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L'evoluzione dell'istituzione carceraria




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L'EVOLUZIONE DELL'ISTITUZIONE CARCERARIA


Prima di iniziare a parlare delle carceri, e del loro ruolo odierno, è utile spiegare l'evoluzione della stessa. Qui di seguito verrà proposta una rapida presentazione della storia dei penitenziari, analizzando il percorso effettuato dall'origine fino ai giorni nostri.


o      Dalle origini al Panopticon


La prigione è meno recente di quanto si possa pensare: di fatto, essa esiste dal momento in cui sono state utilizzate le leggi penali, e si è "costituita all'interno dell'apparato giudiziario nel momento in cui furono elaborate le procedure per ripartire gli individui e distribuirli spazialmente, classificarli, ricavare da essi il massimo rendimento e il massimo delle forze, addestrare i loro corpi, codificare il loro comportamento in continuità, mantenerli in una visibilità senza lacune, formare intorno ad essi tutto un apparato di osservazione, di registrazione e di annotazioni".[1]

L'uso di un apparato per rendere le persone docili (attraverso un preciso lavoro effettuato sul corpo), ha costituito il punto principale della cosiddetta "istituzione-prigione", prima che questa venisse etichettata come "la pena" per eccellenza.

Nel corso della società feudale il carcere, inteso come espiazione della propria colpa, non esisteva ancora. La pena medievale si fondava sulla categoria etico- giuridica del taglione, a cui era associato il concetto di espiatio, una forma di vendetta basata sull'idea di privare il colpevole dei valori sociali più importanti (la vita, l'integrità fisica e il denaro).

Tra il XV e il XVI secolo la legislazione sociale dell'Europa portò all'utilizzo di durissime pene corporali: si trattò di un vero sterminio di massa riservato principalmente ai disoccupati, sbandati e vagabondi.

Nel corso del XVII secolo sorsero le prime «case d'internamento»: le pene più diffuse, allora, erano le punizioni corporali, l'esilio e la messa al bando. Durante questo secolo, però, l'uso dell'internamento non era considerata come alternativa alle punizioni, ma come un supplemento da aggiungere ai castighi.

Nel corso di pochi decenni migliaia di persone vennero rinchiuse: in Francia questi luoghi presero il nome di «ospedale» (HÔpital), in Germania e in Olanda di «penitenziario» (Zuchtaus, tukthuys), e in Gran Bretagna di «casa di lavoro» e «casa di correzione» (workhouse, correction house).

Durante quel secolo i soggetti che venivano internati erano per lo più vagabondi, mendicanti, gente senza lavoro: tutte queste persone, all'interno degli istituti, svolgevano diverse attività lavorative. Negli ospedali francesi, per esempio, gli internati producevano cappelli, berretti, calze e indumenti lavorati ai ferri.

Tra il 1750 e il 1825 l'Europa vide nascere le prime vere istituzioni carcerarie per i criminali e, al tempo stesso, le punizioni corporali vennero ridotte. In questo clima furono accolte con favore le teorie di Jeremy Bentham: egli assegnava al carcere un carattere intimidatorio e di totale controllo.

La svolta avuta tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX  mette in evidenza la nascita di una nuova legislazione.

Proprio a cavallo di questi due secoli iniziò ad insinuarsi il principio cardine di questo tipo di istituzione: la privazione della libertà.

Questa "mancanza" assumeva lo stesso valore per tutti: era, di fatto, un castigo egualitario. In più, permetteva di quantificare la pena da scontare secondo la variabile temporale.

Un secondo aspetto da non trascurare era il lato "correttivo" della prigione: essa era nata come uno strumento utilizzato per trasformare gli individui. Oltre ad avere la funzione di privare la gente della propria libertà in seguito a determinati atti, essa fin dall'inizio è stata un mezzo utilizzato dall'istituzione giudiziaria come supplemento correttivo.

Tuttavia, esiste una differenza sostanziale tra detenzione e privazione della libertà: la prima può essere considerata come un meccanismo finalizzato e differenziato.

