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Rapporti di lavoro speciali




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rapporti di lavoro speciali


Rapporti speciali di lavoro sono tanto i rapporti la cui fattispecie si discosta notevolmente da quella dell'art. 2094 c.c., quanto quelli in cui assume particolare rilevanza la tutela dell'interesse pubblico. Quest'ultima categoria ricomprende rapporti di lavoro - quelli di lavoro nautico, marittimo ed aereo e quelli nel settore del trasporto ferroviario ed autoferrotranviario - che non pongono particolari problemi di qualificazione perché la loro natura subordinata è ben definita.

Il contratto di lavoro a tempo determinato

Per completezza e chiarezza espositiva, di seguito si riporta nuovamente la disciplina del lavoro a tempo determinato (già trattata in precedenza).

Il nostro ordinamento ha da sempre affermato il principio della normalità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e della eccezionalità di quello a tempo determinato.

A seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. 368/01 può legittimamente essere instaurato un rapporto di lavoro a tempo determinato tutte le volte in cui ricorrano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

La formula utilizzata dal legislatore, come si vede, è elastica e indefinita. Tuttavia, volendo provare a indicare quali ragioni possano concretamente legittimare la stipulazione del termine, si può pensare in primo luogo ai casi già contemplati dalla L. 230. Come si diceva, questa legge prevedeva ipotesi che, in via esclusiva e tassativa, consentivano l'apposizione del termine; attualmente, le stesse ipotesi possono essere utilizzati come esempi di valide giustificazioni dell'apposizione del termine. Quindi, bisogna continuare a familiarizzare con le attività stagionali, con la sostituzione dei lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, con l'esecuzione di un'opera predeterminata, straordinaria e occasionale, eccetera. Tuttavia, questi non sono altro che esempi della ragione che, secondo la nuova normativa, può legittimare l'assunzione di un lavoratore a termine.

In ogni caso, per quanto elastica sia la lettera della norma, si deve tener presente che la ragione tecnica o produttiva o organizzativa deve comunque legittimare l'apposizione di un termine ad un contratto che, altrimenti, sarebbe a tempo indeterminato o non sarebbe stipulato tout - court: del resto, la Cassazione ha affermato che, anche dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina legislativa, il contratto di lavoro normale è quello a tempo indeterminato, mentre il contratto a termine resta un'ipotesi eccezionale. Pertanto, la ragione giustificativa dell'apposizione del termine deve far riferimento ad un'esigenza particolare, eccezionale o comunque transitoria, tale da non poter essere soddisfatta né con l'impiego del personale già dipendente, né con l'assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato. La legge (art. 3 Dlgs 368/01) prevede anche ipotesi in cui l'apposizione di un termine è vietata. Ciò accade nei seguenti casi:

  • sostituzione di lavoratori scioperanti;
  • con riguardo alle unità produttive dove, nei sei mesi precedenti, siano stati effettuati licenziamenti collettivi che abbiano coinvolto lavoratori adibiti alle medesime mansioni cui fa riferimento il contratto a tempo determinato (salvo che l'assunzione avvenga per la sostituzione di lavoratori assenti, o sia concluso ex art. 8 c. 2 L. 223/91, o ancora abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi; in ogni caso, gli accordi sindacali possono portare deroghe a questo divieto);
  • con riguardo alle unità produttive nelle quali sia in atto una sospensione dei rapporti di lavoro o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui fa riferimento il contratto a termine;
  • infine, l'assunzione a termine è preclusa per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ex art. 4 D. Lgs. 626/94.

La legge precisa che tanto l'apposizione del termine, quanto la ragione che la giustifica devono risultare per iscritto, pena l'inefficacia del termine stesso, a meno che il termine non sia superiore a dodici giorni, nel qual caso l'atto scritto non è necessario. Copia dell'atto scritto deve essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni dall'inizio della prestazione.

