo, malgrado la repressione ha lasciato un significato pro­fondo nella coscienza delle persone.


A suscitare il mio interesse ha contribuito tanto più il fatto che la sua memoria, ancora viva ne­gli animi, si è potuta esprimere lì, dove si è verificato, solo privatamente nel cuore della gente dal mo­mento che il massiccio schieramento di polizia ha impedito qualunque manifestazione.

Solo due persone hanno osato una protesta: un uomo ha aperto un ombrello con scritto "ricordiamoci di 10 anni fa", mentre uno studente ha lanciato volantini contro la corruzione e le di­seguaglianze sociali. La polizia è intervenuta in pochi secondi: i due sono stati portati subito via. Cinque giornalisti occidentali che avevano assistito alla scena dell'ombrello sono stati interrogati dai poliziotti che hanno sequestrato ai fotografi le pellicole. Un cristiano, Liu Feng, è stato fermato a Pe­chino per aver organizzato una preghiera in suffragio dei morti di Tienanmen. E mentre la gente ritornava con la memoria a quel tragico 4 giugno, la TV di stato dedicava un notiziario sul rifaci­mento della piazza per il 50° anniversario della Repubblica Popolare.

I fatti

Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, a Pechino, centinaia di cittadini disarmati furono uccisi a colpi di arma da fuoco. Molti vennero uccisi quando i soldati, dirigendosi dalla periferia verso il centro della capitale, aprirono il fuoco contro qualunque ostacolo e assembramento di persone si pa­rasse di fronte a loro. Altre vittime furono colpite alle spalle mentre tentavano di fuggire dalle truppe che stavano avanzando. E ancora, un gran numero di persone venne passato per le armi nei giorni successivi al massacro, quando il controllo del centro di Pechino era ormai assicurato.

Le luci di Tiananmen vennero spente intorno alle 4 di notte. Contemporaneamente, nella piazza fe­cero irruzione centinaia di soldati. Un'ora dopo, il Movimento per la Democrazia era stato spazzato via e i militari erano rientrati in possesso della piazza. Alcuni manifestanti vennero stritolati dai carri armati che passa­rono sopra alle tende sorte intorno alla Dea della Democrazia, la statua eretta al centro di Tiananmen. Altri vennero uccisi quando i soldati aprirono il fuoco alla cieca sulla folla. A Pe­chino, così come in buona parte della Cina un'ondata di arresti colpì decine di migliaia di ma­nife­stanti. Tutti furono sotto­posti a processi iniqui. La battaglia è finita. I conservatori del premier Li Peng hanno vinto reprimendo nel sangue le aspirazioni di giustizia, democrazia e libertà.



La situazione attuale

La Costituzione Cinese (art. 35) dice che 'I cittadini della Repubblica Popolare Cinese hanno li­bertà di parola, stampa, organizzazione, associazione e manifestazione' é possono quindi organiz­zarsi in gruppi. In pratica non è così.

La dilagante condizione e il forte sviluppo economico sembrano trovare impreparato le autorità che rispondono aumentando e intensificando la repressione del dissenso e limitando ulteriormente le li­bertà civili dei loro cittadini.

Molti tra coloro che promossero il Movimento per la Democrazia del 1989 e ne furono attivi pro­tagonisti, sono ancora in carcere o sono stati costretti ad abbandonare il paese.

Nonostante la firma da parte del governo cinese della Convenzione internazionale sui Diritti Politici e Civili (ICCPR)e la visita in Cina del Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e dell'Alto Commis­sario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Mary Robinson, siano state propagandate come grandi successi della diplomazia e del 'dialogo' sui diritti umani le autorità cinesi hanno ricominciano a opprimere i dissidenti e gli attivisti. Dall'ottobre 1998, data in cui la Cina ha firmato l'ICCPR, è stato stimato che almeno 80 oppositori siano stati arrestati ed almeno altri 15 esponenti del dissenso siano stati condannati a molti anni di detenzione o alla 'rieducazione attraverso il lavoro'. Le nuove accuse riguardanti presunte violazioni della 'sicurezza nazionale', che hanno rimpiazzato quelle sui crimini contro-rivoluzionari, vengono usate per continuare la repressione e l'imprigionamento dei dissidenti e degli attivisti politici.




IL CONTESTO STORICO


La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo fu certamente un evento storico: per la prima volta nella storia dell'umanità un'assemblea di rappresentanti di governi di tutto il pianeta ri­cono­sceva una comune tavola di valori etico-politici su cui ricostruire il mondo distrutto fisica­mente e moralmente dalla 2° guerra mondiale, per la prima volta una comunità internazionale si as­sumeva la responsabilità della tutela e della promozione di specifici diritti posti alla base di ogni convi­venza. Si era diffusa la consapevolezza che le ingiustizie commesse in una qualsiasi parte del globo si ripercuotevano come onde sonore in tutte le direzioni trasmettendo la loro eco anche nelle zone più lontane e sperdute.

Il fatto che il preambolo colleghi esplicitamente il mancato rispetto dei diritti umani agli "atti di barbarie" della seconda guerra mondiale indica la stretta correlazione tra la dichiarazione e il clima in cui nasce. Alla fine della II guerra mon­diale più ancora che i disastri materiali colpirono i disastri morali che la guerra aveva provocato: stermini e genocidi di intere minoranze ( dagli ebrei agli zin­gari), l'uso metodico di bombar­damenti popolazioni civili, l'atomica e le deportazioni di massa ne erano la terribile prova. L'Olocausto e Hiroshima insieme alle altre tragedie dimostrano che l'uma­nità è in grado di pianificare la distruzione di se stessa nella sua totalità, da qui nasce l'esigenza di non solo di non dimenticare ma di creare le condizioni perché questo non si ripeta. La dichiarazione nasce in questo clima etico - culturale e con lo scopo di garantire in futuro la pace e il rispetto di­ritti umani: il legame stretto tra la sopravvivenza della future generazioni ( terrore di un'altra guerra totale) e il rispetto dei diritti umani è evidente. Essa doveva innanzitutto rappresentare un'autorità morale e civile cardine per la costruzione della pace e della tolleranza.


Le tappe significative



Date

Avvenimenti storici

Tappe verso la Dichiarazione

Fine della 1° Guerra Mondiale, Conferenza di Parigi e firma dei trattati di pace

Nasce la Società delle Nazioni basata sui 14 punti di Wilson.

Gli Stati Uniti non vi partecipano.

Scoppia la Guerra Civile in Spagna

La Germania invade la Polonia: ha inizio la 2° Guerra Mondiale

Truppe tedesche invadono l'URSS; il Giappone entra in guerra: attacco di Pearl Harbor

Gran Bretagna e stati Uniti firmano la Carta Atlantica

Inizia la battaglia di Stalingrado

A Washington le 26 nazioni in guerra contro il patto tripartito firmano La Dichiarazione delle Nazioni Unite

Conferenza di Yalta, la Germania firma la resa incondizionata

Conferenza di San Francisco: 50 Stati danno vita all'ONU

10 dicembre 1948

Entra in vigore la costituzione ita­liana

L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta LA DICHIARAZIONE UNIVER­SALE DEI DIRITTI DELL'UOMO

LA STRUTTURA


- I Diritti riconosciuti dal documento sono di due tipi: I diritti civili e politici, gradualmente affer­matisi attraverso la storia del pensiero e delle istituzioni democratiche e i diritti economici e sociali, la cui importanza è stata riconosciuta più di recente, nel momento in cui ci si rese conto che senza l'affermazione reale di questi ultimi, il godimento dei diritti civili e politici rimaneva puramente formale. Nella concezione della Dichiarazione i due tipi di diritti, pur ricevendo trattazione separata sono interdipendenti e indivisibili.

I 30 articoli possono essere così suddivisi:

- art. 1-2: sono la base di tutto il documento e stabiliscono come, principio fondamentale, che "gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti".

- art. 3: sancisce il diritto alla "vita, libertà, e alla sicurezza della persona" ed introduce la serie di articoli riguardanti i diritti civili e politici.

-art.4-21:precisano i diritti civili e politici.

-art.22: stabilendo il diritto alla 'sicurezza sociale'", introduce l'esposizione dei diritti economici, sociali e culturali la cui soddisfazione è affidata allo sforzo nazionale e alla cooperazione interna­zionale.

-art.23-27 enunciano i diritti economici, sociali e culturali di cui ciascuno deve godere "in quanto membro della società".L'art.26 è dedicato all'istruzione e all'educazione ai diritti umani.

- art 28-29: enunciano il diritto a un ordine sociale e internazionale in cui i diritti umani possano es­sere realizzati e affermano la presenza di doveri dell'individuo verso la comunità.

- art. 30: intende proteggere la Dichiarazione da interpretazioni che ne contraddicano contenuti e fi­nalità.



IL PROBLEMA DEL FONDAMENTO ASSO­LUTO E LA STORICITÀ DEI DIRITTI: la let­tura di N. Bobbio


Il filosofo Norberto Bobbio sostiene, in opposizione ai giusnaturalisti i quali credettero di aver messo certi diritti al riparo da ogni possibile confutazione derivandoli direttamente dalla na­tura dell'uomo, che la ricerca di un fondamento assoluto sia infondata.

A sostegno di questa sua considerazione solleva quattro punti.

Il primo deriva dalla considerazione del fatto che "diritti dell'uomo" è un'espressione molto vaga che non consente di elaborare una categoria dei diritti dell'uomo dai "contorni netti"; se­gue la domanda sulla possibilità di porre il problema del fondamento, assoluto o non assoluto, di diritti di cui non è possibile dare una nozione precisa.

