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Maternita' ed esecuzione penale




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MATERNITA' ED ESECUZIONE PENALE
































COSTITUZIONE, ESECUZIONE PENALE E MATERNITA'  



"Voglio limitarmi a pensare che il mio mestiere è la vita e che la mia missione non è portare l'odio, bensì unicamente riempire queste pagine(.) mentre attendo che arrivino tempi migliori, tenendo in gestazione la creatura che ho nel ventre, figlia di tante violenze, o forse figlia di Miguel, ma soprattutto figlia mia."

( Isabel Allende da "La casa degli spiriti")




Scontare una pena carceraria causa inevitabilmente uno strappo nei rapporti familiari ed affettivi che devono continuare ad essere coltivati attraverso la lontananza e sottostanno ai ritmi istituzionali (colloqui, telefonate, ecc.); esiste tuttavia una condizione nella quale il rapporto con un soggetto estraneo alla condannata non può essere fisiologicamente interrotto dall'incarcerazione e deve essere mantenuto anche per rispetto di principi costituzionalmente e universalmente garantiti che "scavalcano" la titolarità punitiva dello Stato: questa condizione è quella di madre.

La Costituzione della Repubblica Italiana parla di famiglia, rapporti familiari e ruolo dei genitori nel titolo secondo (Rapporti etico-sociali) ed in particolare agli articoli 30 e 3182 dove afferma che il mantenimento, l'istruzione e l'educazione dei figli sono diritti/doveri dei genitori e statuisce l'impegno statale nella protezione della maternità e dell'infanzia attraverso la promozione di istituti necessari al raggiungimento di questo fine.

Nella particolare situazione delle detenute madri il binomio protezione maternità/protezione infanzia appare quasi inconciliabile; da un lato tutelare il ruolo di madre significa consentire alle condannate di accudire i propri figli nei primi anni dell'infanzia, ma anche consentire di imparare ad essere madri e conoscere i propri figli instaurando con loro quel legame profondo tanto importante nei primi anni di vita.

Parallelamente, proteggere l'infanzia vuol dire far crescere i bambini in ambienti adatti al loro sviluppo psicofisico, ci si domanda perciò come un carcere possa consentire questo corretto sviluppo e cosa significhi consentire il crearsi di un legame molto stretto nei primi tre anni di vita per poi infliggere il dolore di una separazione traumatica.

Vedremo ora qual è l'entità del fenomeno, quali soluzioni legislative sono state elaborate per fronteggiare questa duplice categoria di diritti e quali risvolti sociali sottostanno alle medesime scelte legislative.


Cosa accade ad una donna incinta o madre se entra nel circuito penale


In questo paragrafo vogliamo fornire una panoramica sulle norme della legislazione in materia penale che esplicitamente si riferiscono alla condizione materna in relazione a provvedimenti restrittivi della libertà.

Come sappiamo, misure detentive possono essere disposte dal giudice anche prima dell'emanazione di un provvedimento di condanna detentiva e, tali misure, vengono definite "cautelari". La possibilità di emanare misure cautelari soggiace a ben definite esigenze (proprio per evitare abusi in una materia che consente una deroga all' inviolabilità della libertà personale) che, parallelamente all'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, si riconducono a tre ordini di fattori: pericolo d'inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolosità sociale dell'imputato. All'interno delle disposizioni in materia di misure cautelari il legislatore, all'articolo 275 comma quarto del codice di procedura penale, ha stabilito:

"Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, ovvero persona che ha superato l'età di settanta anni o che si trovi in condizioni di salute particolarmente gravi (.)".


Il legislatore, quindi, si dimostra restio all'applicazione della misura cautelare verso la donna incinta o con figli molto piccoli poiché le esigenze cautelari devono essere di "eccezionale rilevanza" e la tutela della condizione materna ha il sopravvento.

Per coloro che invece devono scontare una pena detentiva in seguito a condanna il legislatore ha previsto due possibilità di rinvio dell'esecuzione stessa. Gli articoli in questione sono il 146 ed il 147 del codice penale ed entrambi sono stati modificati dalla legge 8 marzo 2001 n. 40 "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori".

L'articolo 14683 tratta del rinvio obbligatorio della pena che viene concesso alle donne incinte o madri di bambini di età inferiore ad un anno mentre, prima della legge 40/2001, venivano in considerazione solo coloro che avevano partorito da meno di sei mesi. L'articolo 147 invece espone la casistica di coloro a cui può essere concesso il rinvio in maniera facoltativa ossia a discrezione dell'autorità giudicante, una volta che abbia esaminato gli atti. Questa norma ha subito maggiori modifiche infatti, prima della legge 40/2001, il rinvio facoltativo poteva essere concesso alle donne che avevano partorito da più di sei mesi ma da meno di una anno (un lasso di tempo molto breve) e doveva inoltre sussistere l'impossibilità di affidare il figlio a persona diversa dalla madre; l'attuale normativa ha invece statuito che la pena può essere differita se la condannata è madre di figli di età inferiore ai tre anni.

Entrambi questi articoli tengono in considerazione l'importanza del rapporto madre-figlio tanto da essere applicabili indipendentemente dall'entità della pena da scontare (che non viene nemmeno nominata), tuttavia possono essere considerati un mero "palliativo" alla frattura affettiva che dovrà necessariamente crearsi poiché, al termine del differimento, la pena dovrà essere scontata. Parallelamente, durante il periodo di sospensione, non s'innesca il meccanismo della detrazione di 45 giorni ogni semestre di pena scontata (avendo "dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione" art. 54 O.P.) che da luogo alla liberazione anticipata.

A questo punto, per evitare la rottura del rapporto col figlio, la condannata dovrebbe cercare di passare direttamente dal differimento della pena ad una misura alternativa come l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà o la detenzione domiciliare; naturalmente questo è molto difficile.

Prima della legge 40/2001 non esisteva una misura alternativa alla detenzione studiata appositamente per tutelare il rapporto tra madre e figli e, l'unica misura introdotta dalla legge 663/1986 (legge Gozzini) che prende in considerazione la condizione materna è la detenzione domiciliare (art.47-ter OP85). La possibilità di espiare la pena in casa propria o in altro luogo d'accoglienza risponde ad esigenze di carattere umanitario poiché tiene in considerazione motivi di salute e connessi alla situazione personale dei condannati. Possono accedere a questa misura le donne incinta o madri con figli di età inferiore ai dieci anni con loro conviventi purché debbano scontare un periodo di reclusione non superiore ai quattro anni anche come pena residua di pena maggiore.

Con l'articolo 47-quinquies, la legge 40/2001 ha introdotto nell'ordinamento penitenziario una nuova misura alternativa alla detenzione definita detenzione domiciliare speciale di cui riportiamo di seguito il testo.


Art. 47-quinquies. Detenzione domiciliare speciale

1. Quando non ricorrono le condizioni di cui all'articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all'assistenza dei figli, dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all'ergastolo.

2. Per la condannata nei cui confronti è disposta la detenzione domiciliare speciale, nessun onere grava sull'amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l'assistenza medica della condannata che si trovi in detenzione domiciliare speciale.

3. Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare speciale, fissa le modalità di attuazione, secondo quanto stabilito dall'articolo 28486, comma 2, del codice di procedura penale, precisa il periodo di tempo che la persona può trascorrere all'esterno del proprio domicilio, detta le prescrizioni relative agli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la misura. Si applica l'articolo 284, comma 4, del codice di procedura penale.

All'atto della scarcerazione è redatto verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto deve seguire nei rapporti con il servizio sociale.

5. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita; riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto.

6. La detenzione domiciliare speciale è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge e alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura.

7. La detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre.

Al compimento del decimo anno di età del figlio, su domanda del soggetto già ammesso alla detenzione domiciliare speciale, il tribunale di sorveglianza può:

disporre la proroga del beneficio, se ricorrono i requisiti per l'applicazione della semilibertà di cui all'articolo 5087, commi 2, 3 e 5;

disporre l'ammissione all'assistenza all'esterno dei figli minori di cui all'articolo 21-bis, tenuto conto del comportamento dell'interessato nel corso della misura, desunto dalle relazioni redatte dal servizio sociale, ai sensi del comma 5, nonché della durata della misura e dell'entità della pena residua


Questo nuovo articolo, si desume dalla lettura, fa riferimento a condannate che devono scontare pene lunghe, infatti, può essere applicato quando non ricorrono le condizioni del 47-ter che prende in considerazione solo pene che non superano i quattro anni di detenzione.

L'obiettivo del dettato legislativo pare essere la diminuzione sempre maggiore delle presenza di bambini in carcere; la detenzione domiciliare "generica", unita a quella speciale, prende in considerazione una fascia molto ampia di detenute madri. Non solo, la legge 40/2001 ha introdotto nell'ordinamento penitenziario anche l'articolo 21-bis che riguarda l'assistenza all'esterno dei figli minori ovvero la possibilità che le condannate possano essere ammesse "alla cura e all'assistenza all'esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci, alle condizioni previste dall'articolo 21" che descrive l' opportunità di lavorare all'esterno del carcere. In tal modo i figli minori avrebbero la possibilità di avere la madre accanto quasi tutti i giorni senza dover aspettare i quattro o sei colloqui mensili che non consentono certo la continuazione del ruolo educativo della madre e di quello stretto legame esistente tra madre e figlio.

I dubbi sulla possibilità di una reale applicazione di queste misure nei confronti delle madri nascono se si pensa che per poter accedere alle misure stesse è necessaria una pronuncia sull'assenza del pericolo di commissione di altri reati; come abbiamo potuto constatare in precedenza molte detenute hanno problemi di tossicodipendenza e (come ci confermava Lucrezi, vicedirettrice del carcere di Verziano) molte altre fanno parte di etnie nomadi. Entrambe queste categorie di detenute presentano un alto tasso di recidiva e, di conseguenza, sarà per loro difficile accedere alle misure sopra descritte.