"Differenziato perché non deve avere la stessa forma secondo che si tratti di un imputato o di un condannato, di un correzionale o di un criminale: carcere, casa di correzione, penitenziario, devono corrispondere, in linea di principio, a queste differenze e assicurare un castigo non solo graduato in intensità, ma diversificato nei suoi scopi".[3]

Fin dagli albori, la prigione ha mantenuto determinate caratteristiche, divenute in seguito tratti distintivi:

o      La sua forma "onnidisciplinare" (vale a dire l' occuparsi di tutti gli aspetti del detenuto: dalla sua attitudine al lavoro alla sua morale, dalla sua condotta quotidiana al suo addestramento fisico).

o      La sua continuità: la prigione non si interrompe, non ha pause o vacanze. La prigione prosegue incessantemente fino al momento in cui il detenuto non ha scontato la sua colpa.

o      La disciplina dispotica: la prigione dà un potere totale sul detenuto, in base ai criteri di repressione e castigo.


Infine, non bisogna dimenticare uno dei tratti più distintivi: la solitudine dei detenuti. Essa deve essere uno strumento utile e positivo per la riforma della persona reclusa.

Di fatto, l'isolamento assicura un grado di autoregolazione della pena: più l'individuo è capace di riflettere, più si dichiara colpevole per il suo crimine. Ne consegue che più vivo sarà il rimorso per il gesto compiuto, più dolorosa sarà la solitudine del condannato. Solo quando egli sarà definitivamente (e totalmente) pentito dei suoi gesti, il peso dell'isolamento scomparirà definitivamente.

All'interno della solitudine, infatti, persistono dei caratteri che possono riportare il detenuto sulla retta via: restando soli con sé stessi è possibile sottomettersi totalmente alla propria pena, e soltanto l'isolamento assicura un colloquio diretto e sincero con l'altra parte di sé stessi.




1.1.1. I Supplizi


Da sempre, i supplizi hanno coinvolto l'intera popolazione nel giudizio finale di un detenuto. Sul finire del 1700 essi venivano praticati ancora nella piazza principale del paese, davanti a folle inferocite o ammutolite. Solo tre quarti di secolo più tardi esse sparirono completamente.

Il supplizio[4], per essere tale, doveva rispondere a tre criteri: innanzitutto, doveva produrre una certa sofferenza (questa doveva mettere nelle condizioni di essere valutata). In secondo luogo, nella morte del condannato doveva essere calcolato il tipo di dolore provocato (dallo squartamento alla decapitazione,.); infine, la "morte-supplizio" doveva provocare al detenuto una forte agonia.

Un'altra caratteristica del supplizio (evidenziata in quell'epoca), è la correlazione esistente al suo interno: esso univa l'intensità, la qualità, la lunghezza della sofferenza con il tipo di crimine commesso ( e con la sua gravità), con la persona che aveva commesso l'atto, e con il rango delle vittime.

Esiste, poi, un codice del dolore, calcolato secondo regole dettagliate: "numero dei colpi di frusta, posto del ferro rovente, lunghezza dell'agonia sul rogo o sulla ruota (il tribunale decideva se ci sia luogo a strangolare subito il paziente invece di lasciarlo morire, e dopo quanto tempo debba intervenire questo gesto di pietà), tipo di mutilazione da imporre (mano tagliata, labbra o lingua bucate)".[5]

Infine, bisogna evidenziare un ultima caratteristica dei supplizi: essi facevano parte di un rituale, e rispondevano a due esigenze ben precise. Prima di tutto, il supplizio doveva essere marchiante (doveva lasciare un una cicatrice sul corpo del condannato al fine di etichettarlo come "infame"); in secondo luogo, la pena inflitta doveva essere clamorosa, ed essere vista e  constatata da tutti.


1.1. 2. La Quaestio


Tra l'individuazione del colpevole e la pratica del supplizio, vi era un'altra tappa fondamentale: quella della quaestio come "supplizio del vero". Essa non era un mezzo per strappare a tutti i costi la verità: era selvaggia, ma non crudele.

La quaestio era un pratica dettata da regole ben precise, e da una procedura ben definita: momenti, durata, strumenti utilizzati, lunghezza delle corde, interventi del magistrato, pesantezza dei pesi, e molto altro erano accuratamente codificati.