In secondo luogo introduce uno dei concetti cardine del suo pensiero: la storicità dei diritti. Di­fatti è facile constatare, proprio come sostiene il filosofo, che l'elenco dei diritti dell'uomo si è modificato e va modificandosi col mutare delle condizioni storiche, cioè dei bisogni e degli inte­ressi, delle classi al potere, dei mezzi disponibili per la loro attuazione, delle trasformazioni tec­niche. Ad esempio diritti che erano stati dichiarati assoluti alla fine del Settecento, come la pro­prietà «sacre et inviolabile», sono stati sottoposti a radicali limitazioni nelle dichiarazioni con­temporanee; diritti che le dichiarazioni del Settecento non menzionavano neppure, come i diritti sociali, sono ormai proclamati con grande ostentazione in tutte le dichiarazioni recenti. Non è difficile prevedere che in avvenire potranno emergere nuove pretese che ora non riusciamo nep­pure a intravedere, come il diritto a non portare le armi contro la propria volontà, o il diritto di rispettare la vita anche degli animali, e non solo degli uomini. Il che prova che non vi sono di­ritti per loro natura fondamentali.

Infine sostiene che la classe dei diritti dell'uomo è eterogenea, in quanto vi appartengono diritti con uno "status" molto diverso tra loro. Alcuni valgono in ogni situazione e per tutti gli uomini indistintamente, come ad esempio il diritto a non essere resi schiavi e a non essere torturati, ma sono ben pochi perché, dal momento che sono ritenuti fondamentali, non possono venire sospesi né limitati in alcuna circostanza e non possono costituire motivo di concorrenza con altri diritti, ritenuti a loro volta fondamenti, imponendo una scelta. Altri giungono tra loro a un compro­messo, introducendo dei limiti alla loro estensione in modo che siano in parte salvaguardati an­che quelli con cui potrebbero entrare in conflitto. Questi ultimi, pur sempre fondamentali ma as­soggettabili a restrizioni, non possono avere un fondamento assoluto che non permetterebbe di sostenere una valida giustificazione alla restrizione.

Ne segue di qui (4°punto) un'antinomia fra i diritti invocati dagli stessi soggetti: in poche parole esiste una determinata categoria di diritti, che consiste in poteri, che presuppone l'imposizione ad altri (tra cui gli organi pubblici) di un certo numero di obblighi. Se partiamo dal presupposto che i diritti umani sono cose desiderabili, la ragione per la quale il giusnaturalismo ha voluto porre all'origine un fondamento assoluto si basa sul dogma, appartenente al razionalismo etico, che la dimostrata razionalità di un valore è condizione" non solo necessaria ma sufficiente della sua attuazione".

L'osservazione storica per la quale non si può dire che i diritti dell'uomo siano stati rispettati di più nelle età in cui i dotti erano concordi nel ritenere di aver trovato per difenderli un argomento incon­futabile, cioè un fondamento assoluto, e la proclamazione di comune accordo della prima dichiara­zione dei diritti dell'uomo da parte della maggior parte dei governi esistenti in un contesto di crisi dei fondamenti hanno fatto concludere al filosofo che oggi il problema che ci dobbiamo porre non è più tanto quello di giustificarli ma quello di proteggerli . Il momento delle opposizioni ad essi non è tanto quello dell'enunciarli ma di metterli in pratica:

"Si ricordi che il più forte argomento addotto dai reazionari di tutti i paesi contro i diritti dell'uomo, in specie contro i diritti sociali, non è già la loro mancanza di fondamento, ma la loro inattualità"

In sostanza Bobbio ci vuole dire che il problema di fondo oggi non è filosofico ma politico.

Contro chi o contro cosa l'uomo deve difendersi?

L'emancipazione dell'uomo.


Oggi si sta formando un unico grande disegno di difesa dell'uomo, che com­prende tre sommi beni: la vita, la libertà e la sicurezza sociale. Difesa da che cosa? La risposta che ci viene dall'osservazione della storia è molto semplice e netta: difesa dal potere, da ogni forma di potere. Il rapporto politico per eccellenza è un rapporto tra potere e libertà. Vi è una stretta correlazione fra l'uno e l'altro. Più si estende il potere di uno dei due termini del rapporto più diminuisce la libertà del­l'altro termine del rapporto e viceversa. Ciò che contraddistingue il momento attuale rispetto alle epoche prece­denti, e rafforza la richiesta di nuovi diritti è la forma di potere che prevale su tutti gli altri. In sostanza i diritti non nascono tutti insieme dati una volta per sempre ma emergono gra­dualmente dalle lotte che l'uomo combatte per la propria emancipazione e dalla trasformazione delle condizioni di vita che queste lotte producono. Nel corso di questa emancipazione la forma di potere prevalente è variata a seconda delle condizioni storiche e ha dato luogo allo sviluppo dei di­ritti attraverso tre fasi:


Libertà dallo stato. In un primo tempo sono stati affermati i diritti di libertà, cioè tutti quei diritti che tendono a limitare il potere dello stato e a riservare all'individuo o a gruppi particolari una sfera di libertà dallo stato.

Libertà nello stato. In un secondo tempo sono stati propugnati i diritti politici che, concependo la libertà non soltanto negativamente come non-impedimento, ma positivamente come autono­mia, hanno avuto per conseguenza la sempre più ampia e diffusa e frequente partecipazione dei membri di una comunità al potere politico.

Libertà attraverso lo stato. Infine sono stati proclamati i diritti sociali che esprimono la matura­zione di nuove esigenze, di nuovi valori quali quelli del benessere e dell'eguaglianza non sol­tanto formale.

In riferimento a questi ultimi si parla poi di diritti di seconda generazione per evidenziare l'emergere nel contesto attuale di un'altra categoria di diritti, chiamati di terza generazione. Oggi le minacce alla vita, alla libertà, alla sicurezza vengono dal potere della scienza e delle sue applica­zioni tecniche. Siamo entrati nell'era che viene chiamata "post-moderna" ed è caratterizzata dall'enorme progresso tecnico, vertiginoso e irreversibile. Irreversibile perché con il progresso tec­nico non si torna più indietro. Non si torna più alla carrozza a cavalli e non si torna più ai fucili quando ci sono le armi atomiche: questo è chiarissimo. L'età post-moderna è caratterizzata dalla trasformazione tecnologica e tecnocratica del mondo. Dal giorno in cui Bacone disse che la scienza è potere, l'uomo ha fatto molta strada. Mai come oggi vale il tema di Bacone secondo cui chi più sa più ha potere; oggi però l'uomo sa molto di più di quello che si sapeva ai tempi di Bacone. La cono­scenza è diventata la principale causa e la condizione, se non sufficiente, necessaria, del dominio dell'uomo sulla natura e sugli altri uomini. Bastino i seguenti due esempi che hanno riempito le ri­viste, i li­bri, le conversazioni, i congressi, le tavole rotonde di questi ultimi anni, e che quindi sono al centro del dibattito attuale:

Primo: il diritto a vivere in un ambiente non inquinato, donde hanno preso le mosse i movimenti ecologici che hanno movimentato negli ultimi anni la vita politica, tanto all'interno dei sin­goli Stati quanto nel sistema internazionale.

Secondo: il diritto ad una sfera privata che viene messo in serio pericolo dalla possibilità che hanno i pubblici poteri di memorizzare tutti i dati riguardanti la vita di una persona e con ciò di controllarne i comportamenti senza che egli se ne accorga.

Ma già si affacciano nuove richieste, che si potrebbero definire come diritti della quarta genera­zione, riguardanti gli effetti sempre più sconvolgenti della ricerca biologica. Mi riferisco in parti­colare al diritto all'integrità del proprio patrimonio genetico, che va ben oltre il diritto all'integrità fisica, già affermato negli articoli 2 e 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo. Si tratta di un di­ritto che sta già sollevando dibattiti nelle organizzazioni internazionali, e su cui probabilmente av­verranno gli scontri più accaniti è più difficili da risolvere fra due visioni opposte della natura umana.


In conclusione i diritti elencati nella Dichiarazione non sono i soli e possibili diritti dell'uomo: sono i diritti dell'uomo storico quale si configurava alla mente dei redattori dopo la tragedia della se­conda guerra mondiale. E' una sintesi del passato e un'aspirazione per l'avvenire.. Per questo il contenuto della dichiarazione va perfezionato continuamente e in questi anni sono sorti altri docu­menti che dal generale ne hanno sviluppato punti specifici.

Per citarne alcuni: La dichiarazione dei diritti del fanciullino, La convenzione sui diritti politici della donna, La convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale.


Come difenderli?


Il fatto che i diritti della persona siano nati in momenti diversi, e che esprimono esigenze di­verse (che lo Stato si astenga dall'interferire in una sfera di libertà individuale, o che al contrario si attivi per soccorrere l'individuo) non implica che essi possano essere difesi 'in ordine sparso', rinun­ciando a qualcuno di essi nella speranza di realizzarne più efficacemente altri. I diritti umani vanno soste­nuti tutti insieme, e non in ordine gerarchico, privilegiando la prima generazione rispetto alla se­conda o viceversa. La teoria che le libertà civili e politiche sono un lusso dei paesi ricchi è stata drammaticamente smentita dalla storia recente: non ci sono diritti economici e sociali, né sviluppo né giustizia, dove non c'è libertà, e dove le elites politiche sfuggono al controllo popolare. Vice­versa la democrazia è un guscio vuoto, dove la fame, lo sfruttamento e l'ignoranza avviliscono la dignità umana.