Nel Pre-rapporto 2001 pubblicato in via informatica dall'Associazione Antigone88, a proposito della legge 40/2001 troviamo poche ma esplicite righe: "Fra gli ultimi atti della tredicesima legislatura, a febbraio 2001, è stata definitivamente approvata la legge che prevede nuove misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto fra detenute e figli minori. I bambini in carcere con le loro madri sono meno di 50. Dopo alcuni mesi di applicazione la legge non ha ancora prodotto risultati significativi in quanto non prevede forme automatiche di scarcerazione per quelle detenute che hanno bambini con età inferiore ai 10 anni".

Ancor più chiara è stata la direttrice delle carceri veneziane, Gabriella Straffi, la quale, intervistata dalle detenute della Giudecca89, ha affermato che, a suo parere, con la nuova legge non cambierà nulla o quasi.

"Per prima cosa - afferma Straffi - le novità legislative riguardano principalmente le condannate. Seconda cosa, per la realtà che conosco io, le donne che entrano a Venezia sono donne senza fissa dimora, donne per le quali il reato non grave è diventato la loro professione. Per la nomade il furto non è considerato reato, ma una normale attività per sopravvivere. Quindi una persona che ha tante ricadute è difficile che potrà avere dal Tribunale di Sorveglianza una valutazione che possa dire "non commetterà più questo reato". E poi si tratta per lo più di donne in attesa di giudizio, e spesso anche in stato interessante (.) Mi sembra pure che in certi casi la cosa sia un po' strumentalizzata, purtroppo, perché l'unica possibilità per loro è avere la sospensione obbligatoria della pena".

Difficilmente, quindi, una legge come questa sarà applicata alle nomadi che, paradossalmente, sono proprio quelle madri che si trovano in carcere con i figli piccoli; potranno usufruire delle misure ideate dal legislatore quelle donne che entrano in carcere per la prima volta e probabilmente non commetteranno più gli stessi errori ma, usando le parole della direttrice Straffi "in questa realtà, di persone in queste condizioni ne ho viste veramente pochissime".

Riguardo al rapporto madre/figlio, infine, la direttrice si è così espressa: "Togliete, se necessario, i bambini, ma mai quando una donna è in carcere, perché togliete anche a noi operatori penitenziari la possibilità di dare una speranza di un'attività trattamentale. Se a una donna togli anche il figlio, è finita".

Comprendiamo quindi fin d'ora la delicatezza della questione poiché bisogna conciliare l'esigenza punitiva dello Stato, la tutela della maternità, il diritto dei bambini a vivere liberi e non pagare colpe che non hanno commesso ed infine fare in modo che sia attuata un'attività trattamentale perché la detenzione fine a se stessa ben poco può fare.


Analisi dell'entità del fenomeno


Nel nostro studio ci soffermiamo ad analizzare con maggior attenzione la situazione delle detenute madri tuttavia, non bisogna dimenticare che tale dibattito rientra nel più ampio ambito della questione detenuti/genitori infatti, la tutela del figlio minore passa anche attraverso la tutela dell'unità sociale madre-figlio-padre che, a causa della carcerazione di uno o di entrambi i genitori, viene disgregata.

Per comprendere seppur indicativamente quanti figli minori possano essere toccati dalla carcerazione dei genitori utilizziamo i dati raccolti da Biondi in una ricerca di qualche hanno fa ( tabella 1 ) riguardanti le persone entrate in carcere che hanno dichiarato di avere figli.

Tabella - Ingressi dei detenuti padri / madri e numero dei figli dichiarati ( classe d'età detenuti <45)


anni

tot. ingressi padri

tot. figli dichiarati

tot. ingressi madri

tot. figli dichiarati


























( Fonte: ricerca G. Biondi)


Queste informazioni sono comunque approssimative perché, per conoscere il numero dei minori coinvolti, Biondi ha ricavato dai dati in suo possesso una proiezione in difetto e, aggiungiamo noi, perché non sempre tale rilevazione viene effettuata correttamente all'interno degli istituti. La stessa Villimburgo91, illustrando la situazione femminile nelle carceri toscane, giunta al paragrafo dedicato alla maternità afferma che "purtroppo, non solo a Solliccianino, ma anche negli altri Istituti la rilevazione della maternità delle donne detenute è fortemente incompleta. Sembra proprio che questa informazione, in alcuni casi, venga considerata dall'istituzione penitenziaria inutile o non pertinente".

Ad ogni modo il problema dei figli con genitori detenuti è molto ampio per cui, nonostante il nostro approfondimento si concentri sulla situazione delle detenute madri, non bisogna dimenticare che situazioni di sofferenza quali lo choc da arresto, la separazione e il senso di abbandono riguardano tutti i figli indipendentemente da quale dei due genitori sia coinvolto nel circuito penale.


Tabella - Bambini conviventi con la madre in carcere al 31 dicembre


anno

numero bambini

anno

numero bambini





































( Fonte : Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria)


L'osservazione dell'andamento del numero dei bambini prisonizzati negli anni tra il 1975 ed il 1999 ( tabella 2) evidenzia come, dopo un pressoché costante calo di presenze fino al 1990, si passa ad un nuovo aumento per cui dai 31 bambini presenti alla fine del 1995 si giunge ai 60 del 1999.

Tale aumento può essere determinato dal generale aumento della popolazione carceraria e quindi dal possibile maggior coinvolgimento di donne con figli piccoli, tuttavia, sottolinea Biondi nel suo studio, "è difficoltoso avere dei dati sul numero complessivo dei bambini accanto alla madre detenuta in quanto il più delle volte ci si riferisce a rilevamenti effettuati su un campione e/o sulla presenza rilevata ad una certa data che non permettono di conoscere il numero dei bambini presenti nell'intero arco di un anno92".

Per quanto riguarda le strutture predisposte all'accoglienza ed al "soggiorno" dei piccoli, Sandro Libianchi93 ( medico penitenziario nella Casa di Reclusione di Rebibbia), ha recentemente raccolto i dati che riportiamo nelle tabelle 3 e


Tabella - Situazione degli asili nido al 31 dicembre


Anno

Asili nido funzionanti

Asili nido non funzionanti

Asili nido in allestimento

























(Fonte: S. Libianchi)


Dal 1993 al 1998 gli asili funzionanti sono diminuiti così come sono diminuiti quelli in allestimento al punto che, nell'ultimo anno preso in considerazione, non ve n'era nessuno in preparazione e quattro risultavano quelli non funzionanti. Come abbiamo appena constatato nella tabella 2, i bambini prisonizzati sono effettivamente diminuiti dal 1975 ad oggi, tuttavia il calo di asili nido funzionanti si era verificato in un periodo nel quale la diminuzione dei bambini in carcere si è già arrestata e, anzi, si è assistito ad un lieve incremento.


Tabella - Situazione degli asili nido e delle detenute madri o in stato di gravidanza al 31 dicembre 1998


Regione

Asili funzionanti

Asili non funzionanti

Asili in allestimento

Detenute

Figli

Detenute in gravidanza

Abruzzo (Teramo)







Basilicata







Calabria (Cosenza)







Campania (Avellino, Salerno)







Emilia Romagna







Friuli







Lazio (Roma)







Liguria (Genova)







Lombardia (Como, Milano, Monza)







Marche







Molise







Piemonte (Alba, AL, TO, VC)







Puglia (Bari, Foggia)







Sardegna (Sassari)







Sicilia (AG, ME, PA, RG)







Toscana (Empoli, Firenze, Lucca)







Trentino







Umbria (Perugia)







Valle D'Aosta







Veneto







Totale nazionale







(Fonte: ricerca S. Libianchi)


Al 31 dicembre 1998 (tabella 4) si trovavano in carcere quattro donne in stato di gravidanza, 42 bambini negli asili nido delle strutture carcerarie e 41 donne madri detenute. Dei 18 asili presenti negli istituti di pena, 14 risultavano funzionanti e quattro non funzionanti; Libianchi pone l'attenzione sulla scarsità di strutture ma soprattutto sulla loro distribuzione inadeguata e disomogenea; ben sei regioni italiane ne   risultano attualmente sprovviste ed appaiono chiari i disagi per chi desiderasse tenere con sé il proprio figlio se reclusa in una di queste regioni.

Di fronte all'eventualità di un trasferimento in un carcere dotato di strutture idonee, la detenuta medesima dovrebbe comunque considerare i disagi di uno spostamento lontano dalla residenza degli altri familiari ed il conseguente moltiplicarsi dei problemi connessi alla detenzione.


La presenza di bambini in carcere


Come abbiamo potuto constatare, nonostante gli interventi legislativi volti a disincentivare la presenza di figli in carcere con le madri, tutt'oggi essi sono circa una cinquantina, andiamo perciò ad illustrare come l'attuale normativa regola la loro vita all'interno degli istituti.

L'articolo 11 dell'ordinamento penitenziario si occupa del Servizio sanitario all'interno degli istituti e, per ciò che concerne la questione di cui stiamo dibattendo, afferma:

"In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l'assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere.

Alle donne è consentito di tenere presso di sé i figli fino all'età di tre anni. Per la cura e l'assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido".

I luoghi denominati "nido" sono comunque sottoposti all'ordinamento penitenziario, tuttavia l'articolo 19 del DPR 230/2000 (nuovo regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario) afferma che le stanze riservate alle gestanti ed alle madri con bambini non devono essere chiuse per consentire maggiore "libertà" di spostamento all'interno del reparto. Il medesimo articolo garantisce attività ricreative e formative per i bambini e la possibilità di essere accompagnati fuori dall'istituto presso gli asili esistenti sul territorio grazie all'intervento dei servizi pubblici e dei volontari.

Questa garanzia di attività ricreative e formative non è così scontata e non lo è nemmeno la possibilità di uscire dall'istituto, in poche parole se esistono delle iniziative di supporto per questi bambini lo si deve soprattutto alle organizzazioni di volontariato.