Il contratto a termine può essere prorogato, a condizione che il rapporto, inizialmente, avesse una durata inferiore a tre anni. La proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia giustificata da ragioni oggettive (che devono essere provate dal datore di lavoro), riferite alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto a termine. In ogni caso, per effetto della proroga il rapporto non può durare complessivamente più di tre anni.

Bisogna prestare attenzione al fatto che la legge contempla l'ipotesi del contratto a termine non superiore a tre anni solo al fine della eventuale proroga, non certo in considerazione della durata massima del rapporto. Ciò significa che nessuna norma vieta esplicitamente l'apposizione di un termine superiore a tre anni. Tuttavia, in concreto, si deve osservare che ben difficilmente si potrebbe ipotizzare una valida ragione giustificatrice che legittimi un termine così a lunga scadenza, se si pensa - come già si è detto - che la ragione giustificatrice deve comunque essere transitoria. Del resto, la stessa legge - come si è appena visto - dispone che, anche in caso di proroga, il termine non possa eccedere la durata dei tre anni: si vede quindi che lo stesso legislatore, se non vieta esplicitamente l'apposizione di un termine di durata superiore a tre anni, vede con estremo disfavore una simile ipotesi.

La continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine non comporta di per sé la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Infatti, in caso di continuazione del rapporto dopo la scadenza, il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, in misura del venti per cento, per ogni giorno di prosecuzione del rapporto fino al decimo; per ogni giorno ulteriore la maggiorazione è fissata nella misura del quaranta per cento. La trasformazione del rapporto a tempo indeterminato si verifica solo nel caso di continuazione del rapporto oltre il ventesimo giorno, se il contratto aveva una durata inferiore a sei mesi, ovvero negli altri casi oltre il trentesimo giorno.

Tra un contratto a termine e l'altro deve intercorrere un intervallo minimo: si tratta di dieci giorni, ovvero di venti, a seconda che il contratto sia di durata fino a sei mesi o sia superiore. Se questo intervallo non viene rispettato, il secondo contratto si reputa a tempo indeterminato; se i due rapporti si succedono senza soluzione di continuità, si considera a tempo indeterminato l'intero rapporto, dalla data di stipulazione del primo contratto.

In ogni caso, la legge precisa che il lavoratore assunto a termine ha diritto alle ferie, alla tredicesima mensilità, al TFR e a ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori a tempo indeterminato inquadrati al medesimo livello; ovviamente, questi istituti spettano in proporzione al periodo lavorato, e sempre che non siano obiettivamente incompatibili con la natura del contratto a termine.

Il decreto legislativo assegna ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi la facoltà di individuare i limiti quantitativi di utilizzo dei contratti a termine. Al contempo, vengono indicate alcune ipotesi che non possono sottostare ad alcun limite (tra le altre, fase di avvio di nuove attività, contratti motivati da ragioni sostitutive o dalla stagionalità, intensificazione dell'attività produttiva in determinati periodi dell'anno, contratti a termine stipulati per specifici programmi o spettacoli radiofonici o televisivi). E' evidente la ragione che ha indotto il legislatore a introdurre un simile divieto. In effetti, il fatto stesso di assumere un lavoratore a termine in una mansione occupata da un altro lavoratore, messo in mobilità non più di sei mesi prima, induce a ritenere che era illegittima la messa in mobilità (in quanto non vi era una reale esuberanza strutturale in quella posizione lavorativa) e che comunque è illegittima l'apposizione del termine (in quanto è contraddittorio affermare che vi è un'esigenza temporanea di ricoprire una posizione lavorativa che poco tempo prima era stabilmente assegnata a un lavoratore). Per questo motivo, è curioso che il legislatore, da un lato, ponga il divieto e, dall'altro, consenta alle parti sociali di derogarlo. Bisogna dunque avvertire che questo potere di contrattazione, che la legge assegna al sindacato, deve essere utilizzato con estrema cautela, in quanto il sindacato rischierebbe di coprire e avallare un comportamento illegittimo del datore di lavoro. In ogni caso, sono esenti da limiti quantitativi i contratti di durata non superiore a sette mesi, compresa l'eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggior durata definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a una situazione di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche. Tuttavia, è previsto che anche un contratto con le caratteristiche appena indicate soggiace ai limiti quantitativi, se lo stesso fa riferimento a una mansione identica a un'altra, che aveva formato oggetto di un altro contratto a termine, scaduto da meno di sei mesi.