Di fatto, era una sorta di combattimento tra il giudice che la ordinava e il condannato: quest'ultimo (chiamato «paziente») veniva sottoposto ad una serie di prove, graduate in severità, e nelle quali egli vinceva mantenendo il controllo, e perdeva confessando la propria colpa. Anche il giudice, però, correva a sua volta dei rischi: all'interno della partita egli metteva come "posta" gli elementi di prova che aveva già riunito in precedenza.

La regola principale della quaestio era molto semplice: se il «paziente» superava ogni prova proclamandosi innocente fino alla fine, il magistrato era costretto ad abbandonare l'accusa, e il suppliziato aveva vinto la sua salvezza.

Tuttavia, per i casi più gravi era stata introdotta la «quaestio con riserva di prova»: il giudice poteva, dopo le torture, far valere le prove che aveva raccolto in precedenza. L'accusato, però, non veniva scagionato dal reato, ma otteneva la grazie evitando il supplizio pubblico.


1.1.3. Il corpo del condannato

Il corpo del condannato era l'elemento principale del castigo pubblico: il «paziente» aveva l'obbligo di mostrare la sua condanna, e di confessare il crimine che aveva commesso.

Egli veniva portato in giro, esposto, suppliziato, e messo a nudo di fronte a tutti; questa procedura nel XVIII secolo assumeva diversi aspetti.

Innanzitutto, il suppliziato doveva proclamare davanti a tutti la propria colpa. Ciò avveniva in diversi modi: egli poteva camminare per le vie del paese con un cartello appeso alla schiena o sul petto (al fine di ricordare a tutti la sua colpa e la pena che gli era stata inflitta); su un palo potevano essere esposti i fatti e la sentenza; poteva essere letto l'intero decreto ai piedi del patibolo.

La cosa importante era mostrare a tutti la propria colpa: la giustizia aveva bisogno di un documento autentico di colpevolezza.

La scena della confessione veniva vista come l'unico momento in cui il suppliziato poteva realmente redimersi raccontando la propria colpa: al momento dell'esecuzione gli veniva data la parola non per difendersi o proclamarsi innocente, ma per testimoniare il proprio crimine e la giusta condanna.

A questo proposito, il tribunale poteva decidere (dopo la condanna ma prima dell'esecuzione) di infliggere al «paziente» una nuova tortura per carpire i nomi degli eventuali complici; dal canto suo, il condannato poteva chiedere l'indugio in cambio dei nuove rivelazioni.[6]

Tuttavia, tra il supplizio e il delitto vigeva una stretta relazione: molte volte il cadavere del condannato veniva lasciato in prossimità del luogo in cui il reato era stato commesso, oppure il suppliziato veniva giustiziato nello stesso posto in cui aveva trasgredito alla legge. Tutto ciò veniva fatto per mostrare alla cittadinanza cosa succedeva ai violatori della legge.

Tipico dell'epoca era l'utilizzo dei "supplizi simbolici", in cui la forma dell'esecuzione rimandava alla natura del crimine: ad esempio si poteva bucare la lingua del bestemmiatore, bruciare gli impuri, o tagliare la mano di chi aveva commesso un omicidio. Queste erano le azioni tipiche dell'epoca.

Infine, l'esecuzione del supplizio aveva un obiettivo fondamentale: la sua lentezza. Le urla e le grida del condannato erano l'ultimo passo da compiere tra il giudizio degli uomini e quello di Dio.

L'agonia del patibolo aveva una sua verità: il supplizio anticipava le pene dell'aldilà, mostrava l'anticamera dell'inferno, e le bestemmie e le urla del condannato tracciavano irrimediabilmente il suo destino.


1.1.4. Il popolo

"Nelle cerimonie del supplizio, il personaggio principale è il popolo, la cui presenza reale e immediata è richiesta per il loro compimento".[7]

Il popolo, di fatto, era chiamato al ruolo di spettatore e testimone: veniva convocato per assistere alle confessioni pubbliche, alle esecuzioni, e si trovava abitualmente i cadaveri dei suppliziati nei luoghi in cui avevano commesso le proprie colpe, lungo le vie del paese.