Per quanto riguarda la situazione delle strutture e la presenza di personale medico, la delegazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti in visita nel 1992 al carcere femminile di Rebibbia ha stilato un rapporto positivo; così viene descritta l'unità madre-bambino94:

"Il nido d'infanzia dello stabilimento, la cui capacità era di 15 posti, ospitava 12 madri (e 12 bambini di meno di tre anni). Le condizioni materiali in cui esse vivevano erano molto buone (locali decentemente attrezzati, giardino, ecc.).

Erano presenti un infermiere psichiatrico (circa 5 ore al giorno) e sei puericultrici (6 ore al giorno). Un medico di settore soprintendeva al nido, con l'aiuto di consulenti specialistici ( pediatra, ginecologo, psichiatra, dentista, ecc).

L'atmosfera del nido era collaborativa e socioterapeutica. Il desiderio di autogestione e di sviluppo delle responsabilità e dei ruoli materni era molto evidente. Le coppie madre-bambino, che costituiscono uno dei gruppi vulnerabili caratteristici delle prigioni, erano collocate in un ambiente socio-educativo favorevole.

In sintesi, la delegazione è stata molto favorevolmente colpita dall'ambiente materiale e dal regime di questo nido".

La relazione del CPT è quasi idilliaca, pare proprio che alle detenute madri non manchi nulla e che il carcere si sia potuto trasformare in un ambiente "socioterapeutico", tuttavia le parole del CPT stridono con alcune informazioni fornite da Libianchi che, come segnalato, è medico penitenziario proprio presso la Casa di Reclusione di Rebibbia (la stessa visitata nel 1992 dalla delegazione del CPT). Libianchi, dopo aver descritto ed elogiato alcune iniziative intraprese da associazioni di volontariato (creazione ludoteca, accompagnamento all'esterno), aggiunge:

".d'altra parte però, associazioni come il Tribunale del Malato, continuano a non essere autorizzate all'ingresso testimoniando la durezza del regime" e definisce la presenza di un pediatra accanto al ginecologo come un' "iniziativa sporadica".

In conclusione, siamo di fronte ad ambienti socioterapeutici o duri regimi? I nidi hanno a disposizione psichiatri, pediatri e puericultrici o queste sono iniziative sporadiche?

Pensiamo di non cadere in errore se affermiamo che la rosea visione del CPT vada ridimensionata senza tuttavia negare quanto di positivo si sia cercato di fare all'interno dei nidi carcerari.

Quando i bambini devono essere separati dalle madri detenute perché giunti al compimento dei tre anni o per altre ragioni, sentita in quest'ultimo caso la madre, e non esistendo persone a cui la madre possa affidare il figlio, la Direzione dell' Istituto segnale il caso agli Enti per l'assistenza all'infanzia. Il Centro di Servizio sociale si fa carico del mantenimento dei rapporti tra madre e figlio.






la situazione in altri Paesi


Nei confronti del problema della presenza dei figli delle detenute in carcere, ogni nazione ha individuato soluzioni diverse; riportiamo quindi alcuni esempi che, sebbene non possano essere esaustivi della suddetta varietà di approcci al problema, tuttavia forniscono spunti di raffronto col nostro ordinamento.


Australia (New South Wales)

Nel Nuovo Galles del Sud95, il Dipartimento dell' Amministrazione Penitenziaria nel 1994 ha approvato il Women's Action Plan volto ad incontrare le esigenze delle donne in carcere e dal quale è nato il Mothers and Children Program Policy. Nello sviluppo di questo programma il Dipartimento ha messo in primo piano l'interesse dei figli delle donne che stanno scontando una pena alla reclusione, riconoscendo la grande importanza della continuità nella relazione madre-figlio per lo sviluppo emozionale, intellettuale e sociale del bambino; non solo, tramite il suddetto programma si attua il riconoscimento che l'incarcerazione in sé non evidenzia la mancanza del desiderio né della capacità delle detenute di adempiere ai propri doveri di madre.

Oltre ad incontrare le esigenze dei bambini il programma tende a raggiungere altri benefici come la possibilità di riduzione del comportamento recidivo e la mitigazione del dolore e dell'ansia associati ad una forzata separazione dalla prole.

Il programma del Dipartimento prevede una serie di possibili soluzioni per le detenute che desiderano assumere un ruolo parentale attivo; riguardo a tali misure individuiamo una notevole differenza rispetto all'ordinamento italiano infatti, coloro che si sono sempre prese cura       ( primary carers) di un bambino, indipendentemente dal fatto di essere le madri biologiche, sono idonee a partecipare al programma. Coloro che in precedenza non erano il punto di riferimento principale per il bambino (non-primary carers) possono partecipare al programma con il consenso scritto delle primary carers (per esempio la nonna o altri parenti).

Il Mothers and Children's Program include le seguenti possibilità:

Approved Absence ( eseguire la sentenza con accanto il figlio in un ambiente adatto) secondo la Sezione 26(2)(1)96 del Crimes (Administration of Sentences) Act, 1999.

Per chiarire la legislazione il Dipartimento ha ideato alcuni presupposti per l'approvazione dell'assenza dal carcere secondo la Section 26(2)(1) quali: identificazione di eventuali problemi di droga o alcool, emanazione della sentenza, non dover comparire ulteriormente davanti al giudice, non sussistenza di più di 12 mesi dalla possibile data del rilascio, dover scontare almeno tre mesi di pena, avere un garante appropriato ed un alloggio o un centro di riferimento per la riabilitazione dall'uso di droghe. Purtroppo rispondere ai suddetti requisiti non è facile poiché molte detenute sono singles e non hanno il supporto della famiglia o di amici che possano fare da garanti fornendo un alloggio.

Full Time Residence Program ( possibilità di tenere il figlio con sé in carcere purché minore di 5 anni).

I principi giuda del programma affermano che questa opzione deve essere considerata come l'ultima possibile, deve perciò essere utilizzata quando non ci sono altre valide alternative. I presupposti per poter accedere al programma sono i seguenti: esistenza di un luogo accessibile per detenute madri con i rispettivi figli e che questo luogo sia adatto ai bambini; impossibilità di rilascio della detenuta secondo la section 26(2)(1); la madre era la persona che si prendeva direttamente cura del bambino prima dell'arresto ed è in possesso della custodia legale; il bambino deve essere in età prescolare e necessaria è la sussistenza di idoneità della madre a prendersi cura del figlio ( inesistenza di instabilità mentale, interruzione dell'utilizzo di sostanze stupefacenti, ecc.).

A questo punto, la relatrice che ha esposto questo programma durante la conferenza dell'AIC97 parla del "Jacaranda Cottages area" e di diversi livelli di pericolosità delle detenute per cui, coloro che non presentano rischi possono abitare nello stesso cottage con il bambino, le altre possono abitare nella stessa area ma non nello stesso cottage o, addirittura, devono stare in un'area diversa. Da questo deduciamo che, diversamente da quanto avviene in Italia, il programma del New South Wales è previsto più che per dei nidi nelle sezioni femminili del carcere per delle apposite aree simili a mini-residences, in tal modo risulta più comprensibile la scelta di lasciare i bambini con la madre detenuta fino a cinque anni. Oltre ai "Jacaranda Cottages" vengono citati l' "Emu Plains Correctional Centre" e il "Parramatta Transitional Centre" , una sorta di "casa di transizione", ponte tra il periodo di reclusione e la successiva libertà per cominciare la reintegrazione nella comunità ancora prima del rilascio.

Occasional Residence Program ( possibilità di trascorrere col figlio i fine settimana e le vacanze scolastiche).

Queste opzioni dovrebbero essere amministrate con molta flessibilità a seconda delle situazioni e dei bisogni individuali di madri e figli.

Con l'avviamento del programma il Dipartimento ha formato un Comitato (Mothers and Children's Commettee) formato da un avvocato per i minori, l'amministratore/ direttore di ogni sezione femminile, un rappresentante del Department of Community Services e un coordinatore del Mothers and Children's Program; tale comitato assume il compito di supervisore garante dell'interesse dei bambini delle detenute e del loro benessere.

Tabella - Sviluppo del Mothers and Children's Program nell' Emu Plains Correctional Centre dal 1996 al 2000.

Anno di riferimento

Tipo di programma

Numero madri

Numero bambini

Dic. 1996 - Giu. 1997

Section 26(2)(1)




Full Time Residence




Occasional Residence



Lu.  1997 - Giu. 1998

Section 26(2)(1)




Full Time Residence




Occasional Residence



Lu.  1998 - Giu. 1999

Section 26(2)(1)




Full Time Residence




Occasional Residence



Lu.  1999 - Giu. 2000

Section 26(2)(1)




Full Time Residence




Occasional Residence




Nella tabella soprastante è possibile constatare l'entità dell'applicazione del progetto all'interno dell'Emu Plains Correctional Centre negli anni dal 1996 al 2000.

Scopo del programma è, come accennavamo, ridurre il trauma della separazione sia per i bambini sia per le madri e consentire la prosecuzione dei loro rapporti; parallelamente si offre la possibilità alle detenute di usufruire di supporti psicologici, programmi di disintossicazione e si cerca di ridurre la possibilità di recidiva anche mantenendo i legami con la famiglia. Le iniziative all'interno del programma sono svariate e riguardano programmi ricreativi e socio- educativi.


Stati Uniti d'America99

Dai dati forniti dal U.S. Department of Justice (Office of Justice Programs) e che riguardano una rilevazione effettuata nel 1994, apprendiamo che circa il 75% delle donne in carcere ha dei figli e ben due terzi di esse ha figli minori di 18 anni. Vennero calcolate ben 25.714 detenute madri con circa 56.000 figli minorenni.

Nonostante l'entità del fenomeno, la stragrande maggioranze degli stati americani non ha nel proprio ordinamento penitenziario norme volte ad affrontare il problema dell'assistenza alle detenute madri o del fornire una collocazione sicura al bambino al momento della loro carcerazione. Solo qualche raro carcere è attrezzato per ospitare detenute donne con bambini e i programmi federali volti ad affrontare il problema sono ancora scarsi. In qualche carcere femminile sono attivi programmi trattamentali che prevedono la presenza dei figli per la durata della notte, altri presentano aree attrezzate per bambini ed altre ancora hanno programmi gestiti da volontari che trasportano i bambini dall'alloggio al carcere per visitare le madri.