Prescindendo dalle difficoltà derivanti dall'eterogeneità dei diritti di cui si è già parlato, esistono due ordini di difficoltà nel proteggere i diritti dell'uomo.


Il primo è di ordine giuridico-politico,in quanto gli organismi internazionali possiedono rispetto agli stati che li compongono un'influenza, definibile come vis directiva, ma non un potere (vis coac­tiva).L'efficacia della vis directiva dipende da due condizioni:

I.     colui che la esercita deve essere molto autorevole

II.  colui al quale è rivolta deve essere molto ragionevole.

Spesso una delle due (se non entrambe) viene a mancare. E' evidente che esiste una differenza so­stanziale tra la protezione giuridica in senso stretto e le garanzie internazionali. E' lecito allora do­mandarsi quale sia il grado di efficacia delle misure attualmente applicate. Esse possono essere con­siderate sotto tre aspetti:


promovimento che ha lo scopo di introdurre in tutti gli stati una disciplina specifica per la tutela dei diritti dell'uomo.

controllo che consiste nella verifica del rispetto delle convenzioni

garanzia che ha di mira la creazione di una nuova e più alta giurisdizione di grado internazio­nale, sostitutiva di quella nazionale.

Paradossalmente in merito a quest'ultimo punto si può affermare che le forme di garanzia interna­zionale sono oggi più progredite dove sono più progredite le garanzie nazionali, quindi probabil­mente là dove ce ne sarebbe meno bisogno.


Il secondo è relativo al fatto che per la realizzazione dei diritti dell'uomo occorrono spesso condi­zioni obbiettive che non dipendono dalle buona volontà di coloro che li proclamano né dalle buone predisposizioni di coloro che possiedono i mezzi per proteggerli. Tra le più attuali vi sono le condi­zioni economiche che spesso non permettono la piena protezione della maggior parte dei diritti so­ciali. Ad esempio la protezione del diritto al lavoro (nato con la rivoluzione industriale) è un pro­blema la cui soluzione dipende da un certo sviluppo della società, mettendo in difficoltà anche la costituzione più progredita o il più perfetto meccanismo di garanzia giuridica.


In tema di difesa di diritti umani è bene ricordare: Il tribunale penale internazionale permanente

Amnesty international

Il tribunale penale Internazionale permanente

Nel corso del mezzo secolo successivo alla fine della seconda guerra mondiale la maggior parte dei responsabili delle innumerevoli violazioni dei diritti umani si sono sottratti alla giustizia. Le autorità dei singoli stati si sono spesso mostrate riluttanti o non in grado di processarli e non vi è stata al­cuna corte internazionale a cui fare riferimento. Molti abusi e violazioni dei diritti umani colpiscono la coscienza dell'umanità in maniera così forte da essere ritenuti crimini in base al diritto interna­zionale, anche quando le leggi nazionali non li contemplano come tali.

Dopo la seconda guerra mondiale i tribunali chiamati a giudicare i crimini di guerra a Norimberga e a Tokyo avevano acceso la speranza che venisse creato un nuovo sistema di giustizia internazio­nale. Ma, con l'inizio della guerra fredda, questo progetto non è mai stato realizzato.

L'anno successivo al crollo del muro di Berlino, l'Assemblea generale chiese alla commissione di riprendere il lavoro sullo statuto della corte e finalmente il 17 luglio 1998, a chiusura della confe­renza diplomatica di Roma, i governi hanno adottato un trattato per l'istituzione del Tribunale Pe­nale Internazionale Permanente, competente a giudicare i responsabili di genocidio, altri crimini contro l'umanità, crimini di guerra e aggressione. Purtroppo il risultato ottenuto è stato reso meno efficace di quello che poteva essere a causa dell'azione di una minoranza di stati -probabilmente gli stessi che sceglieranno di non ratificare il trattato istitutivo- che è riuscita a imporre alcuni com­promessi inaccettabili per un corretto funzionamento. Ciò nonostante sono rilevanti anche i risultati positivi, come quello di un procuratore indipendente dal potere politico in grado di avviare l'azione penale di propria iniziativa, di adeguati programmi di protezione per le vittime e i testimoni e dell'ampia tutela stabilita per i diritti degli imputati. A riguardo ricordo la frase di Robert H. Jackson al tribunale per i crimini di guerra a Norimberga nel novembre 1945 ".Così come noi giudichiamo questi imputati oggi, sarà la storia a giudicare noi domani. Porgere ad essi un calice avvelenato equivale ad avvicinarlo alle nostre labbra".


Amnesty International

Mettere fine agli arresti segreti alla tortura e agli omicidi politici richiede un lavoro

organizzato ed internazionale. Accanto agli organismi governativi, intergovernativi fanno parte di tale lavoro anche numerose organizzazioni internazionali , tra le quali Amnesty International.



Breve storia: AMNESTY INTERNATIONAL è un movimento internazionale, indipendente da qualsiasi governo, parte politica, interesse economica o creda religioso. Nasce nel 1961 ad opera di .CONTINUA . Lavora per la promozione e la difesa dei diritti umani e incentra innanzitutto la sua azione sui casi di singoli prigionieri. Possiede status consultivo presso le Nazioni Unite, ed ha rice­vuto il premio Nobel per la Pace nel 1977.


Gli obiettivi dello statuto:


Si batte per la liberazione e l'assistenza di Prigionieri per motivi d'opinione: uomini e donne ovunque detenuti per le proprie opinioni, il colore della pelle, il sesso, l'origine etnica, la lingua o la religione che non abbiano usato violenza e non ne abbiano promosso l'uso.

Sollecita procedure giudiziarie eque e rapide per i prigionieri politici e lavora a favore di coloro che si trovano detenuti senza processo o imputazione.

Si oppone incondizionatamente alla pena di morte e alla tortura così come ad ogni altro tratta­mento crudele inumano e degradante .

Si oppone alla pratica delle sparizioni e delle esecuzioni extragiudiziali perpetrate dai governi, come pure alle uccisioni arbitrarie e deliberate ad opera dei gruppi armati di opposizione ai go­verni.

Amnesty lnternational svolge inoltre un'attività di Educazione ai Diritti Umani attraverso la quale promuove la consapevolezza e aderenza alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani- e ad altri strumenti in materia di diritti umani riconosciuti a livello internazionale - e ai valori in essi contenuti.



Amnesty International non lavora a favore o contro i governi né si pronuncia sui sistemi politici. I suoi membri sparsi nel mondo hanno convinzioni politiche e religiose assai diverse, ma riescono a lavorare insieme perché condividono gli obbiettivi che il movimento si propone.


Le tecniche


Per fronteggiare i vari tipi di repressione politica Amnesty International usa tecniche diverse, tutte miranti ad esercitare una forte pressione, internazionale sui governi, richiamandoli al rispetto della DL'cbiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e agli impegni che hanno assunto approvando e ratificando i Patti Internazionali sui diritti umani.

Le tecniche d'intervento variano a seconda delle situazioni.

tecnica dell'adozione, azioni a lungo termine intraprese nel caso di prigionieri d'opinione con­dannati a molti anni di detenzione.

azioni Urgenti sono garantite nel caso di persone in stato di fermo e in serio pericolo di morte o di torture, in cui la reazione deve essere tempestiva e concentrarsi nelle ore immediatamente successive all'arresto.

Le campagne rappresentano un momento di massiccia mobilitazione del movimento. Esse hanno il duplice obiettivo di denunciare ben documentate violazioni dei diritti umani, cercando di, coinvolgere l'opinione pubblica internazionale in azioni concrete a favore delle vittime; e di esercitare al tempo stesso una forte e simultanea pressione sulle autorità dei paesi in cui queste violazioni si verificano. Le campagne possono essere a tema (contro la tortura, le sparizioni, gli omicidi extragiudiziali, la pena di morte ecc.) oppure su paesi.

Reti d'intervento su aree regionali sono state studiate per fronteggiare situazioni per le quali l'adozione non sarebbe né efficace, né praticabile.



Diritti dell'uomo, Democrazia e Pace


In linea di principio, l'enorme importanza del tema dei diritti dell'uomo dipende dal fatto che esso è strettamente connesso con i due problemi fondamentali del nostro tempo, la demo­crazia e la pace. Il ri­conoscimento e la protezione dei diritti dell'uomo stanno alla base delle costitu­zioni democratiche, e, nello stesso tempo, la pace è il presupposto necessario per l'effet­tiva protezione dei diritti dell'uomo nei singoli Stati e nel sistema internazionale. È sempre vero il vecchio detto - e ne abbiamo fatto recente­mente nuova esperienza - che inter arma silent le­ges. Oggi siamo sempre più convinti che l'ideale della pace perpetua non può essere perseguito se non attraverso una progressiva democratizzazione del si­stema internazionale e degli Stati che fanno parte di questo sistema, e che questa democratizzazione non può andare disgiunta dalla graduale e sempre più effettiva protezione dei diritti dell'uomo anche al di sopra degli Stati. Di­ritti dell'uomo, democrazia, pace sono tre momenti necessari dello stesso movi­mento storico. Senza diritti dell'uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia. Senza demo­crazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra in­dividui, tra gruppi, e tra quei grandi gruppi che sono gli Stati, tradizionalmente indocili e ten­denzial­mente critici rispetto agli altri Stati, anche quando sono democratici al pro­prio interno.

Ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più soltanto di questo o quello stato ma del mondo.

Non sarà inutile ricordare che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo comincia affer­mando che 'il riconosci­mento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inaliena­bili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo'. Con queste parole, essa si riallaccia direttamente allo Statuto dell'ONU, nel quale, alla dichiarazione che fosse necessario 'salvare le future generazioni dal flagello della guerra', seguiva subito dopo la riaffermazione nella fede nei diritti fondamentali dell'uomo.


Il concetto di democrazia alla fine della seconda guerra mondiale


In un momento così drammatico, quale era il contesto della seconda guerra mondiale, occorreva prendere le distanze da chi legava i destini delle istituzioni democratiche solo alla loro capacità, vera o presunta, di favorire lo sviluppo economico. Di fronte a rilevanti successi dei regimi totalitari anche in questo campo, l'equazione tipicamente americana 'democrazia = libero mercato = crescita dei consumi' si dimostrava ingenua per eccesso di realismo. Senza un'etica pubblica fondata sulla dignità e sui diritti dell'uomo, non c'era alcuna possibilità di creare consenso intorno alle istituzioni democratiche, le quali per loro natura hanno bisogno di partecipazione attiva, e in qualche misura disinteressata, del cittadino. Quest'etica non poteva che essere fondata su una visione lato sensu umanistica, cioè sull'idea che l'uomo come tale avesse in qualche modo un'intrinseca dignità e una propensione naturale alla libertà. Nelle condizioni offerte dalla storia (ma anche dallo sviluppo eco­nomico e tecnologico moderno), questa forma di umanesimo deve radicarsi nell'idea dei diritti umani.



L'INIZIO DI UNA NUOVA CULTURA


Nell'art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo del 1948, si legge: 'L'educa­zione deve essere rivolta al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei di­ritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve favorire la comprensione, la tolleranza e l'amicizia tra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali o religiosi, come pure lo sviluppo delle attività delle NN. UU. per il mantenimento della pace'. Già nel preambolo della Dichiarazione, e nella pre­cedente Carta delle Nazioni Unite, si individuava nella violazione dei diritti umani una delle cause scatenanti della seconda guerra mondiale. Ma le forme più estese e terribili di tale violazione, a loro volta, erano state favorite da principi educativi anti­umanistici ed illiberali, che avevano esaltato acriticamente l'obbedienza, il gregarismo, l'adesione ai fini e all'ideologia dello Stato, ai danni del­l'autenticità, della tolleranza, dell'immedesimazione negli altri. Tale convinzione era emersa già prima dell'insediamento della Commissione (presieduta da Eleanor Roosevelt) che aveva lavorato alla stesura del testo, quando il Congresso Ebraico aveva denunziato le colpe del modello educativo prussiano. La cultura dei diritti umani fu perciò individuata dall'ONU come visione del mondo uni­ficante e funzionale alla creazione di un ordine di pace (art. 28 della Dichiarazione Universale). Nel contesto della Dichiarazione Universale, la sua diffusione appare per il conseguimento della pace non meno importante di fattori quali il disarmo, lo sviluppo economico, le stesse istituzioni demo­cratiche.


Con la Dichiarazione del '48, gli insegnanti sono stati dunque chiamati ad assumere un ruolo nuovo e significativo: quello di operatori di pace, nell'ambito di un nuovo modello educativo cosmopoli­tico e democratico. In questo modo, non soltanto l'ONU dichiarò di assumersi in proprio una fun­zione pedagogica transnazionale, ma impegnò tutti gli stati a conformare la propria legisla­zione a finalità educative prevalenti rispetto agli immediati interessi nazionali.


Più di recente, su scala 'regionale', la Conferenza di Helsinki del 1976, ha delineato come nuovo di­ritto dell'uomo il diritto a conoscere i diritti dell'uomo (punto VII), chiamando, come già in prece­denza il Consiglio d'Europa, gli stati a predisporre i mezzi per adempiere a tale compito formativo.


Il contenuto di questo programma di formazione del cittadino del mondo è stato precisato, per quanto riguarda i minori, dalla Convenzione dei diritti del fanciullo, del 1989, che all'art. 29 stabili­sce: 'Gli stati parte della presente convenzione concordano sul fatto che l'educazione del bambino deve tendere allo sviluppo della personalità del bambino, dei suoi talenti, delle sua abilità mentali e fisiche al massimo della sua potenzialità. Lo sviluppo del rispetto per i diritti umani e per le libertà fondamentali e per i principi della Carta delle NN.UU., lo sviluppo del rispetto per i genitori del bambino, per la sua identità culturale, la sua lingua, i suoi valori, per i valori nazionali del paese in cui il bambino vive, per il paese di cui è originario e per le civiltà diverse dalla propria'. Si delinea in questi strumenti internazionali un progetto interetnico, interculturale, e in una certa misura anche interetnico. Si 'investe', cioè, sulla probabilità di trovare un minimo di consenso sui valori etico-po­litici tra culture anche molto distanti tra loro, purché si parta da una valorizzazione comune della dignità della persona e dalla tolleranza dell'altro.


Questa visione irenistica ha dunque come momento fondativo una filosofia pratica di orientamento cosmopolitico. Libero poi ognuno di riscoprire nei principi dei diritti umani la mano di Dio, la na­tura, o un prodotto dell'esperienza storica: fatto sta che in settori vastissimi dell'opinione pubblica mondiale essi sono attualmente considerati il principale parametro di legittimazione del potere in ogni possibile comunità politica moderna.


Il consenso ai diritti umani


Come abbiamo visto i diritti umani non sono riconducibili a un'indiscussa matrice filosofica o scientifica e il problema del fondamento è ineludibile. Tuttavi l'esigenza del rispetto dei diritti umani nasce dalla convinzione generalmente condivisa della lora fondatezza. Si è a favore dei diritti della persona perché si hanno idee liberali, o comuniste, o buddiste, o islamiche, perché si è atei, o ambientalisti: le motivazioni ideologiche, più o meno tutte fondate, sono tante. Ma in fondo si tratta di un'idea che in tanto è capace di coinvolgere emotivamente e intellettualmente, in quanto ciascuno di noi è in grado di mettersi nei panni dell'altro, di immedesimarsi nelle vicende e nei sentimenti di un'altra persona. È questo semplice e naturale meccanismo psicologico a spingerci alla solidarietà o alla tolleranza: solo esso può orientarci verso una scelta etico-politica così impegnativa.

Attorno ad essi si è raccolto un consenso che si può definire "consensus omnium gentium" e la Di­chiarazione rappresenta la manifestazione dell'unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto. Non so se ci si rende conto fino a che punto essa rappresenti un fatto nuovo nella storia. Per la prima volta un sistema di valori è universale, non in principio ma di fatto, in quanto il consenso sulla sua validità e sulla sua idoneità a reggere le sorti della comunità futura di tutti gli uomini è stato esplicitamente dichiarato. (1 valori di cui sono state portatrici le religioni e le chiese, anche la più universale del- le religioni, quella cristiana, hanno coinvolto, di fatto, cioè storicamente, sino ad oggi, solo una parte deH'umanit'à). Solo dopo la Di­chiarazione possiamo avere la certezza storica che l'umanità, tutta l'umanità, condivide alcuni valori comuni e possiamo finalmente credere all'universalità dei valori nel solo senso in cui tale credenza è storicamente legittima, cioè nel senso in cui universale significa non dato oggettivamente ma sog­gettivamente accolto dall'universo degli uomini.

L'evoluzione della dichiarazione nella storia


Questo universalismo è stato una lenta conquista. Nella storia della formazione delle dichiara­zioni dei diritti si possono distinguere almeno tre fasi. Le dichiarazioni nascono come teorie filoso­fiche. La loro prima fase è da ricercarsi nelle opere dei filosofi. Se non vogliamo risalire sino al­l'idea stoica della società universale degli uomini razionali - il 'io è cittadino non di questa o quella patria ma del mondo -, l'idea che l'uomo in quanto tale ha dei diritti per natura che nessuno, neppure lo stato, gli può sottrarre e che egli stesso non può alienare (anche se in caso di necessità li aliena, il trasferimento non è valido) è stata elaborata dal giusnaturalismo moderno. Il suo padre è John Locke. Secondo Locke, il vero stato dell'uomo non è lo stato civile ma quello naturale, cioè lo stato di natura in cui gli uomini sono liberi ed eguali, e lo stato civile è una creazione artificiale che non ha altro scopo che quello di permettere la più ampia esplicazione della libertà e d'eguaglianza natu­rali. Per quanto l'ipotesi dello stato di natura sia stata ormai abbandonata, le prime parole con cui la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo comincia ne serbano un'eco precisa: « Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e di- ritti ». E che è un modo diverso per dire che gli uo­mini sono per natura liberi ed eguali. E come non ricordare le prime celebri parole con cui ha ini­zio il Con­tratto sociale di Rousseau: « L'uomo è nato libero ed è dovunque in catene »? La Dichia­ra­zione ne serba un'eco perché gli uomini di fatto non nascono né liberi né eguali'. Sono liberi ed eguali ri­spetto ad una nascita o natura ideale di stato di natura. La libertà e l'eguaglianza degli uo­mini non sono un dato di fatto ma un ideale da perseguire, non una esistenza ma un valore, non un essere ma un dovere. In quanto teorie filosofiche. le prime affermazioni dei diritti dell'uomo sono puramente e semplicemente l'espressione di un pensiero individuale: sono universali rispetto al contenuto in quanto si rivolgono a un uomo razionale fuori dello spazio e del tempo, ma sono estremamente an­tiquate rispetto alla loro efficacia, in quanto sono, nella migliore delle ipotesi, pro­poste per un fu­turo legislatore.