Il popolo doveva essere testimone della punizione, e quest'ultima non poteva rimanere segreta: un supplizio nascosto era un supplizio per privilegiati.

Il condannato che andava lungo le vie del paese mostrando a tutti la propria colpa era molte volte esposto alla rabbia degli spettatori: nella vendetta del sovrano e dei giudici, si aggiungeva quella del popolo (il quale era invitato ufficialmente ad unirsi).

Tuttavia, proprio quest'ultimo aveva anche il potere di rovesciare le sentenze: poteva impedire un'esecuzione ritenuta ingiusta, sottrarre il condannato dalle mani del boia, assalire gli esecutori o rincorrere il condannato. Tutto ciò poteva sovvertire il tranquillo e regolare ordine dei supplizi.



1.1.5. La detenzione

A cavallo tra il XVIII e XIX secolo l'idea della punizione come spettacolo cambia collocazione: scompare il principale bersaglio della repressione penale, ma ancora più evidente è la definitiva sparizione dello spettacolo dei castighi.

La festa punitiva si andava spegnendo in quanto veniva vista come un focolaio che si alimentava attraverso la violenza: in quel momento, invece, la pena veniva vista come la possibilità di correggere, raddrizzare e migliorare le persone.

Tuttavia, un'altra sparizione caratterizza il periodo: l'eclisse del dolore. Se in precedenza il corpo del condannato doveva subire le peggiori violenze per espiare le proprie colpe, ora, invece, viene visto come lo strumento utile per punire la persona privandola del bene più prezioso: la libertà individuale.

In questo momento, il corpo diventa un mezzo all'interno del quale passano le costrizioni e le privazioni, gli obblighi e i divieti. Il castigo consiste in una sofferenza vissuta in modo differente: il dolore, l'afflizione, il tormento non sono più i tratti distintivi della pena. Esiste sempre una sofferenza, ma questa può essere servita da lontano: "il castigo è passato da un'arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi".[8]

A questo proposito, tra le figure architettoniche di maggiore spicco, quella del Panopticon di Bentham è senza dubbio la più ricordata.

Si trattava di una costruzione ad anello, al cui centro primeggiava una torre tagliata da larghe finestre che si aprivano verso la parte interna dell'anello. La costruzione era divisa in celle: ognuna di esse aveva due finestre (una verso l'interno, ovvero verso la torre centrale, e una verso l'esterno). Nella torre centrale stazionava permanentemente un sorvegliante.

L'obiettivo principale della costruzione era quello di tenere costantemente sotto controllo i detenuti: essa induceva nel detenuto uno stato cosciente di visibilità, che assicurava il potere alla sorveglianza.

Per Bentham, infatti, il potere doveva essere visibile (i detenuti dovevano avere costantemente sotto gli occhi la figura della torre e dei sorveglianti), ed inverificabile (il condannato non doveva capire se in quel momento poteva essere osservato oppure no).

Da un lato, il Panopticon permetteva di controllare, osservare, analizzare i comportamenti dei detenuti senza essere visti o riconosciuti; dall'altro lato, invece, questo strumento poteva essere utilizzato come una macchina il cui scopo poteva essere addestrare o recuperare gli individui.

Di fatto, il Panopticon non deve essere vista solo come una figura architettonica: essa è stata ideata anche un meccanismo di studio e di osservazione.




FOUCAULT M., Sorvegliare e punire, 1975, cit. p. 251

Cfr. FOUCAULT M., Sorvegliare e Punire, 1975

FOUCAULT M., Sorvegliare e Punire, 1975, cit. p. 254

Per Supplizio si intende una grave e dolorosa pena corporale, inflitta al condannato al fine di permettergli di espiare le proprie colpe.

Cfr. FOUCAULT M., Sorvegliare e punire, 1975,cit. p. 37


"Un supplizio ben riuscito giustifica la giustizia nella misura in cui rende pubblica la verità del crimine nel corpo stesso del suppliziato". FOUCAULT M., Sorvegliare e punire, 1975, cit. p. 48.


FOUCAULT M., Sorvegliare e Punire, 1975, cit. p. 62


FOUCAULT M., Sorvegliare e punire, 1975, cit. p. 62


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