Volendo fornire una prospettiva storica possiamo segnalare che dal 1950 tredici stati si sono dotati di una legislazione che consente alle madri di vivere con i figli in carcere per lo più attraverso autorizzazioni che consentono il "nursing" dei bambini delle donne che, comunque, devono essere giudicate fisicamente in buona salute per farlo.

Dal 1960 al 1970 gli stati hanno cominciato ad abrogare queste normative valutando certe situazioni rischiose per la sicurezza, per la difficoltà a gestire i problemi sorgenti dalla detenzione madre/figlio, per problemi di responsabilità civile (eventuali danni a terzi), per gli effetti negativi della prigionia sul normale sviluppo del bambino, ecc.

Attualmente qualche stato americano sta riprendendo a trattare il tema della detenzione materna ed una cinquantina di stati ha adottato modifiche agli ordinamenti penitenziari; molti sono rivolti soltanto al problema di dare un'assistenza pre e post partum alle detenute (Indiana), altri stabiliscono procedure che permettono la temporanea sospensione della pena al fine di partorire presso ospedali locali (Idaho, Maryland, Massachusetts, Minnesota, Pennsylvania) e altri ancora ineriscono particolari condizioni custodiali dopo la nascita del bambino ( Florida, maine, Maryland, North Carolina, West Virginia). Il solo stato del Montana ha legiferato in materia di interruzione dei diritti parentali in caso di detenzione.

Gli stati nel cui ordinamento è in vigore la pena di morte, generalmente, prevedono uno spostamento dell'esecuzione capitale se la donna è in stato di gravidanza. Solo cinque stati su cinquanta parlano espressamente del problema che viene a crearsi con la nascita di un bambino se la donna è incarcerata o se ha figli in giovane età. Tre stati (California, New Jersey, New York) hanno norme specifiche circa la presenza di bambini al di sotto dei due anni di età e che consentono a quest'ultimi di restare in carcere con la madre se nascono durante la carcerazione stessa.

Lo stato di New York si è dotato di una struttura atta ad ospitare 75 donne con i relativi figli ( circa 700 all'anno) chiamata "Children's Centre Bedford Hills Correctional Facility (Houses)", in essa trovano alloggio detenute con bambini fino ad un anno di età o fino a 18 mesi se sussiste la certezza che possano uscire insieme dalla struttura stessa. L'istituto è organizzato con la previsione della convivenza madri/figli da uno a cinque giorni la settimana, attenzioni particolari sono previste per le donne che presentano problemi di salute mentale, vengono svolti programmi di bilinguismo, attività culturali specifiche anche attraverso l'opera di un coordinatore detenuto ed un coordinatore volontario esterno.

In Connecticut è consentito alla madre accudire il proprio figlio in carcere solo nei primi sessanta giorni dopo la nascita; in Illinois, invece, il periodo massimo entro il quale è possibile che una detenuta si occupi del figlio è il primo anno di età, sempre se il Department of Corrections decide che sussistono ragioni speciali per dare il consenso.

Esiste un programma denominato "Girls Scouts Beyond Bars" attraverso il quale è possibile la collaborazione tra un' organizzazione per i servizi all' infanzia, lo stato proponente ed il dipartimento penitenziario locale. Attualmente tale programma è stato attivato in Ohio, nel Maryland e in Florida. L'Ohio è stato il primo ad applicarlo come connessione tra la carcerazione ed il rientro a casa ed è stato iniziato presso il centro di prescarcerazione "Franklin" a Columbus e presso l'Ohio Reformatory for Women. In Maryland, dal 1992, il programma è attivo presso il Maryland Correctionals Institution for Women dove circa trenta bambini visitano la madre per due domeniche al mese e, nelle restanti, partecipano alle funzioni religiose nella chiesa locale. Presso la Jefferson Correctional Institution di Tallahssee e a Fort Lauderdale in Florida il programma è iniziato nel 1994 e prevede corsi di istruzione genitoriale, attivazione di servizi di transizione e accompagnamento per le madri e monitoraggio della resa scolastica dei bambini anche in collaborazione con i locali servizi di salute mentale.

Nel carcere femminile a bassa sicurezza del Tennessee, ogni settimana la direzione promuove il "Weekend Visitation Program" che permette ai bambini di età inferiore ai sei anni di trascorrere il fine settimana con la madre detenuta. Ogni madre può vedere un figlio per volta, nell'edificio possono essere ospitati un totale di dieci bambini a cui è consentito accedere alla palestra, a determinate aree ed al bar.

Nelle carceri della California, nel corso del 1998, è stata registrata la presenza di 340 donne con bambini e, a fronte di una realtà di tale rilievo, il California Department of Corrections Family Foundations Programme ha posto le basi per la creazione di una struttura intermedia per donne detenute con bambini nati durante la carcerazione; l'ammissione a questo programma avviene dopo il parto ed in stato simile alla semilibertà.

Non bisogna tuttavia dimenticare quanto è stato segnalato nel paragrafo relativo agli Stati Uniti ( ed al rapporto di Amnesty International sui diritti umani delle detenute) che, tra le altre situazioni, evidenzia come proprio in California (Madera County Ospital) le donne possano essere costrette a partorire anche ammanettate; forse, questo non è stato preso in considerazione dal programma summenzionato relativo alla creazione della struttura a custodia attenuata per detenute madri.


Canada

La tendenza dei programmi educazionali canadesi è di ricongiungere il nucleo madre-figlio fuori dalle mura carcerarie, parallelamente tuttavia sono stati avviati programmi per bambini che possono restare nel penitenziario con le madri ma, la condizione necessaria per cui questo avvenga è che le detenute "dimostrino un loro effettivo ed alto interessamento"100.

Alcune strutture penitenziarie hanno allestito dei reparti dove i familiari possono fare delle visite di una giornata o, comunque tali da incoraggiare la relazione tra madre e figlio. A fronte di queste iniziative esistono tuttavia molte altre strutture che non consentono nemmeno le normali visite dei parenti.



Bolivia

Segnaliamo infine la situazione boliviana poiché risulta essere un caso assolutamente unico al mondo.

Secondo dati del febbraio 1998 ben 2.143 bambini, il cui unico crimine è quello di essere nati, vivono in 17 carceri poiché entrambi i genitori sono detenuti e non esistono alternative assistenziali. La situazione appare ancora più grave se si tiene in considerazione che questi penitenziari hanno una capacità di circa 1.800 persone mentre, in realtà, ne contengono 5.173 ( 351 uomini e 822 donne).

Nel carcere di Palmasola ( il più grande del paese) a Santa Cruz la situazione è surreale poiché il numero dei bambini supera il numero dei detenuti.

Spinto da alcuni casi recentemente denunciati in merito a bambini in carcere, il governo boliviano ha avviato, come misura eccezionale, un programma denominato "Do not imprison my childhood".


AL DI LA' DELLE NORME : PROBLEMATICHE E ASPETTI DEL RAPPORTO CARCERE/ MADRI/ FIGLI


Una volta visto come l'ordinamento italiano regola la detenzione delle donne incinta o madri di figli di età inferiore ai tre (o ai dieci anni) ed appurato come non sia l'unico ordinamento a prevedere la permanenza dei figli in carcere accanto alla madre, bisogna considerare, al di là degli aspetti normativi, cosa significhi e cosa comporti vivere la maternità in carcere. Inoltre, non possiamo riferirci soltanto ai figli "visibili" che si trovano in carcere con la madre ma bisogna pensare anche ai moltissimi figli "invisibili" che sono rimasti a casa.




Scelte difficili


Nel campione di detenute intervistate per la ricerca sulla carcerazione femminile condotta nel 1990101 le madri rappresentavano la maggioranza (59,8%) per cui è intuibile quante fossero le situazioni più o meno gravose di "maternità interrotta".

Le madri di figli minori di tre anni risultavano essere 63 ossia il 19,3% del totale delle madri di figli minorenni. Dieci delle detenute menzionate avevano scelto di tenere il figlio con sé perciò, tale decisione risultava minoritaria, rappresentante una soluzione assunta solo quando sistemazioni alternative apparivano difficilmente praticabili o inesistenti.

In un'altra ricerca, condotta lungo un arco di quattro anni (1988-1992) dedicata esclusivamente alle detenute madri, Biondi ha rilevato che il numero dei minori conviventi con la madre detenuta è oscillato, per anno, dalla 50 unità (1989) a più di 150 nel 1992102. L'autore ha inoltre rilevato i tre motivi per i quali le donne intervistate avevano scelto di avere o non avere il bambino accanto. Il motivo più frequente in assoluto, anche per questa ricerca, è risultato essere l'impossibilità di affidare esternamente il figlio a terzi; in secondo luogo è stata segnalata la necessità per il bambino di avere accanto la madre per un migliore sviluppo affettivo e, da ultimo, emerge il bisogno della madre di avere accanto il figlio. Nelle risposte di coloro che, al contrario, avevano deciso di non tenere presso di sé il figlio emerge la volontà di non coinvolgere il bambino nella situazione carceraria ed in secondo luogo la possibilità di affidarlo a terzi.

In ogni caso, la scelta di tenere o meno il figlio in carcere accanto a sé non è riconducibile alle sole situazioni sociali e/o affettive poiché stiamo parlando di donne che spesso vivono una situazione già carente di riferimenti affettivi; le variabili caratteriali, relazionali ed ambientali sono così svariate e complesse che la "ricerca" della soluzione migliore sembra legata ad un circolo vizioso per cui, secondo la dichiarazione di una detenuta intervistata da Biondi, ".sei chiusa da due lati, come scegli hai la sensazione di sbagliare per te, per lui, per loro. Sinceramente non so cosa sia veramente più egoistico se tenerlo accanto, proteggerlo o affidarlo ad altri con il timore che quando esci non ti riconosca, ti rimproveri, sia difficile riprendere il contatto con lui; e questo non solo per quanto puoi soffrire tu, ed è tanto, ma per quanto comunque soffrirà lui".