Nel momento in cui queste teorie sono accolte per la prima volta ma volta da un legislatore, e ciò accade con le Dichiarazioni dei diritti degli Stati americani e della Rivoluzione francese (un se­condo più tardi), e poste alla base di una nuova concezione dello stato, che non è più assoluto ma limitato, non è più fine a se stesso ma mezzo per A raggiungimento di fini che sono posti prima e al di fuori della sua stessa esistenza, l'affermazione dei diritti dell'uomo non è più l'espressione di una nobile esigenza, ma il punto di partenza per l'istituzione di un vero e proprio sistema di diritti nel senso stretto della parola, cioè come diritti positivi o effettivi. E secondo momento della storia della Dichiarazione dei diritti umani consiste dunque nel passaggio dalla teoria alla pratica, dal diritto solamente pensato al diritto attuato. In questo passaggio l'affermazione dei diritti dell'uomo acquista in concretezza ma perde in universalità. 1 diritti sono d'ora innanzi protetti, cioè sono veri e propri diritti positivi, ma valgo- no solo nell'ambito dello stato che li riconosce. Per quanto venga mante­nuta nelle formule solenni la distinzione tra di- ritti dell'uomo e diritti dei cittadino, non sono più di­ritti dell'uomo ma dei cittadino, o per lo meno sono diritti del- l'uomo solo in quanto sono diritti dei cittadino di questo o quello stato particolare.

Con la Dichiarazione del 1948 ha inizio una terza ed ultima fase in cui l'affermazione dei diritti è insieme universale e positiva: universale nel senso che destinatari dei principe ivi contenuti non    sono più soltanto i cittadini di questo o quello stato ma tutti gli uomini; positiva nel senso che essa pone in moto un processo alla fine del quale i diritti dell'uomo dovrebbero essere non più soltanto proclamati o soltanto idealmente riconosciuti ma effettivamente protetti anche contro lo stesso stato che li ha violati.

IL CONCETTO DI UNIVERSALITÀ

Intono ai 30 articoli della Dichiarazione si raccolse un consenso frutto di un compromesso tra culture, idee politiche, filosofie apparentemente inconciliabili. Fu un compromesso non banale, non di basso profilo: al contrario ciascuno trasfuse nella Dichiarazione quanto di meglio, di più convin­cente e "universalizzabile" potesse disporre.


Il ruolo dell'occidente


Indubbiamente la concezione per cui gli uomini in quanto tali hanno dei diritti, ha come re­troterra storico l'affermazione di una concezione individualistica che è tipicamente occidentale. I di­ritti umani sono frutto di un complesso di rivolgimenti (la Rivoluzione inglese, quella americana e in­fine quella francese) che hanno scandito l'affermazione della borghesia, dello Stato moderno, e del­l'astratto 'cittadino'. Sono legati a un modello di società aperta, la Gesellschaft pluralistica, nella quale l'individuo può affermare la propria personalità e i suoi interessi fondamentali anche in oppo­sizione alla comunità. Costituiscono un fattore eversivo nei confronti della società chiusa, la Ge­meinschaft, solidale ma gerarchizzata e conformista.

Ancora più a monte, questa concezione si impianta su varie tradizioni filosofiche e religiose - in senso lato umanistiche - che esaltano la dignità dell'uomo, la sua perfettibilità, la sua ragione. Dietro agli ideali giusnaturalistici e illuministici dell'area anglosassone e francese ci sono la filosofia greca (con il Cinismo, lo Stoicismo, l'Epicureismo), il personalismo giudaico-cristiano, l'Umanesimo ita­liano ed europeo. E il retroterra individualistico e personalistico non caratterizza solo la prima gene­razione dei diritti umani (quelli civili e politici), ma anche la seconda (quelli economici, sociali e culturali), e forse persino la terza (quelli di solidarietà, come la pace, lo sviluppo, l'ambiente). I di­ritti umani appartengono letteralmente al singolo uomo, anche paradossalmente quando sono collet­tivi, e richiedono quindi la cooperazione degli altri: è a ciascuno di noi che spetta la libertà di espressione, il diritto di associazione sindacale, il diritto all'ambiente.

D'altra parte i diritti umani non possono essere opposti ai diritti dei popoli. Ciò che non vuol dire che ai popoli non spettino dei propri diritti (di carattere molto più etico-politico che giuridico), che si coordinano con i diritti dell'uomo: essi sono riconosciuti dalla consuetudine e dai trattati interna­zionali, sono di estrema importanza per realizzare un ordine più giusto, la pace, e forse la stessa so­pravvivenza dell'umanità. Ma i diritti dei popoli non si risolvono nei diritti dell'uomo né li assor­bono.


Si obbietterà che questa concezione è quanto di più tipicamente occidentale si possa immaginare, e che quindi la stessa Dichiarazione del 1948, falsamente fu definita Universale. Il problema si è po­sto fin dal '47, quando un'inchiesta dell'UNESCO indagò sulla possibilità stessa di mettere d'ac­cordo le varie aree geopolitiche, le religioni, le filosofie, le ideologie su un minimo di idee comuni in materia di diritti umani. Questo sospetto mette gravemente in discussione non solo tutta la nor­mativa internazionale sui diritti umani, ma lede la stessa legittimità dell'ONU, attaccandone uno dei fondamenti. Per fortuna la Dichiarazione Universale è un documento molto pragmatico, che rinunzia a un'esplicita fondazione filosofica, accontentandosi di raccogliere un consenso ampio in­torno a concezioni ricavate dall'esperienza storica, e in particolare dalla tragedia dell'Olocausto e della II Guerra mondiale.


È inutile nascondere che quando nei documenti dell'ONU si parla di 'diritti umani', si fa general­mente riferimento a una definizione di 'diritto' che scaturisce dalla tradizione romanistica dell'Eu­ropa continentale e da quella del Common law anglosassone. Questo è un problema reale. Ad esempio, la laicità e tecnicità del diritto contraddice vistosamente i principi fondativi della Shari'a islamica interpretata in senso rigorosamente metastorico: le norme sono fondamentalmente rivelate, e quindi non c'è distinzione essenziale fra precetti religiosi e giuridici, e non è lecito un potere poli­tico che non si caratterizzi come teocrazia. L'interpretazione razionale-evolutiva dei testi nel mondo islamico si è fondamentalmente interrotta nell'XI secolo, per decisione politica, e in quel momento sono state poste le basi di un conflitto fra modernità e religione che il Cristianesimo ha superato con enormi travagli e solo di recente. Per la maggior parte degli islamici, l'adesione della cultura cri­stiana al principio 'Date a Cesare quel che è di Cesare', mettendo il potere politico alla pari con quello di Dio, ha eliminato la saggezza e la legge dall'Occidente. Principi discriminatori nei con­fronti delle donne e degli infedeli, la condanna dell'apostasia, l'uso di punizioni che appaiono agli occidentali molto crudeli, costituiscono gravi problemi, che hanno portato infatti i paesi arabi ad astenersi al momento di votare la Dichiarazione Universale, e a vagheggiare talora progetti di una Dichiarazione dei Diritti dell'uomo Islamico.

Problemi non meno gravi si hanno con il fondamentalismo indù, che si rifà a una concezione castale della società, la quale ovviamente contrasta con l'idea dell'eguaglianza di diritti e doveri. Nell'area della tradizione confuciana (estensivamente intesa, comprendendo anche il Giappone), i diritti umani si scontrano con una concezione gerarchica e patriarcale della società. Paradossalmente, meno problematico è il rapporto della tradizione buddista nei confronti dei diritti umani, anche se il Buddismo non è una religione personalistica, e nega anzi la realtà essenziale del soggetto. L'Orga­nizzazione per l'Unità Africana, nel 1981, ha dato vita a una Carta africana dei diritti dell'uomo che sotto diversi aspetti non corrisponde all'impostazione del Bill of Human Rights, facendo ad esempio prevalere i diritti dei popoli e delle comunità su quelli degli individui.


Ma al di là di questi enormi problemi, e del fatto che l'idea generale e la terminologia della Dichia­razione Universale riflettano come si è visto momenti della storia e delle istituzioni politiche dell'Occidente, non ci si può sentire autorizzati a destituire la Dichiarazione del '48 (e l'intera tema­tica dei diritti) del suo carattere di universalità.