L'art. 10 del Dlgs 368/01 prevede alcuni settori esclusi dalla campo di applicazione delle nuova disciplina, vale a dire:

contratti di lavoro temporaneo, contratti di formazione e lavoro, rapporti di apprendistato, tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro;

rapporti instaurati con le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione ed all'ingrosso di prodotto ortofrutticoli;

contratti di lavoro a tempo determinato, purché di natura non superiore a cinque anni, stipulati con i dirigenti amministrativi e tecnici;

rapporti di lavoro a tempo determinato, di durata non superiore a tre giorni, per l'esecuzione di speciali servizi, stipulati nei settori del turismo e dei pubblici esercizi mediante assunzione diretta di manodopera secondo le previsioni dei contratti collettivi.

Per completezza si precisa che il diritto di precedenza dei lavoratori che hanno prestato attvità lavorativa con contratto a tempo determinato, ad assunzioni presso la stessa azienda, non è previsto in via generale dal Dlgs 368/01 il quale demanda l'eventuale introduzione di tale diritto ai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, limitatamente tuttavia dei lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato per le attività lavorative a carattere stagionale.

La principale peculiarità del contratto a tempo determinato è rappresentata dal fatto che esso si risolve automaticamente alla scadenza e che il recesso, prima di detto termine, è disciplinato dall'art. 2119 c.c., essendo inapplicabile la disciplina limitativa del licenziamento contenuta nella legge 604/66. In base al richiamato art. 2119 c.c. il recesso ante tempus è ammesso solo qualora si verifica una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto (giusta causa). qualora il datore abbia intimato prima della scadenza del termine illegittimamente il recesso, perché mancante la giusta causa, non potendosi applicare le norme di tutela contro i licenziamenti illegittimi, al lavoratore spetterà un risarcimento del danno commisurato all'ammontare delle retribuzioni non percepite dal momento del recesso alla prevista scadenza del rapporto.


La giurisprudenza e la dottrina hanno a lungo dibattuto sul tema di quale sia la tutela del lavoratore in caso di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. L'illegittimità ricorre tutte le volte in cui non siano rispettate le condizioni poste dalla legge per la stipulazione del contratto a tempo determinato, ossia mancanza della forma scritta o insussistenza delle ragioni giustificatrici. Per superare il contrasto interpretativo sono dovute intervenire per ben due volte le Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno aderito alla teoria della nullità parziale del contratto di lavoro. In sintesi la Sezioni Unite hanno statuito quanto segue:

la disdetta da un contratto a termine, anche se illegittimamente apposto, non è equiparabile ad un atto di licenziamento (come invece riteneva un primo orientamento giurisprudenziale);

di conseguenza l'azione per farne valere l'illegittimità è un'azione mirante a far accertare la nullità parziale del contratto e non una impugnativa di licenziamento illegittimo;

pertanto non trova applicazione né l'art. 6 della legge 604/66, né l'art. 18 dela 300/70 in tema di reintegrazione nel posto di lavoro;

al lavoratore che ha cessato di lavorare a seguito della disdetta, spetta una tutela risarcitoria, a condizione che abbia costituirlo in mora il datore di lavoro offrendo la propria prestazione lavorativa.

Nel caso in cui il lavoratore non eserciti alcuna azione dopo la cessazione dell'attività lavorativa, secondo parte della dottrina si configurerebbe una tacita rinuncia alla prosecuzione del rapporto, che diventa irretrattabile trascorsi sei mesi.



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