La preoccupazione delle detenute riguarda inoltre il momento del distacco, quando il figlio avrà compiuto i tre anni e dovrà uscire da carcere per andare con altri familiari o essere affidato e si troverà improvvisamente senza la figura materna a cui è stato fortemente legato, soprattutto in un ambiente come il carcere.

Nella scelta di tenere il figlio con sé o meno, rientra il timore che quest'ultimo venga dato in affidamento, timore che riemerge al compimento dei tre anni e che le detenute della Giudecca103 descrivono come "ansia da incontro con l'assistente sociale". E' chiaro che, affrontare questo problema da dentro le mura carcerarie, crea nelle donne un senso di impotenze e le porta, a volte, a fare scelte estreme come quella descritta da una volontaria all'istituto della Giudecca:

"Certo tante donne provano molta diffidenza verso le assistenti sociali, perché hanno una gran paura che i loro figli siano dati in affidamento. Su al nido c'è una donna albanese con una bambina che sta per compiere tre anni e dovrà separarsi presto dalla madre. Le avevano trovato una famiglia di affidatari disponibili ad accogliere la bambina e a portarla ai colloqui con la madre, ma lei ha rifiutato e preferisce che il fratello, che sta in Australia, venga a prendersela e se la porti via".

In un saggio del 1988 Daga e Biondi104, di fronte a situazioni dolorose e di grande disagio, affermano che il legislatore si è sforzato di ridurre la sfera di azione del carcere all'interno del sistema penale ( misure alternative ); in questo modo, sostengono, ha cercato di ridurre la soglia legale di sofferenza, tuttavia non ha intrapreso analoghi adeguati interventi per alleviare la soglia "illegale" di sofferenza, quella sofferenza non prevista normativamente per gli innocenti ( i figli e la famiglia del detenuto) che subiscono conseguenze negative dall'isolamento e dalla separazione insiti nella pena come privazione della libertà (pena indiretta senza responsabilità).


Quali donne coinvolge il problema


Dall' osservazione dei risultati delle ricerche effettuate riguardo alle detenute madri è emerso che la maggior parte delle donne entrate in carcere con figli minori di tre anni sono di etnia nomade o sono tossicodipendenti.

Le nomadi, in genere, appaiono poco sensibili ad accettare aiuti che potrebbero, anche in minima parte, modificare il loro approccio culturale ai sistemi educativi adottati perciò, talvolta, la loro presenza in carcere è di difficile gestione. La scelta delle nomadi di tenere il figlio in carcere con sè, afferma Biondi, va valutata in termini più approfonditi in quanto " vi è la convinzione, non del tutto errata, che in carcere, specie d'inverno, i bambini molto piccoli stiano meglio e possano essere meglio accuditi ed assistiti con dei controlli sanitari che normalmente, in libertà, non vengono eseguiti".

Per quanto riguarda le tossicodipendenti con figli bisogna segnalare che (soprattutto se prive di terapia sostitutiva) rappresentano un rilevante quesito terapeutico sia per loro stesse al momento dell'arresto, poiché vanno incontro a crisi d'astinenza, sia per il loro bambino e per le ipotesi di piani terapeutici personalizzati.

Al rischio psico-fisico collegato al mondo degli stupefacenti si affianca un'altra situazione altrettanto disagevole che può essere definita di rischio ambientale. Spesso si collega, infatti, ad un trascorso di tossicodipendenza, la presenza di HIV nelle madri detenute perciò, l'assistenza delle donne sieropositive e dei loro bambini in carcere presenta ulteriori problemi per il personale penitenziario. Spesso la storia di queste donne è segnata da episodi di sofferenza e violenza e il passato di tossicomania, che comporta l'ansia di essere malate potenziali, si riflette sui bambini che necessitano anche di controlli sanitari approfonditi e ricorrenti.

Bisogna aggiungere inoltre che le comunità terapeutiche pronte ad accogliere le madri insieme con i figli sono ancora rare, distribuite disomogeneamente sul territorio e con pochi posti a disposizione. Una sistemazione detentiva migliore (quando non fosse possibile applicare una misura alternativa) potrebbero essere le cosiddette Custodie Attenuate. In questi istituti o sezioni penitenziarie vige un regime di bassa custodia volto a favorire una migliore forma di trattamento della tossicodipendenza purtroppo, però, nessuna di tali strutture è per ora attrezzata per accogliere bambini.

Nonostante all'inizio del paragrafo abbiamo citato solo nomadi e tossicodipendenti, non bisogna dimenticare che l'aumento delle detenute straniere ha comportato la loro presenza anche nei nidi, tanto è vero che, nelle schede riassuntive del comportamento di sette bambini (controllati a Rebibbia dalle puericultrici) e inserite nel testo di Biondi , ben tre sono nigeriani, uno armeno e uno di nazionalità sconosciuta.

Anche per le detenute straniere subentra, come avviane in parte per le nomadi, il problema della differenza culturale che incide sui metodi educativi e di assistenza. Detenute madri appartenenti a diverse culture e chiuse in un ambiente ristretto come quello della sezione possono incontrare difficoltà ad equilibrare le modalità educative e comunicazionali fondamentalmente diverse tra loro.


Cosa significa per un bambino crescere in carcere


Lasciare che un bambino possa vivere l'esperienza del carcere (privazione della libertà) in un periodo della sua vita in cui non ha ancora sperimentato l'esistenza della libertà sembra assurdo; privarlo della possibilità di ricevere le cure materne e , vice versa, privare la madre del proprio diritto ad essere tale appare crudele. Con queste riflessioni ritorniamo al paradosso dell'inconciliabilità tra detenzione e tutela della maternità e dell'infanzia che, tuttavia, il nostro ordinamento ha forzatamente conciliato con le norme descritte nei paragrafi precedenti.

Da elementari conoscenze di psicologia dell'età evolutiva sappiamo che il periodo di tempo che va dai primi giorni di vita ai tre anni comprende più fasi dello sviluppo del bambino, tutte molto significative perché in grado di determinare la formazione della sua personalità. Fattori genetici, ormonali ed ambientali intervengono in questo processo di crescita che, quindi, non resta indifferente agli stimoli ( di qualsiasi natura siano) provenienti dall'esterno.

Gli studi circa le conseguenze della carcerazione sui figli di madri detenute al momento del parto o che comunque hanno subito una carcerazione sono rari e a volte controversi.

In un saggio del 1975 Crocellà e Coradeschi definivano il carcere come "l' ambiente più insano dal punto di vista dell'igiene mentale e dello sviluppo fisico di un bambino" per la limitatezza degli spazi, l'abitudine ai chiavistelli, alle sbarre, per l' assenza della figura paterna e di figure di sesso maschile in generale.

Effettivamente lo sviluppo infantile va inteso anche come il prodotto dell'interazione fra determinate capacità individuali e determinate condizioni ambientali. A tal proposito, una detenuta della Giudecca, in un suo articolo107, con poche frasi ci fa capire immediatamente la questione che stiamo affrontando:

"Naturalmente è strano sentire dalla bocca di un fanciullo un gergo tipico della galera: "Agente, mi apri", "Aria, aria", "Arriva il mangiare". I bambini in realtà assai presto riescono ad interiorizzare determinati meccanismi tipici della situazione, come l'arrivo dell'agente che chiude le celle, e capiscono in fretta che se la luce si spegne non si potrà più accenderla. Tali meccanismi fanno crescere però in loro l'idea che il luogo sia inospitale, per cui quando si recano a visitare i parenti non hanno più voglia di ritornare dalla madre in mezzo a tutte quelle restrizioni. La vista, poi, di una divisa anche all'esterno fa scattare il vissuto fatto di costanti restrizioni, e di conseguenza risveglia la paura verso tutti quelli che la portano. Ma ci sono anche bambini che si affezionano alle agenti, in quanto le considerano parte della loro vita quotidiana".

Lo stesso gioco della chiave che molti bambini fanno in carcere, aprendo e chiudendo con chiavi reali o simboliche porte reali o simboliche, aiuta a comprendere come il concetto di segregazione, anche nello sforzo dell'organizzazione carceraria di limitarlo e ridurlo, permane nel bambino e lo conduce verso un tentativo di elaborazione individuale che si realizza in uno stato psicologico di difficoltà certamente non lieve e di cui non siamo in grado di conoscere l'evoluzione nel tempo.

Anche il rapporto con la madre viene in qualche modo "falsato" poiché, normalmente, le relazioni affettive di un bambino evolvono da una dipendenza completa del neonato (dalla madre o da un suo sostituto) verso un'interdipendenza reciproca che, iniziando dalla madre si amplia la padre ed ai fratelli e poi alle altre persone che vivono nel suo stesso ambiente. In carcere si osserva una difficoltà della madre a ridurre l'iniziale totale dipendenza in tal modo prolungando la stretta relazione simbiotica nella quale il figlio è immerso.

Gli stimoli ambientali del carcere, infatti, sembrano condizionare incisivamente due situazioni: da un lato portano alla suddetta permanenza di un rapporto affettivo simbiotico e serrato, dall'altro favoriscono un legame discontinuo dove simbiosi e distacco si alternano lasciando il bambino confuso rispetto alla comprensione di quale sia la propria situazione affettiva. Possono quindi innescarsi reazioni di attaccamento ansioso come reazione allo stato di precarietà che il bambino sente di vivere.

Dalla citata ricerca effettuata da Gianni Biondi ( i bambini osservati sono stati circa 64) è emerso che in più Istituti si riscontrava una non regolarità nelle vaccinazioni previste, infatti è risultato essere non in ordine col calendario vaccinale il 49% dei bambini. Un bambino era figlio di madre affetta da HIV ed egli stesso era sieropositivo, un altro è sembrato essere affetto da un ritardo psico-motorio e, la medesima patologia (con eziologia incerta), sembrava affliggere un altro bambino ancora.