Non è riconducibile all'espressione di una cultura in particolare, ma è capace di riflettere istanze fondamentali in ogni cultura, del Nord o del Sud e nelle tradizioni religiose d'oriente e d'Occidente, tutte riconducibili all'esigenza di un rispetto e di uno sviluppo integrale della persona. È evidente che in tutte le culture si può rinvenire l'idea che l'uomo in quanto tale abbia una dignità, variamente motivata. Basta intendersi su cosa sia l'uomo: il maschio o anche la donna, il cittadino o anche lo straniero, il fedele o anche l'infedele, il ricco o anche il povero. Comunque l'idea che esista un no­vero di diritti che spettano a tutti gli uomini, a prescindere dalla nazionalità, razza, sesso, opinioni politiche o religiose, ceto sociale eccetera, è relativamente recente, e non è affatto scontata. Era e rimane un terreno di scontro aperto in tutto il mondo, sul piano morale, culturale, politico, giuridico. I valori dell'Occidente affondano le loro radici in Grecia (la democrazia, ad esempio, o il primato della ragione), a Roma (il diritto come tecnica per contemperare i diversi interessi) e in Palestina (la solidarietà per i deboli, la 'morale degli schiavi', come Nietzsche sprezzantemente la definiva). Ma siamo sicuri che questi valori siano davvero nati in quei tempi e luoghi, e non prima e altrove, ma­gari in Africa, in Egitto o in India? E ammesso che l'idea della eguale dignità di tutti gli esseri umani sia occidentale (e non, ad esempio, semitica come pretendeva Hitler), questo implicherebbe automaticamente che è inaccettabile e dannosa in altri contesti? Sarebbe dunque infondata e persino 'imperialistica' la pretesa di diffondere il rispetto per tutti, e di elaborare delle tecniche di tutela della dignità umana adatte al nostro tempo (dalla libertà personale a quella sindacale, dal divieto della tortura all'abolizione della schiavitù)?

Una cultura multietnica


Ma se abbiamo detto che non c'è alcun modo di fondare su base integralmente razionale l'idea dei diritti umani e che alla base c'è una scelta di valori, che nascono e si affermano in parti­colari fran­genti storici , il rispetto delle altre culture comprende anche la possibilità di mescolarsi, di attingere, di criticare e di farsi criticare.

E' una pericolosa illusione quella della "purezza" e lo si è visto nel mondo tedesco. Tanto in una singola società, che nella comunità internazionale nel suo complesso, deve esistere un sistema mi­nimo di regole e valori condivisi, altrimenti è impossibile qualunque forma di convivenza. Nell'am­bito delle culture religiose, un'idea del genere ha prodotto ad esempio la 'Dichiarazione del Parla­mento delle religioni mondiali' (Chicago 1993). Se non si può trovare un consenso empirico su un minimo di valori comuni, né si può operare una critica valoriale, sarà giustificato il taglio della mano in Iran, e il taglio della previdenza sociale alle madri nubili negli USA. La guerra non ha forse radici culturali profonde? E il razzismo? Lo stesso Olocausto non era forse a suo modo frutto di un Volksgeist, non corrispondeva a una tradizione?


Altra cosa è invece la rivendicazione di una diversità ben visibile, di un'appartenenza di gruppo considerata come valore da salvaguardare. L'alternativa allo 'sviluppo separato' non è unicamente l'assimilazione. Accettare regole comuni non necessariamente impedisce dei rapporti distesi fra culture diverse, basati sul reciproco rispetto. La scuola francese ha reagito in questi ultimi anni con estremo rigore contro la pretesa di alcune ragazze islamiche di indossare il chador in classe. Si te­meva evidentemente la rottura della tradizionale laicità della scuola, e si volevano prevenire ulte­riori richieste ben più difficili da gestire (ad esempio il rifiuto delle classi miste, o dell'educazione fisica per le ragazze). E' necessario chiedersi se però il rigetto di simboli dell'appartenenza come il chador (o la croce, o la stella di Davide) non ottenga il risultato di esasperare la conflittualità inte­retnica, e se davvero questi segni siano necessariamente ghettizzanti, qualora vengano scelti e non imposti con la forza.


Il rispetto dell'identità di ciascuno contrasta solo apparentemente con il principio dell'eguaglianza di tutti gli esseri umani. In realtà invece ne è un'applicazione. Siamo effettivamente diversi fisica­mente, psicologicamente, culturalmente, socialmente. Proprio perché siamo così diversi e irripetibili possiamo avere un'identità e quindi una dignità. Rispettare l'identità altrui, evitare la discrimina­zione, non implica che si chiudano gli occhi di fronte alle differenti identità individuali e di gruppo: poiché tutti hanno uguale dignità, vanno rispettate le specificità di ciascuno. Ed è proprio questa unicità che forse evidenzia ancor di più come, nonostante tutto, gli uomini abbiano una gamma di esperienze radicali comuni (la vita, la morte, il dolore, la gioia) che li fanno simili.


Questa universalità trova la sua verifica nella progressiva ricezione nella legislazione di paesi di ogni parte del mondo della Dichiarazione stessa e trova conferma nella positiva constatazione che il tema dei diritti umani sta assumendo un ruolo importante nella stessa politica internazionale, anche nei rapporti tra stati che non ne riconoscevano la centralità.

Durante i lavori di preparazione della Dichiarazione, attuatisi a partire dal giugno 1946 a New York, Ginevra e Parigi, il pensiero di Cassin, uno dei redattori, ebbe influenza preponderante nel porre tale concetto di universalità alla base del documento. Cassin si pose il problema di trovare le necessarie mediazioni con tutte le culture particolari, soprattutto in settori delicati come la religione e la famiglia. Ad esempio nella Dichiarazione non è previsto un diritto al divorzio, né esiste una condanna alla poligamia. Tuttavia egli era ben consapevole che l'universalismo rappresentava una chance per dei gruppi sociali e un attacco per i privilegi di altri.. La Dichiarazione non doveva dun­que avere un carattere conservatore ed "etnicista", in nome di una difesa ad oltranza del particolari­smo culturale.

Lungi dall'essere un documento del passato, la Dichiarazione è universale anche nel tempo: essa può proiettare la sua luce nel futuro di una umanità in cui lo scambio, ma anche lo scontro tra cul­ture potranno essere sempre più frequenti. Se i conflitti continueranno a moltiplicarsi, dobbiamo prevedere al tempo stesso la sempre maggiore attualità dei valori di tolleranza, di uguaglianza nella diversità contenuti nella Dichiarazione.


LA PENA DI MORTE


L'articolo 3 della Dichiarazione Universale riconosce ad ogni persona il diritto alla vita ed in modo categorico l'articolo 5 afferma ulteriormente che 'Nessun individuo potrà essere sottoposto a tor­tura o a trattamento o a punizione crudeli, disumani o degradanti'.

Non vi potrà mai essere una giustificazione per la tortura o per un trattamento o una punizione cru­dele, disumana e degradante. La crudeltà della pena di morte è evidente. Come la tortura, un'esecu­zione costituisce un estremo insulto, fisico e mentale, a una persona già resa inerme dall'intervento delle autorità governative.

Così come le uccisioni che avvengono al di fuori della legge, la pena di morte nega il valore della vita umana. Violando il diritto alla vita essa cancella la base per la realizzazione di tutti i diritti in­corporati nella Dichiarazione Universale.

La pena di morte può comprendere inoltre altre violazioni dei diritti umani. Quando uno stato im­prigiona le persone unicamente a causa delle loro idee viola il diritto alla libertà di espressione e di opinione. La pena capitale elimina in modo definitivo ed irreversibile il di- ritto di una persona ad avere delle opinioni e ad esprimersi liberamente perché le toglie la vita. . Manda a morte persone innocenti. E' una forma di uccisione particolarmente crudele, premeditata e a sangue freddo. Viene spesso usata per eliminare prigionieri politici. Ovunque l'esperienza mostra che le esecuzioni ab­brutiscono coloro i quali vi sono coinvolti. Nessuno ha dimostrato che la pena di morte abbia una particolare facoltà di ridurre la criminalità o la violenza politica. In molti paesi essa è applicata in modo sproporzionato nei confronti dei poveri o delle minoranze razziali o etniche. Troppi cittadini in troppi paesi non si rendono tuttora conto che la pena di morte offre alla società non una prote­zione ulteriore, bensì un abbrutimento ulteriore.

a legislazione italiana sembra che condivida questi principi: infatti la pena di morte fu abolita nel 1889; ripristinata nel 1926, fu nuovamente abolita nel 1944; reintrodotta per un periodo limitato alla fine della seconda guerra mondiale, fu applicata per l'ultima volta nel 1947. Da allora può essere applicata solo dai tribunali militari, in tempo di guerra, per alto tradimento o altri gravi reati. Molti altri Stati europei, come l'Olanda (nel 1870), la Norvegia (nel 1905), la Svezia (nel 1921), la Dani­marca (nel 1933), la Svizzera (in tutti i Cantoni nel 1942), la Germania Occidentale (nel 1949), l'Austria (nel 1950), la Gran Bretagna (nel 1965), la Francia (nel 1981), hanno abolito la pena di morte per delitti commessi da civili in tempo di pace. In Belgio la pena, non più comminata dal 1863, esiste solo formalmente. In molti Paesi, invece, la pena capitale è sempre in vigore.

L'ipocrisia ufficiale, avvantaggiandosi del fatto che ormai le esecuzioni non sono più pubbliche, so­stiene che l'impiccagione moderna è una tecnica perfezionata al massimo, e che tutto avviene sem­pre «rapidamente» e «senza incidenti», come, contrariamente a verità, hanno ordine di dire i diret­tori delle prigioni. Ma persino l'impiccagione dei cri- minali di guerra di Norimberga è stata con­trassegnata da incidenti orribili.


Il dibattito sulla pena di morte


La criminalità in espansione rende di grande attualità il problema della pena di morte tanto che non sono pochi i fautori della conservazione della pena capitale, i quali ritengono che l'abolizione inco­raggi le azioni criminali venendo a mancare la massima forma di intimidazione e punizione. Dall'altra parte gli avversari controbattono che vogliono uno stato educatore e non uno stato carne­fice.