Alcuni bambini presentavano delle disarmonie nello sviluppo ma in misura tale da non poter essere considerati segni di un reale ritardo nella crescita. I bambini più grandi presentavano problemi comuni dell'età infantile ( infezioni delle prime vie respiratorie, otiti, problemi digestivi) con una prevalenza, tuttavia, di eccessivo ritardo della dentizione.

Alcune problematiche apparivano sporadiche (convulsioni, malnutrizione, anche nella forma dell'obesità) in rapporto alla bassa numerosità del campione, ma ciò che ha sottolineato il ricercatore era il fatto che le voci patologiche per le quali il gruppo appariva indenne fossero poche.

Uno degli aspetti comportamentali maggiormente riferiti riguarda la tendenza dei bambini a preferire l'isolamento rispetto alle stimolazioni dell'ambiente. Non di rado è stato osservato un lento ma costante atteggiamento di chiusura che diviene un segnale significativo del livello di difficoltà e gravità emotiva ed affettiva che il bambino sta soffrendo.

Una detenuta della Giudecca descrive così l'ingresso in carcere con sua figlia :

dopo l'entrata in Istituto la bambina chiedeva di suo fratello(.) La bambina all'inizio ha continuato a chiedere di suo fratello e di suo padre, non mangiava quasi niente, era nervosa e si svegliava durante la notte. Fortunatamente era estate, così potevo portarla all'aria, anche se alcune volte lei chiedeva di uscire, ma non era il momento adatto".

Effettivamente, le situazioni di cambiamento ambientale che si sovrappongono allo stato di tensione sofferto dalle detenute sembrano essere tra le condizioni che con più frequenza si osservano, e sovente si correlano con le difficoltà lamentate dai bambini ad avere un regolare ritmo sonno/veglia.

Altri studi affermano che i bambini nati da donne che hanno trascorso la gravidanza in carcere risultano in condizioni di salute migliori e con un peso alla nascita maggiore rispetto a donne che sono state in carcere per periodi diversi dalla gravidanza. Questo sarebbe la conseguenza di una maggiore cura prenatale, di una migliore alimentazione e dell'impossibilità di usare droghe o alcool. Tale situazione paradossale se, alcune volte, può risultare veritiera non è altro che la testimonianza dell'esigenza di un maggiore impegno nello studio delle cause effettive dei problemi della giustizia sociale; non solo, afferma Libianchi, "anche se appare estremamente improbabile che un detenuto che voglia usare droga in carcere non lo possa fare comunque, resta più di qualche serio dubbio circa il fatto che la carcerazione di una donna gravida o con bambini possa essere auspicabile per la sua salute".

Da quanto detto sembra che i rischi maggiori dovuti alla prisonizzazione infantile rientrino nella sfera della maturazione psico-affettiva e siano connessi alla capacità del singolo di sopportare situazioni frustranti; tale capacità è diversa a seconda dell'età delle persone, ci si domanda quindi che tipo di capacità possa avere un bambino che, per come è strutturata la vita carceraria e per la situazione personale della madre, di situazioni non frustranti ne ha vissute ben poche. Non esistono tuttavia studi che abbiano approfondito l'influenza delle situazioni critiche descritte negli anni successivi alla prisonizzazione.


Figli che stanno fuori


E' necessario garantire per ogni bambino una continuità nei rapporti coi propri genitori e non è esente da questa affermazione nemmeno la situazione in cui il genitore sia entrato in carcere.

Bisogna, in un certo senso, liberarsi dall'idea della famiglia perfetta perché solo così si può sostenere la relazione tra genitori detenuti e figli, senza inseguire l'illusione di una relazione ideale (S. Mantovani, psicopedagogista).

Come abbiamo visto, anche se la legge sulle detenute madri è stata approvata questo non comporta la sua immediata applicazione e, soprattutto, non riguarda le detenute imputate che, comunque, molto spesso hanno lasciato una famiglia e dei figli a casa. Bisogna perciò pensare a migliorare le possibilità di incontro offerte dall'ordinamento penitenziario ovvero telefonate e, soprattutto, i colloqui.

Da un seminario organizzato dal "Gruppo carcere Mario Cuminetti" a San Vittore e che ha affrontato il problema in questione sono state formulate alcune proposte per migliorare la qualità dei contatti coi figli: rendere gli orari delle telefonate più elastici per permettere a chi ha problemi di fuso orario (come le detenute sudamericane) o ha i figli a scuola il pomeriggio di riuscire ugualmente a parlare con loro; fare in modo che le attese ai colloqui siano più brevi poiché risulta impensabile lasciare che un bambino aspetti anche due, tre ore per poi incontrare male e in fretta il padre o la madre; infine, rendere le stanze dei colloqui un po' più "a misura di bambino", un po' meno fredde.

Realizzare questi obiettivi sarebbe già un buon passo verso la realizzazione di quell'importante funzione di agevolazione dei rapporti con la famiglia denominata "elemento del trattamento".

A San Vittore le donne hanno ottenuto un' interessante opportunità ovvero i colloqui della domenica grazie ai quali, ogni quindici giorni e per due ore possono vedere il proprio figlio con l' eventualità di portare anche del cibo preparato da loro ( questo rende l'atmosfera più familiare e facilita l'incontro).

Questo ci fa capire che, nonostante la frattura dovuta all'incarcerazione di un genitore sia grande, gli sforzi per creare una rete di collegamenti tra il dentro ed il fuori sono possibili e, come dimostra l'esperienza, realizzabili.

Una donna straniera detenuta nel carcere della Giudecca che non vedeva i suoi figli da sei anni perché affidati alla di lei madre abitante all'estero racconta così l'incontro con loro dopo gli anni di lontananza:

Questi colloqui mi hanno dato la possibilità di riallacciare un rapporto madre-figli, che si era interrotto molti anni fa bruscamente e forzatamente. Per me e per loro è stato drammatico e doloroso inizialmente, mentre poi, avendo alcuni giorni a disposizione, siamo riusciti a riconoscerci reciprocamente, avvicinarci in maniera concreta e riprendere a coltivare il nostro rapporto nonostante la difficile situazione.

La struttura del carcere della Giudecca è quella di un ex convento, con un giardino molto bello dove si fanno i colloqui con i minori, ed è anche per questo che i miei famigliari per lo meno non hanno avuto la sensazione penosa ed il trauma delle sbarre, come sono abituati a vedere alla televisione quando si parla di carcere, e questo ha contribuito a rasserenare i nostri colloqui, e ha dato anche a me un senso di maggior tranquillità".

La stessa detenuta sottolinea poi che la vera opportunità per poter riallacciare il rapporto coi figli sia venuta dall'apertura della Casa di Accoglienza Giovanni XXIII; questo edificio, infatti, riserva alcuni spazi per le detenute che necessitano di una struttura protetta per poter usufruire di permessi premio, ed è in grado anche di ospitare le loro famiglie , specialmente straniere, che vengono da lontano per poter avere un colloquio.

Ancora una volta, quindi, il volontariato si dimostra essere una risorsa senza la quale l'istituzione carceraria sarebbe ancora più punitiva e per nulla rieducativa, soprattutto se ad essere maggiormente puniti risultano coloro che non hanno infranto alcuna norma ma risultano penalizzati perché figli di detenuti.











Conclusioni


"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"

"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.

"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino."

(Antoine de Saint-Exupéry, da "Il piccolo principe")


Nell' affrontare la questione detentiva femminile non abbiamo potuto esimerci dal considerare, oltre alle problematiche giuridiche, anche quelle politiche, sociali ed umane perché non è possibile perdere di vista il centro attorno al quale ruota tutta la nostra riflessione ovvero la donna - essere umano nella sua dimensione sociale.

Anche se i reati "femminili" sono per la maggior parte non violenti e quindi volti a suscitare un minor allarme sociale, non altrettanto inferiore è il peso che cala sulle autrici di tali reati e non inferiore è la difficoltà ad uscire dal circuito penale.

Parallelamente, le notizie che fanno scalpore ci mostrano una delinquenza femminile composta da astute truffatrici-maghe milionarie e maliarde assassine cui i media attribuiscono nomi evocativi come "circe" e "mantide" rinverdendo in tal modo l'immagine della donna strega infida tessitrice di trame ed inganni.

Quando invece, statistiche alla mano, ci accorgiamo che gli istituti penitenziari/ sezioni femminili sono popolati soprattutto da giovani donne spesso tossicodipendenti, da disoccupate e da straniere non possiamo fingere di non vedere che esse rappresentano i settori più deboli della cittadinanza sia dal punto di vista economico che sociale. Sottolineare questa realtà, prenderne atto non significa porsi in un'ottica di giustificazionismo o di sentimentalismo compassionevole ma significa voler comprendere il fenomeno per affrontarlo nella maniera corretta.

L'arrivo in carcere è la tappa finale di un percorso cominciato molto tempo prima e il ritorno in carcere dopo esserci già state ( il tasso di recidiva è molto alto) è sintomatico del non aver interrotto il precedente modus vivendi, di essere ritornate nel medesimo ambiente e soprattutto è sintomatico del fatto che la pena, per queste persone, non ha svolto alcuna funzione se non una sofferenza fine a se stessa. Che senso ha infliggere una sanzione se questa risulta inutile? Bisogna fare in modo che il momento punitivo non sia "un danno che si aggiunge ad un altro danno", come scriveva Zappa in una lettera alle detenute di Verziano, ma sia l'occasione (da cogliere) per cominciare un percorso di cambiamento, dare delle opportunità.

In questa ottica la differenza di genere non può non essere considerata come spunto di riflessione, non si può individuare un trattamento personalizzato per ogni detenuto senza aver prima individuato le diverse esigenze dei due grandi sottoinsiemi del genere umano ossia uomini e donne. Purtroppo siamo ancora di fronte al medesimo carcere (come struttura e come regole) per entrambi e la questione femminile entra in causa solo di fronte a donne /madri di figli piccoli quindi non perché si è pensato al soggetto femminile ma perché interviene la necessità di tutelare un terzo soggetto che non sono le donne stesse.

Molta parte delle dottrina femminista critica l'organizzazione in carcere di corsi o iniziative che si rifanno alle tradizionali attività femminili (cucito, ricamo.) perché danno l'impressione di voler perpetrare un modello di donna remissiva lontana dal processo di emancipazione ma, pur comprendendo da cosa vorrebbero mettere in guardia le sostenitrici di tali teorie, non bisogna dimenticare che i suddetti corsi creano comunque momenti di socialità e condivisione; creano un rituale, spezzano l'inerzia, possono contribuire a produrre momenti di intimità e non bisogna dimenticare che, come emerso dalle statistiche analizzate, spesso sono affiancati da attività motorie o espressive di altro genere (teatro, disegno).

Quello che deve preoccupare invece è il momento in cui ci si rende conto che i corsi sono frequentati scarsamente, in maniera disomogenea come emerso dalla ricerca effettuata nelle carceri toscane. Allora si rende necessaria una verifica delle caratteristiche di questi corsi per quanto riguarda l'adeguatezza dei loro contenuti e le modalità con cui le iniziative vengono proposte alle donne. Villimburgo108 commenta così i risultati della sua ricerca:

"Il patrimonio di studi sulle donne e sul controllo sociale loro rivolto ci dice che le donne si sottraggono istintivamente all'attività ed alle dimensioni sociali se non sono coinvolte profondamente. Le donne abbandonano senza scrupoli e in modo netto ciò che avvertono freddo e indifferente. (.) La formazione è essenzialmente un rapporto: o è caldo o non lo è. Ci può essere attività di comunicazione, istruzione, passatempo, ma per la conoscenza di sé e dell'altro ci vuole passione".

Personalizzazione del trattamento significa anche capire che la popolazione penitenziaria femminile è composta da categorie diverse tra le quali spiccano ultimamente le straniere e le tossicodipendenti portatrici di un'estrema complessità di problemi personali e sociali. Come abbiamo illustrato nel capitolo secondo, la commistione di criminalità e vittimizzazione nelle detenute straniere è molto alta e questa drammatica situazione necessita di interventi mirati e specifici per il momento troppo sporadici e a volte lasciati, come avviene per molte questioni, al buon cuore e alla tenacia dei volontari.

Per ciò che concerne le tossicodipendenti, è ormai opinione consolidata che il carcere non sia il luogo adatto per un tentativo di recupero e non sortisca su di loro alcuna spinta a non commettere nuovamente un crimine che è strettamente legato alla condizione psicologica e fisica di dipendenza. Il legislatore, consapevole di questa situazione, come abbiamo illustrato ha ideato la misura alternativa dell' affidamento in prova in casi particolari ( detto, per l'appunto, "terapeutico") ma, poiché non è raro che le possibilità di accedervi siano precluse, il problema della loro permanenza in carcere resta.   A questo punto ci si domanda se non possa essere veramente utile investire in maggior misura nell'istituzione di regimi cosiddetti "a custodia attenuata", dei modelli penitenziari di intervento trattamentale particolare per soggetti tossicodipendenti che, pur mantenendo una residua funzione di contenimento e custodia, sono orientati soprattutto verso la cura, la riabilitazione e la prevenzione secondaria degli stati di tossicodipendenza, alcooldipendenza e delle condotte devianti ad essi connessi .

Bisogna porre infine un occhio di riguardo alla situazione delle detenute madri infatti, la maternità risulta essere elemento che accomuna detenute di ogni nazionalità e di ogni situazione giuridica. Se il legislatore si occupa di questa situazione per regolamentare il rapporto coi figli piccoli, la loro presenza in carcere o la possibilità di accedere a misure alternative che, come abbiamo visto, non è poi così immediata né di facile applicazione, non bisogna dimenticare quale importante fonte di maturazione possa essere il mantenimento e la responsabilizzazione della condizione del ruolo materno. Ci rifacciamo ancora alle parole di Villimburgo che ipotizza:

"(.) non sarebbe fuori luogo una riflessione su come la maternità possa entrare a far parte dei temi sui quali incentrare le attività formative ed espressive o, meglio ancora, orientare iniziative di comunicazione con l'esterno. Si tratta di un filo interrotto che tuttavia lega, nel bene o nel male, in maniera forte le donne al loro vissuto e soprattutto al loro futuro".

La funzione della pena oggi e il modello di giustizia riparativa

Non stiamo esponendo concetti innovativi e rivoluzionari, la legge già parla di trattamento individualizzato e di rieducazione solo che l'applicazione di tali previsioni si scontra con problemi burocratici, di personale, con le lentezze del sistema giustizia, con l'opinione pubblica e con la "moda" (che, come molte altre, arriva dagli Stati Uniti) della "zero tolerance" . Sottolineo questi ultimi punti perché, a fianco degli strumenti idonei previsti dall'ordinamento penitenziario per avviare il trattamento individualizzato, deve essere creata una cultura sociale della pena, una consapevolezza comune del suo significato e del suo utilizzo.

La politica di "tolleranza zero" che tanto ha fatto proseliti e che poteva sembrare la risposta adeguata al dilagare della criminalità proviene da un Paese che è la testimonianza vivente dell'insuccesso di tale politica poiché chiudere il più persone possibili dietro alle sbarre può dare l'apparenza momentanea di una città più sicura ma i problemi non realmente risolti, come un boomerang, tornano a ripresentarsi. La stessa pena di morte, estrema manifestazione della forza punitiva dello stato intollerante, non ha contribuito a diminuire il numero di crimini violenti, non è un deterrente efficace.

Abbandonando perciò le false soluzioni torniamo alla nostra pena in prospettiva di rieducazione ed al fornire un'idea corretta della condizione carceraria.

Se il tasso di recidiva risulta essere molto alto, la società deve interrogarsi su se stessa, sul significato della pena detentiva e su come viene applicata. Quando, nel capitolo terzo, abbiamo analizzato gli elementi del trattamento abbiamo potuto constatare come siano stati ben individuati e definiti dal legislatore, vale a dire che sappiamo dove bisogna investire, nell'attenzione al singolo, nel combattere l'inerzia improduttiva offrendo attività formative, nel dare un lavoro. Non solo, ponendo l'attenzione sulle misure alternative alle detenzione, abbiamo visto che lo stesso legislatore ha colto l'esigenza di una pena che si emancipi dalla mera detenzione proprio perché la mera detenzione, dopo anni di utilizzo, non ha mai saputo raggiungere i risultati sperati.

Il lavoro è uno degli elementi fondamentali del trattamento, la sua possibile valenza rieducativa viene chiamata in causa di continuo eppure, i detenuti e le detenute che hanno la possibilità di lavorare (e non stiamo parlando del fare lo scopino o altre piccole mansioni all'interno dell'istituto) sono pochissimi.

Per incentivare l'assunzione di detenuti è stata emanata la legge 22 giugno 2000 n.193 (Legge Smuraglia) che inserisce il detenuto (con alcune limitazioni) tra i soggetti definiti "fasce deboli" concedendo agevolazioni e sgravi in materia di contribuzione previdenziale ed assicurativa, oltre che alle cooperative, anche alle società private che assumono detenuti al loro interno. La suddetta legge, all'articolo 4, statuisce che "Le modalità ed entità delle agevolazioni e degli sgravi di cui all'art.3 sono determinate annualmente., con apposito decreto del Ministero della Giustizia da emanare,.entro il 31 maggio di ogni anno". Ebbene, di tale decreto attuativo, per il momento, non si ha notizia per cui si è di fronte ad una legge sterile, incapace di produrre quegli effetti positivi che si prefiggeva.

Lo strumento quindi più adatto ad offrire lavoro ai detenuti resta la cooperativa e proprio incentivando tale forma di offerta è possibile non solo dare un'opportunità ai detenuti ma creare un ponte tra carcere e risorse del territorio integrando la persona nella comunità. A tal proposito Romano111 in un recente articolo così si esprime:

"Aiutare queste persone ad acquistare professionalità significa quindi anche aiutarle ad entrare in relazione e a costruire rapporti, non dimenticandosi che sovente l'incapacità comunicativa è elemento fortemente criminogenetico. Se è vero, come è vero, che fra le categorie di svantaggio, i detenuti costituiscono quella di maggior marginalità e isolamento, sia come percezione esistenziale di sé che come realtà di fatto, è chiaro che la cooperativa deve curare in modo particolare le rete di relazioni interne trasformandole in continua occasione di crescita.

Non deve spaventare il rischio di recidiva: assai di più faccia paura, e stimoli di conseguenza il cooperatore, l'incapacità a comunicare e relazionare con la persona condannata; se ciò dovesse accadere ogni lavoro offerto, seppur positivo ed appagante, risulterebbe mero veicolo di transizione fra l'uscita dal carcere e il prossimo rientro".

Nonostante gli sforzi volti a creare questa cultura sociale della pena pensiamo purtroppo che, nella situazione odierna, non sarà mai possibile creare una vera corrente di pensiero comune finché la grande esclusa all'interno del circuito penale sarà la vittima. Fino a quando le vittime dei reati si sentiranno istituzionalemente deboli e psicologicamente ignorate non sarà possibile acquisire nuova fiducia nel sistema della giustizia e controbattere realmente all'ideologia della "tolleranza zero".

Ecco che, a questo punto, fa la sua comparsa la prospettiva di un modello di giustizia diverso ovvero la cosiddetta giustizia riparativa che prevede il coinvolgimento della vittima, del reo e della comunità nella ricerca di soluzioni al conflitto allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza112.