Se guardiamo al lungo corso della storia umana più che millenaria dobbiamo riconoscere, ci che il dibattito per l'abolizione della pena di morte si può dire appena cominciato. Per secoli il problema se fosse o non fosse lecito (o giusto) condannare a morte un colpevole non è stato neppure posto. Che tra le pene da infliggere a chi aveva infranto le leggi della tribù, o della città, o del popolo, o dello stato, ci fosse anche la pena di morte, e che anzi la pena di morte fosse la regina delle pene, quella che soddisfaceva a un tempo il bisogno e la vendetta, di giustizia e di sicurezza del corpo collettivo verso uno dei suoi membri infatti, non è mai stato messo in dubbio. Bisogna giungere al­l'illuminismo, nel cuore del Settecento, per trovarsi per la prima volta di fronte a un serio e ampio dibattito sulla liceità o opportunità della pena capitale, il che non vuol dire che prima d'allora il pro­blema non fosse mai stato sollevato. L'importanza storica, che non sarà mai sottolineata abbastanza, del famoso libro di Beccaria 2 (1764) sta proprio qui: è la prima opera che affronta seriamente il problema e offre alcuni argomenti razionali per dare ad esso una soluzione che contrasta con una tradizione secolare. Dal momento che la pena ha funzione esclusivamente intimidatoria, non è ne­cessario che ci siano pene crudeli per essere deterrenti, è sufficienti che siano certe. Inoltre l'intimidazione nasce non dall'intensità della pena ma dalla sua estensione quindi si può affermare che l'ergastolo- la totale perdita della propria libertà - sia più deterrente della pena di morte.

Il dibattito intorno alla pena di morte non ebbe di mira soltanto la sua abolizione, ma prima di tutto la sua limitazione ad alcuni reati gravi, specificamente determinati, poi la eliminazione dei supplizi (o crudeltà inutili) che di solito l'accompagnavano, e, in terzo luogo, la sua ostentata pubblicità.


Lo Stato non può porsi sullo stesso piano del singolo individuo. L'individuo singolo agisce per rab­bia, per passione, per interesse, per difesa. Lo Stato risponde meditatamente, riflessivamente, razio­nalmente. Anch'esso ha il dovere di difendersi. Ma è troppo più forte del singolo individuo per aver bisogno di spegnerne la vita a propria difesa. Lo Stato ha il privilegio e il beneficio del monopolio della forza. Deve sentire tutta la responsabilità di questo privilegio e di questo beneficio. Quando vi sarà la scomparsa della pena di morte allora avremo un segno indiscutibile del nostro progresso mo­rale.

'SE QUESTO E' UN UOMO'

Sui campi di sterminio nazisti esiste una nutrita letteratura. In particolare sul Lager di Auschwitz. Questa letteratura, come ha detto proprio Primo Levi nella prefazione all'edizione italiana di Uo­mini ad Auscwizt di Hermann Langbein, si può dividere in tre categorie: i diari o i memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche. Ma 'Se questo è un uomo', che Levi iniziò durante la prigionia, appartiene a tutte e tre le categorie. E' un documento il più sincero possibile, è un racconto con già la misura del classico, è un'analisi fondamentale della composizione e della storia del Lager, ovvero dell'umiliazione, dell'offesa, della degradazione del­l'uomo, prima ancora della sua soppressione nello sterminio di massa.

Chimico torinese, datosi alla macchia dopo l'8 settembre, Levi fu catturato dalla milizia fascista alla fine del 1943. Essendo ebreo, oltre che partigiano, fu consegnato ai nazisti che lo deportarono ad Auschwitz. La sua fortuna - è sempre lui a dirlo - fu che nel 1944 il governo tedesco, data la cre­scente scarsità di manodopera, stabili di prolungare la vita media dei prigionieri da eliminare. La sua laurea in chimica fece il resto: non gli risparmiò orrore, fatica, miseria, ma gli consenti a un certo punto di disporre di una matita e di un quaderno e di qualche ora di solitudine per ripassare i metodi analitici.

Levi, però, sulla Seconda Guerra Mondiale non ha scritto solo 'Se questo è un uomo', ha scritto an­che 'La tregua', che contiene il resoconto del suo lungo viaggio di ritomo su e giù per l'Europa. E' un racconto straordinario anche questo, come percorso da una ventata di libertà. Ma quando final­mente arriva in Italia, Levi capisce che tutti gli ultimi suoi mesi di vagabondaggi ai margini della civiltà sono stati una 'tregua' affettuosamente e capricciosamente concessagli dal destino. Gli orrori del Lager non lo abbandoneranno mai fino alla morte, quando si suicidò nel 1987.

Levi apre il suo racconto con queste parole:

Voi che vivete sicuri Nelle vostre tie­pide case, Voi che trovate tornando a sera II cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo Che la­vora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un si o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d'in­verno. Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.


Segue una prefazione in cui l'autore dichiara di non aver scritto il libro con lo scopo di formulare nuovi atti di accusa , in quanto esso in fatto di particolari atroci non aggiunge nulla a ciò che tutto il mondo sa, ma come documento per lo studio di alcuni aspetti dell'animo umano.

Levi ,fin da quando era nel lager- benché sapesse che non avrebbe in alcun modo potuto conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio perché se gli fossero stati trovati gli sarebbero costati la vita- aveva iniziato la stesura del libro spinto dall'impulso immediato e violento del bisogno di co­municare agli altri le atrocità che ivi erano commesse. Scrisse poi il libro una volta tornato, nel giro di pochi mesi: fu in primo luogo un atto di liberazione inferiore. Di qui il suo carattere frammentato: i capitoli sono stati scritti non in successione logica ma per ordine di urgenza, in un secondo tempo è stato fatto il lavoro di raccordo. Tuttavia subito dopo la fine del conflitto non riscosse molto suc­cesso dal momento che la gente, in quel periodo cosi aspro non aveva molto desiderio di tornare con la memoria a gli anni dolorosi appena terminati. Dopo il 1958 ha trovato nuova vita e da allora è stato tradotto in sei lingue.

Il testo è dominato dal linguaggio pacato e sobrio del testimone, non da quello lamentevole della vittima ne da quello irato del vendicatore. Non vi è spazio per espressioni di odio nei confronti dei tedeschi. Tale scelta è determinata dal fatto che Levi riteneva che la sua parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più fosse apparsa obbiettiva e quanto meno fosse suonata appassionata. Si considera un testimone. I giudici siamo noi. Poche inoltre furono le occasioni di incontro fra gli schiavi e i nazisti , il cui sistema prevedeva che i contatti diretti fossero ridotti al minimo. Ad esempio si nota che nel libro viene descritto un solo incontro del protagonista con una SS e non a caso essa ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento quando il sistema è saltato. Così i persecutori erano lontani, invisibili, inaccessibili, senza un viso ne un nome a cui rivolgere anche volendolo un qualche sentimento d'odio.

Tutti i libri di Levi corrispondono a queste caratteristiche. I suoi non sono libri di storia, sostiene. Nello scriverli si è limitato a riportare i fatti di cui aveva esperienza diretta, escludendo quelli che apprese successivamente da pubblicazioni o giornali. Ad esempio ne cita le cifre del massacro di Auschwits ne descrive i dettagli delle camere a gas e dei cromatori, tutti dati che non conosceva quando era nel Lager. Alla fine del libro è stata introdotta un'ampia appendice scitta da Levi nel 1976 per rispondere a quelle domande che gli venivano rivolte più di frequente dai lettori. E' im­portante perché è un documento diretto di riflessione e chiarimento sul libro.


Che cosa sapevano i tedeschi delle atrocità testimoniate da Levi?


Posto che in un regime totalitario le informazioni sono manipolate e filtrate e che all'informazione si sostituisce la propaganda, non c'è dubbio che nascondere ai tedeschi »   l'enorme apparato dei campi nazisti non era possibile e forse (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile: creare nel paese un'atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo. Tuttavia i particolari più atroci come le camere a gas o l'abietto sfruttamento dei cadaveri, non potevano essere resi noti . Per mantenere il segreto nel linguaggio ufficiale si usavano solo cauti eufemismi. Non si usava 'sterminio' ma 'soluzione definitiva', non 'uccisione col gas' ma 'trattamento speciale'Per que­sto la gran massa di tedeschi ignorò sempre le atrocità più gravi oppure per la loro enormità non ci credette. Esistevano, però, come sostiene Eugen Kogon -prigioniero a Buchenwaid e poi professore di scienze politiche all'Università di Monaco -troppi contatti, giri anche di affari, perché ci fosse an­che un solo tedesco che non sapesse dell'esistenza dei campi o che li ritenesse dei sanatori. L'amara considerazione di Levi è che la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sa­pere, anzi, perché 'volevano non sapere'.


La fuga


II concetto di evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica, dalla letteratura popolare e dal cinema. Del resto è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente e che secondo la Convenzione dell'Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Forse è un bene che la condizione del prigioniero venga sentita come anormale; purtroppo però questo quadro assomiglia assai poco a quello dei campi di concentramento.

Ad Auschwitz coloro che tentarono la fuga furono poche centinaia, quelli a cui la fuga riusci qual­che decina. L'evasione era difficile e pericolosa. Le condizioni dei detenuti precarie sia fisicamente che psicologicamente. Evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi «ariani» (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Levi a proposito rac­conta:

' Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attende­vano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. I tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro:

venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi «per la doccia», tal­volta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o so­spettare il loro destino imminente le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari e aizzando contro quella gente perplessa e dispe­rata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini.

Stando cosi le cose, appare assurda ed offensiva l'affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Si deve aggiungere a ciò una considerazione storica. La coscienza radicata che all'oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell'Europa fasci­sta, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politi­camente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura di­strutti; non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta solo molto più tardi.

Conclusioni


Levi ritornò ad Auschwits nel 1956, in occasione di una cerimonia commemorativa della libera­zione dei campi. Non provò grande impressione in quell'occasione. Il governo polacco l'ha trasfor­mato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e
riverniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C'è pure un museo in cui sono esposti
cimeli come occhiali, pettiniEcco l'intero campo ha dato ha Levi l'impressione di un
museo. Anzi la zona del suo campo non esiste materialmente più, la fabbrica di gomma a cui
era annesso, ora in mani polacche, si è ingrandita fino ad occuparne il territorio.

Invece il Lager di Birkenau, che Levi non aveva mai visto da prigioniero, si conserva intatta
testimonianza di quegli orrori e ancora motivo di violenta angoscia . Levi, ovviamente, non ha mai potuto fare affermazioni su quello che sarebbe stata la sua vita se non avesse vissuto Auschwits, tuttavia è certo del fatto che senza Auschwits non avrebbe mai scritto nulla. Si definiva uno stu­dente mediocre in Italiano e storia, più interessato alla fìsica e alla chimica. E' stata l'esperienza del Lager a costringerlo a scrivere: i problemi di stile gli sembravano ridicoli, gli pareva di avere il libro già tutto pronto in testa e di doverlo solo lasciarlo uscire e scendere sulla carta. A tale esperienza, tragica ma breve, si è sovrapposta quella, molto più lunga e complessa, di scrittore testimone e la somma, a suo parere, è stata nettamente positiva e afferma:

'Nella sua globalità questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro: vivendo e poi scrivendo
e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo '

Ciò che in questa sede preme sottolineare è la tenacia, la volontà che ha sempre
conservato anche nei giorni più scuri, di riconoscere nei suoi compagni e in sé stesso,
degli uomini e non delle cose e di sottrarsi così a quella totale umiliazione e
demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.




GLOSSARIO


Patto della Società delle Nazioni .

Dopo la grande guerra 1914- 18 ci si convinse che lo Stato non poteva più essere considerato il

solo supremo garante dei cittadini. La società delle nazioni costituisce la prima organizzazione po­litico-diplomatica a livello mondiale. Il suo Patto viene approvato nel 1919 dai 32 paesi che ne erano membri originari, Il patto impegnava gli stati soprattutto ad evitare e a reprimere i conflitti armati, ma li invitava anche a rispettare alcuni diritti dei singoli, come a quello di condizioni di la­voro eque per l'uomo, per la donna e i bambini.


Carta Atlantica (14 agosto 1941} e Dichiarazione delle Nazioni Unite (1 gennaio 1942}-

Si tratta di documenti redatti durante la seconda guerra mondiale , importanti soprattutto perché se­gnano le tappe di un progressivo impegno degli Stati Uniti nella lotta contro i governi nazifascisti (da notare che tra i due documenti si verifica l'attacco giapponese a Pearl Harbour e quindi l'in­gresso ufficiale degli Usa nella guerra). Il primo documento è una dichiarazione congiunta di Usa e Regno Unito; il secondo è un'adesione al precedente da parte di altri 23 Stati europei, americani, asiatici e africani, e un impegno dei medesimi ad usare le proprie risorse economiche o militari contro il 'Patto tripartito'. 1 due documenti lanciano anche sguardi di speranza verso il futuro: 'la distruzione della tirannia nazista' era una premessa per costruire 'la difesa della vita , della libertà, dell'indipendenza e della libertà di coscienza e per preservare i diritti umani e la giustizia' Questi documenti sono considerati fondamento delle future Nazioni Unite.


'Carta delle nazioni unite'-

Si tratta dello statuto dell'ONU, Organizzazione che riprende i compiti e i fini della Società delle Nazioni. Il documento viene steso dalla Conferenza di San Francisco e approvato il 25 giugno 1945. La tendenza alla protezione internazionale si era fatta più sentita dopo la 2° guerra mondiale, di fronte ai regimi totalitari che violavano senza ritegno i fondamenti dei diritti umani. Le organizza­zioni de gli Stati vincitori vollero istituire il nuovo documento per garantire la pace riaffermando solennemente nell'articolo 1 la fede dei popoli 'nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle na­zioni grandi e piccole. Venne così implicitamente riconosciuto che la pace tra i popoli e la stabilità all'interno di ciascun paese dipendono dal rispetto dei diritti dell'uomo.

Nel testo comprende inoltre il fine di attuare la cooperazione internazionale nella soluzione dei pro­blemi internazionali di carattere economico e sociale, culturale, umanitario, e di difendere ' il ri­spetto dei diritti dell'uomo e le libertà fondamentali di tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua e di religione'.

Per la realizzazione di questo secondo fine, sorgerà l'esigenza di stabilire un concetto universal­mente valido di 'diritti umani' e di istituire degli strumenti per la loro protezione


'Carta internazionale dei diritti dell'uomo'

Nella sua prima sessione(gennaio 1946), l'Assemblea Generale dell'ONU esaminò un progetto di dichiarazione sui diritti dell'uomo e Io affidò a una speciale Commissione dei diritti umani incari­cata di redigere il testo definitivo.

Dopo varie discussioni, si decise di redigere una dichiarazione delle liberà e dei diritti dell'uomo, un patto(o convenzione) sul rispetto di tali libertà e diritti, provvisto di misure concrete di applica­zione; l'insieme avrebbe costituito la Carta Internazionale dei Diritti dell'uomo,



Patti internazionali relativi ai diritti dell'uomo

Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e Protocollo facoltativo

Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali.


Sostituiscono l'unica convenzione prevista, separando i diritti civili da quelli economici, sociali e culturali. La differenza tra la dichiarazione e i patti è, grosso modo, la seguente: la Dichiarazione enuncia i diritti umani in modo più assoluto, ma solo in quanto 'ideale a cui tutte le nazioni e tutti i popoli devono tendere, i patti scendono nei dettagli e nei casi particolari, prevedono anche dei limiti e delle restrizioni ai diritti umani però impegnano ufficialmente al rispetto di quanto stabilito, ed istituiscono gli strumenti per verificare tale rispetto.

Relativamente al primo, un Comitato dei Diritti dell'uomo esamina, sulla base dei rapporti presen­tati dai singoli Stati, i progressi o le lentezze dei Paesi nel rispetto degli accordi del Patto stesso.(II Protocollo facoltativo prevede che il Comitato esamini anche le segnalazioni provenienti da singoli cittadini che pretendano di essere oggetto di violazioni degli accordi compresi nel Patto). Mentre per quanto concerne il secondo i progressi fatti dai singoli Stati nel rispetto degli accordi contenuti in questo Patto sono esaminati, sulla base di rapporti presentati dai singoli Stati, dal Consiglio Eco­nomico e Sociale dell'ONU e da altre istituzioni specializzate.

Entrambi adottati il 19 dicembre 1966 dall'Assemblea Generale sono entrati in vigore nel 1976 dopo essere stato ratificato da 35 paesi.

Ci sono voluti l0 anni prima che raggiungessero le 35 ratifiche e tuttora gli Stati che si sono obbli­gati ad applicare i Patti non sono più di 50, cioè un terzo dei Paesi membri dell'ONU.

Questo lascia intendere come il cammino della giustizia nel mondo sia ancora lento. E' vero che ogni Paese membro dell'ONU si è moralmente impegnato ad applicare e a rispettare la 'Dichiara­zione Universale dei Diritti dell'uomo' e che in molte Costituzioni (fra esse quella italiana) questi sono stati inseriti e perciò sono diventati vincolanti, ma è altrettanto vero che, in molti casi, l'ob­bligo morale è rimasto solo morale e non ha avuto attuazione pratica, Non esiste infatti una san­zione giuridica che possa costringere gli Stati membri dell'ONU ad

applicare le norme della 'Dichiarazione'.

La comunità internazionale può applicare solo una sanzione morale, che consiste a ritirare allo Stato non adempiente la fiducia degli altri.


Liberalismo

E' la prospettiva politica di cui Locke può essere considerato il fondatore.

Secondo tale prospettiva Io stato ha come compito primario quello di garantire i diritti fondamentali dell'individuo, Diritti che secondo Locke esistono già in natura ( giusnaturalismo) e che lo stato deve semplicemente cercare di tutelare al meglio attraverso le sue leggi. I diritti di cui parla Locke sono: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà privata.

Bibliografia


Amnesty International "Le violazioni dei diritti umani", la pena di morte e i diritti umani"

Norberto Bobbio "L'età dei diritti" Einaudi

Albert Camus, Arthur Koestler "La pena di morte" Roma New Compton Italiana 1972

"Mondo domani" mensile per l'educazione e lo sviluppo a cura dell'Unicef, maggio 1981

Notiziari trimestrali soci amici della sezione italiana di Amnesty International n°10 otto­bre 1995, n°3 primavera 1997, n°8 autunno 1998

Articoli del "Corriere della sera"

Notizie da alcuni siti Internet

Mensile "Le Scienze" edizione italiana di Scientific American n°366-febbraio 1999


N. C. Il lavoro chi presentato è solo una parte della tesina originale che sviluppa pure i legami con la storia dell'arte ( Guernica di Picasso). Inoltre la versione originale è ricca anche d'immagini che per motivi di spa­zio e tempo di download non sono state inserite.




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