La giustizia riparativa mira al soddisfacimento dei bisogni delle vittime e della comunità in cui viene vissuta l'esperienza della vittimizzazione ed affronta la questione del che cosa può essere fatto per riparare il danno e, riparare non deve essere inteso come la mera quantificazione economica del danno cagionato. La riparazione è realizzabile tramite azioni positive cha hanno, per l'appunto, una valenza molto più profonda e, soprattutto uno spessore etico che la rendono ben più complessa del mero risarcimento ed affonda le proprie radici nel percorso di mediazione-riconciliazione che la precedono.

La necessità di promuovere l'adozione di strumenti riparativi (in primis, la mediazione tra autore e vittima) deriva, tra l'altro, dalla presa di posizione delle Nazioni Unite in relazione all'opportunità di adottare, a livello sia nazionale che internazionale, politiche di riparazione e di sostegno delle vittime.  I paragrafi 27 e 28 della "Dichiarazione di Vienna" adottata a conclusione dei lavori del Decimo Congresso Internazionale delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e sul trattamento dei rei, tenutosi a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000, stabiliscono quanto segue:

"27. Noi decidiamo di introdurre, laddove risulti opportuno, strategie di intervento a livello nazionale, regionale e internazionale a supporto delle vittime, come tecniche di mediazione e di giustizia riparativa, e fissiamo nel 2002 il termine entro il quale gli Stati sono chiamati a valutare le pratiche essenziali per promuovere ulteriori servizi di supporto alle vittime e campagne di sensibilizzazione sui diritti delle stesse e a prendere in considerazione l'adozione di fondi per le vittime, nonché a predisporre e sviluppare programmi di protezione dei testimoni".

"28. Noi incoraggiamo lo sviluppo di politiche di giustizia riparativa, procedure e programmi che promuovano il rispetto dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, degli autori di reato, della comunità e di tutte le altre parti".

In concreto, la giustizia riparativa può essere attuata con modalità diverse da valutarsi in ragione dell'intensità del conflitto e che si possono tradurre operativamente in una pluralità di programmi e di istituti. Si va dalle 'scuse formali' al Community Sentencing/Peacemaking Circles (sorta di collaborazione comunitaria della gestione del processo) al Personal Service to Victims (attività lavorative che il reo svolge a favore della parte lesa). I principali strumenti della giustizia riparativa sono comunque il 'Family group conferencing', che in Nuova Zelanda affronta circa il 30 per cento dei reati commessi da minori, e la 'mediazione tra autore e vittima', istituto cardine della giustizia riparativa che può essere considerato la pietra angolare delle politiche di riparazione. 

Concludiamo affermando che il modello presentato non è in grado di sostituire la giustizia penale ed il ricorso alla pena ma, può integrarsi nel sistema esistente divenendo lo strumento principale nei casi in cui sia necessario soprattutto riparare il danno alla vittima ed è chiaro che questo non accade con il ricorso alla pena tradizionale.

In definitiva "la giustizia riparativa costituisce un approccio innovativo e dinamico al reato e ci insegna, soprattutto, che la società civile non ha bisogno solo e necessariamente di norme rinforzate da sanzioni ma anche - e il discorso vale soprattutto per le società complesse moderne - di un'etica della comunicazione (come modalità di soluzione dei conflitti) che alle norme possa offrire una legittimazione e una conferma di validità"113.



Come possiamo vedere, proprio come accennavamo all'inizio della nostra ricerca, anche il discorso sul possibile futuro dell'evoluzione dell'ideologia penalistica ci riporta a concentrare l'attenzione sull'uomo e le dinamiche sociali invece che sul mero studio della pena e del meccanismo sanzionatorio.

Le donne, in particolare, se si andasse verso l'applicazione di un modello di giustizia riparativa, per i tipi di reato commessi e la scarsa pericolosità sociale, avrebbero grande accesso alle dinamiche sopra descritte e molte delle nostre detenute forse non sarebbero tali.

Fino a quando, comunque, continueremo ad utilizzare il sistema esistente l'attenzione alla particolarità femminile dovrà sempre essere accentuata perché si creino programmi formativi adeguati, perché si mobilitino cooperative che forniscano un lavoro non prettamente maschile, per rivalutare dei ruoli materni stravolti da una vita "deviante" e dalla detenzione ed infine per dar voce ad una realtà minore quanto a numerosità ma non quanto ad importanza sociale.




Art. 30 Cost.

"E' dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.(.)".

Art. 31 Cost

"La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Protegge la maternità, e l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".


Art. 146 c.p. Rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena

"L'esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita:

se deve aver luogo nei confronti di donna incinta;

se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno;

se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria (.) ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sua condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione(.).

Nei casi previsti dai numeri 1) e 2) del primo comma il differimento non opera o, se concesso, è revocato se la gravidanza si interrompe, se la madre è dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio ai sensi dell'articolo330 del codice civile, il figlio muore, viene abbandonato ovvero affidato ad altri, semprechè l'interruzione di gravidanza o il parto siano avvenuti da oltre due mesi".

Art. 147 c.p. Rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena

"L'esecuzione di una pena può essere differita:

se è presentata domanda di grazia, e l'esecuzione della pena non deve essere differita a norma dell'articolo precedente;

se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica;

se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni.

(.) Nel caso indicato dal numero 3) del primo comma il provvedimento è revocato, qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio ai sensi dell'articolo 330 del codice civile, il figlio muoia, venga abbandonato ovvero affidato ad altri che alla madre. (.)".

Art. 47-ter Detenzione domiciliare

"La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente pena residua di maggior pena, nonché la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico dicura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di:

a)      donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente;

b)     padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

c)      persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;

d)     persona di età superiore ad anni sessanta, se inabile anche parzialmente;

e)      persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia. (.)".

L'art. 284 c.p.p. tratta delle disposizioni in materia di arresti domiciliari ; i commi cui fa riferimento il 47-quinquies riguardano la facoltà del giudice di imporre limiti e divieti di comunicare con persone diverse da quelle che coabitano o assistono con la persona sottoposta ad arresti domiciliari e la possibilità, da parte della polizia giudiziaria, di controllare in ogni momento l'osservanza delle prescrizioni ordinate dal giudice.


Aver scontato metà della pena (o "2/3 per alcuni tipi di reato) ovvero aver espiato almeno venti anni di pena se condannate all'ergastolo.

www.associazioneantigone.it

www.ristretti.it

Gianni Biondi "Lo sviluppo del bambino in carcere", Franco Angeli, 1995.

Corrado Marcetti, Nico Solimano (a cura di) "Carcere di tante carceri", op. cit.

Gianni Biondi "Lo sviluppo del bambino in carcere", op. cit.

Sandro Libianchi "Madri e bambini in carcere" ricerca pubblicata in via informatica sul sito del Centro Studi di documentazione Due Palazzi, www.ristretti.it .


"Rapporto degli ispettori europei sullo stato delle carceri in Italia", op. cit.

Madlene Loy (New South Wales Department of Corrective Services) "A study of the mothers and Children's Program in the NSW Department of Corrective Services" dagli atti della conferenza dell'AIC "Women in corrections: Staff and Clients"; Adelaide, 31 ottobre- 1 novembre 2000.


26 (2) Ogni detenuto può, in accordo con un permesso concesso al detenuto dal Commissioner, ottenere la concessione di assentarsi dal carcere per un periodo, secondo le condizioni che possono essere prescritte e che vengono specificate nel permesso, essendo:

(1) Nel caso di una detenuta madre di un figlio piccolo o di figli piccoli, per il proposito di metterla in grado di trascorrere il periodo della pena con il suo bambino o i suoi bambini in un ambiente appropriato determinato dal Commissioner - tale periodo può essere specificato nel permesso.

Vedi nota 95.

Cleo Lynch "The Parramatta Transitional Centre: Integrating Female Inmates into Community before Release", dagli atti della conferenza dell'AIC "Women in corrections: Staff and Clients"; Adelaide, 31 ottobre- 1 novembre 2000.


I dati relativi agli Stati Uniti, al Canada e alla Bolivia sono tratti dallo studio di Sandro Libianchi "Madri e bambini in carcere" pubblicato sul sito del Centro di documentazione Due Palazzi, www.ristretti.it.

Purtroppo non abbiamo notizie di quale sia il limite di età per la possibile permanenza in carcere con la madre.

E. Campelli, F. Faccioli, V. Giordano, T. Pitch "Donne in carcere", op. cit

Gianni Biondi "Lo sviluppo del bambino in carcere", op. cit.

Centro di documentazione Due Palazzi, www.ristretti.it.

Luigi Daga, Gianni Biondi "Il problema dei figli con genitori detenuti" in Ernesto Caffo (a cura di) "Il rischio familiare e la tutela del bambino", ed. Guerini e Associati, 1988.


Gianni Bondi "Lo sviluppo del bambino in carcere", op. cit.

Mariella Crocellà, Corrado Coradeschi "Nati in carcere - dalla prigione alla condizione sociale, la violenza sulla donna e sul bambino", ed. Emme, 1975.

Centro di documentazione Due Palazzi

Manuela Villimburgo "Il carcere delle donne" in Marcetti C., Solimano N. (a cura di) "Carcere di tante carceri" Quaderni della Fondazione Giovanni Michelacci, op. cit.

Caterina Marciano "Tossicodipendenti in carcere: l'esperienza di Solliccianino 1 e 2 e delle Comunità" dal sito L'Altrodiritto, https://dex.tsd.unifi/altrodir/index.htm.

Loic Wacquant "Parola d'ordine: tolleranza zero" Feltrinelli, 1999.


Carlo Alberto Romano "Pena, rieducazione e lavoro: il punto della situazione", articolo pubblicato nel sito internet dell'Associazione Carcere e Territorio, https:digilander.iol.it/carcere/ .

Adolfo Ceretti, Grazia Mannozzi "Sfide: la giustizia riparativa" da Omicron/29, novembre/dicembre 2000 (www.gesuiti.it/sestaopera/).

Vedi nota 112.

Scarica gratis Maternita' ed esecuzione penale
Appunti su: daga biondi 1988 in e caffo,



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